Scoop (2006) può essere considerato per certi versi una summa della carriera di Woody Allen fino a quel momento.
A fronte di un budget molto piccolo – appena 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:39 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Scoop?
Sondra è una giovane studentessa di giornalismo che si trova fra le mani lo scoop del secolo. Ma la fonte non è quella che vi potreste aspettare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scoop?
Assolutamente sì.
Scoop è un film che porto particolarmente nel cuore: un po‘ Misterioso omicidio a Manhattan (1993), un po’ Criminali da strapazzo (2000), la pellicola risulta un ottimo incontro fra la linea comica piuttosto classica di Allen e il poco esplorato genere thriller.
Fra l’altro, scegliere nuovamente come protagonista un’interprete così versatile come Scarlett Johansson, ed affiancarla ad un ottimo Hugh Jackman, è stata l’idea vincente per creare una piacevolissima commedia investigativa, che non manca comunque di toni più cupi.
Insomma, da vedere.
Casuali
I personaggi in scena sono del tutto improbabili.
La pellicola si apre con il funerale dello scaltro Joe Strombel, con un vivace dialogo fra i suoi amici che, ricordandone le imprese, ci offrono una prima, fondamentale infarinatura sul personaggio prima ancora che entri in scena – tecnica già ben sperimentata inHollywood Ending (2002).
Così, non perdendo mai il vizio di rincorrere la prossima notizia da prima pagina, neanche da morto, il personaggio si interessa fin troppo all’indiscrezione della ex segretaria di Peter Lyman, tanto da scegliere di passare il testimone a qualcuno che possa farne buon uso.
Ma forse non il candidato che si aspettava…
Già frustata per aver scelto una carriera così diversa da quella prospettata dalla sua famiglia, la Sondra all’inizio del film sembra trovarsi ad un vergognoso capolinea, quando dal suo intervistato non riesce a ricavare nient’altro che una poco spendibile notte di fuoco.
Così il racconto dello spettacolo a cui partecipa sembra in prima battuta fine a se stesso, ma invece è del tutto fondamentale per introdurre l’ultimo membro di questo improbabile terzetto di investigatori, con il suo repertorio di trucchi magici di livello davvero infimo.
Eppure, proprio durante lo spettacolo le loro strade si incroceranno.
Principiante
La coppia di protagonisti si dimostra fin da subito fin troppo improvvisata.
Pur molto scettico all’inizio, Sid si lascia infine coinvolgere nei primi passi di una Sondra che procede a tentoni, arrivando persino a pedinare l’uomo sbagliato – riuscendo a non mandare a gambe all’aria i suoi piani solo grazie ad amicizie in comune.
Da qui prende piede la gustosissima trama comica della pellicola, costellata da infinite gag di un Woody Allen in splendida forma, che riescono nel complesso ben a dialogare con il personaggio della Johansson.
E paradossalmente, proprio nel suo essere chiassoso, Sid crea la faccia perfetta.
Infatti risulta del tutto credibile che la giovane Jade abbia al suo fianco un padre così strambo, che non può fare a meno di divulgare i più intimi ed improbabili dettagli dell’infanzia della figlia – anche perché, col tempo, comincia davvero a considerarla tale.
Fra l’altro, questo taglio quasi surreale del personaggio ben si accompagna al continuo dell’investigazione che sembra sempre sull’orlo della catastrofe, anche grazie anche ad un montaggio incalzante che accompagna splendidamente la costruzione della tensione.
Delle dinamiche che mi ricordano qualcosa…
Eredità
Scoop è, in ultima analisi, una riscrittura di Notorious (1946).
Così, se Alicia doveva stanare una famiglia di nazisti in fuga con un matrimonio combinato, allo stesso modo Sondra deve entrare nelle grazie di Peter per poter sciogliere il mistero del Killer dei Tarocchi, finendo però per innamorarsene e per cadere nella sua rete di inganni.
Il punto d’arrivo sembra la rivelazione del vero serial killer, che fa cadere ogni accusa nei confronti di Lyman, confermando la sua insospettabilità, con un Sid che però non ci crede e si intestardisce a tal punto da finire per passare da salvatore a vittima.
Fra l’altro, con una conclusione perfetta per il personaggio di Peter, il cui racconto di compagno fin troppo affettuoso e dal comportamento impeccabile, ma nondimeno piuttosto possessivo nei confronti di Sondra, infine ben si sposa con la rivelazione invece del suo oscuro segreto…
…con una chiusura a sorpresa in cui Sondra che, a differenza di Alicia, riesce ad ingannare Peter fino alla fine.
Clueless (1995) di Amy Heckerling, noto anche come Ragazze di Beverly Hills, è un cult del genere teen movie.
A fronte di un budget piccolino – 12 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 88 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Clueless?
Cher è una ragazza ricca e popolare, ma che usa la sua influenza per aiutare gli altri. Ma la sua ingenuità sarà la sua rovina…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Clueless?
Assolutamente sì.
Clueless rappresenta davvero una perla del genere, anticipando fortemente i tempi con una narrazione dell’adolescenza femminile più collaborativa che vendicativa – come invece si vede in molte occasioni… – e un racconto della sessualità piuttosto dirompente.
Oltretutto, a differenza di film più difficilmente digeribili – per quanto magnifici – come Heathers (1989), è anche un prodotto piacevolissimo da guardare, che comunque non si risparmia in una serie di battute piuttosto sottili e non sempre a portata di adolescente…
Ingenuità
Cher è totalmente ignara della sua condizione.
Intraprendendo fin da subito un intenso dialogo con lo spettatore – ottimo metodo, se ben pensato, per potenziare la narrazione, che sarà poi ripreso anche il Mean girls (2004) – ci racconta già moltissimo del suo personaggio – e della sua totale ingenuità.
Pur godendo di un armadio gigantesco, addirittura di un sistema di matching per gli outfit – una delle scene più iconiche, riprese, fra gli altri, in Barbie (2023) – Cher non è la classica adolescente ricca e viziata come ci si potrebbe aspettare.
Fin dalla prima scena viene infatti svelata la sua – seppur ingenua – buona volontà nell’aiutare gli altri, soprattutto il padre, così immerso nella sua turbolenta professione da non essere capace di prendersi cura di sé stesso.
Ma non è finita qui.
Bivio
Clueless si trova in più momenti davanti ad una serie di bivi.
Cher è un personaggio che fin da subito si distingue dagli altri personaggi femminili dal punto di vista relazionale: genuinamente disgustata dai ragazzi della sua generazione, racconta fra il divertito e l’apprensivo la relazione fra la sua migliore amica, Dionne, e Murray.
E se questo poteva essere un buon momento per far partire la classica divisione fra ragazze buone e cattive…
…e invece Clueless stupisce: non vi è mai un giudizio negativo nei confronti della libertà sessuale delle protagoniste, se non quello che talvolta i personaggi mettono su sé stessi – come quando Donnie dice, quasi con sprezzo, di essere tecnicamente ancora vergine.
E anche la stessa posizione di verginità della protagonista è piuttosto aleatoria…
Buone azioni
Anche durante la classe di dibattito, Cher dimostra la sua deliziosa ingenuità.
La sua posizione sull’immigrazione è una piccola zampata nei confronti della totale cecità della borghesia statunitense nei confronti dei problemi reali del paese, ma anche un ulteriore momento per sottolineare la sostanziale bontà della protagonista.
Infatti, come Cher potrebbe utilizzare la sua posizione per vendicarsi dei brutti voti di Mr. Hall, invece sceglie di prendere il meglio di quanto ha imparato da suo padre e di ammorbidire il carattere burbero del professore, facendolo innamorare.
Così, anche se un motivo assolutamente egoistico, Cher riesce a far ritrovare due persone molto sole.
Ed è solo l’inizio.
Makeover!
Fatta la prima buona azione, Cher non ne può più fare a meno.
Dopo uno sguardo piuttosto ironico sul panorama adolescenziale di Beverly Hills e le sue ragazze ricche, viziate e piene di botulino, viene introdotta la preda perfetta, la totale outsider che la protagonista può prendere sotto la sua ala per una nuova buona azione.
Qui Clueless raccoglie particolarmente l’eredità del romanzo da cui si ispira – Emma di Jane Austen – con un arguto parallelismo fra la società iper-classista della Regency e il panorama sociale non meno spinoso dell’alta società californiana.
Per questo, Tai è la via del risveglio.
Cher cerca fin da subito di catturare la sua nuova amica nel complesso sistema della scuola, partendo dal più classico momento di passaggio – il makeover – che viene però totalmente stravolto, riducendolo – al pari di tutte le indicazioni di Cher – in una mania senza significato.
Ed infatti è piuttosto interessante che fin da subito Tai tende a sottrarsi ai tentativi di Cher di incasellarla, prima di tutto negando la sua verginità – elemento estremamente raro in un personaggio di questo tipo – e interessandosi ad un ragazzo che Cher considera inadeguato.
Ma l’alternativa non è migliore…
Voltafaccia
Il piano di Cher è un disastro.
Proprio come una matchmaker d’altri tempi, la protagonista trova subito il candidato perfetto che Tai può usare come accessorio per riuscire ad imporsi definitivamente con la sua rinnovata immagine e posizione.
E se i tentativi nel complesso sembrano portare nella direzione giusta, con un Elton che si dimostra interessato ad avvicinarsi alla ragazza, infine scoppiano come bolle di sapone quando il personaggio rivela tutta la sua arroganza e classismo, cercando di saltare addosso a Cher.
E così, la caccia ha di nuovo inizio…
…aprendo la sezione che io personalmente considero più geniale della pellicola.
Seduzione
Per quanto ingenua, Cher è molto più furba di quanto potrebbe apparire.
Appena posati gli occhi su Christian, prende subito le redini della seduzione, con tutta l’intenzione di dimostrarsi interessante agli occhi di questo fascinoso ragazzo, in una scena che mima sottilmente l’atto sessuale, come ben rivela la battuta di Mr. Hall:
Tutta la dinamica successiva continua a calcare su questo fine racconto erotico, in cui Cher si rende sempre di più desiderabile e desiderata, in particolare portando l’attenzione sulla sua bocca sempre impegnata:
Ma la realizzazione infine che Christian non potrai mai essere il suo fidanzato – con una rivelazione molto figlia di tempi, ma perlomeno non offensiva nei toni – è il primo passo per la graduale presa di consapevolezza di Cher di non aver mai avuto il controllo sulla situazione…
…e di aver guardato sempre dalla parte sbagliata.
Insomma, è ora di parlare di Josh.
Realtà
Josh è la chiave di volta per la maturazione della protagonista.
Sulle prime il loro rapporto sembra il classico enemy to lovers, ma è una dinamica abbandonata non appena il personaggio ha modo di mostrare il suo vero carattere: non uno sfaccendato collegiale, ma un ragazzo timido e insicuro, che cerca rifugio in un’altra famiglia…
…e che, come Cher, ha a cuore gli altri: particolarmente dolce e significativo il momento in cui, alla festa con Christian, la protagonista si rende conto che Tai si senta escluso, ma si rassicura quando vede l’intervento di Josh, che la fa meno sentire fuori posto.
E proprio la realizzazione di essere innamorata del suo ex-fratello, apparentemente improvvisa, invece mette un punto molto interessante al personaggio: non la classica protagonista che cerca il vero amore, ma piuttosto una ragazza che sa cosa è meglio per sé, e che vuole accanto una persona che senta vicina.
Allo stesso modo, Clueless getta una nuova luce su tutti i personaggi – e stereotipi che li accompagnano, svelando una realtà molto più complessa e variegata da quella che viene solitamente raccontata in prodotti similari.
Val è un regista in disgrazia, per via del suo carattere molto difficile. Eppure sarà proprio la sua ex moglie a dargli una seconda occasione…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Hollywood Ending?
Assolutamente sì.
Hollywood Ending è uno dei miei film preferiti di Allen in questo periodo, anche per la sua ottima performance comica, con cui evade la macchinetta che già al tempo rischiava di diventare, per invece impreziosire la sua performance con un irresistibile taglio surreale.
Oltretutto, se si considera il momento artistico del regista statunitense – al tempo si cominciava a pensare che la sua carriera fosse ormai sulla via del tramonto – il film assume ancora più significato, soprattutto visto che ci troviamo a pochi anni di distanza da uno dei suoi più grandi successi:Match Point (2005).
Disgrazia
Il personaggio di Val nasce fuori scena.
Uno dei lati che più apprezzo della scrittura di Hollywood Ending è proprio il modo in cui introduce il protagonista: un’animata discussione fra Ellie e gli altri produttori, in cui si abbozza già il carattere imprevedibile di Val, nonostante questo non sia presente.
Così scopriamo come Val sia un regista ormai caduto in disgrazia, nonostante tutti i presenti ne riconoscano l’innegabile verve artistica, che lo distingue dai più incolori yes man che invece dirigerebbero la pellicola in maniera molto meno ispirata.
E infine Ellie dà la punchline che chiude questa ottima costruzione:
Ed infatti vediamo un Val ormai costretto ad accettare i lavori più improbabili, nonostante non riesca ad a mantenere neanche quelli, rendendo l’offerta di Ellie davvero la sua ultima occasione per rilanciarsi – senza che questo, però, gli impedisca di continuare ad essere ingestibile…
Follia
Come prevedibile, Val è totalmente incontrollabile.
Ma non è solo.
La sequenza dedicata al breve incontro con la sua ex moglie è una delle migliori prove comiche di Allen dai tempi di Prendi i soldi e scappa(1969), mostrando un comportamento quasi bipolare, che passa da una serena discussione sulla sceneggiatura fino alle più aspre rivendicazioni sul suo matrimonio fallito.
Come se questo non bastasse, la follia sembra perseguitarlo.
Tutti i personaggi di cui si circonda nella fase di pre-produzione dimostrano a più riprese tutta la loro assurdità – addirittura nel voler ricreare interi palazzi di New York – che dimostra come Val scelga, forse inconsapevolmente, di lavorare con figure ancora più improbabili di lui.
Ma all’apice della follia, della realizzazione dei suoi capricci…
Isteria
La cecità di Val è frutto esclusivamente della sua isteria.
Pur essendo sano come un pesce, fra l’ipocondria galoppante, la vicinanza con l’odiata ex-moglie e una produzione assurda ancora prima di cominciare a girare, il protagonista esprime il suo disagio irrisolto in una malattia apparentemente incomprensibile.
Uno spunto comico che poteva facilmente essere sprecato in battute piuttosto scontate, ma che invece si articola in una serie di gag comunque piuttosto semplici, ma nondimeno anche brillanti e gustose nella loro esecuzione.
Fra l’altro, la cecità improvvisa è anche l’occasione per riflettere sulla propria vita, sul suo intestardirsi sulle sue manie, in particolare nell’essere un grande artista incompreso dalla sua stessa famiglia – con cui invece gradualmente riesce a riconciliarsi.
Quasi una…profezia?
Presagio
Come anticipato, Hollywood Ending è probabilmente uno dei film più autobiografici di Allen.
Così la già citata situazione della sua carriera – considerata ormai alle sue battute al tempo dell’uscita del film – e l’inizio dei finali più positivi e concilianti per le sue commedie – già in Criminali da strapazzo(2000) – che raccontano il recente matrimonio con Soon-yi Previn.
Allo stesso modo, questa pellicola è una previsione fin troppo lucida del suo destino registico: il suo progressivo allontanamento dal cinema americano per invece affacciarsi al panorama europeo, ben più pronto – proprio come nel film – ad accettare la sua arte.
E proprio a Parigi, meno di dieci anni dopo, avrebbe ambientatoMidnight in Paris(2011)…
Criminali da strapazzo (2000) è il film con cui Woody Allen inaugurò il nuovo millennio – oltre ad un decennio artistico incredibilmente interessante.
A fronte di un budget di circa 18 milioni, fu un incredibile insuccesso commerciale, riuscendo a malapena a coprire le spese di produzione: quasi 30 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla Criminali da strapazzo?
Ray è un criminale fallito che sceglie di tentare il colpo della vita: rapinare una banca. Ma le vie del successo sono assolutamente inaspettate…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Criminali da strapazzo?
In generale, sì.
Criminali da strapazzo è una sorta di what if… di uno dei miei film preferiti di Allen – Prendi i soldi e scappa (1969) – che si presenta come la naturale sintesi dei due decenni precedenti – idee ridondanti e trame semplici…
…ma anche come lo spunto per risultati artistici ben più interessanti – in particolare, molte delle idee qui presenti saranno riportate in scena con ben più intelligenza qualche anno dopo in Scoop (2006).
Antipodi
Ray e Frenchy sono agli antipodi.
Il personaggio di Allen si presenta subito in scena nel tentativo di prendere le redini della relazione, millantando con i propri amici di essere totalmente in controllo di sua moglie e di poter prendere liberamente la decisione di sperperare i loro risparmi…
…quando è esattamente il contrario.
A differenza del marito, Frenchy è una donna con la testa sulle spalle: nonostante abbia un lavoro molto umile e non sia particolarmente sveglia, è riuscita comunque a mettere da parte una discreta somma, mostrandosi la figura lungimirante della coppia.
Inoltre, il suo carattere salace, continuamente combattuto da Ray, è fonte di infinite battute e gag, anche e soprattutto con gli amici intrusivi del marito, che la donna mette fin da subito al loro posto.
Eppure, si lascia fin troppo facilmente travolgere…
Copertura
La rapina è una catastrofe da entrambe le parti.
Per quanto Frenchy sia fra i due quella più intelligente, si dimostra del tutto impreparata nel gestire il negozio e il suo inaspettato successo, facendosi trascinare dalla totale improvvisazione del marito in una copertura che fin da subito da acqua da tutte le parti.
E, alle sue spalle il piano si articola in una serie di momenti comici al limite del surreale, in cui Allen riprende il personaggio comico che segnerà il suo cinema in maniera consistente da qui in avanti, e chiude il cerchio di un disastro annunciato.
A meno che…
Presenza
Dopo una conclusione piuttosto brillante del primo atto, la fase centrale definisce più sottilmente il dramma della relazione fra i due protagonisti, già anticipato dai loro scambi piuttosto alacri del primo atto, in due direzioni: presenza e mancanza.
Da una parte, Francy è sempre presente – anche troppo: essendo la proprietaria e l’ideatrice della fortuna della famiglia, la sua figura è in scena in ogni momento – nelle decisioni sulla famiglia, nel prossimo menù e anche e soprattutto nella scelta dell’arredamento degli spazi.
Ne emerge così una volontà sempre più insistente di prendere parte alla buona società in cui finalmente può avere accesso, nonostante fin da questa fase agisca in maniera piuttosto disordinata e sostanzialmente prona alle scelte dei suoi fidati collaboratori.
Al contrario, Ray è sempre più messo da parte, ridotto sempre di più ad una figurina sullo sfondo, impossibilitato a spendere quei soldi come vorrebbe, ovvero in maniera del tutto opposta a Franchy: non per integrarsi, ma per allontanarsi, per cercare una vita migliore altrove.
Alternativa
Nel finire del secondo atto, entrambi i personaggi cercano un’alternativa al loro matrimonio.
Franchy, profondamente ferita nel non essere considerata all’altezza da quel circolo di cui vorrebbe far parte, si affida alle cure disinteressate di David, cercando inizialmente di coinvolgere anche Ray, ma infine accettando fin troppo facilmente che si faccia da parte.
Infatti la donna vede in questo filantropo la sua occasione per avere la vita dei suoi sogni, accompagnandosi ad un uomo ben più giovane e presentabile rispetto a Ray, che gli offre tutte le chiavi giuste per integrarsi in maniera vincente nell’alta società.
Al contrario, una volta trovata l’occasione per defilarsi dai progetti della moglie, Ray cerca sempre di più una via alternativa per la ricchezza, scegliendo ancora una volta il furto che possa sistemarlo a vita, con un piano tanto semplice quanto facilmente fallibile.
E se questo poteva davvero salvare la sua famiglia…
Status
La chiusura della pellicola è per certi versi atipica per il cinema di Allen finora.
L’angoscia per la conclusione sfortunata in ogni senso di Frenchy, gabbata e umiliata per essersi affidata alle persone sbagliate che credeva amiche – in particolare lo stesso David – si alterna alla piacevole comicità del piano del marito.
Tutta la dinamica verrà sostanzialmente ripresa, come già anticipato, nel successivo Scoop, ma nondimeno regala un comic reliefquasi necessario in un finale che altrimenti sarebbe stato fin troppo amaro, ma che sorprendentemente si risolve nella ricomposizione della coppia.
Probabilmente in questo frangente si può intravedere un nuovo ottimismo di Allen dopo la fine del suo rapporto con Mia Farrow e il suo recente e forse più felice matrimonio con Soon-Yi Previn, che porta a ristabilire lo status iniziale del matrimonio senza, di fatto, troppi cambiamenti.
Infatti, a sorpresa, alla fine la più scaltra è sempre Franchy…
The Help (2011) di Tate Taylor è un dramma storico ambientato nel profondo sud statunitense negli Anni Sessanta – con tutto quello che ne consegue.
A fronte di un budget medio – 25 milioni di dollari – anche grazie alla visibilità data dall’Academy, è stato un ottimo successo commerciale: 216 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla The Help?
Aibileen e Skeeter sono due donne apparentemente divise, in realtà con un destino comune: scardinare un sistema sociale profondamente razzista che danneggia inevitabilmente tutti.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Help?
Dipende.
Per quanto The Help sia un film che abbia visto innumerevoli volte, ponendovi un occhio più oggettivo mi rendo conto che, con le aspettative sbagliate, potrebbe essere incredibilmente indigesto.
Infatti, per ammissione fra l’altro della stessa Viola Davis, il racconto del panorama sociale di riferimento è molto annacquato, reso digeribile per un pubblico ampio, e quindi, soprattutto se si ha qualche conoscenza sul tema, appare poco credibile.
Ma, se non avete di questi problemi, è un prodotto piacevolissimo.
Apparenza
L’apparenza di The Help è scintillante.
I protagonisti (bianchi) non hanno apparentemente nessun problema nel dover prendere scelte di vita, in quanto queste sono già state prese per loro: sposarsi giovanissimi, fare più figli possibili, e essere parte attiva di un sistema sociale costruito sulle apparenze.
Ancora meglio se si è uomini, il cui ruolo è trovare un lavoro d’ufficio che li porti fuori casa e che lascialle mogli il compito di tenere vivo il tessuto sociale, talvolta persino diventando delle marionette al servizio delle compagne – come nel caso del marito di Hilly.
Più faticoso per certi versi invece il ruolo femminile, ancorato ad un circolo sociale capitanato dall’ape regina di turno – Hilly – che le porta ad essere sostanzialmente tutte uguali, tutte con gli stessi pensieri ed ambizioni.
Eppure, la realtà è molto meno confortante.
Perdente
In The Help gli apparenti vincitori sono i veri perdenti.
La dannosità di questo panorama sociale è particolarmente evidente nel personaggio di Elizabeth, che cerca costantemente e disperatamente di nascondere la sua infelicità – proprio come nasconde il graffio del tavolo da pranzo…
Infatti in più momenti durante la pellicola intravediamo l’infelicità di un matrimonio di convenienza, di una probabile depressione post-partum, che ha portato Elizabeth a disprezzare totalmente la sua primogenita, e della costante paura di non essere al posto giusto.
Ma la vera perdente è Hilly.
Nonostante il suo personaggio pensi di avere tutti sotto scacco, in realtà è inghiottita dal sistema di sua invenzione: l’intera sua esistenza ruota intorno alla necessità di tirare i fili della comunità, creare coppie, gestire i pettegolezzi, ed emarginare gli indesiderati.
Ne consegue una fragilità emotiva così devastante da non riuscire nemmeno a sostenere l’idea di aver perso un compagno – Johnny – che probabilmente non si voleva sottomettere alle sue angherie, ma per cui provava un sincero affetto.
E, alla fine, essere ai margini non è così male…
Margini
Anche se i due personaggi non si conoscono direttamente, Skeeter e Celia vivono due esistenze parallele.
Entrambe infatti sono costrette in un sistema che li sta stretto: per Celia una vecchia casa impossibile da ammodernare, il totale isolamento sociale, senza neanche avere la compagnia di una negra, e con un matrimonio apparentemente destinato al fallimento.
Particolarmente drammatica in questo senso la vergogna sociale di non riuscire ad avere figli in tempo utile – passaggio fondamentale per cui la donna spera forse di rientrare nel circolo esclusivo di Hilly.
E il riscatto di Celia avviene, paradossalmente, grazie a Minny.
Inizialmente il suo personaggio si affida a Minny per compensare una delle maggiori lacune del suo matrimonio: l’incapacità di cucinare manicaretti perfetti per il marito, dovuta anche al suo turbamento emotivo interiore goffamente celato.
Invece, nel tempo i due personaggi si salvano a vicenda: Minny riesce a trovare un riscatto sia dal matrimonio violento in cui era intrappolata, sia dalle angherie di Hilly, che le rendevano di fatto impossibile trovare un’altra occupazione…
…mentre Celia comprende la ricchezza di un circolo sociale ristretto, ma di valore.
Ribelle
Pur partendo da una situazione analoga da Celia, Skeeter è una ribelle.
Non adeguandosi né esteticamente – scegliendo vestiti molto meno frizzanti, lasciando i capelli al naturale – né socialmente – non ambendo ad avere un marito, ma a realizzarsi lavorativamente altrove – Eugenia appare come una mina vagante.
Soprattutto, perché non è pronta a scendere a compromessi: anche se viene costantemente spinta a interessarsi alla sua carriera matrimoniale – unico apparente sbocco possibile – Skeeter accetta Stuart solo quando questo si piega alle sue condizioni.
E anche così non basta.
La ribellione di Skeeter è silenziosa, avviene nel dietro le quinte, ma riesce a scuotere lentamente tutto il costrutto sociale immobile in cui è cresciuta, soprattutto quando i suoi vari protagonisti vengono colpiti nel vivo – in particolare, le due madri, Charlotte e Missus.
Un percorso che però non tutti sono pronti ad accettare: se col tempo la madre di Skeeter si rende conto dell’inumanità a cui è stata portata, al contrario Stuart rivendica il suo diritto di controllare le scelte della fidanzata e la sua volontà di rimanere immobile in un mondo che va bene così.
E forse, a posteriori, era meglio per Eugenia essersi lasciata alle spalle l’unico elemento che la teneva ancora legata ad un sistema vetusto e limitante.
Differenti
Altre due ribelli tutte loro sono Minny e Aibileen.
Da una parte Minny porta avanti una ribellione piuttosto chiassosa e diretta, per cui si rivolta costantemente – e pure con sagace ironia a – contro cattiverie di Hilly – prima con lo statement dello scarico del water, poi con il terribile scherzo della torta.
Ma una donna nera non ha spazio per essere alternativa, pena l’essere comunque schiacciata sotto il peso di accuse del tutto inventate, ma tanto potenti da renderle impossibile trovare un’alternativa, perché ormai proprietà della sua ex-padrona.
La ribellione di Aibileen è diversa.
Fin da subito il suo personaggio mostra un carattere mansueto, e una totale volontà a sottomettersi al sistema – anche solo per il suo nascondere i suoi veri capelli con una parrucca da bianca – che si esprime soprattutto nella scena in cui consiglia timorosa all’amica arrestata di non lottare.
Invece, più il film prosegue, più la protagonista porta avanti una rabbia violenta che aveva covato da anni, che la porta prima ad essere la prima nera a poter parlare apertamente della sua situazione, poi a prendere di petto – e annientare – la stessa Hilly, mettendola per la prima volta davanti alle sue colpe…
…scegliendo, infine, un destino diverso da quello che aveva sempre creduto essere l’unico possibile.
Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?
Dipende.
Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…
…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.
Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.
Dissacrare
Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.
La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.
Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.
Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura…
…con risultati discutibili.
Ma andiamo con ordine.
Crisi
Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.
Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.
Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.
In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.
E qui cominciano i primi problemi.
Paradox
Paradox poteva essere l’unico villain.
Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.
Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.
Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.
Ma è solo l’inizio.
Vuoto
La vera partita si gioca nel Vuoto.
Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.
E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.
Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.
Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…
…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmenterivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…
…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.
Da qui in poi, il delirio.
Sovrappopolazione
In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…
…oppure no?
Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.
La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.
Ma il peggio arriva dopo.
Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …
…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.
E così il sovraffollamento è inevitabile.
Spazio
In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.
Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…
Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.
E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.
Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…
…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.
Intralcio
Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.
E lo stesso è il punto più basso del film.
Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.
Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.
Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.
E qui nascono i miei maggiori dubbi.
Rapporto
Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.
Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…
…peccato che manchi qualcosa.
Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.
Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…
…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.
Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.
A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore:appena 734 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Deadpool 2?
Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool 2?
Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.
In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.
Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…
…che, di fatto, non vedremo mai.
Continuità
Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.
Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.
Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.
Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.
Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.
Solo un corpo da distruggere.
A pezzi
Deadpool deve essere rimesso insieme.
Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.
Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.
In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.
Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio…
…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.
Squadra
La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…
…pur andandole a vanificare un momento dopo.
La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.
Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.
Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.
Ma il team si deve ricomporre altrove.
Comporre
L’ultimo atto è un grande azzardo.
Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.
Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.
Poi tutto viene riscritto.
Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.
Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…
Deadpool (2016) di Tim Miller è il primo capitolo della trilogia (?) omonima dedicata al personaggio di Wade Wilson.
A fronte di un budget abbastanza basso per un cinecomic – circa 58 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:782 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Deadpool?
Wade Wilson è un mercenario che vive alla giornata e che, incredibilmente, trova la sua anima gemella. Ma l’amore è solo una tragedia con qualche spot commerciale…
Vi lascio il trailer per farmi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool?
Assolutamente sì, soprattutto se, come me, siete saturi della Marvel.
Infatti, per quanto Deadpool sia un film con un Ryan Reynolds ancora col freno tirato, si pose come un’interessante alternativa in un panorama di origin story che al tempo – pur con ottime eccezioni come Homecoming (2016) – apparivano spesso blande e poco originali.
In questo senso il primo capitolo del mercenario chiacchierone era in tutto e per tutto un film per adulti – e non a caso era un rated R – colmo di battute sessuali e di una volgarità piuttosto spinta, ma mai fuori luogo, ma anzi piuttosto piacevole.
Insomma, da riscoprire.
Forward
Forse anche consapevole di non godere di una trama particolarmente avvincente, Deadpool parte dalla fine.
Di fatto Deadpool rischia nel sacrificare il climax narrativo piuttosto classico che porta l’eroe della storia a comprendere i suoi poteri, individuare il suo antagonista e scontrarsi con lo stesso, scegliendo invece di mettersi nella sua versione finale già al centro della scena.
E dai titoli di testa la pellicola dà la sua prima zampata, riscrivendo gli stessi per deridere il genere di riferimento, mettendo anche le mani avanti per un prodotto che comunque – probabilmente non per volontà di Reynolds – risulta spesso molto standard e prevedibile.
Eppure lo stesso attore protagonista cerca costantemente di rianimarla con gli sfondamenti della quarta parete e con vari siparietti piuttosto fuori dagli schemi, come il disegno di Francis che Deadpool utilizza come identikit o la piccola avventura comica del tassista.
Poi, si torna indietro.
Alternativa
Nel racconto del suo passato e della relazione con Vanessa, Deadpool vuole essere il più scorretto possibile.
In un altro contesto probabilmente avremmo visto un mercenario di buon cuore che alla fine, grazie alla scoperta dei suoi poteri, decideva di cambiare vita e di passare da anti-eroe a eroe effettivo, magari riuscendo al contempo a dare una vita più dignitosa alla sua sciagurata fidanzata.
Ma questo è un film che non vuole essere né MCU né Fox…
…e che non segue nessuna di queste regole.
Così effettivamente il punto di partenza del protagonista non è altro che un modo per permettergli di arrivare alla sua nuova identità con già l’esperienza da assassino su commissione, che comunque non viene caricata di un’eccessiva drammaticità, ma anzi mantenuta piacevolmente comica.
Allo stesso modo, il primo scambio fra Vanessa e Wade è definito da una serie di irresistibili battute piuttosto pesanti e sicuramente non family friendly, che sono solo l’antipasto per il racconto piuttosto spinto dello sviluppo della loro relazione, con un umorismo davvero irresistibile.
Ma ogni storia d’amore ha la sua tragedia.
Svolta
Deadpool non avrebbe dovuto essere Deadpool.
Solitamente nel genere la trama drammatica che porta alla deviazione morale è un’esclusiva dei villain, che servono molto spesso a caricarli di una maggiore tridimensionalità – con risultati altalenanti, che vanno da Thanos in Infinity war (2018) all’imbarazzo di Dar-Benn in The Marvels (2023).
Al contrario, la pellicola sceglie, pur mantenendo un buon equilibrio con il versante comico, di spogliare il più possibile Deadpool dalle vesti supereroistiche, e persino da quelle di anti-eroe, rendendolo il più possibile un personaggio con i piedi per terra.
Per questo il protagonista si fa attirare nella trappola di Francis, nella promessa di una seconda vita…
…non tanto per acquisire dei poteri, ma piuttosto per utilizzare gli stessi per sopravvivere al cancro e continuare il sogno d’amore con Vanessa, dovendo affrontare un processo che, come racconta lo stesso Deadpool, hai toni propri del genere orrorifico.
Ma la rinascita sembra impossibile.
Senza ritorno
Deadpool ha intrapreso una strada senza ritorno.
Per quanto riesca con la sua furbizia a liberarsi dalla sua prigione, il suo aspetto mostruoso sembra un ostacolo insuperabile davanti al suo ricongiungimento con Vanessa, con una scena discretamente straziante in cui, mentre cerca di approcciarla, viene additato dai passanti.
Per questo a Deadpool rimane solamente la strada della vendetta, che si accompagna alla più classica creazione del costume, un momento sempre molto delicato di ogni origin story, ma che viene arricchito dalla dinamica piuttosto divertente della lavanderia.
A questo punto il film prende le strade più classiche della origin story, in cui l’interesse amoroso viene rapito dal villain di turno come esca per scatenare la battaglia finale – nonostante Vanessa non sia per niente una donzella da salvare, anzi.
In questo ultimo frangente Deadpool riesce un po’ a fatica ad evadere i più classici topoi del genere, proprio appesantito da una coppia di villain veramente stereotipati, ma risulta infine vincente grazie alla sua più grande provocazione.
Distinto
Infatti ci si aspetterebbe che Deadpool scelga infine di diventare effettivamente un eroe, abbandonando i suoi desideri di vendetta…
…mentre invece il protagonista si avvicina ancora di più allo spettatore scegliendo di piantare giustamente in fronte al suo carnefice un proiettile, con cui il film riesce chiaramente a definirsi come alternativo rispetto al resto del genere – che, a posteriori, lo ripagherà moltissimo.
Allo stesso modo ben riuscito il ricongiungimento con Vanessa, raccontato con toni mai eccessivi, ma anzi con un taglio che riesce a mantenersi sulla linea della credibilità, con una battuta finale che racconta molto bene il loro rapporto fuori dagli schemi:
A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.
Candidature Oscar 2025 per Inside out 2 (2024)
(in nero le vittorie)
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Inside out?
Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Inside out 2?
Assolutamente sì.
Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.
L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.
Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.
Stabilità
All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.
Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.
Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.
Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.
In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.
E basta.
E proprio qui sta il punto.
Shock
Lo shock della pubertà sembra ingestibile.
Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…
Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.
E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.
Emozioni
La rappresentazione di Ansia è perfetta.
Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevroticoche prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.
Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.
Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.
Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.
Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.
Nuova
Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…
… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.
In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile…
…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…
Ma non ci sono solo due Riley.
Consapevolezza
Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.
Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.
Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.
E per questo il finale è così importante.
Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabileper il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.
Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.
Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto delcocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.
Tonya Harding è una giovane donna che ha cominciato a pattinare da giovanissima – e che ha continuato nonostante il mondo fosse tutto contro di lei.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Tonya?
Assolutamente sì.
Come per uno dei miei film preferiti –American Animals (2018) – Tonya utilizza splendidamente la formula del mockumentary, mettendo al centro un gruppo di bizzarri personaggi, i cui commenti puntellano la narrazione in maniera davvero brillante.
La pellicola è inoltre impreziosita da un cast di primissimo livello, in cui spicca una Margot Robbie – che giàcercava di smarcarsi dalla sua immagine di sex symbol – e due ottimi comprimari – Sebastian Stan e l’ottima caratterista Allison Janney.
Insomma, da non perdere.
Svantaggiata
Tonya parte già svantaggiata.
Anzitutto, la testardaggine della madre di farla allenare per diventare una campionessa del pattinaggio è un’arma a doppio taglio: investendo ogni centesimo in questo progetto, la donna si sente ancora più giustificata nell’essere sgradevole e violenta nei confronti della figlia.
E, anche se la protagonista si impegna, si fa crescere una bella pellaccia per sopportare gli insulti e la violenza che la circonda, il mondo le è comunque ostile solo perché non corrisponde abbastanza allo stereotipo della principessa sul ghiaccio – anzi…
Così un aspetto non particolarmente attraente, un trucco esagerato e chiassoso, i capelli crespi e fuori luogo, i vestiti così evidentemente messi insieme, sono tutti elementi che portano Tonya ad essere sempre messa da parte, sempre svantaggiata nonostante le sue ottime performance.
E non è neanche la parte peggiore.
Sfondo
Il pattinaggio è croce e delizia.
Non avendo mai avuto alle spalle una famiglia forte e che la seguisse, che la incoraggiasse ad avere un’educazione, un piano B nel caso la carriera dell’atleta non avesse funzionato, Tonya è di fatto intrappolata nel suo sogno.
Per questo diventa così frustrante che la sua bravura, il segno indelebile che ha lasciato nel mondo del pattinaggio sul ghiaccio, venga messo in secondo piano di fronte a tutto il resto, di fronte al suo carattere sgradevole e al suo aspetto dimesso.
E il passato è anche la sua rovina.
Passare da un madre assente e opprimente ad una relazione definita dalla violenza da entrambe le parti, ad un tira e molla continuo che alterna la passione incrollabile alla violenza ingiustificata e perpetua, ha più volte un’influenza determinante sulla carriera di Tonya.
Così, anche riuscendo ad arrivare alle Olimpiadi, Tonya perde la sua occasione di fare quel salto fondamentale per distaccarsi per sempre dal suo passato proprio perché lo stesso non può fare a meno di tormentarla – e di farla inevitabilmente fallire.
Ma anche la seconda occasione è abbastanza.
Occasione
L’unica persona che davvero credeva in Tonya era la sua prima allenatrice…
…che, nonostante fosse stata scacciata in malo modo, raccoglie quel quarto posto alle Olimpiadi, quella ragazza senza futuro, e la plasma per diventare effettivamente una campionessa, un Oro alle Olimpiadi.
Ma la vittoria non è davvero possibile.
Non riuscendo davvero a distaccarsi da Jeff e dalla sua onda distruttiva, Tonya viene travolta da un piano bislacco e improvvisato, che avviene totalmente alle sue spalle, senza che possa averne nessun controllo, e che oscura tutto il resto.
Un peso sempre più incontrollabile, sempre più insostenibile, che definisce il suo secondo, clamoroso fallimento, solamente il prologo dello scandalo mediatico per cui verrà ricordata più come un caso di cronaca nera che come una leggenda del pattinaggio.
E dopo?
Dopo
Cosa c’è dopo?
La conclusione della storia di Tonya Harding, di quella che non è stata altro che una parentesi della sua vita, è raccontata dalla sua stessa protagonista, spezzata dalla distruzione del suo sogno, ma che non si è mai davvero lasciata sconfiggere dalla storia.
Una giovane donna che ha cavalcato la sua leggenda nera per riproporsi come una spietata pugile, tenendosi abbastanza tempo al centro della scena per continuare a guadagnare dalla sua notorietà, per infine ricostruirsi una vita più tranquilla e lontana dai riflettori.
E allora nel finale una domanda perseguita la narrazione: cosa sarebbe stata Tonya Harding se fosse nata in una famiglia ricca e che la supportava, se non avesse dovuto subire un matrimonio violento che ha spezzato le gambe più a lei stessa che alla sua stessa avversaria?