Good Boys (2019) di Gene Stupnitsky è una pellicola di un genere da un certo punto di vista indefinibile: sarebbe di per sè una commedia che gioca anche con il demenziale, ma al contempo è anche un racconto di crescita e di formazione.
Non un grande film, ma un film che ho apprezzato molto per la sua capacità di raccontare in maniera credibile e coinvolgente il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, con alla guida un regista come Stupnisky, che ha fatto poche cose, ma una che porto davvero nel cuore: Bad Teacher (2010).
Il film fu anche un buon successo commerciale: a fronte di un budget di appena 20 milioni di dollari, ne incassò 111. Fra l’altro fu uno fra i buoni risultati della carriera di Jacob Tremblay, giovanissimo attore in rampa di lancio che ricordiamo sopratutto per essere il bambino protagonista di The Room (2015) e recentemente come doppiatore per Luca(2021).
Di cosa parla Good Boys?
Max è un ragazzino di appena dodici anni che sta per cominciare le scuole medie e si trova a dover gestire tutti i problemi tipici della prima adolescenza: amori non corrisposti, la voglia di determinarsi, il desiderio di mantenere intatte le amicizie.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Good boys può fare per me?
Good Boys è una deliziosa commedia che può piacere un po’ a tutti, sopratutto se, come me, avete una certa passione per prodotti comici dei primi Anni Duemila, particolarmente i teen movie. Tuttavia il film si smarca anche da certi stereotipi e racconta il passaggio all’adolescenza in maniera genuina e molto attuale. Un tratto distintivo di questo autore, che si vede anche in Bad Teacher, appunto.
Una pellicola che mi sento più di consigliare ad un pubblico adulto, in quanto è piena di battute molto pesanti che un ragazzino potrebbe facilmente non cogliere o rimanerne confuso. Insomma, se volete coinvolgere spettatori più giovani, sappiate che potrebbero trovarsi più confusi dei protagonisti stessi.
Raccontare l’adolescenza (da chi l’ha vissuta)
Il momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza è uno dei più complicati della crescita. Guardandolo dall’esterno, dopo averlo superato, ci sembra tutto così comico, così incredibile l’importanza che davamo acose fondamentalmente inutili.
E in Good Boys il taglio narrativo è proprio quello di un adulto che vuole raccontare tutte le difficoltà di questo periodo, in maniera autentica e sentita, cercando di evitare pesanti stereotipi e invece portando in scena personaggi diversi e in cui tutti possono riconoscersi.
Il senso di assoluto
Un aspetto che il film riesce molto bene a raccontare è questo senso di assoluto, tipico dell’infanzia, ma sopratutto di quando ci si affaccia all’adolescenza. Siamo talmente travolti da differenti e nuovissime emozioni che non siamo in grado di capire quanto tutto questo sia transitorio e per nulla definitivo.
Per la maggior parte delle volte ci ritroviamo a considerare la nostra vita già finita, come se tutti i tasselli fossero già posizionati. Infatti Max si comporta come se da questa festa dipendesse tutta la sua vita e dice con grande sicurezza che sposerà Brixlee. E così sono tutti convinti che rimarranno amici per sempre.
Invece proprio da questa esperienza capiscono come la vita sia transitoria e mutabile, sopratutto quando si è giovanissimi. E va bene così.
La mutabilità
Proprio durante il film i protagonisti scoprono di quanto la vita possa cambiare, e anche in poco tempo: nel giro di un mese, Max, così sicuro di avere una relazione lunga e duratura con Brixlee, viene lasciato più di una volta e ha delle altrettanto brevi relazioni con almeno tre diverse ragazzine.
Al contempo Lucas e Thor si sentono liberi di sviluppare le loro passioni e cominciare a conoscersi meglio, l’uno entrando nel gruppo anti-bulli che tanto prendevano in giro, l’altro diventando la star del musical della scuola, nonostante sia considerato poco virile dai suoi compagni.
Le stesse ragazze gli svelano come certe amicizie possono nascere anche molto più avanti nella vita e di come certi appuntamenti, a posteriori, appaiano molto meno importanti. Così la festa, che sembra definitiva per la vita di Max, si rivela molto meno determinante di quanto pensasse.
Essere travolti
In particolare nel periodo storico che stiamo vivendo, i giovani sono travolti da concetti e questioni per cui molto spesso non hanno la maturità per affrontarli e comprenderli. E allora spesso ne parlano per frasi fatte e senza averli veramente assimilati.
Si vede molto bene nel modo in cui i protagonisti parlano delle droghe che distruggono le vite e le comunità, del sesso con grande ingenuità, e di come snocciolano concetti indubbiamente importanti come il consenso, ma senza avere idea del loro vero significato.
Luca (2021) di Enrico Casarosa è un film Pixar, uno dei tanti – insieme a Red (2022) e Soul (2021) – rilasciati direttamente su Disney+.
Ma fu comunque un grande successo di pubblico.
Di cosa parla Luca?
Luca Paguro è una creatura marina, ma anche un ragazzino spaventato che ha sempre vissuto sott’acqua e che non ha mai visto la superficie. La sua vita cambierà grazie all’incontro con Alberto, ragazzino scapestrato ed esperto del mondo di superficie, con cui comincerà la sua grande avventura.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Luca?
Assolutamente sì.
Per quanto Luca non sia fra i migliori della Pixar, lo porto veramente nel cuore. Poche volte ho visto così tanto amore e una mano così attenta, un regista che riesca veramente a raccontare l’Italia in maniera credibile e riconoscibile, pur dovendosi piegare alle richieste del cinema statunitense.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Raccontare (davvero) l’estate italiana
Come abbiamo visto in tempi più o meno recenti, il pubblico statunitense ha bisogno di essere nutrito di stereotipi per l’Italia (e non solo).
In particolare, nel loro immaginario l’Italia è ferma agli Anni Sessanta, come dimostra il successo di pellicole come Call me by your name (2016), e sono spesso incapaci di distinguere fra la cultura italiana e quella italo-americana, come ben dimostra per l’ennesima volta House of Gucci (2021).
Tuttavia, la Pixar non è la prima arrivata e ha dato permesso ad un regista italiano alla sua opera prima di rappresentare davvero l’estate italiana, con una rappresentazione sicuramente datata ed adattata ad un pubblico statunitense, ma, per una volta, per un buon motivo: Enrico Casarosa ha voluto raccontare la sua estate dell’infanzia in Liguria.
Ci sono vari elementi che mostrano davvero un grande impegno nel rappresentare qualcosa di vero e credibile. Uno dei più evidenti è la scelta delle canzoni da utilizzare: canzoni pop che rappresentano l’infanzia per la generazione degli Anni Ottanta-Novanta, poco o per nulla conosciute al di fuori del nostro paese.
In secondo luogo, la rappresentazione di Portorosso: una cittadina di mare in cui facilmente qualunque italiano, soprattutto se ligure, può riconoscersi. E una raffigurazione del genere non poteva venire se non da chi ci ha veramente vissuto.
Ma il vero virtuosismo è stato il doppiaggio.
Scegli un doppiaggio, sceglilo bene
Il doppiaggio e la scrittura dei dialoghi di Luca sono veramente di alto livello.
In particolare, ho adorato il doppiatore di Luca, Jacob Tremblay, un giovanissimo interprete in rampa di lancio che abbiamo visto in Bad boys (2020) e che sarà la voce di Flanders nel live action de La Sirenetta in prossima uscita.
In generale i doppiatori del terzetto di protagonisti si sono veramente impegnati e sono anche piuttosto credibili quando parlano italiano, semplicemente perché non forzano l’accento alla Super Mario che abbiamo visto in House of Gucci, appunto (film che può essere citato all’infinito come esempio negativo).
Ma la vera punta di diamante è stato il doppiatore di Ercole, che sia in italiano che in inglese è interpretato dall’ottimo Saverio Raimondo, comico nostrano che ci ha offerto una performance di primissimo livello.
E non di meno la scelta di utilizzare doppiatori italiani per i personaggi secondari e di sfondo è stata un tocco di classe.
Le poche sbavature
In una scrittura e rappresentazione così coerente e credibile, stonano più del solito un paio di elementi, probabilmente prodotti di sceneggiatori che non hanno la stessa conoscenza dell’Italia come il regista.
In particolare, certe espressioni che usa Giulia, come santa mozzarella, molto infantili e che sembrano più derivate dal collegamento di uno statunitense fra gli italiani e il cibo, più che da espressioni effettivamente realistiche.
Oltre a questo, purtroppo il finale appare molto debole e forzato, non riuscendo a portare una giusta credibilità alla scelta dei personaggi di accettare i mostri marini che cacciavano fino al giorno prima.
Tuttavia, per l’esperienza che mi offre il film, non è un elemento che mi dà neanche così tanto fastidio.
Luca: Creare un trend
Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:
Un caso analogo a quello di Encanto(2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.
Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.
Luca: Creare un trend
Una delle aspre polemiche che si sollevarono al tempo dell’uscita di Luca fu su come un prodotto così meritevole non fu distribuito in sala. E il successo della pellicola a livello globale si vide nel trend che si creò su TikTok. Qui un esempio:
Un caso analogo a quello di Encanto(2021), prodotto di animazione che floppò ampiamente in sala, ma divenne incredibilmente popolare dopo il rilascio in streaming, su TikTok e oltre, per la canzone We dont talk about Bruno.
Insomma, sembra che i prodotti animati funzionino di più in streaming che in sala, e il futuro, vedendo appunto i risultati di Lightyear, non è promettente.
Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?
L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.
Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:
Cosa significa Piacere, Girolamo Trombetta?
L’espressione ha totalmente confuso gli statunitensi, e già per un italiano non è del tutto intuitiva. Si capisce meglio vedendola in atto: giro-la-mano (girando appunto la mano a chi la stiamo stringendo) e trombetta perché si fa il gesto col braccio come se si stesse suonando una trombetta, appunto.
Vi lascio qui il video dove viene spiegato bene:
Una vera chicca
Una vera chicca, che non so quanti possano aver notato, è la foto che Alberto tiene sullo specchietto della vespa: niente poco di meno di Marcello Mastroianni, il più incredibile attore del nostro cinema (e non solo), nei panni del Barone Fefè in Divorzio all’italiana(1960) di Pietro Germi.
Una commedia grottesca splendida, uscita nel periodo d’oro della Cinematografia Italiana, che si vede di sfuggita anche in un’altra scena.
Baywatch (2017) di Seth Gordon è stato il tentativo di rilancio dell’iconica serie omonima.
Il film non fu di per sé un flop, ma neanche un grande successo commerciale, come forse ci si aspettava per un revival di questo genere.
Infatti, davanti ad un budget di 69 milioni di dollari, ne incassò appena 177. Non a caso il sequel fu più o meno annunciato durante la prima proiezione,ma del progetto non si ebbe più notizia.
Di cosa parla Baywatch
Il tenente Mitch Buchannon è il caposquadra dei bagnini delle spiagge di Emerald Bay. Si trova improvvisamente a dover gestire Matt Brody, ex atleta olimpico e testa calda che vuole unirsi a tutti costi al gruppo. Nel frattempo la baia è minacciata dall’avida imprenditrice Victoria Leeds…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perché Baywatch fu un insuccesso?
Baywatch è stato un interessante tentativo di riportare in auge il franchise della serie tv iconica.
Purtroppo, si tratta di un prodotto ben poco adatto ai tempi, sia per la comicità datata, sia per il tipo di rappresentazione dei personaggi, schiacciati da un machismo e da una ipersessualizzazione insopportabile.
Per questo si è scelto una via di mezzo: circoscrivere determinati aspetti datati su pochi personaggi e mettere maggiormente in risalto i personaggi femminili.
In particolare, rendere il villain una femme fatale potente e spietata è stata la classica soluzione di compromesso.
Purtroppo Baywatch richiede molto di stare al gioco e capire che si tratta di un prodotto revival che riprende il taglio della serie. Quindi una comicità molto spicciola, machista e corporale, una trama molto cartoonesca e non particolarmente spettacolare.
Se non ci si rende conto di questo aspetto fin da subito e se si fa parte della generazione dei millennial in su, a cui il film è indirizzato, si potrebbe provare un certo imbarazzo per quello che si vede in scena e di conseguenza non sentirsi coinvolti.
Baywatch può fare per me?
Dipende.
Se apprezzate i classici film con protagonista The Rock, probabilmente sì. Tuttavia, come detto, la comicità è un po’ più datata, un incontro fra la saga di Scary Movie e Magnum P.I. Tuttavia complessivamente io l’ho trovato un film godibilissimo, con una trama sicuramente semplice e piena di stereotipi, ma che riesce facilmente ad intrattenere.
Quindi se già dal trailer vi ispira, dategli un’occasione.
Sessualizzazione contestualizzata
Una questione abbastanza problematica era la sessualizzazione del corpo femminile, di cui si è ben parlato nella serie Pam & Tommy.
In questo senso, hanno scelto una via di mezzo: i personaggi femminili in generale sono messi in primo piano nella storia e non sono quasi mai sessualizzati, e soprattutto non vi è tendenzialmente una regia voyeuristica sui loro corpi.
Una parziale eccezione è rappresentata da Casey, che riprende fondamentalmente le parti di Pamela Anderson nella serie. Ma anche Casey è una scelta calibrata. Anzitutto, si è evitato di imporre la ipersessualizzazione su Stephanie, interpretata da un’attrice latina (e con tutti gli stereotipi che ne sarebbero seguiti).
Al contrario, è stata scelta un’attrice come Kelly Rohrbach, con un volto pulito e che incarna la dream girl californiana. Quindi molto diverso dalla ragazza bella e impossibile come era Pamela Anderson, appunto.
Quindi l’oggetto del desiderio del personaggio maschile, con alcune soggettive un po’ infelici sul suo seno, che è comunque molto messo in mostra. Ma al contempo, per fortuna, Casey non è appiattita nel ruolo di pixie girl, ovvero il personaggio femminile che esiste unicamente in funzione della maturazione del personaggio maschile.
Machismo distruttivo
Un’altra tematica molto forte della pellicola è il machismo distruttivo fra i due protagonisti maschili.
Tuttavia anche questo è stato costruito con un minimo di intelligenza: non esclusivamente un antagonismo fra Mitch e Matt, ma un tentativo di Mitch di ridimensionare Matt e fargli imparare qualcosa, pur talvolta cercando di devirilizzarlo.
Questo accade infatti quando Mitch parla della manvagina di Mitch e quando lo salva facendogli la respirazione bocca a bocca sul finale, e prendendolo in giro per questo. Ma, tutto sommato, la storia è più che altro funzionale a raccontare il percorso di crescita di Matt.
Una comicità datata
Non solo la comicità, ma in generale la storia raccontata è proprio quella di un altro periodo. È così comico e poco credibile già solamente l’esistenza di bagnini che risolvono il crimine, e soprattutto che nella baia ci siano questo tipo di problemi.
Oltre a questo, la comicità è in generale molto datata: senza dover scomodare gli Anni Ottanta, sembra molto un umorismo tipico di quelle commedie primi Anni Duemila bellissime e terrificanti come Dodgeball(2004).
E questo potrebbe aver anche allontanato il pubblico dalla sala…
Cameo a tempo perso?
Nel film ci sono due camei che dovrebbero farti rimanere a bocca aperta, ma potrebbero essere stati totalmente inutili, in quanto il pubblico che principalmente è andato in sala è quello attirato dai film di The Rock più che dalla serie di Baywatch.
È così evidente che l’apparizione di David Hasselhoff doveva stupire lo spettatore che mi sono sentita in imbarazzo quando non l’ho riconosciuto. Meno imbarazzante l’apparizione di Pamela Anderson, che ho riconosciuto, ma che purtroppo non mi ha dato l’emozione che dovrebbe dare ai fan storici della serie.
Il film insomma strizzare l’occhio ai fan di Baywatch, che però è possibile che non fossero neanche in sala…
Il gigante di ferro (1999) di Brad Bird è un lungometraggio animato che ebbe una storia particolare, analoga a quella di un altro piccolo cult Anni Novanta, ovvero In viaggio con Pippo(1995).
La pellicola fu infatti un flop disastroso (30 milioni di incasso contro 50 di budget), ma venne ampiamente rivalutato col tempo, divenendo un piccolo cult per la generazione dei millennial.
Di cosa parla Il gigante di ferro?
1957, Rockwell, Montana. Piena guerra fredda. Hogarth è un ragazzino fantasioso che si ritrova per caso ad imbattersi con un enorme gigante di ferro, dalla provenienza sconosciuta.
Ma Hogarth non è l’unico ad essere interessato…
Perché Il gigante di ferro è un cult?
Come anticipato, Il gigante di ferro fu un caso simile a In viaggio con Pippo: come era normale per il periodo, i lungometraggi animati erano pensati per un pubblico infantile.
E così venivano a loro indirizzati anche tramite la campagna marketing.
Tuttavia, Il gigante di ferro non è un film propriamente per bambini: vi è un ampio (e ottimo) utilizzo della comicità per stemperare la tensione di certe scene. Tuttavia, a conti fatti, nella pellicola ci sono non poche scene di violenza, si parla di morte, di morale, e di armi. A questo riguardo, la condanna schietta all’utilizzo delle armi potrebbe essere anche stato un motivo che allontanò il pubblico statunitense.
Al contrario col tempo il prodotto venne riscoperto proprio per la sua profondità dei personaggi e della trama, che affronta appunto diverse tematiche di grande importanza. Oltre a questo, il film presenta personaggi davvero irresistibili, e, a differenza di altri film di questo tipo come anche E.T., il gigante è molto più umano e lo spettatore riesce ad empatizzare più facilmente con lui.
Il gigante di ferro può fare per me?
Assolutamente sì.
Il gigante di ferro è un ottimo prodotto di animazione, sia per la scrittura sia per l’animazione. Per me, che sono patita delle dinamiche di film per ragazzi di fantascienza, è stato un amore confermato anche dopo tanti anni che non lo vedevo.
Per questo se appunto apprezzate prodotti come E.T. (1982) e I Goonies (1985), o anche recuperi nostalgici come Stranger Things, molto probabilmente vi piacerà. Ovviamente se siete allergici a quelle dinamiche, non dico di non vederlo perché la pellicola non si appiattisce sulle stesse, ma potrebbe non entusiasmarvi.
I am not a gun
Splendida e inaspettata è la storia del gigante.
In realtà la sua backstory non viene raccontata in maniera approfondita: possiamo intuire che proviene da un pianeta alieno, che era parte di una produzione in serie di armi per una guerra che probabilmente è stata del tutto distruttiva.
Una macchina così intelligente che in poco tempo è capace di imparare una nuova lingua e assorbire concetti di grande profondità. E così arriva ad interrogarsi sulla sua natura e, alla fine, a sacrificarsi per salvare la comunità.
La sua morale è racchiusa in concetti semplici, come I am not a gun (non sono un’arma) e sul personaggio di Superman, figura di assoluta bontà (almeno negli Anni Cinquanta). Concetti semplici appunto, ma di grande effetto.
Il taglio narrativo
Un aspetto che sinceramente non mi ricordavo e che mi ha davvero colpito è stato il taglio narrativo estremamente realistico. Si percepisce davvero il momento storico e il tipo di mentalità che lo dominava.
E non solo il villain, che ne è fondamentalmente ossessionato, ma anche i compagni di scuola di Hogarth pensano e parlano secondo il pensiero popolare, anche in maniera violenta per la loro età. Ma niente di strano per gli Stati Uniti della Guerra Fredda (e anche odierni, in realtà).
Oltre a questo, tutto il discorso sulle armi e sulla violenza è piuttosto forte ed incisivo, andando a criticare pesantemente l’utilizzo delle stesse, senza grandi possibilità di eccezioni.
Personaggi mai banali
I personaggi de Il gigante di ferro sono tutti ben scritti e ispirano naturale simpatia.
Anzitutto Hogarth, un bambino molto fantasioso e che si entusiasma molto facilmente, ma anche un bambino capace di tenere testa ad un adulto molto più potente di lui. Ed è sempre lo stesso che, con tutta la sua semplicità, trasmette i giusti valori al gigante, portandolo verso una felice risoluzione.
Ma assolutamente irresistibile è Dean, artista sognatore che crea arte dai rottami. Questo personaggio aveva l’arduo compito di riempire un vuoto nel centro del film. E ci riesce in maniera molto simpatica, quando scopre che anche il gigante può creare delle opere d’arte per lui.
E poi c’è il villain.
Sempre un ottimo villain
Il regista e sceneggiatore di questo film è Brad Bird, lo stesso che pochi anni dopo diresse per la Pixar Gli Incredibili(2004), un altro di quei film che porto davvero nel cuore. E infatti Kent Mansley, il villain de Il gigante di ferro, presenta non poche somiglianze con Sindrome de Gli Incredibili.
A parte la scelta estetica simile (capelli rossi e inquietanti occhi azzurri), anche il carattere è analogo: sono entrambi guidati da un’ossessione e si sentono entrambi capaci e potenti più degli altri.
In particolare Kent Mansley è quello più ubriaco della guerra fredda: completamente ossessionato dalla minaccia russa, in questo caso rappresentata dal gigante, che deve essere eliminata a qualunque costo.
Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.
Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.
Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.
Di cosa parla Candleshoe?
Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…
Candleshoe può fare per me?
Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.
Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.
Una protagonista diversa?
Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.
Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.
Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.
E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.
La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia
Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.
Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.
Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.
Harry e Clara: che sagome!
Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.
Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.
In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.
Lode al budino di riso
Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.
In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.
Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, è un piccolo cult di inizio Anni 2000.
Non a caso, a fronte di un budget risicatissimo – appena 8 milioni di dollari – sbancò i botteghini internazionali con 108 milioni di incasso, e fu candidato a tre premi Oscar, vincendone due.
Di cosa parla Little Miss Sunshine?
Una piccola famiglia della classe media affronta un viaggio improvviso per accompagnare la piccola Ollie. In questa occasione ogni personaggio svilupperà il proprio percorso, con piccoli e grandi drammi personali…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Little Miss Sunshine?
Assolutamente sì.
Little Miss Sunshine divenne un cult all’epoca per tanti motivi.
Prima di tutto, è un film davvero ben scritto, che porta in scena alternativamente momenti incredibilmente divertenti, sia sequenze assai drammatiche, con sempre un’importante riflessione di fondo.
Un prodotto da recuperare assolutamente, per ridere, piangere e appassionarsi sinceramente alle storie dei personaggi, oltre che per venire vicino ad un mondo e ad una cultura che sono dominanti nel panorama internazionale, ma molto diversi dalla nostra cultura europea.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Vincere e perdere
La bellezza di Little Miss Sunshine risiede soprattutto la sua capacità di raccontare una storia davvero corale, dove ogni personaggio è tridimensionale e ha un’evoluzione avvincente.
Non a caso il film si apre con una piccola carrellata di scene di presentazione di tutti i personaggi ed il loro arco narrativo.
La piccola Olive e il suo sogno, il padre e il suo corso di life coaching, il fratello e la sua sfida, il nonno e la dipendenza dalle droghe, la madre che è il suo rapporto difficile col fratello, e infine il fratello suicida.
Il tema principale, come anticipato, è la cultura della vittoria. Vincere, vincere per forza, unica cosa che conta, come ben si vede dalle prime due scene: Olive che guarda e sogna la vittoria come reginetta di bellezza e il padre che racconta come si può essere o vincitori o perdenti. E bisogna essere vincitori.
E infatti ogni personaggio riesce a vincere e a perdere la sua battaglia personale.
Olive Little Miss Sunshine
Olive è una bambina di appena sette anni, eppure è il perno dell’intera pellicola.
Vediamo molto spesso il tutto dal suo punto di vista, che riesce ad empatizzare, nonché a venire in aiuto degli altri personaggi: Frank e il suo dramma personale, così il fratello Dwayne e la sua sconfitta.
Il sogno di Olive non è realmente quello di vincere per essere bella, ma di vincere per divertirsi. Tuttavia non è, pur ingenuamente, estranea a tutte le pressioni sociali che vogliono che lei sia bella, magra e già perfetta.
Emblematica in questo senso la scena in cui il padre cerca di convincerla a non mangiare il gelato per non ingrassare, così come quelle in cui si guarda allo specchio, più di una volta, preoccupandosi di non essere abbastanza bella.
Sono bella?
Effettivamente Olive non è una ragazzina convenzionalmente bella: è una bambina come tante, con un aspetto nella media, che non cerca di essere niente di più bello o di diverso dalla sua età.
Ma è comunque appunto influenzata dagli stimoli esterni del mondo degli adulti, tanto che chiede al nonno se lei è effettivamente bella e se riuscirà a vincere. Tuttavia, solo delle ansie derivate esternamente, non qualcosa che nasce naturalmente da lei.
La drammatica realtà è che se Olive non avesse le influenze positive di alcuni membri della sua famiglia, in poco tempo sarebbe caduta in un disturbo alimentare, come altre ragazzine prima di lei.
Frank Little Miss Sunshine
Frank è un perdente, sia per come si sente, sia perché non riesce a vincere il suo onore e andare avanti con la propria vita.
Non riesce a lasciare da parte il più grande traguardo della propria vita, l’unica cosa con cui riesce a definirsi.
E infatti alla fine il motivo vero del suo tentato suicidio non è né un amore fallito né aver perso il lavoro, ma aver perso il suo riconoscimento, che ribadisce (anche se scherzosamente), in altri momenti della pellicola.
La vittoria di Frank è riuscire a trovare una nuova identità, a capire di essere una persona completa anche senza essere riconosciuto come vincente. E riesce a riconoscersi in un nuovo contesto e un nuovo obbiettivo: la sua famiglia.
Non a caso è il primo a correre verso l’hotel del concorso.
E, non a caso, quando vede sul giornale il suo rivale riconosciuto con il premio che lui pensa che gli sia dovuto, lo mette via con solo una smorfia di disappunto, ma, infine, di accettazione.
Dwayne Litte Miss Sunshine
Dwayne è in una crisi esistenziale estrema.
Sente di odiare profondamente la sua famiglia e porta testardamente avanti l’obbiettivo di liberarsi dalla stessa.
Ma, in realtà, c’è una persona a cui non può odiare: Olive. Non è un caso infatti che sia Dwayne sia quello che si accorge della mancanza della sorella quando questa viene dimenticata alla stazione di servizio
E così Olive è l’unica persona che riesce veramente, e senza una parola, a convincerlo a tornare dalla famiglia quando Dwayne ha la sua crisi. E infine il ragazzo, come Frank, accetta che, anche se non verrà riconosciuto come quello che vorrebbe essere dagli altri, potrà comunque fare quello che lo renderà felice.
E questo senza doversi isolare da tutti, anzi preoccupandosi sinceramente per la sorella.
Il nonno Litte Miss Sunshine
Il nonno vuole vincere la sua libertà.
La libertà di vivere come vuole, anche in modo non accettato dalla società purista americana. E continua a farlo, nonostante le conseguenze, e fino alla fine. E alla fine muore, ma felicemente.
Insieme a Sheryl, il nonno è uno degli elementi di unione e un motore dell’azione, sia da vivo che da morto. Infatti il climax finale del ballo della famiglia, una danza gioiosa di unione, è merito della sfacciataggine del nonno.
La famiglia riesce a proseguire il viaggio, nonostante il cadavere nel bagagliaio, per le riviste pornografiche che il nonno ha acquistato. E tutta la vicenda è messa in moto dallo stesso, che aiuta la nipote nel suo spettacolo.
Richard Little Miss Sunshine
Richard è l’elemento più problematico del film.
Impulsivo, ossessionato dal sogno americano di vincere o perdere.
Senza vie di mezzo.
Durante la pellicola deve tuttavia prendere delle decisioni importanti, che gli fanno mettere in discussione i suoi valori. In particolare il momento di consapevolezza avviene durante il concorso di bellezza.
Guardando quelle bambine truccate e sessualizzate all’inverosimile, capisce che non vale sempre la pena vincere sempre, che sua figlia non deve per forza gareggiare, se sono queste le condizioni.
E infine anche lui sceglie la propria famiglia, proteggendo la figlia e intervenendo per primo per aprire la danza finale, nonostante sa che così verrà definitivamente escluso ed umiliato.
Ma ormai non è più importante.
Sheryl Little Miss Sunshine
Sheryl è una donna forte, coi piedi ben piantati a terra, che cerca di unire la famiglia.
La sua vittoria, alla fine, è riuscire a riportare insieme i suoi familiari, come cerca di fare per tutta la pellicola: riprende Richard quando intimorisce Olive, cerca di aiutare Frank, cerca in tutti i modi di ricongiungersi con Dwayne quando perde la testa e, alla fine, sostiene tutti sulle sue spalle.
È davvero il collante del gruppo.
È forse il personaggio che vince di più di tutti: riesce a vedere la famiglia finalmente e davvero unita, come avrebbe voluto, e per questo chiude le danze, correndo felice verso la figlia.
Vincere da subito
Il tema principale della pellicola è ben esplicitato dal concorso stesso, che rappresenta l’atto conclusivo nonché il punto di arrivo del climax dell’intera pellicola.
Può sembrare eccessivo ed esagerato, ma è invece tremendamente reale.
L’ultimo tassello nel mosaico della cultura della vittoria a tutti i costi degli Stati Uniti, quando fin da giovanissimi si viene messi in competizione. Vestiti da adulti, costretti a diventare degli oggetti di scena, principalmente a favore dei genitori stessi e del ritorno economico che ne può derivare.
Ci sono state molte discussioni, soprattutto ai tempi, sulla questione dei concorsi di bellezza.
La maggiore questione è che queste occasioni rappresentavano (e rappresentano) perfettamente il sogno americano. Non seguono infatti grandi capitali per accedervi, basta essere abbastanza belli e saper fare qualcosa di interessante, soprattutto nei circuiti più bassi.
E infatti le facce delle persone del pubblico sono facce assolutamente normali e ordinarie.
L’ipocrisia
Little Miss Sunshine mette bene in scena la sessualizzazione rasente alla pedofilia di questi concorsi, con ragazzine truccate e acconciate come modelle, eroicizzate al limite del sopportabile ed estremamente ammiccanti.
Non a caso è emblematica la faccia del padre quando vede lo spettacolo, profondamente a disagio, come ogni persona di buon senso si sentirebbe.
E così lo spettatore con lui.
E quindi l’ipocrisia sta nel fatto che, quando una bambina fa qualcosa di effettivamente erotico e apparentemente volgare, in realtàsemplicemente divertendosi nella sua ingenuità dei sette anni, è assolutamente inaccettabile.
Vivere di espedienti
Come la maggior parte della classe media statunitense e delle persone che partecipano a questo tipo di concorsi, la famiglia della pellicola è in difficoltà economica. Deve sempre vivere di espedienti e soluzioni dell’ultimo minuto per andare avanti, faticosamente, perdendo ogni energia.
Perché se ci si arrende si è, appunto, dei perdenti.
Così non possono lasciare Frank in ospedale per farsi curare adeguatamente perché non c’è l’assicurazione sanitaria adatta. Non possono prendere un aereo per andare in California, non possono permettersi un’alternativa all’auto rotta. In ogni modo devo mettersi insieme, mettersi in strada.
Il viaggio e tutti i suoi ostacoli rappresentano perfettamente come è la loro vita: un imprevisto dietro l’altro, a cui non sono sempre pronti a rispondere.
Bonus
Breaking bad, sei tu?
In Little Miss Sunshine ci sono dei collegamenti involontari alla serie Breaking bad, che esordì sui nostri schermi due anni dopo.
Anzitutto, la famiglia abita ad Albuquerque, dove si svolge anche la serie tv. Inoltre nel film appaiono per dei camei Bryan Cranston come Stan, il collega del padre e Dean Norris, come il poliziotto che li ferma in autostrada.
Rispettivamente Walter White e Hank Schrade, due dei personaggi principali della serie cult, che i fan di Breaking bad non potranno non riconoscere.