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Bong Joon-ho Comico Drammatico Film Giallo Grottesco Mistero

Memorie di un assassino – Le parallele intersecate

Memorie di un assassino (2003) è il secondo film della ricca filmografia di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2,8 milioni di dollari – anche grazie alla distribuzione in Occidente a quasi vent’anni dall’uscita, è stato un ottimo successo commerciale: 12 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Memorie di un assassino?

Corea del Sud, 1986. In una piccola cittadina di campagna si susseguono una serie di omicidi piuttosto efferati nei confronti di giovani donne. E i metodi di indagine della polizia sono quantomeno dubbi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Memorie di un assassino?

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Memorie di un assassino rappresenta un punto di partenza fondamentale per ricoprire la filmografia di Bong Joon-ho, che già qui presenza la sua cifra distintiva fra comico, grottesco e drammatico, in un incontro piuttosto peculiare, ma estremamente efficace.

Di fatto il film inganna lo spettatore facendogli credere che la via verso il finale è già segnata e che lo sviluppo della storia sarà piuttosto lineare, riuscendo invece a sorprenderlo in un’evoluzione dei personaggi veramente sottile e perfettamente calibrata.

Insomma, da riscoprire.

Metodi

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I metodi della polizia sono quantomeno discutibili.

Park Du-man si fa largo all’interno di un caso spinosissimo a colpi di intuizioni senza alcuna base logica e con un atteggiamento fin subito aggressivo e perentorio, volto a individuare immediatamente il colpevole perfetto per chiudere il caso nel minor tempo possibile.

E, in maniera davvero sorprendente, la regia rende questo aspetto della vicenda apertamente grottesco, ma senza banalizzare la questione, anzi usandola come strumento per definire caratterialmente le due figure dei detective protagonisti e del panorama in cui si muovono.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

I due poliziotti infatti sono incastrati in un contesto sociale particolarmente gretto, in cui le investigazioni vengono condotte, nella quasi totale mancanza di mezzi, quasi totalmente alla cieca, per i sentito dire, per i pettegolezzi che si rincorrono e chiusi grazie al tribunale popolare che sembra avere sempre la meglio.

E in questo senso l’arrivo del nuovo detective è emblematico.

Parallela

Song Kang-ho e Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

Seo Tae-yun subisce immediatamente la giustizia sommaria.

In un contesto in cui il minimo indizio può portare alla condanna, il semplice chiedere indicazioni diventa stalking e la situazione precipita anche simbolicamente in un fosso, e ogni tentativo di recuperare la situazione – aiutare la donna a risalire – diventa invece la prova definitiva che lo porta ad essere ammanettato alla macchina.

E questo breve ma significativo incontro già basta per intraprendere un’indagine parallela, del tutto estranea ai disordinati tentativi di creare un caso sul primo malcapitato che si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, seguendo invece la pista seminata dalla ben più attenta Kwon Kwi-ok, l’unica che trova una prova concreta.

Così finalmente il detective riesce a costruire una rete di indizi effettivamente significativa, basata su effettivi indizi, testimoni e collegamenti un minimo credibili fra i vari elementi in gioco, che lo portano in direzione di una figura apparentemente insospettabile.

Ed è a questo punto che Memorie di un assassino mi ha sorpreso.

Costretto

Kim Sang-kyung in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

La direzione del film appare chiara, quasi scontata.

Lo spettatore e lo stesso detective si aspettano di riuscire a seguire una linea chiara che li porterà ad inchiodare il vero colpevole, soprattutto grazie alle insperate tracce di sperma, che potrebbero essere la prova schiacciante per condannare quello che ormai sembrava il killer designato.

Questa ritrovata sicurezza conduce gradualmente Seo Tae-yoon ad avere una visione sempre meno oggettiva del caso e un’ossessione crescente verso il colpevole, che sembra scivolargli dalle mani ad ogni nuovo assassinio che non è riuscito a sventare.

Per questo l’arrivo dei test del DNA, l’unica via che ormai gli sembrava percorribile per arrestarlo, nella sua totale inutilità definisce l’ultimo atto del suo fallimento, che lo porta, di fatto, ad essere tutto quello che odiava:

esecutore di una giustizia sommaria.

Memories of a Murder finale

Il finale di Memories of a Murder è il suo punto più alto.

Nonostante Park Du-man sembra essersi lasciato il caso alle spalle, il destino lo riporta inevitabilmente nel primo luogo del delitto, dove ammette che effettivamente non c’è più niente da vedere, nonostante la regia indugi su un eloquente primo piano stretto che racconta l’aspettativa del personaggio di trovare qualcosa.

Song Kang-ho in una scena di Memorie di un assassino (2003) di Bong Joon-ho

E infine quel solitario scalo fognario diventa il punto di incontro mai prima riuscito fra il killer misterioso e il detective, che pende dalle labbra dell’unica, nuova testimone, ancora una volta incapace di dargli la prova schiacciante per chiudere il caso.

E ora?

Ci chiede Park Doo-man guardandoci direttamente negli occhi.

Sipario.

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Comico Commedia Dramma familiare Film I classici di Robin Williams

Mrs. Doubtfire – L’amore disgregato

Mrs Doubtfire (1993) di Chris Columbus, noto in Italia anche col sottotitolo imbarazzante di Mammo per sempre, è un classico della cinematografia di Robin Williams.

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un enorme successo commerciale: 219 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Mrs. Doubtfire?

Daniel è un padre stupendo, sempre presente con i figli, ma molto meno sopportabile come marito. E, una volta sottoposto al divorzio, dovrà prendere altre vie per stare vicino ai suoi amati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mrs. Doubtfire?

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Mrs. Doubtfire è una splendida commedia familiare che riesce a riflettere – come già per Chris Columbus in Mamma ho perso l’aereo (1990) – in maniera piuttosto fuori dagli schemi sui modelli di genere, evadendo l’idea stringente della famiglia unita come prerogativa della felicità della stessa.

Tuttavia, un trigger altert è dovuto: come tipico di altri prodotti dell’epoca, è un film apertamente discriminatorio nei confronti della comunità queer, particolarmente delle persone transgender e transessuali, come purtroppo ci si poteva aspettare considerando il tema di fondo.

Eccesso

Robin Williams con i suoi figli in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel è una forza irrefrenabile.

La prima scena inquadra da sola il personaggio, capace di regalare performance attoriali e vocali giocose e divertentissime, ma incapace di darsi un limite, di accettare le imposizioni esterne, persino a costo di perdere il lavoro.

Un entusiasmo che si conferma nella sequenza del compleanno del figlio, l’ultima goccia che fa definitivamente scoppiare il rapporto con Miranda, che si sente comprensibilmente scavalcata dalla figura del marito e che non riesce più a stare dietro alle sue continue follie.

E qui si apre un punto interessante.

Miranda (Sally Field) in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Mrs. Doubtfire avrebbe potuto semplicemente fare un’inversione delle parti, in cui la madre era il genitore assente e fissato con la carriera, e invece il padre appariva come il parente presente e attivo nella vita dei figli, nonché l’unico verso il quale andavano le loro attenzioni.

E invece la situazione familiare è ben più sfumata, e racconta un matrimonio che semplicemente non funziona più, ma dei figli che manifestano un attaccamento emotivo ad entrambe le figure genitoriali – non a caso, la madre non vuole mai abbandonarli o lasciarli a se stessi.

Ma c’è di più.

Valore

Nonostante la situazione familiare sia cristallina per noi spettatori, non lo è per la società.

In una sottile critica ad un sistema economico che inquina persino qualcosa di inquantificabile come l’affetto familiare, Daniel viene giudicato un padre poco adatto per la sua situazione economica instabile – e subito da risolvere.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

E la scelta del protagonista non solo di accettare un lavoro abbastanza degradante per le sue capacità, ma di affiancarlo anche al lavoro domestico per la sua stessa famiglia, racconta perfettamente il suo imprescindibile bisogno di stare vicino ai suoi figli.

Ed è un valore della pellicola non spingere troppo sul lato della incapacità iniziale del personaggio maschile di non saper condurre l’economia domestica, utilizzandola solamente come spunto per qualche gag, ma risolvendola rapidamente con l’impegno del personaggio nel migliorarsi per il bene dei suoi figli.

Così i ruoli della storia non sono mai così netti.

Colpa

Robin Williams e Pierce Brosnan in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

Daniel non è esente dalle colpe.

Ed è importante che lui stesso le riconosca.

In un altro contesto – come l’indimenticabile Genitori in trappola (1998) – si potevano facilmente giustificare i dispetti del protagonista nei confronti del nuovo interesse romantico di Miranda, e si poteva rendere lo stesso un evidente insidiatore della famiglia.

Al contrario Stuart è fin da subito raccontato come un personaggio attento e amorevole, capace di cambiare il suo punto di vista sui bambini per amore di Miranda, e per questo non merita davvero di essere punito da Daniel – che infatti si discolpa salvandolo dal rischio di soffocamento da lui stesso provocato.

Robin Williams in una scena di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

In generale, la grande mascherata del protagonista è davvero maligna, in quanto mette la moglie in una posizione veramente complessa da accettare, tanto che la risoluzione felice del film non è immediata, ma anzi passa per un ulteriore scontro fra i due. 

E per questo il ritratto familiare che si compone alla fine è tanto più importante quanto durante tutto il film Daniel si è dimostrato un adulto attento alle esigenze dei suoi figli, e per questo viene infine ricompensato con un programma televisivo tutto suo e un felice compromesso per stare con i suoi bambini…

Robin Williams nella scena finale di Mrs. Doubtfire (1993) di Chris Columbus

…nonostante questo non preveda di ritornare con la moglie.

Il finale di Mrs. Doubtfire è infatti quasi avanguardistico nel raccontare come una famiglia possa trovare la propria felicità anche al di fuori di un matrimonio solido e di una presenza costante di entrambi i genitori, aprendo le porte a più tipi di nuclei familiari che, oggi come ieri, non sono sempre considerati adatti.

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Comico Commedia Dramma storico Drammatico Film di guerra Robin Williams

Good Morning, Vietnam – La guerra bugiarda

Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson è un dramma storico con protagonista Robin Williams.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – 13 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 123 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Good Morning, Vietnam?

Saigon, 1965. Adrian Cronauer è la nuova voce della radio locale dell’esercito americano. Ma non è proprio il tipo di persona da lasciarsi minacciare dall’autorità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Good Morning, Vietnam?

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In generale, sì.

Good Morning, Vietnam ricorda per molti versi il poco successivo L’attimo fuggente (1989): Robin Williams diede il meglio di sé nel ruolo di voce fuori dal coro che sbaraglia le carte in tavola in un contesto rigido e stringente, venendo per questo osteggiato dalle autorità in carica.

La narrazione circa la Guerra in Vietnam ovviamente non raggiunge i picchi di Vittime di guerra (1989), ma riesce comunque a puntellare un film sostanzialmente comico di momenti piuttosto drammatici e rivelatori sulla mala condotta statunitense durante il conflitto.

Insomma, un’opera meno conosciuta di questo magnetico interprete, ma che merita di essere riscoperta.

Presenza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Adrian Cronauer è fin da subito un personaggio fuori dagli schemi.

Introdotto dal neutro bollettino della radio locale, il protagonista sfida subito le autorità locali, dimostrandosi del tutto indifferente davanti alle velate minacce e al tentativo di imbrigliarlo all’interno di un sistema molto fragile e perfettamente calibrato.

E, infatti, fin dalla sua prima apparizione, dimostra di essere una minaccia.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Cronauer non ha infatti alcun rispetto nei confronti dei maldestri tentativi del suo esercito di mantenere una certa facciata, ed esplode in un’irresistibile sequela di siparietti comici e irriverenti, conquistando il cuore dei militari in un’inarrestabile popolarità.

Ma questo suo essere fuori dagli schemi si riflette molto anche nei suoi rapporti con la popolazione locale.

Consapevolezza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Il protagonista non ha consapevolezza del conflitto e delle sue regole non scritte.

Cronauer si scontra infatti continuamente col feroce razzismo che domina il panorama politico, ma a cui si contrappone sia indirettamente – intrecciando sinceri rapporti con la popolazione locale – sia direttamente – prendendo di petto le ingiustizie, pure a costo di scatenare una rissa.

E, più in generale, il suo comportamento è ben diverso dal resto dei suoi conterranei anche per come affronta l’educazione dei vietnamiti, non limitandosi ad un’istruzione di base, ma fornendo ai suoi nuovi amici degli strumenti effettivi per affrontare la scomoda presenza straniera.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In maniera invece ben più irriverente, la sua posizione ribelle è ben raccontata dalla scelta di diffondere ufficiosamente una delle più tristi e recenti realtà del conflitto – l’attentato al bar – proprio a risvegliare le coscienze di un esercito che vive di un sogno filtrato dalle comunicazioni ufficiali.

Ma quindi cosa vuole davvero raccontarci Good Morning, Vietnam?

Speranza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Pur nella sua semplicità, Good Morning, Vietnam è un racconto di speranza.

La pellicola non vuole né semplificare né attenuare la gravità del conflitto, ma anzi la vuole sottolineare proprio affiancando ad una piacevole comicità pochi momenti struggenti e significativi, come a rappresentare il sogno fittizio di pace venduto agli statunitensi che viene facilmente svelato. 

E lo fa anche e soprattutto nel rappresentare i rapporti impossibili fra Cronauer e la popolazione locale: come una possibile relazione con Trinh è scoraggiata fin dall’inizio, anche la stessa amicizia con Tuan sembra minata dal profondo risentimento del giovane ragazzo verso la insopportabile presenza straniera.

Eppure, nonostante lo scoraggiamento temporaneo, il protagonista rimane fino all’ultimo una voce libera e irriverente, capace persino di sbeffeggiare il suo stesso presidente, rappresentazione, a più di dieci anni di distanza, della risposta di un paese affranto da una guerra bugiarda.

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2025 Animazione Avventura Comico Commedia Fantascienza Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl – I dettagli fanno la differenza

Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham, tradotto impropriamente in italiano con Le piume della vendetta, è l’ultimo capitolo della fortunata saga omonima in stop-motion.

Il film è stato distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Candidature Oscar 2025 per Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace e Gromit vivono una quotidianità normale, facendosi largo fra le invenzioni sempre più strambe del primo. Ma forse una sta per sfuggirgli di mano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl?

Wallace in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Assolutamente sì.

Avevo un ricordo abbastanza fumoso dei prodotti precedenti del duo, ma ricordavo comunque il mio apprezzamento verso i film della saga.

E non sono rimasta delusa.

Vengeance Most Fowl è uno di quei titoli che poteva tranquillamente essere estremamente banale ed infantile, ma che riesce invece a colpire per una particolare attenzione su pochi aspetti essenziali che la rendono un ritorno sullo schermo particolarmente indovinato.

Dipendenza

Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Wallace è dipendente dalle sue invenzioni.

Il quadretto familiare che si compone nel primo atto è il punto di partenza fondamentale della pellicola: il geniale inventore è totalmente dipendente dalla tecnologia, non riuscendo ad essere autonomo neanche nelle attività più semplici – vestirsi e persino addentare un toast a colazione.

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Ma un particolare fondamentale in tutta questa situazione – che risulta essenziale nello sviluppo della storia – è il ruolo di Groomit: le invenzioni del suo padrone non possono agire autonomamente, ma hanno bisogno dell’imprescindibile contributo del fedele compagno.

Di fatto, Wallace non vuole mai lasciare il suo amico da solo.

Anche a costo di essere fin troppo invadente.

Standard

Wallace e Gromit in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Il vero problema del Norbot è la spersonalizzazione.

Il proattivo robot da giardino sembra voler scalzare ingenuamente il personaggio di Groomit, riuscendo a copiarne le azioni in maniera decisamente migliore e, soprattutto, ben più rapidamente, seguendo dei precisi standard che rendono ogni sua creazione priva di personalità.

In questo senso è indicativa l’aggressiva invasione degli spazi personali di Groomit, che, a differenza del compagno, ha piacere nel potersi impegnare nel giardino e cosi a renderlo qualcosa di suo, e non un perfetto cortile uguale a tutti gli altri – come infine il Norbot lo rende.

Ma non c’è nessuna malizia nelle azioni di Wallace.

L’ingenuo inventore vuole onestamente migliorare la vita del suo compagno, sicuro che anzi ogni persona al mondo desideri godere dei medesimi, perfetti standard, gli stessi giardini tutti i uguali fra loro – capaci anche di risolvere le scarsità economiche della famiglia.

E per questo è arrivato il momento di parlare Feathers McGraw.

Anomalo

Feathers McGraw in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Feathers McGraw è uno degli elementi che rendono Vengeance Most Fowl così speciale.

Il villain della pellicola prende le mosse dalle classifiche figure del genere: un macchinatore dell’ombra, una mente criminale in cauta attesa della propria occasione per riuscire nuovamente a brillare – e a vendicarsi dell’ignobile cattura.

Ma il suo aspetto è la chiave della deliziosa ironia che lo rende così speciale.

Il volto del malefico pinguino è totalmente inespressivo, proprio perché manca degli elementi fondamentali per poterlo essere: occhi vitrei, nient’altro due punti neri sopra ad un becco abbozzato su cui non è possibile che appaia alcuna smorfia.

E questa sua inespressività si va a scontrare in maniera veramente geniale con il suo subdolo piano, che colpisce proprio al cuore dei suoi nemici, facendo leva sull’ingenuità di Groomit, permettendogli di deviare la personalità del Norbot senza che lo stesso se ne renda conto.

E da qui si sviluppa il punto di arrivo della riflessione della pellicola.

Personalità

i Norbot cattivi in una scena di Wallace & Gromit: Vengeance Most Fowl (2024) di Nick Park e Merlin Crossingham

Le creazioni sono specchio del loro creatore.

Non è un caso che i Norbot Malefici non siano apertamente cattivi: come ci si poteva aspettare un caos irrefrenabile alla Gremlins, al contrario, proprio come Feathers McGraw, la loro cattiveria si basa sullo sfruttare quello che l’ambiente gli concede, riuscendo a tramare nell’ombra…

…senza essere scoperto fino all’ultimo momento.

E, secondo lo stesso concetto, il Norbot nella sua forma originale vuole semplicemente e ingenuamente aiutare chiunque, anche a costo di risultare invadente e fuori luogo -proprio come il suo stesso creatore, Wallace, è nei confronti di Groomit.

Una riflessione apparentemente banale e già vista, ma che in realtà ben si inserisce all’interno di una consapevolezza piuttosto contemporanea di come le nuove tecnologie – particolarmente, l’intelligenza artificiale – non sappiano creare veramente niente da zero, ma definiscano il loro agire in base agli input che gli diamo.

Per questo il Norbot può essere il compagno fondamentale nella vita del duo protagonista, riuscendo infine – al pari di Wallace – ad apprezzare l’insostituibile individualità di Groomit, e agendo intorno alla stessa senza volerla scalzare.

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2024 Avventura Comico Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Musical Nuove Uscite Film Oscar 2025

Wicked – Il coraggio di essere un musical

Wicked (2024) di Jon M. Chu, più correttamente noto come Wicked: Parte I, è appunto la prima parte di una duologia tratta dall’omonimo musical.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 145 milioni di dollari – è già un successo commerciale: 455 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Wicked (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore attrice protagonista per Cynthia Erivo
Miglior attrice non protagonista per Ariana Grande
Miglior montaggio
Migliore colonna sonora originale
Miglior scenografia
Migliori costumi
Miglior trucco e acconciatura
Migliori effetti visivi
Miglior sonoro

Di cosa parla Wicked?

La malvagia Strega dell’Ovest è sempre stata malvagia? O la storia è più complessa di come Il mago di Oz (1938) ci volesse far credere?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wicked?

In generale, sì.

Per quanto abbia indubbiamente apprezzato Wicked, mi rendo conto che non sia un prodotto per tutti i palati: nonostante la parte musicale sia a mio parere gestita ottimamente, integrata in maniera molto naturale nella storia…

…al contempo rimane un musical che inciampa in piccole forzature ed ingenuità narrative, con una parte cantata fondamentale all’interno della narrazione stessa, che comunque è riuscita a incantare persino una non amante del genere come me.

Insomma, se fossi in voi gli darei una possibilità.

Fine?

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

L’inizio di Wicked è tanto più importante…

…proprio perché arriviamo alla fine.

Ricollegandosi direttamente al classico del 1938, l’attacco del film racconta la conclusione più classica della storia: la malvagia Strega dell’Ovest è stata uccisa e finalmente il regno può vivere in pace sotto le amorevoli cure della Strega dell’Est.

Ma, nonostante la gioia si diffonda in tutto il reame, nonostante la storia dominante si presenti con ben poche sfumature, una domanda dal pubblico diventa fondamentale per raccontare la vera storia dell’antagonista.

Ed è fondamentale avere già in mente il punto di arrivo sia per una dinamica molto classica del creare curiosità nella mente dello spettatore – che vuole ora scoprire come si è arrivati ad un finale tanto cruento…

…sia perché è necessario per il film giungere a conclusioni simili alla trama originale, ma con delle premesse ed un racconto ben diverso, che porti in scena le diverse sfumature di una storia altrimenti molto semplice e favolistica.

Ed è sempre su questi toni che si sviluppa anche il personaggio di Elphaba.

Mostro

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Elphaba è un mostro.

E non viene mai messo in dubbio.

La sua nascita avviene sotto il segno dell’inganno, da un tradimento ed un sorso di troppo, così che la bambina sia fin da subito posta ai margini, nascosta, continuamente maltrattata solamente per il suo aspetto – e per i pregiudizi che ne conseguono.

Un odio che ci accompagna fino all’arrivo all’università della sorella, in cui Ephalba si dimostra ben poco propensa a lasciarsi ulteriormente maltrattare, anticipando le battute che le verranno rivolte, e subendo irremovibile gli sguardi di disgusto dei presenti.

E proprio in questo frangente il film mostra le sue carte.

Da una parte, una certa debolezza narrativa: la scelta della protagonista come pupilla da parte Madame Morrible avviene davvero in un battito di ciglia, mentre poteva essere meglio costruita ed approfondita – nonostante le premesse ci fossero assolutamente tutte.

Dall’altra, un ottimo uso dell’elemento musicale: come poteva essere un patchwork di momenti musical, Wicked utilizza le canzoni per dare particolare enfasi ai pensieri e ai discorsi dei personaggi, tramite climax ben controllati che rendono più naturale il passaggio dal parlato al cantato.

In questo caso, Ephalba canta il suo sogno.

Ma non è l’unica ad averne uno…

Influenza

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda è figlia del suo tempo.

Un personaggio che potrebbe sembrare la classica Regina George, ma che in realtà fin da subito si dimostra il prodotto della cultura che l’ha cresciuta con l’idea di essere la migliore, la più bella e, soprattutto, la più meritevole…

…come viene confermato anche dagli altri personaggi che la circondano e che vivono di luce riflessa.

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Proprio su questa china Glinda continua a raccontarsi e riraccontarsi come personaggio di buon cuore, che concede alla sua compagna di stanza persino un angolino per vivere, e che per la sua bontà viene costantemente elevata…

…persino quando mette in mostra i suoi tratti apertamente manipolatori, particolarmente quando induce l’ingenuo Boq ad invitare Nessarose, la sorella di Glinda, alla festa segreta.

E la sua evoluzione si riflette molto bene anche nella sua controparte, Fiyero.

Risveglio

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda e Fiyero vivono un risveglio simile.

La presa di consapevolezza di entrambe queste figure di privilegiati, fino a quel momento ciechi davanti alla complessa realtà che li circonda, passa attraverso la visione di ingiustizie a cui, nonostante il loro passato, non riescono ad essere indifferenti.

Il percorso finora più completo è sicuramente quello di Glinda, che assiste ad una cattiveria che non può veramente sopportare, quando, in risposta alle ulteriori prese in giro dei suoi compagni, Ephelba improvvisa uno strano ballo in cui mette ancora più in mostra la sua stranezza.

Ariana Grande e Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E così unirsi a lei in questo momento è solo il primo passo per fare davvero qualcosa di altruista, e ha il suo apice nell’iconica Popular, – canzone che non cambia di fatto niente, se non aiutare la sua nuova amica ad essere un po’ più sicura di sé stessa e protetta dalle angherie altrui.

Ma non è un cambiamento del tutto positivo: rimane un’amarezza di fondo nell’assistere al cambio di passo degli altri personaggi solo per l’intervento benefico di Glinda nei confronti di Elphaba – la stessa, che fino ad un attimo prima era vittima di cattiverie del tutto gratuite…

Risveglio

Il cambiamento di Fiyero percorre invece altre strade.

Il ragazzo è fin da subito mostrato come l’alter ego di Glinda, forse pure più ingenuo nel bearsi della sua condizione, e anche di più nel non trovare alcun ribrezzo figura di Ephelba, ma anzi accettarla con amicizia e curiosità fin da subito.

La sua consapevolezza avviene davanti alla messa al bando del Dottor Dillamond e al cucciolo in gabbia portato a lezione, che Fiyero coglie la prima occasione per liberare, capendo, pur non avendo lo stesso background di Ephelba, di non poter accettare questa ingiustizia.

Ma la sua maturazione sta ancora muovendo i primi passi quando ci lasciamo alle spalle Shiz per avviarci verso la Città di Smeraldo, quando finalmente Glinda fa il primo passo indietro lasciando spazio a Ephelba per avere il suo meritato successo.

E a questo punto vale la pena di aprire una parentesi sulla trama politica.

Contorno

La trama politica di Wicked è quasi un contorno.

Per quanto sia fondamentale – e lo diventerà ancora di più probabilmente nella seconda parte – le viene concesso ben poco spazio, anzi è ridotta proprio agli elementi essenziali, svelando solo parte della macchinazione da parte del Mago di Oz.

Lo stesso Mago è raccontato fin da subito come un affabulatore, e neanche particolarmente scaltro, che, per dinamiche ancora tutte da chiarire – e che speriamo siano chiarire nella seconda parte – è riuscito a prendere posto a capo del regno, nonostante non abbia alcuna capacità magica.

E tornando proprio sull’argomento della debolezza narrativa, non si può dire che sia del tutto centrato il totale cambio di passo del Mago quanto di Madame Morrible, affrontato con fin troppa leggerezza, per quanto sia svelato nei suoi tratti essenziali.

E allora è il momento di ribellarsi.

Ribellione

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

La ribellione di Ephelba è il punto di arrivo naturale del suo personaggio.

Vivendo tutta la vita sotto l’egida della discriminazione e dell’isolamento sociale, le sta tanto più stretto il ruolo di simbolo di un sistema che vive dell’oppressione degli ultimi, che entrambi i villain avevano fin da subito preparato per lei.

Per questo la sua rivolta è tanto più importante in quanto racconta una riappropriazione di simboli più o meno imposti – il cappello, il mantello e, soprattutto, la pelle verde – tutti caricati di un valore negativo solo perché ormai propri della sua persona.

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E se Ephelba non vuole più far parte di un sistema che la ribalta a suo piacimento, Glinda ne rimane succube, anche se con una consapevolezza aggiuntiva: la futura Strega dell’Est, per quanto finalmente realizzi il suo sogno di essere effettivamente una figura importante del panorama politico di Oz…

… è anche internamente consapevole di essere nient’altro che una pedina scelta per convenienza a fronte del voltafaccia della sua amica, verso cui si rivolge con poche parole estremamente significative per la definizione del loro rapporto:

Spero tu sia felice.

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Coen Bros Comico Commedia romantica Film

Intolerable Cruelty – Il punto più basso?

Intolerable Cruelty (2003), noto in Italia col titolo terrificante di Prima ti sposo, poi ti rovino, è una commedia romantica diretta da Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piuttosto sostanzioso – 60 milioni di dollari – ha avuto un riscontro piuttosto modesto al botteghino: appena 120 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Intolerable Cruelty?

Miles Massey è un brillante avvocato matrimoniale che si trova a scontrarsi con un ostacolo inaspettato: una donna fascinosa, quanto pericolosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intolerable Cruelty?

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Per quanto Intolerable Cruelty sia da molti considerato uno dei punti più bassi della carriera dei Coen, e nonostante sia un lavoro in cui si trova molto poco della loro cinematografia, l’ho trovata nel complesso una commedia frizzante e piacevole.

Infatti con i suoi colpi di scena, i suoi interpreti comici irresistibili, fra cui un George Clooney in ottima forma, e quel pizzico di surreale sicuramente opera del duo registico, è risultato infine un prodotto che è riuscito ad intrattenermi ed a divertirmi.

Insomma, dategli una possibilità.

Paradosso

Intolerable Cruelty inizia con un paradosso.

La classica dinamica della scoperta del tradimento goffamente celato, prende una via del tutto inaspettata introducendo una violenza esagerata e grottesca, che sembra comunque dare del tutto ragione ad un irresistibile Geoffrey Rush.

Ma presto scopriamo che questo siparietto non serviva ad altro che ad introdurre il protagonista del film, Miles Massey, e la sua brillante capacità di prendere una storia e manipolarla fino a ribaltarla completamente a favore del suo cliente.

George Clooney in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Poi c’è l’altra faccia del mercato del matrimonio.

Una dinamica altrettanto grottesca porta in scena la spietata Marilyn Rexroth, una sottile macchinatrice che ben si inserisce all’interno del surreale club delle arrampicatrici sociali, che saltano avide di matrimonio in matrimonio.

Un quadretto tanto più deliziosamente ironico se si ascoltano i dialoghi originali, in cui i mariti vengono appellati come solitamente si parla dei figli:

She was divorcing from his third.

Stava divorziando dal suo terzo (marito).

E allora l’amore può avere un ruolo?

Specchio

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Marilyn e Miles sembrano destinati ad incontrarsi.

Due personaggi che possono essere ora nemici giurati, impegnati nel mettersi vicendevolmente i bastoni fra le ruote – l’una creando complessi inganni per arricchirsi, l’altro cercando di minare gli stessi a proprio vantaggio…

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

…ora perdutamente innamorati, non tanto per il loro naturale fascino, ma soprattutto per come si possono specchiare l’uno nelle azioni dell’altro, vittime di un’irresistibile chimica che li porta naturalmente ad attrarsi. 

Su questo fronte ho apprezzato che Intolerable Cruelty non abbia spinto troppo l’acceleratore sull’idea di un amore risolutivo, che avrebbe esorcizzato ogni tipo di negatività dei personaggi in funzione dell’happy ending.

Infatti, la via per il lieto fine è piena di insidie.

Trappola

George Clooney e Catherine Zeta-Jones in una scena di Intolerable Cruelty (2003) di Joel e Ethan Coen

Uno degli aspetti che ho più apprezzato di Intolerable Cruelty è la costruzione dell’inganno di Marilyn.

Infatti noi come Miles veniamo facilmente portati a pensare di aver perfettamente compreso le vere intenzioni del personaggio, nel suo indurre il futuro marito – o, meglio, la sua prossima preda – a fidarsi totalmente di lei.

Al contrario, dopo un’abile costruzione che fa leva proprio sui recenti timori di Miles di essere destinato ad una vita infelice dedita esclusivamente al suo lavoro, lo stesso cade nella trappola di Marilyn, che finge di fidarsi totalmente suo nuovo marito.

E invece basta poco a Miles per scoprirsi la vera vittima del piano della sua amata, per trovarsi senza più casa e moglie in un colpo solo, e, con un nuovo abile colpo di scena, diventare finalmente parte di una coppia paritaria…

…che infine non ha più nessuno ostacolo davanti a sé.

Neanche l’impenetrabile Massey prenup.

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Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

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Il grande Lebowski – Il piccolo Drugo

Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen fu la pellicola che segnò definitivamente il successo di questo talentuoso duo di registi.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 15 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale47 milioni in tutto il mondo – diventando nel tempo un grandissimo cult.

Di cosa parla Il grande Lebowski?

Jeffrey Lebowski, detto il Drugo, è un annoiato nullafacente che vive la sua vita alla giornata. Ma una curiosa omonimia sarà l’inizio di una grande avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il grande Lebowski?

Jeff Bridges e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Assolutamente sì.

Il grande Lebowski fu solo la naturale continuazione di Fargo (1996), volendo ancora raccontare, con imprevedibili toni comici e surreali, una parentesi di irresistibile di violenza e criminalità all’interno di una vita quietamente soddisfacente…

…arricchendo la scena con una folla di personaggi sempre più improbabili e indimenticabili, in una storia a scatole cinesi di cui è anche difficile tenere il passo – ma proprio qui sta anche la bellezza del film.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Shock

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo vive la vita più serena che si possa immaginare.

Una seducente voce fuori campo ci introduce ad un panorama che sulla carta sembra quasi proprio di un western, con protagonista un eroe leggendario e imperscrutabile, che invece si rivela un adorabile fannullone, così pigro da pagare persino pochi centesimi di spesa con un assegno.

Pochi tocchi di colore che, come già dimostrato nel precedente Fargo, bastano per rendere poliedrico e iconico il protagonista, che seguiamo nella sua disimpegnata routine, senza un pensiero al mondo…

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

…che viene improvvisamente interrotta dalla prima delle numerose incursioni, in cui vengono affibbiati al nostro protagonista delle caratteristiche via via sempre meno credibili: se all’inizio possiamo credere che sia in debito con personaggi poco raccomandabili…

…molto meno verosimile che il Drugo abbia una moglie a carico – come lui ci tiene particolarmente a sottolineare – fra l’altro riducendo a non perdere la sua irresistibile vena ironica neanche mentre gli affondano la testa nel water:

Where’s the money, Lebowski? Where’s the fucking money, shithead?
(Drugo) It’s uh… uh… it’s down there somewhere, let me take another look.

Dove sono i soldi, Lebowski? Dove cazzo sono i soldi stronzo?
Sono…em…qua dentro da qualche parte, fammi dare un’altra occhiata.

Ma le preoccupazioni del Drugo sono molto limitate.

Tappeto

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Lebowski ha una sola preoccupazione.

Il suo tappeto rovinato.

Niente più che un fastidio che il protagonista inizialmente non vuole neanche affrontare, ma che infine si decide a risolvere incoraggiato da suoi altrettanto strambi amici, in particolare Walter, che non ha mai abbandonato il campo di battaglia – e così il suo senso di giustizia.

Così, con la visita al grande Lebowski, il Drugo si immerge in un universo di apparenze, in cui le presunte prove della bontà del miliardario – il suo impegno sociale e le sue amicizie politiche – vengono insistentemente sottolineate dall’ingenuo assistente del miliardario, Brandt.

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Ma, nonostante le sue grandi conquiste caritatevoli, il magnate risponde con grande insofferenza alle richieste del Drugo, convinto che sia solo l’ennesimo personaggio che cerca di immergere le mani nel suo importante portafoglio.

Ma se Drugo è un uomo dalle vedute ristrette, nondimeno si dimostra piuttosto abile nell’ottenere quello che vuole senza particolare sforzo: fare leva sulla genuina bontà del segretario e sulla sua assoluta convinzione della bontà del suo superiore…

…per portarsi a casa un tappeto pure più bello.

Ma i problemi sono appena iniziati.

Occasione

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Con Il grande Lebowski i fratelli Coen si prendono apertamente gioco di un topos narrativo piuttosto tipico.

Ovvero, la storia di un improbabile eroe.

In prima battuta sembra infatti che il Drugo sia riuscito senza sforzo a tornare alla sua vita di totale indifferenza, nonostante i diversi disturbi esterni che cercano insistentemente di ottenere la sua attenzione tramite la segreteria telefonica.

Jeff Bridges, Steve Buscemi e John Goodman in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

E così il suo godersi appieno il suo nuovo tappeto viene ancora una volta improvvisamente disturbato da una nuova intrusione, da un nuovo giocatore in questa sciocca prova di potere, che però inizialmente non viene rivelato.

Infatti la nostra attenzione – e quella del Drugo – viene immediatamente distolta dal ritorno in scena del vero Lebowski, che introduce il grande mistero della pellicola: il rapimento della seducente Bunny, la moglie trofeo.

E il suo quieto vivere ne è sempre più turbato…

Fuga

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è sempre più immerso in una storia da cui vorrebbe solo fuggire.

Con momenti di irresistibile ironia – come il cercapersone a cui il protagonista non può rispondere durante il torneo di bowling – si articola così il complesso scambio della valigetta, ancora più complicato dall’intrusione di Walter, che vorrebbe approfittarsi della situazione.

E il Drugo ne paga tutte le conseguenze.

Perdendo sia la valigetta sia la macchina, il protagonista si trova intrappolato in una rete di bugie ed intrighi da cui non riesce a districarsi, aggravato anche dall’intervento di un nuovo personaggio, Maude, la figlia di Lebowski, che conferma i sospetti sul finto rapimento.

Il mistero si infittisce con il coinvolgimento del giovane Larry Sellers, apparentemente autore del furto, il primo momento della grottesca ironia già sperimentata in Fargo, che spoglia il racconto di ogni vena drammatica, mettendo ancora più in luce l’improbabilità dei personaggi coinvolti.

Ma esiste una via d’uscita?

Bandolo

Jeff Bridges in una scena di Il grande Lebowski (1998) di Joel ed Ethan Coen

Il Drugo è molto meno stupido di quanto si potrebbe credere.

Raccogliendo indirettamente gli indizi che gli arrivano quasi casualmente, il protagonista riesce a comporre più chiaramente il quadro della situazione, confermata dal ritorno di Bunny, che smaschera tutte le presunte vittime e criminali in scena. 

Ma l’elemento interessante, di totale disillusione del film, è che non vi è nessuna conseguenza per il grande Lebowski, se non l’essere definitivamente umiliato dalla paranoia di Walter, che pensa che tutto sia un inganno, persino la disabilità del finto miliardario.

Ancora più ridicolo è infine il confronto con i presunti rapitori, che decidono comunque, proprio per principio, di derubare i protagonisti, diventando autori dell’unica nota veramente amara della pellicola: la morte di Donny.

E così ancora una volta il film si conclude con una nota agrodolce, in cui il protagonista non è cambiato per nulla, ma la sua maggiore preoccupazione è ancora il prossimo torneo di bowling…

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Fargo – Una parentesi criminale

Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen è stato il primo dei grandi successi di questo talentuoso duo di registi statunitensi.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 7 milioni di dollari, circa 14 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 60 milioni di dollari in tutto il mondo – circa 120 oggi.

Di cosa parla Fargo?

Jerry è un mediocre impiegato in una concessionaria, che farebbe di tutto per cambiare la sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fargo?

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Assolutamente sì.

Fargo è stato amore a prima vista: già da questa splendida pellicola i fratelli Coen seppero distinguersi per una scrittura davvero attenta e puntuale, capace di portare in scena con pochi tratti personaggi poliedrici e incredibilmente reali.

Una storia che riesce ottimamente ad unire un lato più amaro ad una verve più strettamente ironica, fra la commedia più leggera e il puro humor nero, al limite del surreale – incontro che definirà gran parte della loro produzione successiva.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Mediocre

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

In Fargo entriamo nella vicenda quasi in medias res.

Jerry ha già da tempo meditato una sorta di riscatto segreto per ottenere con l’inganno i soldi che gli servono per il suo progetto altrimenti impossibile, utilizzando la sua sfortunata moglie come merce di scambio per pescare a piene mani nel portafoglio del suocero.

Ma già dal primo scambio con i due rapitori capiamo quando il protagonista sia vittima della sua stessa mediocrità, del suo farsi sempre mettere i piedi in testa e così non riuscire mai ad emergere dalla sua condizione di grigio impiegato, nonostante si creda invece un grande stratega.

William H. Macy in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Quindi un potenziale personaggio da compatire che viene sempre più tratteggiato come inetto e pure meschino, soprattutto quando ci viene finalmente mostrato il panorama familiare: una moglie piacevole e accogliente, che non merita un marito del genere…

…e un patriarca sicuramente arcigno e pungente, ma che alla lunga diventa anche comprensibile nel suo non voler investire il suo patrimonio in un personaggio poco affidabile come il suo genero – come verrà poi ribadito nell’amaro incontro con gli altri investitori.

William H. Macy e Kristin Rudrüd in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Così l’incapacità di Jerry di metterci la faccia è tanto più evidente in un parallelismo sottile ma fondamentale nella scena della concessionaria: davanti ad un cliente insoddisfatto, il protagonista è incapace di far valere la sua posizione, e agisce tramite sotterfugi e mezzucci.

E non potrebbe mettersi in mani più sbagliate per il suo progetto…

Improvvisazione

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Carl e Gaear si inseriscono perfettamente nel concetto di decostruzione del fascino criminale.

Fargo uscì infatti nel periodo di tramonto del fascino dei serial killer statunitensi, che avevano imperversato la cronaca nera fra gli Anni Settanta e Ottanta, spesso diventando protagonisti di culti e ammirazioni fuori controllo per l’avventatezza del loro crimini.

Al contrario, i fratelli Coen raccontano questi personaggi proprio come due criminalucci da strada, che ricercano una conferma del loro status – particolarmente Carl – in un atteggiamento di particolare superiorità e supponenza, nonché tramite le più squallide compagnie femminili.

Steve Buscemi in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

E proprio loro diventano vettori della violenza spropositata e fuori controllo che trasformerà un semplice rapimento fittizio in una passerella di morte imprevedibile e incontrollabile, alimentata da una serie di fraintendimenti e sfortune.

E proprio qui si inserisce la riflessione del più importante personaggio della storia: Marge.

Alternativa

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Marge è una protagonista piuttosto particolare.

Il suo personaggio è quello che meglio incarna lo spirito di Fargo: un racconto reale e umano, che riesce in poche pennellate ben pensate a tratteggiare perfettamente i personaggi in scena, in cui un semplice risveglio all’alba e le premure del marito, Norm, ci raccontano un matrimonio felice quanto ordinario.

E tutta l’indagine riguardo all’assurda scia di omicidi è quasi una parentesi all’interno di una vita molto semplice ma comunque soddisfacente, in cui la maggior preoccupazione è la vittoria di Norm per la sua opera d’arte, inframmezzata dai discorsi più seri riguardo invece ai killer allo sbaraglio.

Frances McDormand in una scena di Fargo (1996) di Joel e Ethan Coen

Infatti l’atteggiamento di Marge, nonostante l’avventatezza degli eventi di cui diventa testimone, è sempre sereno e solare, quasi dovesse interfacciarsi con una vicenda del tutto ordinaria, quasi ridicola – e comunque molto meno interessante di quanto gli stessi protagonisti vorrebbero farla passare.

Per questo la sua amarezza è così profonda davanti ad un crimine dettato esclusivamente dal desiderio di guadagno, di una riaffermazione del sé arrogante e destinata alla totale distruzione, con un contrasto molto sentito fra le drammatiche vicende innescate da Jerry…

…e il più semplice, quanto soddisfacente, quadretto familiare che si ricompone nel finale.

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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Candidature Oscar 2025 per Il robot selvaggio (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior colonna sonora originale
Miglior film d’animazione
Miglior colonna sonora originale

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.