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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar – Un equilibrio peculiare

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron è uno dei più importanti film del cinema queer, al tempo veramente rivoluzionario per il pubblico mainstream.

Nonostante negli anni abbia acquisito un’importante notorietà, all’uscita fu un flop: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Vida Boheme e Noxeema Jackson sono due famose drag queen di New York che intraprendono un viaggio in auto alla volta di Los Angeles, con un ospite inaspettato…

Vi lascio il trailer per farti un’idea:

Vale la pena di vedere A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Assolutamente sì.

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è un film fantastico, che riesce a raccontare con particolare delicatezza temi per nulla semplici, anzi particolarmente drammatici, ma senza mai sfociare nel dramma più smaccato.

Particolarmente brillante la recitazione dei tre attori protagonisti: pur non essendo drag queen, si sono immedesimati perfettamente nella parte, senza mai risultare fuori luogo, anzi.

L’inaspettato

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

La particolarità di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è già nel casting.

Scegliere un attore come Wesley Snipes, futuro interprete di Blade nella saga omonima, e soprattutto Patrick Swayze, la star del cult Dirty Dancing (1987), un divo che era il sogno di un’intera generazione di ragazzine, per interpretare delle drag queen non è una scelta casuale.

E infatti l’incipit gioca proprio su questo apparente contrasto: Patrick Swayze entra in scena in tutta la sua possanza dopo essersi fatto la doccia canticchiando It’s a man’s world, e si trasforma nel suo personaggio.

Un contrasto apparentemente incolmabile, che è invece smentito dalla bravura dell’attore, il quale, insieme a Wesley Snipes, porta in scena una drag queen elegantissima, sublime: insomma, una vera diva d’altri tempi.

Il primo atto d’amicizia

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ma Vida non è solamente una fantastica drag queen, ma è anche un personaggio guidato da importanti ideali.

Il motore della storia è proprio la scelta di aiutare un collega alle prime armi, un ragazzino ispanico che non conosce niente del mondo, e che, come vedremo, si mette continuamente in pericolo, in qualche modo anche svendendosi.

Un’occasione anche per raccontare in maniera molto esplicita la differenza fra transessuali, travestiti e le drag queen, in un momento quasi didascalico, in realtà fondamentale per gli intenti del film: avvicinare un pubblico inesperto del mondo queer a concetti importantissimi.

E, al contempo, si vanno anche a smentire stereotipi piuttosto crudeli per il mondo drag, che ne svalutano il valore, proprio scegliendo di non far mai uscire Vida dal suo personaggio, perché rappresenta proprio l’espressione della sua vera identità.

La violenza edulcorata

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Per rappresentare gli elementi anche più drammatici della vicenda, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sceglie una via di mezzo.

Ed è una via di mezzo ben pensata, che non toglie importanza a momenti veramente drammatici – come il ritorno di Vida alla sua casa natale – e violenti – come la relazione tossica fra Virgil e Carol.

In particolare, è interessante la scena della tentata violenza con il poliziotto, che ovviamente fa il verso a Thelma & Louise (1991), ma con un esito felice: essendo piuttosto ben piazzata, Vida riesce a difendersi e il poliziotto non muore, ma viene ridicolizzato.

Allo stesso modo, quando la protagonista sceglie di intervenire per proteggere la sua nuova amica, non si mostra esplicitamente la violenza della scena, se non per la sua parte conclusiva, che ha un taglio quasi comico.

Infatti, il taglio del film è quanto più positivo possibile.

Nemici e alleati

La pellicola vuole parlare il meno possibile di nemici, ma quanto più di alleati – o possibili tali.

Il weekend in quello sperduto paesino è un’occasione per le tre protagoniste di riuscire a rendere le donne locali più sicure di sé stesse, e gli uomini meno insicuri e distrutti dalla loro stessa mascolinità tossica e violenta.

E il percorso è quanto più naturale e positivo, con una storia emozionante e commovente, in cui un gruppo di donne riesce finalmente a valorizzarsi – ma, soprattutto, a sentirsi veramente libere e felici di poterlo fare.

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ed è una rappresentazione tanto più vincente in quanto mostra una realtà maschile molto variegata: gli uomini effettivamente negativi sono solo due – Virgil e il poliziotto – ed entrambi vengono messi al loro posto, senza però spingere troppo l’acceleratore sulla loro punizione.

Anzi, il momento di messa in fuga di Dollard racconta come tutti gli abitanti del paese abbiano accettato le protagoniste per quello che sono, sia perché li hanno aiutati, sia perché in questo modo hanno scoperto una parte di sé lontana dagli stereotipi di genere da cui erano definiti.

Ancora più interessante il fatto che i ragazzini non hanno una reazione violenta nei confronti delle drag queen, ma anzi accolgono la lezione – pur brutale – di Noxeema così da migliorarsi e diventare loro alleati.

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Nomadland – Restare liberi

Nomadland (2020) di Chloé Zhao fu uno dei film più chiacchierati del 2020, con diversi riconoscimenti, fra cui il Leone d’Oro, due Golden Globe e tre premi Oscar.

Con un budget veramente molto ridotto – appena 5 milioni di dollari – è stato tutto sommato un buon successo: quasi 40 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Nomadland?

Dopo la chiusura della città mineraria in cui viveva, Fern ha scelto una vita un po’ particolare: essere una nomade.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nomadland?

Frances McDormand in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Assolutamente sì.

Nomadland non solo è un film profondo e riflessivo, ma è soprattutto una storia reale con persone reali: molti degli attori in scena non sono professionisti, ma interpretano sé stessi.

Un racconto drammatico, ma più vicino di quanto si potrebbe pensare: persone che ormai da tempo hanno rifiutato la devastante realtà immobiliare statunitense, preferendo una vita più modesta, ma anche più libera.

Frammenti di silenzio

Frances McDormand e Linda May in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Nomadland è scandito da momenti di silenzio, non parlati, incorniciati dai suoni dell’ambiente, con rapidi montaggi che mostrano piccole scene di quotidianità.

Il racconto di una vita non semplice, non per tutti, ma inevitabile davanti alla realizzazione di quanto sia semplice perdere la propria casa, il proprio lavoro la propria identità, e, semplicemente, scomparire.

Tanto più che Fern è una donna irreprensibile, che molti cercano di far tornare sui suoi passi, che cercano di mettere da parte, di far ritirare come una qualunque altra anziana signora.

Invece, seguendo la stessa filosofia di Swankie, la protagonista vuole rimanere libera fino alla fine, vivere una vita gratificante, sempre alla ricerca di un nuovo, indimenticabile momento da assaporare nella sua pienezza.

Una vita modesta, ma onesta

Frances McDormand in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

Molte persone lungo la strada, anche con le migliori intenzioni, pensano di poter aiutare Fern.

E molti non capisco l’importanza della scelta di questa strana donna, che non può vivere ingabbiata in un solo luogo, in solo lavoro, non sentendosi mai veramente libera, ma limitata da un’esistenza solo apparente stabile e sicura.

E, anche se i lavori che deve fare sono molto umili, poco desiderabili, quasi umilianti, sono gli unici che permettono a Fern di essere una nomade, di essere libera e autosufficiente, di non dipendere da nessuno.

Eppure per molti sembra solo una ribellione momentanea

Non ci si ferma

Gay DeForest in una scena di Nomadland (2020) di Chloé Zhao

La vita di Fern è molto più che una vita per strada.

Infatti, la strada non è del tutto materiale, ma è più che altro una realtà estemporanea, che racconta una scelta di vita sostenuta da una comunità forte e collaborativa, in cui ci si aiuta l’un l’altro in totale armonia.

E la strada va anche oltre la vita stessa: la strada prosegue indistintamente all’orizzonte, senza che ci sia un momento per dirsi un momento in cui bisogna dirsi addio, ma solo, a presto

…ci vediamo lungo la strada.

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Thelma & Louise – It’s a man’s world

Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott è uno dei maggiori cult del genere road movie – e non solo.

Con un budget piuttosto contenuto – circa 16 milioni di dollari, circa 35 oggi – incassò piuttosto bene: 45 milioni di dollari – circa 100 oggi.

Di cosa parla Thelma & Louise?

Louise e Thelma sono due amiche con gusti e personalità molto diverse, che partono per un viaggio apparentemente innocuo, ma che in realtà cambierà la loro vita per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thelma & Louise?

Assolutamente sì.

Thelma & Louise non è solo un incredibile cult, nonché uno dei migliori road movie mai realizzati, ma è anche un’interessantissima riflessione sul ruolo del femminile in un mondo dominato dalla presenza maschile.

Una storia di ribellione, di ricerca della libertà, di scoperta di sé stessi, con una regia ottima e due attrici con un’alchimia incredibile, per una storia che unisce il drammatico e il comico in un incontro perfetto…

L’inizio della fine

Fin dall’inizio Thelma & Louise mostra le sue ombre.

Nonostante il viaggio in macchina sembri un appuntamento molto divertente e spensierato, in realtà diversi elementi in scena raccontano altro: la telefonata con il manager del ristorante che infastidisce Thelma – anche se in maniera innocua – la pistola nella valigia e Louise che dice all’amica:

He’s gon’ kill you!

Ti ammazzerà!

Quindi fin dai primissimi minuti abbiamo tutto quello che dobbiamo sapere sulla vicenda: le protagoniste provengono da un contesto sociale opprimente e decidono di fuggire, apparentemente ridendoci sopra, in realtà ben consapevoli della loro situazione.

In particolare è piuttosto indicativa la frase di cui sopra: anche se Louise ci scherza, è quantomai probabile che il marito di Thelma potrebbe quantomeno farle violenza per avergli disubbedito.

Gli uomini sbagliati

Il rapporto di Thelma con gli uomini è il più drammatico.

Probabilmente spinta dal proprio contesto sociale ad accasarsi e ricoprire il ruolo canonico della casalinga sottomessa, Thelma è finita sotto il controllo di un uomo tossico, unicamente interessato a lei come soprammobile da tenere in bella mostra in casa.

Ma, anche cercando si sfuggire al suo terribile matrimonio e alla sua insoddisfazione sessuale, la donna viene costantemente punita – e secondo le stesse dinamiche: Harlan la corteggia in maniera apparentemente molto lusinghiera, cerca di possederla sessualmente in maniera apparentemente innocua…

…ma, appena Thelma si rivela per non essere una semplice bambolina da possedere a proprio piacimento, ma un essere pensante capace di reagire e persino alzare le mani, tutto cambia.

Lo stupro infatti in questo caso non è spinto da un effettivo desiderio sessuale, ma più che altro dalla volontà di sottomettere nuovamente questa donna ribelle.

Louise, anche se non è detto esplicitamente, è stata vittima di stupro.

E, per quanto sia comunque più matura e apparentemente irremovibile dell’amica, vive anch’essa una situazione sentimentale non del tutto positiva: anche se in chiave minore, Jimmy è potenzialmente violento, tossico, e cerca di relegarla all’ambito matrimoniale.

E, proprio per il passato che si porta dietro, Louise è la prima a reagire, è la prima ad usare la pistola anche se era inizialmente contraria ad averla con sé, è la prima a rispondere con la violenza ad una violenza irreparabile.

Da che parte stiamo?

Se ci aspetteremmo inizialmente che la più combattiva fosse Louise, in realtà è Thelma a vivere la ribellione più radicale.

Dopo essere stata per l’ennesima volta tradita ed umiliata da un uomo – questa volta dal punto di vista economico – perde totalmente e gradualmente il controllo: rapina un negozio, distrugge un camion…

Davanti a questa irrefrenabile climax, il film ci mette sempre più davanti ad un dilemma etico:

Da che parte stiamo?

Non esiste una risposta giusta.

Thelma & Louise racconta la storia di due donne che hanno preso consapevolezza della loro condizione sociale: vivere in un mondo di uomini, in cui sono costantemente punite, umiliate, non credute, messe in secondo piano.

E per questo hanno scelto di ribellarsi, in maniera anche molto violenta, non facendosi problemi ad uccidere, distruggere, punire in maniera sempre più spettacolare e sfacciata quegli uomini che – anche se in modi diversi – le hanno tormentate per tutta la vita.

Ma potremmo d’altronde stare dalla parte di questi personaggi maschili così irrispettosi, violenti e distruttivi?

Senza via d’uscita?

L’ago della bilancia di questa situazione è Hal, il poliziotto.

Un personaggio che rappresenta il lato più positivo della mascolinità: un uomo consapevole ed aperto al dialogo, che comprende i drammi e i motivi delle azioni delle protagoniste, e per questo cerca in ogni modo di farle desistere dai loro folli piani.

Quindi, di fatto, Thelma e Louise hanno sempre una via d’uscita: possono gettare le armi e accettare le responsabilità delle loro azioni, accettare di farsi punire…ma anche tornare in una realtà sociale che non possono più sopportare.

E allora, mentre Hal si slancia disperatamente per fermarle, le due invece si lanciano verso la loro distruzione: un messaggio politico forte e irreversibile, che racconta un’esasperazione sociale che non può più essere sopportata, e che porta ad un finale dolce amaro.

Le nostre eroine sono morte, ma sono morte come donne libere.

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Il sorpasso – Il dramma del boom

Il Sorpasso (1962) di Dino Risi è un film che si inserisce nel cosiddetto genere della commedia del boom.

Un filone che si sviluppò fra la metà degli Anni Cinquanta e Sessanta per raccontare il fenomeno economico-sociale del Boom Economico che travolse, fra gli altri, anche l’Italia.

E fu anche un enorme successo commerciale: nonostante una timida apertura, la pellicola godette di un ottimo passaparola, diventando il prodotto di maggior successo in Italia quell’anno.

Di cosa parla Il sorpasso?

Roberto è un timido studente di legge, che si trova da solo a studiare durante la giornata di Ferragosto a Roma. Viene coinvolto in un viaggio improvviso e travolgente da Bruno, un uomo conosciuto proprio quella mattina.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Il Sorpasso è un film imperdibile

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso è una perla della cinematografia nostrana, una pellicola con un incredibile Vittorio Gassman, che interpreta Bruno, che è la perfetta controparte del compianto Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto.

Una commedia irresistibile, che lascia però un sorriso amaro in bocca: capace di raccontare il sogno del boom, ma svelando anche la drammaticità con pochi tocchi ben azzeccati.

Al contempo, è considerabile un buddy movie ante litteram, che si dice abbia persino influenzato Easy Rider (1969, dal titolo con cui era stato distribuito negli Stati Uniti, Easy Life).

Un capolavoro intramontabile, insomma.

Bruno: l’inarrestabile nel Sorpasso

Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto ieri mattina.

Bruno rappresenta il fragile sogno del boom economico: apparentemente travolgente e inarrestabile, in realtà con una fragilità e una fallibilità intrinseca.

Il suo personaggio infatti solo apparentemente si destreggia facilmente fra i luoghi, le donne e gli affari. In realtà fino alla fine del film non ha un soldo in tasca e solo fortuitamente guadagna 50.000 lire dal futuro marito della figlia.

Così ci prova praticamente con tutte le donne che incontra, dalle tedesche che insegue fino alla ex-moglie alla fine, ma nessuna sembra interessata a lui o comunque si concede davvero. Così sembra sempre pronto a destreggiarsi fra gli affari, ma in realtà non ne combina veramente nessuno.

E proprio la sua fallibilità si definisce quando perde il suo slancio e viene riportato coi piedi per terra dai personaggi che gli stanno intorno, in particolare Roberto, che agisce un po’ da grillo parlante. Così, quando inseguono le ragazze tedesche e si trovano in un cimitero, quando un Bruno indeciso cerca comunque di continuare il suo piano, è Roberto che lo invita ad andare via. E Bruno accetta.

Roberto: l’inetto nel Sorpasso

È che ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia.

Come Bruno rappresenta lo sfolgorante sogno del boom, Roberto è invece l’immagine di una sorta di nostalgia infantile per il passato, dell’incapacità di adattarsi alla frenesia del nuovo presente.

In particolare vive dei suoi sogni d’infanzia, della stanza dei lettini nella casa degli zii, dell’amore ancora vivo per Zia Lidia, degli apparenti fallimenti con Valeria, la ragazza dei suoi sogni. E al contempo vive nei suoi pensieri, dove sembra pronto all’azione, ma che non realizza mai fino alla fine.

Roberto è un personaggio continuamente in imbarazzo e fuori posto, in particolare nella scena della spiaggia, dove non accetta mai di scoprirsi come gli altri, dove non vuole mai adeguarsi. Anzi la sua è una continua fuga, un continuo tentativo di tornare sui suoi passi e scendere dal treno e tornare ai suoi libri, alla Roma deserta ma rassicurante.

E, quando decide finalmente di adattarsi alla nuova realtà, viene punito.

Il dramma del boom

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso rappresenta in tutto e per tutto la fragilità del sogno di ricchezza e di possibilità senza limiti, quando l’Italia stava vivendo una ritrovata (e apparente) situazione di felicità.

Questa euforia è rappresentata in primo luogo dal viaggio spericolato e che non si pone regole, anzi le infrange volutamente. Poi dalla ricchezza dei luoghi frequentati: prima l’autogrill, poi il club del Cormorano e infine la spiaggia.

La spiaggia in particolare è davvero il luogo più travolgente e imprevedibile, da cui Roberto cerca continuamente di sottrarsi. Pieno di gente fino a scoppiare, rumoroso e concitato, e che sembra sempre il punto di partenza per possibilità diversissime.

Non a caso sul motoscafo di Bibì si parla di arrivare a Portofino in un paio d’ore, e alla fine proprio Bibì e Lilly vanno via improvvisamente alla volta dell’Isola dell’Elba.

Una corsa inarrestabile, che non sempre si risolve in un esito positivo.

Il momento anzi più alto che svela la fragilità del boom è quando Bruno cerca di comprare l’incidente: vediamo solo le casse a terra, il guidatore che lo ascolta e, senza una parola, si allontana con le mani premute in viso, mentre l’inquadratura si allarga e mostra un cadavere a terra.

Un sogno bellissimo, ma che può facilmente fallire.

Scrivere in corsa (e schiantarsi)

Vittorio Gassman in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

La bellezza di questo film è che fu scritto col preciso fine di raccontare un’Italia credibile e vera.

Per questo, durante la scrittura del film gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari tenevano sempre sottomano i giornali del giorno, per inserire riferimenti anche alla immediata attualità.

Un esempio è quando Bruno parla della giurisprudenza marziana, perché proprio in quel periodo, quando il sogno dell’Allunaggio si faceva più vicino, si cominciava a parlare di questi argomenti.

Il finale fu, secondo gli stessi autori, deciso per una scommessa, ma in realtà non potrebbe essere più giusto che così: un sogno sfavillante che si conclude con una terribile tragedia.

La figura della donna

La figura della donna ne Il Sorpasso è estremamente variegata.

Per la maggior parte del tempo vediamo donne enigmatiche, irraggiungibili e che non si concedono molto facilmente: così le due ragazze tedesche del cimitero, la cassiera all’autogrill, e persino la ragazza che Roberto incontra alla stazione.

Per la maggior parte donne immerse nella bellezza del boom, che decidono per se stesse, a partire dalla giovanissima figlia di Bruno.

Ci sono due splendide eccezioni che si pongono ai due estremi: la zia Lidia, timida donna di campagna che si lascia per poco tentare dalle lusinghe di Bruno, ma che, guardandoli andare via, ricompone la sua crocchia e si ritira di scena.

E al lato opposto la donna rapace: Gianna, la moglie del Commendatore, che seduce senza pietà Bruno al Club del Cormorano, anche davanti agli occhi del marito.