Babylon (2022) è l’ultima pellicola di Damien Chazelle, regista che ha avuto il suo picco di popolarità con La la land (2016), ma che ha già dimostrato di poter spaziare in diversi generi.
Anche in questo caso.
Il film si sta purtroppo rivelando un flop commerciale: a fronte di un budget di 75 milioni di dollari, finora ne ha incassati solo 15…
All’interno del cinema della fine degli Anni Venti, sulla soglia della sua più grande rivoluzione, si intrecciano le storie di diversi personaggi.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Babylon?
Assolutamente sì.
Nonostante la pellicola sia stata seppellita dalla critica statunitense – anzi, forse proprio per questo motivo – Babylon è arte pura, un racconto del profondo amore di Chazelle per la Settima Arte.
Pur con una durata veramente importante, è un film che racchiude l’apice della capacità artistica di questo regista, con degli interpreti straordinari, in particolare una Margot Robbie al massimo della forma.
Consiglio a latere: se non avete mai visto Singing in the rain (1952), vi consiglio caldamente di recuperarvelo prima della visione.
Un cinema vero
Un grande pregio di Babylon è il riuscire a raccontare, fra il drammatico e il grottesco, cosa significava – e cosa significa – girare un film.
Un cinema disordinato, caotico, genuinamente pericoloso, dove soprattutto le più umili maestranze e comparse venivano facilmente sacrificate – anche letteralmente. Un cinema più complesso, in cui si girava tutto con la luce naturale, con mezzi quasi casalinghi.
E il passaggio al cinema degli studiosnon rese le cose più semplici…
Con risultati fra il comico e il grottesco.
Jack Conrad
La morte del divo
Jack Conrad è la figura più drammatica fra i protagonisti.
Inizialmente lo vediamo come il divo intoccabile, che si muove in una consolidata rete di conoscenze e favori, la quale, insieme alla sua furbizia, gli permette di avere successo. Tuttavia da metà film la sua stella comincia lentamente a calare, in maniera inizialmente quasi impercettibile.
Ma inevitabile.
Segue fondamentalmente lo stesso arco del protagonista di The Artist(2011), ma con un esito molto più drammatico.
Ma proprio intorno a lui si sviluppa il principale concetto della pellicola: essere parte di un cinema che rimarrà, anche se ora sembra spacciato. Ma, alla fine, la pesantezza di questa conclusione, la sensazione di non avere più posto nel mondo che dava tutto il senso alla sua esistenza, costringe Jack ad uscire di scena.
Nellie LaRoy
Un minuto di fama
Nellie racconta in maniera molto disincantata la difficoltà di sfondare ad Hollywood, su come sia tutto basato su raccomandazioni e colpi di fortuna.
Del tutto casualmente infatti Nellie riesce a mostrare il suo talento nella recitazione – la classica situazione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E Margot Robbie regge perfettamente la parte, riuscendo con grande abilità ad entrare e uscire dal personaggio in scena.
Ma la fama improvvisa, come prevedibile, svanisce nel giro di pochi anni.
Perché, come tante dive prima di lei, Nellie è schiava dei vizi e dell’eccesso, e, quando arriva il momento, non riesce in alcun modo a riabilitare la sua immagine davanti alla buona società.
Così in qualche modo non riesce mai ad uscire dal suo personaggio, lo stesso che l’aveva portata alla gloria.
E infine viene inghiottita dal buio della scena.
James Mckay
La discesa nell’inferno
Prima di parlare del vero protagonista del film, voglio fare una menzione d’onorea Tobey Maguire.
Lontano dalle scene per tanto tempo e tornato solo recentemente per Spiderman – No way home (2021), in Babylon dimostra che qualcosa è cambiato. Sarà perché nelle abili mani di Chazelle, l’attore è riuscito a portare un personaggio che funziona perfettamente fra l’orrore e il grottesco.
La sua sequenza è un’effettiva discesa negli inferi, definita da lugubri tinte rossastre, in cui Mckay ci accompagna, ci trascina attraverso questa tenebra paurosa. Un paesaggio pieno di mostri, violenza e erotismo.
La versione orrorifica della sequenza iniziale della festa.
Manny Torres
Il cinema che rimane
Manny Torres rappresenta perfettamente il modello del self-made man.
Partendo dal nulla, ricoperto da sterco di elefante, riesce, sempre grazie all’ultimo capriccio del divo, a farsi prepotentemente strada nel mondo dello show business. Ma il suo vero obbiettivo è quello di salvare Nellie, il suo oggetto del desiderio.
Da questo punto di vista è davvero interessante il racconto di come si costruisce – e ricostruisce – l’immagine pubblica di un attore.
Ma Nellie è insalvabile.
E alla fine Manny sceglie di scappare e salvare sé stesso, tornando ad Hollywood solamente molti anni dopo, quando il cinema è profondamente cambiato.
Regalandoci una scena di incredibile potenza visiva.
Raccontare il cinema
Se non si ha una conoscenza almeno basilare della storia del cinema – anche legittimamente – si potrebbe non comprendere fino in fondo la potenza della sequenza finale.
In generale, Babylon è un enorme omaggio a Singing in the rain (1952), che è proprio il film che Manny va a vedere in sala. In quel momento si rende conto di quanto, nonostante la fine drammatica degli altri personaggi, le loro storie abbiano contribuito a scrivere e costruire la storia del Cinema.
E da lì parte una lunga sequenza in cui sì va avanti e indietro nel mostrare tutto quello che il Cinema ci ha regalato – da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) a Un chien andalou (1929), fino ad arrivare ad Avatar (2009).
Fino a distruggere l’immagine in semplici colori primari che si susseguono.
Con il finale che racconta la sua commossa consapevolezza.
White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.
Non è stato così.
Di cosa parla White noise?
Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere White noise?
Probabilmente no.
Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.
Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…
Aprire bellissime porte…
Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.
Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.
Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...
…qualcosa che non è mai arrivato.
…e aprirne altre ancora
Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.
Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…
E basta.
Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.
Qual è il punto?
Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.
Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.
Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.
E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:
What’s the point I want to make?
Anderson, sei tu?
Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.
In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.
E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…
Glass onion – A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson è il sequel di quel piccolo successo che fu al tempo Knives out(2019). Un riscontro di pubblico tale, per una produzione comunque non particolarmente impegnativa, da far acquisire i diritti a Netflix e ordinare due sequel.
Un prodotto che mi ha colpito così tanto tanto da vederlo due volte di fila senza annoiarmi neanche un minuto.
Tuttavia, vanno fatte delle giuste premesse.
Candidature Oscar 2023 per Glass onion (2022)
(in nero i premi vinti)
Migliore sceneggiatura non originale
Di cosa parla Glass onion?
Il detective Blanc viene coinvolto in un nuovo mistero, con al centro un eccentrico miliardario, che però non è ancora morto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Glass onion?
Per me, assolutamente sì.
Tuttavia, ci sono diverse mani da mettere avanti.
Anzitutto, ovviamente, se non vi è piaciuto Knives out, non guardate il sequel: non aspettatevi niente di diverso. Oltre a questo, Glass onion gioca ancora di più in maniera sperimentale con il genere whodunit, sostanzialmente snaturandolo. Per questo, se invece cercate le classiche dinamiche del genere, non è il film che fa per voi.
Invece se, come me, non siete particolarmente appassionati dei racconti di genere giallo, sopratutto nelle sue dinamiche che, pur indubbiamente vincenti, risultano ridondanti alla lunga per i non appassionati, potrebbe piacervi. E anche molto.
L’importante è partire con il giusto mindset.
Mantenere la ricetta…
Glass onion gode di una grande furbizia di scrittura.
Rian Johnson si è trovato davanti all’impresa di dover portare un sequel ad un film autoconclusivo, non snaturando l’opera originale e creando un prodotto che fosse altrettanto avvincente per il pubblico che aveva apprezzato il primo film.
E così ha scelto di utilizzare uno scheletro narrativo piuttosto simile, ma esplorandolo in direzioni diverse e cambiando radicalmente la caratterizzazione di alcuni personaggi, che pure hanno un ruolo molto simile rispetto al primo capitolo.
Ed è stata una strada vincente, con risultati inaspettati.
…per uscire dal genere
Sopratutto alla seconda visione, mi sono resa conto di quanto la pellicola esca dai canoni del giallo whodunit.
Infatti, se il primo film complessivamente si poteva considerare un giallo classico, che poteva però infastidire gli appassionati per la profonda ironia e la mancanza di volontà di rimanere nel seminato, in questo caso possiamo felicemente parlare di un’uscita dal genere di riferimento.
Non ci sono colpi di scena che rivelano il vero colpevole, tutti gli indizi sono mostrati allo spettatore, e, nonostante in qualche misura sembri seguire le strade più classiche, sul finale rivela tutto il contrario.
In particolare tramite il gioco metanarrativo della glass onion.
Glass onion: un gioco metanarrativo
Come per il primo Knives out, Glass onion è un film assolutamente democratico.
Infatti tutti gli indizi necessari per risolvere il mistero sono già in scena, e sono tanto più evidenti tanto più si entra nella logica metanarrativa della glass onion.
La pellicola gioca ampiamente con lo spettatore e con le sue aspettative: io stessa per tutta la durata mi aspettavo un grande colpo di scena finale che rivelasse chissà quali misteri. E invece, per ammissione dello stesso Blanc, il mistero è tanto semplice quanto stupido.
E infatti la questione si risolve su più livelli, per cui sia il mistero che Miles sono come una cipolla di vetro: apparentemente complessa e stratificata, in realtà evidente e sotto gli occhi di tutti. Lo stesso miliardario basa la sua identità su una serie di stratificazioni ingannevoli e fragili, mentre la sua vera natura è palese e insignificante.
Il simbolismo di Mona Lisa
Dal versante totalmente opposto, troviamo il personaggio di Helen, che viene più volte associato alla figura di Monna Lisa.
Infatti sia il suo personaggio che la misteriosa donna di Leonardo condividono una personalità e uno sguardo tanto più enigmatico e intrigante, e così anche per la sorella gemella: difficili da leggere e da comprendere. E ben più sottili e interessanti di quanto appaia all’esterno.
E infatti il dipinto di Mona Lisa è una sorta di simbolo di quello che Miles vorrebbe essere, e dell’immagine che cerca di costruirsi per diventare altrettanto intrigante e enigmatico. Ma, appunto, come la stessa glass onion rivela, non è nulla di tutto questo.
Un finale migliore
In prima battuta il finale mi aveva deluso.
Poi, ho capito di essere caduta nella mia stessa trappola: considerare questa pellicola per quello che non era, e aspettarmi delle dinamiche che non sono nella sua natura. E infatti, come molti altri come me, mi aspettavo un grande colpo di scena finale o una rivalsa più classica in cui il villain veniva incastrato.
E invece non è così, ma è meglio così.
Infatti, se ci si ragiona un attimo, Helen non avrebbe avuto nessun vantaggio ad incastrare Miles a livello legale: con le sue connessioni e con l’omertà diffusa, il miliardario se la sarebbe comunque cavata. Invece, riuscire a distruggere il suo impero dalle fondamenta, rivelarne tutta la sua fragilità, è la mossa perfetta per mettere davvero in scena una vendetta vincente.
Ancora attuali
Anche più della scorsa pellicola, Glass onion riesce ad essere incredibilmente attuale.
Già l’idea di ambientarlo nel 2020 era intrigante, ma lo è stata tanto più in quanto non ci si è fossilizzati su questo elemento, che poteva già apparire datato. Al contrario, si dedica ampio spazio al discorso della cosiddetta woke culture e in generale degli scandali nati su internet.
Per fortuna il discorso non è banalizzato per nulla, anzi si mostra, senza raccontarlo esplicitamente, di come personaggi stupidi e fondamentalmente negativi giustifichino il loro comportamento sbagliato con quello che noi chiameremmo il politicamente corretto.
Un argomento tanto attuale, quanto raccontato in maniera interessante e quasi grottesca.
La delicatezza
Il cameo di Hugh Grant merita un discorso a parte.
L’attore appare all’improvviso nella seconda parte della pellicola, e ci rivela un elemento del tutto inaspettato, ma raccontato con una tale delicatezza che non ho potuto smettere di pensarci. Nonostante Blanc non sia una macchietta né uno stereotipo – anzi non lo diresti mai – è in una relazione con un uomo.
Molti dovrebbero prendere spunto da come è stato introdotto questo elemento nella pellicola, senza feticizzarlo, senza drammatizzarlo, ma rendendolo un elemento assolutamente organico nella trama.
Tanto più che la rappresentazione di coppie omosessuali di uomini adulti più avanti con gli anni è quasi totalmente assente nel cinema contemporaneo…
Sherlock sei tu?
Con la preziosa collaborazione di Irene
All’interno della pellicola, non mancano i riferimenti a Sherlock Holmes.
Anzitutto nella scena del bagno in cui Blanc sta giocando ad Among us con i suoi colleghi, fa un discorso che riprende molto le mosse di Sherlock: come il famoso detective, il protagonista afferma di aver bisogno di casi interessanti per combattere la noia.
Questo elemento è presente sia nell’opera originale, sia nelle trasposizioni: nel romanzo per combattere la noia fa utilizzo di eroina, nella serie tv Sherlock utilizza i cerotti di nicotina.
Così anche nella stessa scena, nella vasca da bagno regna il disordine più totale: così al 221B Baker Street, nei romanzi come nei prodotti derivati, l’ambiente è dominato dal caos.
Più in generale, il personaggio di Blanc sembra un interessante incontro fra le versioni televisive e cinematografiche Poirot quanto di Sherlock.
Per le modalità dello svelamento del mistero e sopratutto la rivelazione del finto omicidio di Miles ricorda in particolare lo Sherlock di Benedict Cumberbatch nella serie omonima, che desidera svelare immediatamente le sue deduzioni, quasi per vanità…
Le vicende parallele di Louis, un ricco imprenditore, e di Billy, un senzatetto, si intrecciano in maniera assolutamente inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Una poltrona per due?
Assolutamente sì.
Una pellicola piacevole e ottimamente costruita insieme: la struttura narrativa è perfetta, la caratterizzazione dei personaggi e la loro evoluzione ottimamente ideata, oltre ad essere genuinamente divertente anche alla millesima visione.
Un cult che merita di essere tale.
E che non potete assolutamente perdervi.
L’introduzione, anche con poco
Il primo atto del film è tutto dedicato all’introduzione dei personaggi e del loro contrasto.
Lo stesso è annunciato già dalle primissime scene, in cui riprese della strada della città e delle realtà più povere corrono parallele alle inquadrature della vita agiata di Louis.
Fin da subito la pellicola ci racconta come Louis sia troppo sicuro della sua posizione: nato e cresciuto nella bambagia, trattato da tutti coi guanti, si sente all’interno di una roccaforte. Elemento fra l’altro ben raccontato dall’apice della sua introduzione, la parte della cena con Penelope, in cui dice al maggiordomo Coleman:
I have all I want.
L’introduzione di Billy Ray è più breve, ma altrettanto efficace.
Viene subito inquadrato come un senzatetto che vive di espedienti, fingendosi un invalido di guerra e pure cieco, portando alla divertentissima gag con i due poliziotti, quando finge di aver recuperato miracolosamente la vista.
Da lì il suo personaggio si scontra per la prima volta con la sua controparte, arrivando a definire il primo punto di contrasto: la parola di Louis, nonostante si sia trattato di un malinteso, viene immediatamente creduta, mentre Billy Ray viene sbattuto in galera, dopo una mirabolante fuga.
Il suo personaggio viene infine definito dalla scena della prigione, in cui si dimostra ancora una volta come uno che cerca sempre di fregare gli altri, millantando imprese mai compiute.
Bonus
Nella scena della prigione, il ragazzo appoggiato alle sbarre è niente di meno che Giancarlo Esposito, il futuro interprete dell’iconico Gus Fring in Breaking bad!
Una coincidenza interessante vedere un attore ancora sconosciuto, che avrà la sua gloria a quasi trent’anni di distanza, e Eddie Murphy, interprete che stava per raggiungere il successo con la sua parte nel buddy movie cult 48 ore (1982).
Il piano si mette in moto
Parallelamente all’introduzione dei protagonisti, conosciamo anche i due antagonisti, i famigerati Duke Brothers.
E li conosciamo soprattutto per due caratteristiche: l’avarizia e le macchinazioni. Fin dalle prime scene cominciano a portare le idee per il loro terrificante piano, basato semplicemente sulla noia e il desiderio di sperimentare con la vita degli altri.
Per tutto il tempo fra l’altro vivranno del loro antagonismo, sia per la scommessa, sia per i loro caratteri opposti, ben definiti dalla scena della macchina in cui bisticciano su quali offerte fare in Borsa.
E così i due cominciano a muovere le pedine in gioco, e ad innescare la parte centrale, con i suoi due archi narrativi opposti: uno costruttivo e uno distruttivo.
Louis: l’arco distruttivo
La distruzione del personaggio di Louis è definita dalla sua perdita di identità.
E la stessa passa attraverso la perdita dei vestiti.
Anzitutto Louis viene incastrato per i due crimini più umilianti (ma comunque molto credibili) per una persona del suo livello: il furto e il possesso di droga – due crimini di strada. E, fin da subito, soprattutto al commissariato, cerca di ribadire l’importanza della sua persona.
Ma è tutto inutile.
E qui comincia la prima perdita effettiva di identità, tramite la perdita dei vestiti, che gli vengono sottratti, e mai più ridati. E si vede subito dal contrasto con la fidanzata, Penelope, quando va a recuperarlo al commissariato: lei perfettamente curata, lui assolutamente impresentabile, come da lei stessa sottolineato.
Subito dopo, cerca ancora in due occasioni di ribadire la sua identità: prima cercando di rientrare in casa, poi andando in banca, dove le sue carte di credito vengono sequestrate e la sua identità totalmente distrutta.
Il suo primo picco è raggiunto quando, dovendo pregare Ophelia di portarlo con lui, si mette in ginocchio, con un parallelismo incredibilmente vincente con la scena in cui Billy Ray si fingeva un invalido. E fra l’altro perdendo tutta la sua statura, abbassandosi al livello (e sotto) di una persona che fino al giorno prima avrebbe disprezzato.
Il tentativo di ritorno
In seconda battuta Louis tenta di recuperare la sua identità, che ormai gli è stata totalmente sottratta.
E lo fa cercando di riassumere gli abiti che lo definivano, ma è impossibile: quella cravatta, quella camicia e quella giacca così stravagante stonano moltissimo davanti all’abbigliamento ben più sobrio dei suoi amici del club. E infatti per questo ancora una volta viene respinto.
L’ultimo atto della sua distruzione è il banco dei pegni: Louis cerca di ottenere anche un certo tipo di riconoscimento, di cui era tanto sicuro, tramite lo speciale orologio da polso, che però viene totalmente svalutato.
E ancora perde un altro pezzo di sé.
Caduta libera
L’ultimo atto della sua distruzione è la cena di Natale.
Il preludio è rappresentato da un momento di drammatica consapevolezza di Louis, che si trova davanti all’immagine di Billy che ha ormai preso il suo posto. Mentre lui è fuori, totalmente emarginato da quello che un tempo era tutto il suo mondo.
Ma il trigger è l’articolo di giornale dove vede che Billy Ray ha definitivamente preso il suo posto anche agli occhi del pubblico.
E in quel momento Louis perde per certi versi la sua natura umana, e diventa quasi un essere bestiale. Così cambia del tutto abiti, diventando in tutto e per tutto un barbone, che fa ribrezzo nei modi e nell’aspetto.
E a quel punto, la mossa disperata: cercare di incastrare Billy Ray, facendo leva su un’improbabile autorità che non possiede più. Ma, una volta trovatosi davanti alla sconfitta, scappa come era stato per la sua controparte prima di lui.
Infine quando Billy cerca di raggiungerlo per innescare il terzo e conclusivo atto del film, lui gli risponde con un verso animalesco: Louis non è più Louis. E diventa totalmente un emarginato, schifato e allontanato da tutti, mentre è sull’autobus nella sua forma peggiore…
E il picco definitivo è la sua quasi morte.
Billy Ray – L’arco costruttivo
L’arco di Billy segue la china totalmente opposta: una ricostruzione dell’identità.
Come le due scene dedicate dell’introduzione ci hanno ben raccontato, Billy è un personaggio furbo – o che crede di esserlo – che racconta storie clamorose su imprese mai compiute per avere una sorta di riconoscimento sociale.
E infatti, dopo una prima fase di assestamento, Billy decide di spendere la sua nuova posizione – e i suoi nuovi soldi – per rivalersi su quelli che l’avevano sbeffeggiato, inaugurando la sua nuova casa con un festivo che prende strade inaspettate.
E qui avviene la sua epifania.
Una lenta, ma significativa presa di coscienza che colpisce il personaggio mentre vede diverse persone che non rispettano in alcun modo le proprietà degli altri. E forse in quelle stesse vede lo specchio del suo comportamento fino al giorno prima.
E a quel punto capisce che non vuole essere più quella persona.
La brillantezza sopita
Il secondo passo della sua evoluzione è l’entrata alla Duke & Duke: anche incoraggiato giocosamente da Randolph, dimostra che, nonostante sia un senzatetto probabilmente senza alcun tipo di istruzione, riesce ad indovinare le previsioni sull’andamento di borsa.
E questo perché, a differenza dei Duke Brothers, ha un polso più chiaro della situazione della vita reale del consumatore comune, che era lui stesso fino a poco tempo prima.
Ovviamente si tratta di un racconto molto fantasioso, ma che funziona perfettamente nel contesto della pellicola, che ovviamente richiede un’importante sospensione dell’incredulità.
Cambiare faccia
Il picco della sua evoluzione corrisponde a quello di Louis, ovvero il primo momento in cui si scontrano direttamente.
E le parti si scambiano definitivamente, non solo perché Billy Ray diventa la persona con autorità e credibilità, ma soprattutto perché Billy si comporta nello stesso modo di Louis all’inizio del film, disprezzando quel tipo di persona che era lui stesso poco tempo prima.
E infatti il suo comportamento rappresenta la chiusura della scommessa.
Il piano risolutivo?
La bellezza di Una poltrona per due è che il terzo atto, che rappresenta lo scioglimento della vicenda, è una storia a parte.
Finalmente tutti i pezzi si mettono insieme: Billy, Louis e Ophelia uniscono le loro conoscenze e capiscono il piano dei Duke Brothers, riuscendo a intesserne uno loro parallelo per togliergli la ricchezza dalle mani.
E riescono effettivamente a batterli perché i due fratelli sono sempre troppo sicuri della loro posizione.
Così mettono insieme quella che è in tutto e per tutto una carnevalata, all’interno di una cornice narrativa che gioca proprio di maschere e finte maschere: chi si traveste per Capodanno, chi finge di essere travestito, chi rimane per sempre con un’altra identità.
E qui va fatto un discorso a parte.
Giocare con gli stereotipi in Una poltrona per due
Visto con gli occhi di oggi, e sopratutto decontestualizzando questo elemento, sembrerebbe che in Una poltrona per dueDan Aykroyd abbia fatto una black face.
Invece tutta la scelta di queste maschere ha un preciso significato, che si può cogliere solo ragionando sul periodo storico e sul racconto del razzismo all’interno del film.
Per tutta la pellicola vediamo infatti un razzismo sotterraneoma onnipresente, associato principalmente ai Duke Brothers.
Billy Ray viene costantemente discriminato dai personaggi, ma non dalla pellicola stessa: considerando il periodo in cui è stato prodotto, è un personaggio del tutto scevro dagli stereotipi, che anzi lascia spazio alla creatività interpretativa di Eddie Murphy.
Proprio per questo, in questa sequenza il regista calca invece la mano nella direzione opposta, e inserisce una sconvolgente black face all’interno della fiera degli stereotipi, come uno schiaffo in faccia allo spettatore, all’interno di un film che ne è totalmente privo.
Quindi lo stereotipo dell’africano rumoroso, della donnina svedese piacente, del prete irlandese ubriacone.
E, fra l’altro, la mascherata di Louis ha un preciso intento narrativo: il personaggio deve nascondersi agli occhi di Clarence Beeks, che ovviamente conosce la sua faccia.
Ophelia in Una poltrona per due
Sempre secondo lo stesso concetto, anche Ophelia è un personaggio femminile interessantissimo, proprio perché non vive di stereotipi, anzi.
Ophelia è una figura femminile veramente scandalosa: non una donna angelica, non solo l’interesse amoroso del protagonista, ma una donna forte, decisa, che sa perfettamente usare il suo corpo per costruirsi una vita.
E senza nessuna vergogna per essere una prostituta.
Infatti, in un mondo degli ultimi, Ophelia è perfettamente consapevole della difficoltà di evitare il degrado e l’autodistruzione. Per questo riesce a costruirsi una propria realtà dove può muoversi liberamente e guadagnarsi una vita con quello che ha a disposizione.
Cosa succede nel finale?
Il finale, per quanto avvincente, non è semplicissimo da capire per chi non mastica la materia.
Per questo ho preso spunto da un articolo molto dettagliato de Il Post, cercando di spiegarlo in maniera anche più semplice: fondamentalmente i Duke Brothers vogliono mettere le mani sulle previsioni del raccolto dell’anno per avere un’idea dell’andamento del mercato, e poi acquistare i cosiddetti futures.
I futures sono dei contratti fra due parti chescommettono sull’andamento di un prodotto: entrambi si accordano per acquisire una certa merce ad un certo prezzo in un momento futuro.
E solo una delle parti ci guadagnerà a seconda del prezzo effettivo del prodotto: se ad esempio io mi accordassi per comprare il succo d’arancia a 10 dollari fra un mese, ma fra un mese il succo d’arancia avrà un valore di mercato di 15 dollari, io lo comprerò sempre a quella cifra e ci guadagnerò rivedendolo e guadagnando sulla differenza.
Così anche al contrario.
Cosa succede nel finale di una poltrona per due
In Una poltrona per due quindi i Duke Brothers, ingannati dal finto rapporto, pensano che il raccolto sarà scarso e di conseguenza il prezzo alto. Per questo comprano tantissimi futures, sicuri che, una volta diffuso il rapporto, il prezzo schizzerà alle stelle e lo ci guadagneranno avendo comprato ad un prezzo inferiore.
Al contrario, Louis e Billy, sapendo che il raccolto invece sarebbe stato ottimo e di conseguenza il prezzo basso, stipulano dei futures come venditori, promettendo di vendere il prodotto ad un prezzo che gli investitori in quel momento considerano basso.
Tuttavia, quando viene svelato il rapporto veritiero, gli investitori si rendono conto di essersi impegnati a comprare il prodotto ad un prezzo altissimo rispetto al valore effettivo di mercato, che, dopo l’annuncio, che crolla immediatamente. Quindi cercano di stipulare dei futures per vendere il prodotto, che i protagonisti accettano di comprare dopo che il prezzo è sceso ancora.
Quindi Billy e Louis vincono perché prima dell’annuncio, avevano concordato di vendere il prodotto ad un prezzo molto alto rispetto a quello che è il valore di mercato dopo l’annuncio. Così, sempre dopo l’annuncio, possono comprare le arance ad un prezzo basso e venderle ad un prezzo alto. I Duke Brothers, avendo scommesso il contrario, hanno perso tutti i loro soldi.
Perché Una poltrona per due è un cult di Natale?
La particolarità di Una poltrona per due è che è considerato un film natalizio, ormai una tradizione, ma di fatto non è un film di Natale in senso stretto.
Infatti, è una tradizione tutta italiana dovuta alla programmazione Mediaset.
Il film fu trasmesso per la prima volta in tv nel 1986, e poi dal 1987 si cominciò a metterlo in onda a Dicembre, avvicinandosi progressivamente sempre di più al periodo natalizio. Questo evidentemente perché, in prima battuta, la pellicola era stata inserita nella programmazione dicembrina in quanto ha effettivamente degli elementi legati alle festività.
E il pubblico negli anni ha sempre risposto benissimo: una Poltrona per due è un film senza tempo, piacevole da vedere e con un forte messaggio di speranza e di rivalsa degli ultimi, che riesce in qualche modo a colpire in un periodo in cui ci sente stressati e sommersi dal Natale e dagli impegni che ci prendiamo per il nuovo anno.
Sostanzialmente Mediaset ha cavalcato una tendenza e l’ha resa una tradizione, programmando Una poltrona per due, a partire dal 1997, ogni anno per la sera di Natale.
Klaus (2019) di Sergio Pablos è un lungometraggio animato di produzione Netflix.
Un prodotto che non ebbe (purtroppo) l’eco che meritava, venendo candidato agli Oscar come Miglior Lungometraggio Animato, ma perdendo ancora una volta contro lo strapotere della Disney.
Un prodotto molto particolare, con una tecnica originalissima che mischia il 3D con il 2D in maniera superba.
Di cosa parla Klaus?
Jesper è un ragazzo ricco e viziato, che il padre cerca inutilmente di far maturare. Il suo ultimo tentativo è di farlo diventare il postino di una piccola città dispersa in una minuscola isola…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Klaus?
Assolutamente sì.
Come detto, Klaus è una piccola perla dimenticata, la quale, oltre ad avere una costruzione narrativa incredibile, una storia meravigliosa, dei personaggi piacevolissimi, presenta anche una tecnica di animazione molto peculiare.
Insomma, non aspettatevi il solito film di Natale dei buoni sentimenti, né un racconto astruso e poco interessante dell’origine di Babbo Natale. Troverete anzi un racconto umano, avvincente e pieno di sorprese.
Insomma, se non l’avete visto, è ora di rimediare.
Il fascino dell’eroe negativo
L’eroe negativo è un topos molto in voga (anche troppo) nel cinema contemporaneo, ma che necessita di una certa costruzione che lo renda credibile e che lo faccia avvicinare allo spettatore.
E Klaus ci riesce benissimo.
Jesper parte da un apice negativo, come quasi un ragazzino viziato e capriccioso, che tendenzialmente lo spettatore mal sopporta, anzi quasi è felice che venga punito. Dopo però questo sentimento viene smorzato, sia per l’elemento comico grottesco, sia perché di fatto l’eroe diventa vittima degli eventi.
E in una situazione talmente eccessiva che non si riesce a non dispiacersi almeno in parte per lui, e a venir inevitabilmente coinvolti nella sua improbabile avventura.
E la sua risoluzione finale è in qualche misura prevedibile, ma per nulla banale.
Una costruzione perfetta
All’interno della improbabilità della vicenda, si crea una costruzione fondamentalmente perfetta che riesce a includere tutti gli elementi tipici della storia di Babbo Natale. E con una trama talmente perfettamente oliata e talmente costruita sui particolari che, anche dopo numerose visioni, non sarei capace di raccontare a memoria.
E infatti ogni volta riesco ad essere nuovamente sorpresa da come tutti gli elementi si incastrano perfettamente.
Fra l’altro, una narrazione quasi del tutto priva dell’elemento magico, anzi molto materiale e terrena, che gioca molto sulla negatività del personaggio, con elementi quasi grotteschi, come quando cerca di vendere le lettere ai bambini come fosse uno spacciatore…
Il Babbo Natale che non ti aspetti
Klaus viene presentato proprio come il contrario dell’immagine canonica di Babbo Natale: pauroso e lugubre, silenzioso e minaccioso.
Tuttavia tutta la sua evoluzione era già in nuce del personaggio: il suo essere silenzioso e impercettibile è un elemento che lo renderà così abile nell’entrare nelle case di notte, il suo essere circondato dalle renne per la sua futura slitta, essere un giocattolaio…
Ma, soprattutto, Klaus è segnato dal profondo lutto non solo della morte della sua compagna, ma dell’impossibilità di crearsi una famiglia. Ma Lydia in realtà è sempre con lui, fino alla fine, e gli permette di creare la famiglia che non hai mai avuto.
Quella dei bambini di tutto il mondo.
La splendida morale
Klaus propone diverse morali, ma quella più importante è racchiusa in una frase continuamente ribadita:
A true act of goodwill always sparks another.
Un atto di altruismo ne porta sempre un altro
Così, ampliando il discorso, mostra che anche l’ambiente più marcio e il cuore più indurito, con la giusta spinta, riuscirà a migliorarsi e a mostrare la sua parte migliore.
E questo miglioramento, nonostante non sia fatto con le migliori intenzioni, è capillare e coinvolge tutti i personaggi in scena in maniera lenta e ben costruita.
Cosa succede nel finale di Klaus?
Il finale lascia volutamente aperti molti interrogativi.
Spesso in film soprattutto per bambini si cerca di spiegare il concetto di Babbo Natale e tutto quello che lo circonda in maniera molto materiale e comprensibile per il pubblico infantile.
In Klaus l’elemento magico è una sorta di spintarella per i personaggi, ma in generale si mantiene un certo realismo nella vicenda. Sul finale invece lo stesso diventa preponderante, e lascia l’aura di mistero.
E si apre alle interpretazioni.
Per me nel finale Klaus viene richiamato da Lydia, in una sorta di regno ultraterreno, e continua il suo viaggio in una beatitudine eterna in cui può donare felicità ai suoi nuovi figli.
E, una volta l’anno, ritornare dal suo amico che gli ha permesso tutto questo…
Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus è uno dei più classici film di Natale, che ha segnato l’infanzia di più di una generazione.
E non è certamente un caso.
Il film incassò benissimo: a fronte di un budget veramente contenuto di appena 18 milioni di dollari, se ne portò a casa 476 in tutto il mondo.
Di cosa parla Mamma ho perso l’aereo?
Il piccolo Kevin sta per partire per una vacanza insieme alla sua famiglia allargata. Ma un evento imprevisto lo porterà a essere dimenticato a casa…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Mamma ho perso l’aereo?
Assolutamente sì.
Non parliamo di uno di quei film semplicemente amati perché parte dei ricordi d’infanzia, ma di un prodotto genuinamente bello e con un altissimo valore intrattenitivo, oltre che interpretazioni da far girar la testa.
E soprattutto come film di Natale si distingue per non essere la solita commedia dei buoni sentimenti, anzi.
Insomma, se non l’avete mai visto, esattamente cosa state aspettando?
Un’infanzia genuina…
Un grande elemento di successo della pellicola è proprio il racconto dell’infanzia.
Molto spesso in questo tipo di film l’elemento infantile è quasi angelico, legato alla magia e all’importanza del Natale, più idealizzato che raccontato veramente.
Al contrario, in Mamma ho perso l’aereo il bambino protagonista è molto realistico: credibilmente capriccioso, pestifero, e che vive del sentirsi non compreso, ingabbiato in un sistema di regole e convenzioni che non comprende e che non accetta.
E infatti il suo più grande desiderio è rimanere da solo.
E quando lo fa, almeno all’inizio, gli sembra di vivere un sogno: può fare tutto quello che vuole, tutto quello che fino a quel momento gli era stato proibito.
Tuttavia, proprio per non volerlo banalizzare, da questa esperienza Kevin impara anche a responsabilizzarsi, a diventare grande. E mostra al contempo tutte le sue capacità non solo di adattamento, ma anche di incredibile inventiva nel contrastare due adulti ben più pericolosi.
…in un film non infantile
Proprio sulla china della verosimiglianza, i contenuti della pellicola non sono esattamente edulcorati.
Kevin subisce un bullismo sistematico, da parte del fratello Buzz, ma anche la cugina che gli dice che è incompetente e inutile – ma anche dagli adulti stessi – a cominciare dallo Zio Frank, che lo chiama little jerk (stronzetto).
Al contempo vengono messe in scena delle paure enormi come quella del terrificante vecchio Marley, oltre all’angoscia, dopo un po’ di tempo, di non avere la propria famiglia intorno e di essere per questo abbandonato.
Non dei temi semplicissimi, insomma.
Marley: un personaggio chiave
Il vecchio Marley è un personaggio chiave.
E per diversi motivi.
In primo luogo rappresenta la paura quasi atavica di Kevin, alimentata dalle storie di suo fratello. Un terrore potente che lo porta persino a scappare da un negozio senza pagare. La paura viene però superata e presentata anche come un arricchimento per il protagonista e per Marley stesso, quindi un doppio insegnamento sia per gli adulti che per i bambini.
In ultimo, ha anche un valore pedagogico: nonostante la celebrazione dell’astuzia e della creatività di Kevin, il film non poteva far passare il messaggio che un bambino se la può cavare totalmente da solo e senza l’aiuto dell’adulto.
E infatti l’intervento di Marley sul finale è risolutivo.
L’altra faccia della medaglia
Il coinvolgimento emotivo della pellicola è duplice, in quanto offre una sponda anche al pubblico adulto.
E lo stesso è rappresentato dalla piccola avventura di Kate McAllister, la mamma di Kevin, su cui grava fondamentalmente tutto il peso emotivo della vicenda, mettendo abbastanza in ombra – e prevedibilmente – la figura del padre.
La storia di Kate è un’avventura a parte, definita da poche tappe, ma che coinvolgono facilmente a livello emotivo e che hanno anche interessanti risvolti comici. Fra l’altro, la stessa è protagonista di una delle scene più iconiche del film, che è stata anche recentemente replicata dall’attrice su TikTok:
Una sfida davanti alla quale indubbiamente si è trovato Columbus era quella di creare un’interessante parte centrale che non fosse solo un riempitivo, e che fosse piacevole e che costruisse adeguatamente la trama.
Ed era facile cadere nel banale.
Ma non è il caso di Mamma ho perso l’aereo.
Tutta la parte centrale è già iconica di per sé, oltre ad essere assolutamente funzionale alla tramacomplessiva: costruisce ottimamente le parti in scena, racconta la crescita di Kevin – in particolare nella spassosissima scena del supermercato – e rende tutta la vicenda interessante e tridimensionale.
Perché Mamma ho perso l’aereo è un cult?
Rivedendo Mamma ho perso l’aereo,è lampante perché questo film sia un cult.
Il cuore della questione è l’originalità.
Sia, come già detto, per la rappresentazione non idilliaca dell’infanzia e del racconto di Natale in genere, ribadito dall’indovinatissimo finale in cui Buzz urla contro Kevin per il disastro che ha trovato nella sua stanza.
Quindi una conclusione che, ancora una volta, non racconta buoni sentimenti, ma una vicenda vicina e reale di una famiglia reale.
Ma soprattutto proprio la trama era – ed è ancora oggi – fondamentalmente un unicum. E infatti si cercò di replicare il successo, prima con un sequel abbastanza piacevole e diversi altri prodotti derivati, ma nessuno dei quali arrivò alla stessa iconicità e bellezza del primo film.
Knives out (2019) di Rian Johnson fu una piccola scoperta di qualche anno fa: un classico giallo whodunit, che però era molto meno scontato di quanto si potesse pensare.
Un genere che ormai si vede molto raramente al cinema, e che ebbe un successo inaspettato, tanto da portare Netflix ad acquistarne i diritti e ordinare due sequel, di cui uno in prossima uscita.
Davanti all’apparente suicidio di Harlan Thrombey, il detective Benoit Blanc è chiamato a risolvere un mistero ben più complesso di quanto sembri…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Knives out?
Assolutamente sì.
Come genere è un po’ di nicchia, ma può facilmente essere apprezzato anche dai non appassionati. Aspettatevi un piccolo giallo pieno di colpi di scena, ma che gioca con lo spettatore in maniera molto corretta.Infatti solitamente questo tipo di prodotti ci sbattono in faccia una serie di false piste, per depistarci e sfruttare i colpi di scena.
Una tecnica che Screamparodizzava già negli Anni Novanta, per intenderci.
Ma per fortuna niente di tutto questo in Knives out, che invece offre allo spettatore tutti gli indizi per risolvere il mistero, diventando parte attiva della storia.
E non dirò di più.
Cosa significa Knives out?
Capire l’espressione knives out rende la pellicola ancora più godibile.
Letteralmente significa Fuori i coltelli, ma è corrispondente alla nostra espressione italiana Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli, ad indicare quindi una situazione familiare piuttosto spinosa e in cui tutti si vogliono pugnalare alle spalle.
Ma fate anche caso a quanti coltelli effettivi sono presenti in scena, proprio a raccontare una situazione sempre sul filo del rasoio…
La falsa pista del falso inetto
L’unica effettiva falsa pista della storia è quella di Blanc come un detective inetto che non si rende conto che Marta lo stia costantemente ingannando.
Tuttavia, se lo spettatore è abbastanza attento, si rende conto subito della discrepanza fra il suo comportamento all’inizio e per il resto della pellicola. Se infatti all’inizio il detective appare piuttosto sottile e capace nelle sue deduzioni, al contrario per il resto del tempo è così evidente, sopratutto ad una seconda visione, che stia fingendo di non vedere cosa sta succedendo.
Quindi è una falsa pista tanto per dire, che in realtà racconta un personaggio molto intrigante con un interprete d’eccezione, che non vedo l’ora di rivedere in azione.
Un cast esplosivo
Oltre al fantastico Daniel Craig, la pellicola gode di un cast stellare.
Fra tutti i personaggi secondari, per me spiccano due attrici che sono meravigliose praticamente in ogni ruolo – e non a caso sono fra le mie interpreti preferite: Jamie Lee Curtis e Toni Collette.
Da una parte Jamie Lee Curtis nel ruolo della ricca ereditiera che vive nella favola della self made woman, dall’altra Toni Collette come l’arrampicatrice sociale e approfittatrice. Entrambe incredibilmente in parte, oltre ad uno spettacolo visivo e interpretativo.
Menzione d’onore alla povera Katherine Langford, che a me era tanto piaciuta nella prima stagione di Thirteen reasons why (e non oltre), ma che dopo questo film è praticamente scomparsa dalle scene.
Ma, anche qui, fa il suo.
Una stella nascente
Ovviamente parlando di Knives out non si può non parlare di quella che al tempo era una stella nascente e che fu un po’ lanciata proprio da questo prodotto.
La splendida Ana De Armas.
Perfetta nella parte della ragazza tormentata dagli eventi, genuinamente impaurita e di assoluta bontà, che si trova messa in mezzo in una situazione che è emotivamente e fisicamente troppo da sopportare, ma che comunque si rivela capace di tirarsi fuori da sola.
Come attrice ha un volto che si presta benissimo a questo tipo di ruoli, come infatti anche nel recente Blonde(2022).
Da parte mia spero che non si affossi in questo tipo di ruoli, mane esplori anche di diversi.
Una nuova strada
Knives out fu veramente un vivaio di stelle nascenti: fu anche la prima volta che Chris Evans si smarcò veramente dal personaggio di Captain America.
So che molti non sono d’accordo, ma, anche con film beceri come The Gray Man (2022), io sto profondamente apprezzando la nuova strada che ha preso questo attore, preferendo i personaggi negativi e sarcastici, a volte anche molto sopra le righe.
In questo caso il suo personaggio è tenuto in caldo per quasi la metà della pellicola, per poi essere tirato fuori a sorpresa in una scena in cui, alla seconda visione, mi stavo veramente sbellicando.
E i cui indizi della sua colpevolezza sono quanto mai evidenti…
Il tema attuale
Un elemento che mi è molto piaciuto di questa pellicola è la sua vicinanza con la stretta attualità.
Anzitutto per il discorso riguardo all’immigrazione, tema sempre molto caldo negli Stati Uniti, e sopratutto quando uscì il film, ovvero nell’America trumpiana.
E infatti la famiglia protagonista è la stessa che si scandalizza davanti alle pratiche disumane di gestione dei migranti da parte del governo in carica, ma rivela tutta la sua ipocrisia nel suo rapporto con Maria.
Infatti per tutta la pellicola continuano a trattarla con sufficienza, evidentemente considerandola a loro inferiore, e cercando di circuirla sulla questione dell’eredità che spetta loro di diritto, nonostante siano stati dei totali parassiti verso il padre.
E diventa al limite del grottesco quando si scopre che la cara casa di famiglia non ha neanche delle radici così antiche…
Il trucco del Tenente Colombo?
Un piccolo appunto in vista dell’arrivo del sequel,Glass onion(2022).
Come detto, una delle false piste di questa pellicola è come il detective Blanc si finga incapace e inetto, così da farsi sopravvalutare e manovrare i personaggi a suo piacimento.
E non vorrei che nel sequel, con un cast rinnovato, si rinnovi questa falsapista, non a favore dello spettatore, ma dei personaggi.
Proprio come era tipico della serie de Il tenente Colombo, che veniva costantemente sottovalutato dai personaggi.
Nel caso, sarà interessante vedere come la gestiranno…
Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson è per me il miglior film diretto da questo autore, in cui riesce ad unire la sua estetica peculiare con una piccola storia giallo.
All’interno di una complessa cornice narrativa, la storia racconta di Zero, un giovane lobby boy che viene coinvolto in un intrigato intrigo con M. Gustave, il direttore del Grand Budapest Hotel…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Grand Budapest Hotel?
Assolutamente sì.
Come detto, Grand Budapest Hotel è il mio film preferito di Anderson, quello dove, per me, ha raggiunto il suo picco artistico, riuscendo a conciliare la sua folle passione per la simmetria e i dettagli con una piacevole storiamistery.
Se vi piace Wes Anderson, ovviamente non ve lo potete perdere. Se invece non vi siete mai interessati a questo regista, è un buon film per mettere un piede nella porta della sua regia.
Io ho cominciato proprio da qui.
Due attori incredibili (fra i tanti)
Più di ogni altro film di Anderson, questo raccoglie una pletora di attori più o meno famosi, alcuni già feticci di Anderson, come Jason Schwartzman, Owen Wilson e ovviamente Bill Murray.
Ma le perle di diamante sono Ralph Fiennes e Adrien Brody.
Ralph Fiennes è assolutamente perfetto per il suo ruolo, riuscendo ad interpretare ottimamente un personaggio particolarissimo, un tipico personaggio andersiano. Preciso, severo, innamorato del suo lavoro e del mondo in cui è totalmente immerso.
Adrien Brody è uno dei miei attori preferiti, e in questa pellicola correva il rischio di rendere il suo personaggio quasi macchiettistico. E invece è la perfetta controparte di Fiennes: un avido e maligno approfittatore, disposto a tutto per mettere le mani sull’eredità della madre.
Un piacevole intrigo
L’intrigo è un elemento onnipresente della trama, che si srotola perfettamente per l’intera durata della pellicola. E ogni tappa della storia è assolutamente irresistibile nelle sue dinamiche e nei suoi personaggi, anche quelli più secondari.
In particolare, ho adorato i diversi plot twist e le varie scene di omicidio dirette con la sublime tecnica regista di Anderson, con anche qualche momento più splatter e violento, come la strage alla prigione o lo strangolamento del maggiordomo alla chiesa.
E fin da I Tenenbaum(2000) il regista ha dimostrato di non andarci troppo per il sottile in questo senso…
E con un finale premiante per i protagonisti.
Anche se…
Il finale malinconico
Un tratto piuttosto tipico di Anderson è di portare elementi di una certa malinconia all’interno delle sue pellicole, soprattutto sul finale.
In questo caso la lacrima scende facilmente davanti al racconto di Zero da adulto, soprattutto quando ha come sfondo l’hotel ormai in decadenza, con uno stile evidentemente da Unione Sovietica.
Ma entrambe le storie sia di Agatha che di M. Gustave finiscono tragicamente, evitando quei finali dal sapore quasi fiabesco che molto spesso caratterizzano questo tipo di prodotti.
Ma non in un film di Anderson.
La costruzione a scatole cinesi di Grand Budapest Hotel
Un elemento piuttosto peculiare della pellicola è l’utilizzo delle cornici narrative in una costruzione a scatole cinesi.
Si comincia in un contesto forse contemporaneo in cui una ragazza senza nome si avvicina alla statua dell’autore del libro che sta leggendo; poi entriamo nel libro con la prefazione dell’opera in cui parla lo stesso autore; e poi si passa al racconto di come incontrò Zero; per poi vedere il racconto di Zero con anche la sua voce fuori campo.
Un finale tanto più malinconico per raccontare una storia davvero passata…
Essere Wes Anderson
Un aspetto che trovo sempre incredibile della filmografia di Wes Anderson, tanto più in Grand Budapest Hotel, è la come siano sempre pieni di cameo e interpretazioni di attori di un certo livello.
Da attori più di nicchia come i già citati Jason Schwartzman e Owen Wilson, ad effettive star come Adrien Brody e Ralph Fiennes, tutti pronti a portare la loro fantastica presenza nei suoi film, anche per screentime davvero contenuti.
Wes Anderson è probabilmente il regista più popolare di Hollywood.
True lies (1994) di James Cameron è uno dei suoi film minori, che nel caso di questo regista significa che non è un cult assoluto.
In questo caso Cameron gioca con il genere spy story, con l’action e una buona dose di umorismo.
Ma comunque un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget abbastanza consistente di 100 milioni di dollari, ne incassò complessivamente 365 in tutto il mondo.
Di cosa parla True lies?
Harry è una spia internazionale che vive apparentemente una vita normale con la sua famiglia, totalmente ignara del suo vero lavoro. La situazione rischia di cambiare quando scopre il segreto della moglie…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere True lies?
In generale, sì.
È forse finora fra i film più divertenti di James Cameron, con una buona dose action che non mi è del tutto dispiaciuta. L’unica cosa che ho un po’ accusato è l’eccessiva lunghezza, ma che è evidentemente dovuta alla volontà di presentare una trama ben strutturata.
Insomma, se vi piacciono le storie di spionaggio che non si prendono troppo sul serio e se soprattutto vi piace James Cameron, non potete perdervelo.
Lavorare su un volto
Dopo la duologia di Terminator, Cameron di nuovo scelse come suo protagonista Arnold Schwarzenegger.
E questa volta forse non fu la scelta migliore…
Per quanto inTerminatorSchwarzenegger facesse assolutamente il suo, e per questo fosse incredibilmente iconico, doveva reggere una parte in cui era volutamente legnoso nella recitazione.
In True lies, in cui deve sostenere una parte decisamente più espressiva, purtroppo, per quanto si sforzi, recita in maniera non tanto dissimile. Ed è doppiamente un problema quando è messo accanto a un’attrice così carismatica come Jamie Lee Curtis.
Tuttavia Cameron, che non è certo un pivello, e lavora sui primi piani stretti per mettere in evidenza lo sguardo iconico del suo attore feticcio.
E salva un po’ la situazione.
L’evasione dell’uomo comune
Il tema di fondo di True lies è un gancio che può coinvolgere facilmente la maggior parte degli spettatori: l’evasione dalla monotonia della vita comune.
E si articola in due direzioni.
Da una parte Harry, che si mostra già realizzato in questo senso, anche se deve portare sulle spalle il fallimento della sua situazione familiare, nonostante la sua vita sia incredibilmente adrenalinica e piena di avventure.
Dall’altra Helen, che invece muore dalla voglia di vivere una vita almeno un po’ più interessante di quella in cui si ritrova intrappolata, e che trova per fortuna sfogo nella sua piccola avventura, e poi in un tanto agognato lieto fine.
Ma a che prezzo…
Una vittima battagliera?
Dal momento che Harry è l’eroe della storia, non può più di tanto essere punito per le sue azioni, che ne sottolineerebbero la gravità.
Ma al contempo viene pure perdonato troppo facilmente.
Helen è da certi punti di vista molto più vittima di Harry che di Simon: il truffatore la circuisce e ad un certo punto cerca anche di violentarla. Ma per questo è ripetutamente punito e umiliato, fino all’ultimo momento del film.
Ma Harry non solo le ha mentito per anni (cosa da un certo punto di vista anche comprensibile), ma la coinvolge in una missione che la mette in una posizione sempre riguardante la sfera sessuale, e che la mette non poco a disagio, nonché in pericolo. Oltre al fatto che fondamentalmente la stalkera perché pazzo di gelosia…
Ma per fortuna che Helen non è per nulla la vittima da salvare, ma anzi è incredibilmente battagliera e si salva da sola dalla maggior parte delle situazioni di pericolo.
Uscire dagli stereotipi
Ammetto che mi stavano discretamente cadendo le braccia davanti ad una rappresentazione dei terroristi e dei villain con il solito stereotipo di uomini brutti e cattivi mediorientali.
E invece Cameron mi ha sorpreso.
Anche se comprensibilmente non vuole fare una destrutturazione dello stereotipo a tutto tondo, basta una piccola frase nei dialoghi per dare maggior tridimensionalità alla vicenda.
Infatti Salim, il villain, sottolinea come sia ridicolo che loro vengano chiamati terroristi quando sono gli stessi Stati Uniti che bombardano i loro villaggi e uccidono gli innocenti.
Un’opinione per nulla scontata in un film del genere…
The rise of the Guardians (2012) di Peter Ramsey, in Italia noto con il titolo infelice di Le 5 leggende, è un lungometraggio animato, risalente al periodo in cui la Dreamworks era ancora capace di far sognare…
Un prodotto per un pubblico infantile, ma che parla piacevolmente anche agli adulti, con tematiche profonde e raccontate in maniera incredibilmente brillante e originale.
Un film che purtroppo non portò ai risultati sperati: a fronte di un budget di abbastanza ingente di 145 milioni di dollari, incassò complessivamente 306 milioni, non riuscendo a rientrare nelle importanti spese di marketing.
Di cosa parla The Rise of the guardians
I guardiani dell’infanzia, North (Babbo Natale), Easter (il coniglietto pasquale), Sandman (L’omino dei sogni) e Tooth (la Fatina dei denti), di trovano a dover fronteggiare un nuovo nemico, Pitch Black, l’uomo nero…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The rise of the guardians?
La domanda forse più giusta sarebbe: vale la pena di vedere questa pellicola anche da adulti?
Per me assolutamente sì, perché è un prodotto con diverse chiavi di lettura, create con una cura e un’eleganza che poteva solamente provenire da questa casa di produzione ai tempi d’oro…
Ovviamente specifico che sono totalmente di parte: al tempo vidi il film al cinema quattro volte, con l’aggiunta delle infinite visioni domestiche. E non a caso, insieme aRapunzel (2010), è fra i miei lungometraggi animati preferiti in assoluto.
Quindi non lasciatevi frenare (né qui né altrove) dal fatto che sia un prodotto animato: vi perdereste veramente una perla.
Jack Frost – La spensieratezza
Jack Frost è fondamentalmente il protagonista del film è anche, soprattutto da un certo punto in poi, il filo conduttore dell’intera vicenda.
Il suo centro non viene esplicitamente rilevato, ma, guardando con attenzione la pellicola, è quantomai evidente: Jack Frost rappresenta la spensieratezza, ma anche la capacità di andare oltre propri limiti e oltre le proprie paure.
Ma anche, in una lettura più adulta, può essere anche il non lasciarsi sopraffare dalla tristezza e dal buio interiore.
Il percorso di questo personaggio è alla ricerca della sua identità, che gli fa scoprire come sia sempre stato capace di vincere la paura, sua e degli altri. Così aiutare i Guardiani a ritrovare il contatto con i bambini che dovrebbero proteggere.
E come, per estensione, di come anche da adulti, sommersi dagli impegni, non possano dimenticarsi di quella spensieratezza tutta infantile che rende la vita un pochino più leggera da vivere…
North – La meraviglia
North, insieme a Easter, è il personaggio col character design più interessante e originale, di fatto inaspettato.
Il nome completo è Nicholas St. North, facendo quindi riferimento alla ben più antica figura di San Nicola, che poi coi secoli si è riadattata a quella di Babbo Natale.
Tuttavia è un Babbo Natale assolutamente atipico: è battagliero, rumoroso, guascone, ma anche la figura più saggia del gruppo. Un uomo dalla statura immensa più vicino allo stereotipo dell’uomo del Nord che alla figura tipica di Babbo Natale.
Ma, nonostante il suo aspetto, è il personaggio che racchiude la magia della meraviglia che i bambini provano davanti a questo mondo tutto nuovo e eccitante da scoprire
Ed è anche un invito all’adulto a non lasciarsi vincere dal grigiore della vita quando si è oppressi dalla pesantezza quotidiana, ma ritrovare la bellezza della scoperta e del lasciarsi (e volersi) far sorprendere ed emozionare.
Easter – La speranza
Easter, ovvero il Coniglio Pasquale, è indubbiamente il personaggio più interessante e a cui è legato il simbolismo più evidente.
Come viene più volte ripetuto, la Pasqua, e quindi anche la sua figura, sono legati alla speranza, che è ribadita anche in altri due elementi: il colore degli occhi, di un verde intenso, e che, quando una delle sue buche si chiudono, spunta un fiore, persino nella neve.
Entrambi elementi tradizionalmente associati al concetto di speranza.
Un concetto che sembra molto astratto, ma che in realtà è incredibilmente concreto: perdere la speranza, quindi la fiducia e l’ottimismo che è intrinseco per l’infanzia, è devastante per un bambino.
E infatti, la perdita della speranza rappresenta l’ultimo momento delle luci che si spengono. E la speranza si sgretola molto più facilmente una volta raggiunta la vita adulta, quando si ha effettivamente conoscenza del mondo…
Tooth – Il ricordo
Anche se forse Tooth, la Fatina dei denti, è il personaggio di per sé meno interessante, il suo potere è quantomai affascinante.
Il periodo dell’infanzia è il momento fondamentale della crescita, che getta le basi della nostra personalità e dei valori che in seguito si formeranno. E la perdita, il cambio per così dire dei denti, rappresenta il passaggio dal periodo infantile, più fragile, a quello adulto, dove si dovrebbe avere i denti più forti e definitivi.
Tuttavia quei denti persi non possono essere sprecati, perché raccontano un periodo che appunto non può essere mai dimenticato, e che ci definisce.
Altrimenti saremmo persi e senza un’identità come Jack Frost…
Sandman – Il sogno
Sandman è il guardiano del sogno e del sonno.
Tuttavia non si tratta solamente del sogno che si fa di notte, ma anche della capacità di immaginazione positiva, che crea immagini piacevoli e fantastiche. Così i bambini creano un universo alternativo, a loro misura, in cui rifugiarsi.
Ma il sogno è fondamentale anche per un adulto: insieme alla speranza è quello che non ci fa mai arrendere, e che ci ricorda che non c’è mai limite a quello che potenzialmente possiamo sognare e realizzare…
Pitch Black – L’incubo
Pitch Black significa buio pesto.
E il buio è una paura atavica, sia per bambini che adulti.
Infatti Pitch è un’ombra, uno spettro, che si nasconde effettivamente sotto ad un letto come il mostro sotto il letto, o l’uomo nero, per l’appunto.
La paura è anzitutto legata all’incubo, quindi il contrario dei sogni. Ma lo stesso è derivato da delle paure che possono essere molto più concrete, proprio come quelle di Jack Frost: non essere creduto, accettato, visto…
E la paura si evolve e si differenzia, con situazioni anche molto più diverso e gravi, ma il concetto rimane sempre lo stesso: con la spensieratezza, la speranza, la meraviglia e il sogno, la potremo sconfiggere.
Attraverso lo sguardo
Gli occhi sono un elemento fondamentale della pellicola, quasi un fil rouge che unisce tutti i protagonisti.
La magia di Jack Frost si vede proprio attraverso gli occhi, la meraviglia di North è attraverso gli occhi enormi di un bambino, Jack Frost vede i suoi ricordi attraverso i suoi occhi e gli occhi della sorella…
Lo sguardo quindi la percezione, la percezione che può essere mutata e plasmata, con i sentimenti sia positivi che negativi. E così si può passare facilmente dalla paura al divertimento, alla spensieratezza, e con poco…
Il mascheramento smascherato
Guardando il film da un punto di vista più superficiale, appare evidente che sia stato concepito come una sorta di film di supereroi.
Infatti, come si cerchi di raccontare concetti importanti e di grande profondità, ma mascherandoli in una veste digeribile per il grande pubblico e, soprattutto, per il pubblico infantile. Tuttavia è evidente che non ha funzionato.
Questo probabilmente perché, per quanto il ritmo sia incredibilmente incalzante e la storia interessante, anche uno sguardo più superficiale intuisce che ci sia qualcosa di più rispetto a quanto vienemostrato. E questo di più non è per nulla immediato.
Aspetto che purtroppo potrebbe aver solo confuso il pubblico di riferimento…