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I sogni segreti di Walter Mitty – Sognare con i piedi per terra

I sogni segreti di Walter Mitty (2013) è uno degli ultimi lavori da regista cinematografico di Ben Stiller – e anche uno dei più divisivi.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo: 188 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla I sogni segreti di Walter Mitty?

Walter Mitty è un impiegato di una rivista di fotogiornalismo, ed ha una particolarità: sognare costantemente ad occhi aperti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I sogni segreti di Walter Mitty?

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Dopo aver conquistato il pubblico prima con Zoolander (2001) e poi con Tropic Thunder (2008), I sogni segreti di Walter Mitty rappresentò la svolta di Ben Stiller come regista verso il genere drammatico – e questa idea potrebbe lasciarvi spiazzati.

Tuttavia, se accoglierete benevolente questa sua nuova narrativa, ne potrete rimanere facilmente incantati: Stiller gioca molto con il genere drammatico, riuscendo a portare in scena una storia apparentemente molto prevedibile, arricchendola invece con un taglio molto credibile e coi piedi per terra.

Insomma, da non perdere.

Sogno

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty è un sognatore…

…in un mondo ostile.

Non riuscendo neanche a chiedere un appuntamento alla donna dei suoi sogni, trovandosi nel mezzo di un ridimensionamento totale dell’azienda per cui ha dato la vita, Mitty si trova bloccato in un drammatico limbo...

…che può sfuggire solo tramite il sogno.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Un sogno che non rappresenta necessariamente una rivincita, ma più in generale uno scenario in cui, finalmente, il suo personaggio diventa estremamente attivo, in cui è finalmente il protagonista, l’eroe improbabile di una vita su cui, invece, non sembra di avere alcun controllo.

Eppure, nel mondo reale sembra destinato a rimanere solo sullo sfondo.

Sfondo

Ben Stiller e Adam Scott in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty vive nelle retrovie.

Nonostante svolga un lavoro di primaria importanza, senza il quale la stessa rivista non sarebbe possibile, la sua figura è profondamente sottovalutata, considerata niente più che uno strumento per finalizzare la chiusura dell’azienda.

Anzi, Mitty è considerato proprio uno strambo, uno sfogo per i suoi colleghi quanto per Ted Hendricks, che lo deride a più riprese per il suo essere sempre sulle nuvole – al contempo, lasciandosi in più momenti gabbare da Mitty in maniera sempre più improbabile.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Per questo, l’intervento di Sean è fondamentale per più motivi.

Anzitutto, perché permette a Mitty finalmente di relazionarsi faccia a faccia con Cheryl, intrecciando una relazione che, se nel suo sogno poteva sbocciare solo se il protagonista avesse assunto sembianze altre, in realtà riesce a concretizzarsi grazie al progressivo apprezzamento della donna per le doti nascoste di Mitty.

Allo stesso modo, il mistero della foto è la scusa per Mitty per – finalmente!partire per quell’avventura che finora aveva solamente sognato, che sembra costantemente metterlo alla prova, al contempo concretizzando delle fantasie che sulla carta parevano improbabili.

E proprio qui sta il gioco del film.

Sogno…

Per il primo atto, I sogni segreti di Walter Mitty ci abitua ad un’improvvisa escalation dei sogni del protagonista, che partono da situazioni in generale credibili, per poi andarsi a perdere in dinamiche sempre più improbabili – e proprie dei peggiori B-movie.

Proprio per questo, la sua partenza improvvisa alla caccia della foto impossibile sembra l’inizio di una di queste fantasie, anche per via dell’intrusione di elementi di familiarità che sembrano propri del sogno – la torta della madre, il ristorante dell’infanzia…

…ma anche di dinamiche spiccatamente fantasiose – come la serenata di Cheryl che convince Mitty a salire sull’aereo – che potrebbero persino fare credere allo spettatore di trovarsi in una sorta di fantasia nella fantasia di inceptioniana memoria – ma che invece si frantumano davanti agli innegabili elementi di realtà.

Infatti, proprio qui è la chiave di lettura fondamentale del film.

…e realtà

Ben Stillere Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

L’avventura di Mitty è costantemente riportata con i piedi per terra.

In questa apparentemente fantasia, vengono a più riprese inseriti elementi di disturbo, che suggeriscono sempre più insistentemente che l’avventura è (quasi) del tutto reale: così Mitty cade dalla bicicletta rubata, viene attaccato da uno squalo e sbaglia totalmente il salto dall’elicottero.

Si crea così un’indimenticabile alternanza di toni e di dinamiche, in cui progressivamente la fantasia di Mitty si spegne perché, in qualche modo, non più necessaria: l’avventura della vita reale, finalmente, diventa appagante e concreta.

E proprio in questa dinamica si trova una particolare finezza di scrittura.

Stiller sceglie consapevolmente di non caricare il film di momenti eclatanti, non volendo rendere i momenti chiave della pellicola smaccatamente a favore dell’emozione facile del pubblico, ma, al contrario, li vuole raccontare come altrettanto importanti e preziosi proprio grazie alla lezione fondamentale di Sean.

Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Una figura tanto eroica che racconta come l’emozione più raccolta, vissuta senza un filtro nel mezzo, sia ancora più folgorante…

…e che, più di tutti i suoi soggetti della sua incredibile carriera, il suo preferito è sempre stato questo piccolo e timido sognatore che viveva dietro le quinte, che si riscopre infine protagonista di una realtà che sembrava averlo lasciato indietro.

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Avventura Comico Commedia Disney Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Pixar

Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.

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Il libro della giungla – La naturale evoluzione

Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman è il diciannovesimo Classico Disney e l’ultimo uscito sotto la supervisione di Walt Disney, che venne a mancare proprio l’anno prima.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 73 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il libro della giungla?

Mowgli è un orfano abbandonato nella giungla, che crescerà sotto la protezione (e minaccia) di diversi animali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il libro della giungla?

Mowgli, Baloo e Baghera in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Assolutamente sì.

Il libro della giungla è un ottimo esempio di racconto di formazione mascherato, la cui prospettiva cambia se visto con un occhio più adulto, capace di cogliere i sottili sottintesi presenti nella pellicola.

Inoltre, pur facendosi portatore di una mentalità molto distante dallo spettatore contemporaneo, è uno splendido spaccato della stessa, impreziosito da personaggi iconici, anche se spesso niente più che protagonisti di siparietti comici quasi fine a sé stessi.

Il libro della giungla dietro le qunte

Noi possiamo fare personaggi animali più interessanti

Queste le parole di Bill Peet, sceneggiatore di moltissimi Classici a partire da Biancaneve e i sette nani (1937), che propose l’opera di Rudyard Kipling come punto di partenza per il nuovo prodotto targato Disney.

La prima idea di sceneggiatura, che cercò di semplificare molto il romanzo originale – dove, per esempio, Mowgli faceva avanti e indietro dal villaggio – e aggiungere personaggi – soprattutto Re Luigi – fu considerata poco vendibile da Disney.

Per questo, Bill Peet abbandonò la Disney nel 1964.

A questo punto Walt Disney assunse Larry Clemmons come nuovo sceneggiatore, dandogli il libro e intimandolo più o meno scherzosamente di non leggerlo, intervenendo a più riprese nella gestione della sua ultima storia.

La sceneggiatura eliminò molte scelte di Bill Peet, ma mantenne i caratteri dei personaggi, che dovevano essere l’asse portante del film: la sceneggiatura era più un modello di scene da cui partire, poi riempite dagli sceneggiatori di gag e battute.

Il casting vocale fu essenziale.

Molta della personalità e dell’aspetto dei personaggi fu modellato sui suoi doppiatori – sopratutto per Shere Khan, doppiato da George Sanders – e inizialmente si pensava ad una partecipazione dei Beatles per gli avvolti – da cui le particolari capigliature – ma che non andò mai in porto.

L’animazione fu fatta con la xenografia e con un’animazione più grezza rispetto ad altri prodotti precedenti – specificatamente Dumbo (1941) – e gli sfondi vennero dipinti a mano.

Famiglia

La famiglia di Mowgli è usa-e-getta.

Bagheera – il padre spirituale del protagonista – non volendosi prendere in toto sulle spalle la formazione del neonato, sceglie di lasciarlo nelle amorevoli – ma potenzialmente anche pericolose – zampe di una neonata famiglia di lupi.

Un punto di partenza che però funge più da prologo: il quadretto familiare viene dopo poco vanificato dall’intrusione della missione del protagonista e dall’introduzione – seppur solo a parole – dell’antagonista.

I lupi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Per questo le poche – e uniche – battute del padre lupo di Mowgli lasciano leggermente spiazzati: il suo personaggio esprime un affetto per il protagonista che in scena è stato appena accennato, e accetta senza troppe proteste la decisione del clan di allontanarlo.

E, in questo modo, rimane l’unico personaggio a scomparire totalmente dalla scena.

Crescere

Mowgl in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Di cosa parla veramente Il libro della giungla?

Questa prima fase della vita di Mowgli è, molto banalmente, l’infanzia – e su più livelli: vivendo sotto la protezione di un branco di lupi, il protagonista è rimasto fin qui all’oscuro della vera natura della giungla – e, per estensione, della vita.

Per questo Mowgli non capisce perché Bagheera voglia condurlo in un villaggio umano, non capisce perché non può vivere in una realtà in cui fino a quel momento era stato amorevolmente accolto.

Mowgli e l'elefante in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Eppure, la sua natura indifesa è in più momenti rivelata.

Nonostante, infatti, cerchi a più riprese di imitare gli altri animali – il giovane elefante Hathi Jr., e poi Baloo – in realtà Mowgli manca proprio degli strumenti essenziali per sopravvivere in quell’ambiente – banalmente, quando si lamenta di non avere gli artigli per arrampicarsi al sicuro su un albero.

E, non a caso, mentre tutti i personaggi animali combattono con le loro risorse naturali – e sfruttando l’ambiente che li circonda – Mowgli affronta e sconfigge Shere Khan con armi squisitamente umane – il bastone e poi il fuoco.

Ma le tentazioni sono molteplici.

Tentazioni

Mowgli e Khaa in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Le tentazioni della giungla sono rappresentate da un ventaglio piuttosto variegato di personaggi

…e che si aprono a diverse letture.

Il primo – e più insidioso – è sicuramente Khaa: questo maligno serpente vive di una doppia natura, risultando infido, ma anche piuttosto fallace – vista la facilità con cui si lascia stanare da Shere Khan.

Il suo personaggio racconta molto banalmente le tentazioni che deviano l’umano dalla retta via – sempre all’interno della stringente idea sociale degli Anni Sessanta – con tentazioni appetibili e mortali insieme – droga, alcol, gioco d’azzardo…scegliete voi.

Mowgli e Re Luigi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ancora più significativo è Re Luigi.

Se considerato come villain, l’orango è l’esatto opposto di Shere Khan: così innamorato dell’umano da voler usare Mowgli per comprendere ancora meglio quel passaggio evolutivo che gli sembra negato.

Al contempo, rappresenta il potenziale smarrimento del protagonista, che, intestardendosi nell’essere un animale, nel vivere nella giungla, rischia di perdere la sua vera natura umana – e, di conseguenza, non crescere mai.

Baloo in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Infine, l’icona del film: Baloo.

Il simpatico orso rappresenta forse la figura più lontana dall’immaginario contemporaneo: come il suo personaggio sceglie una vita semplice, fatta di poche, indispensabili risorse, del vivere alla giornata e senza una particolare programmaticità…

…nella visione del tempo Baloo rappresenta una vita caotica e senza certezze – la stessa di Biagio in Lilli e il vagabondo (1955) – un’eterna giovinezza mancante del passaggio dovuto e necessario alla vita adulta (e matrimoniale).

Paura

Shere Khan in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Shere Khan è la vera minaccia.

Un villain davvero straordinario, che rimane nell’ombra per molto tempo, raccontandosi come un antagonista su più livelli: non immediatamente aggressivo, ma in primo luogo macchinatore, che ascolta quello che lo circonda e medita sul momento giusto per attaccare.

Al contempo, sembra un villain imbattibile: Shere Khan supera in violenza e forza tutti gli altri personaggi, ed è insidiato solamente dagli strumenti umani che Mowgli utilizza contro di lui – motivo per cui voleva eliminarlo preventivamente.

Shere Khan e Mowgli in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ma il confronto con Mowgli è ancora più rivelatorio.

Shere Khan rimane piuttosto stupito dall’arroganza di questo bambino, che non sembra per nulla minacciato dalla sua presenza, ancora una volta dimostrando di non avere idea dei pericoli della giungla dove vorrebbe tanto vivere.

Di fatto, l’utilizzo di armi umane segna il passaggio fondamentale del protagonista – che comincia ad abbracciare la sua umanità e capisce come deve rapportarsi con la giungla – che lo porta alla scelta fondamentale.

Mowgli e gli avvoltoi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

E la scelta appare ancora più stringente per l’incontro con gli avvoltoi.

Questo piacevolissimo siparietto comico racconta in realtà un sottofondo piuttosto lugubre: tutta l’interazione si basa sul doppio significato di being down essere giù di morale, ma anche essere giù, per terra – e di being around stare insieme, ma anche intorno, come gli avvoltoi su un cadavere…

Quindi la giusta scelta di Mowgli, se non vuole andare incontro ad un destino mortale, è scegliersi una buona moglie, che, mentre raccoglie l’acqua al fiume, racconta esplicitamente quale sarà l’appetibile vita del protagonista se deciderà di seguirla.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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Avventura Azione Comico Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Trilogia sequel

L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.

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Alice nel Paese delle Meraviglie – Una morale impossibile

Alice nel Paese delle Meraviglie (1951) è il tredicesimo Classico Disney, tratto dal romanzo di Lewis Carroll Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie (1865) – e in parte dal sequel del 1871 dello stesso autore.

Purtroppo, a fronte di un budget di 2 milioni di dollari, incassò appena 2.4 milioni nella sua prima distribuzione, portando ad una perdita consistente per l’azienda.

Di cosa parla Alice nel Paese delle Meraviglie?

Walt Disney riprese le avventure del classico di Carroll non apportando particolari cambiamenti, ma semplicemente cercando di piegare la narrazione ad una morale più adatta al suo tempo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Alice nel Paese delle Meraviglie?

Assolutamente sì.

Nonostante contenga dei frangenti genuinamente angoscianti – ma niente di nuovo per la Disney di questo periodo – Alice nel Paese delle Meraviglie è una visione davvero piacevole, che porta in scena con una buona fedeltà l’opera di Carroll.

L’unico grande difetto è il tentativo di piegare la storia in direzioni del tutto innaturali per la stessa: nello specifico, la volontà di dargli una morale – il romanzo di 1862 è volutamente amorale – rendendo spesso Alice meno incisiva nei suoi comportamenti.

Ma, nel complesso, è una visione davvero da non perdere.

Alice nel paese delle meraviglie Produzione

Alice nel paese delle meraviglie era il sogno d’infanzia di Walt Disney.

Come altri bambini della sua generazione, il libro di Carroll era parte della sua formazione scolastica, che lo portò nel 1923, quando era ancora un regista ventunenne, a produrre un cortometraggio liberamente ispirato alla storia, col titolo Il Paese delle Meraviglie di Alice.

Nel 1932 cominciò a pensare di creare un lungometraggio misto live action e animazione, ma due eventi gli fecero cambiare idea.

Ovvero, le nuove prospettive aperte con il successo di Biancaneve e i sette nani (1937) e, soprattutto, la Paramount che lo anticipò sui tempi, creando il terzo lungometraggio live action basato sull’opera di 1865.

Walt Disney infatti si approcciava ad un mercato in cui erano già usciti tre cortometraggi dedicati (dal 1903 al 1915), e tre lungometraggi in live action, di cui quello del 1937 era già il secondo con dialoghi.

I lavori iniziarono effettivamente nel 1938, quando venne registrato il marchio e venne creato la prima proposta, che venne però bocciata da Disney perché troppo basata sulle illustrazioni originali del libro – troppo difficili da animare – e con una storia troppo cupa per essere vendibile.

La produzione ricominciò però solamente dopo la guerra, nel 1945: la nuova versione aveva un taglio artistico ben più moderno, definito da colori più accesi e stravaganti, e la sceneggiatura venne riscritta mettendo più in evidenza il lato surreale dell’opera di Carroll piuttosto che le parti più dark.

Solo nel 1946, però, decise definitivamente di fare un prodotto solo animato.

Alice nel paese delle meraviglie scene tagliate

Nonostante nel complesso si cercò di stare molto vicini al romanzo, inserendo anche delle battute in maniera diretta, furono diversi i tagli.

In particolare, venne tagliata l’importante scena (che copre un intero capitolo nel libro) della Duchessa Brutta, mentre l’incontro con l’inquietante Ciciarampa venne sostituito con l’iconico racconto de Il tricheco e il carpentiere.

Per contro, venne scritto un numero piuttosto nutrito di canzoni per il film, e molte ebbero spazio nella pellicola, anche se per pochi secondi.

Creare

L’incipit di Alice nel paese delle meraviglie è significativo per più motivi.

Anzitutto, funge da prologo piuttosto eloquente della storia, grazie alle parole di Alice che ci guidano per il mondo senza senso che sta per creare – e per vivere – e che comincia ad esistere quando la bambina tocca lo specchio d’acqua – specifico riferimento al sequel del 1871, in cui Alice attraversa lo specchio.

D’altra parte, definisce questa Alice cinematografica in una maniera simile ma al contempo diversa rispetto alla sua controparte cartacea.

Infatti, anche se entrambe entrano in un sogno, lo fanno l’una – quella animata – per un effettivo desiderio di evasione dal noioso presente – l’altra – quella originale – più che altro spinta dalla curiosità.

Elemento che sarà determinante nel finale.

Succube

Alice più che esplorare questo mondo meraviglioso, ne sembra in molti tratti succube.

Infatti, dall’impossibile girotondo con gli uccelli sulla spiaggia alle brutte maniera del bruco, fino all’esplicito bullismo dei fiori, tanto belli quanto elitari, la protagonista vive un sogno ostile e su cui non sempre riesce a rivalersi.

Una situazione non in realtà particolarmente dissimile dal romanzo di partenza, almeno per quanto riguarda i modi piuttosto scostanti ed imprevedibili con cui i vari personaggi si rapportavano con Alice…

…ma con la grande differenza che la protagonista di Carroll era molto più in controllo della situazione.

Invece il senso di smarrimento della Alice disneyana è definito da due elementi.

Anzitutto, il suo disperato tentativo di mettersi sulle tracce del Bianconiglio, non per una vera motivazione, ma più che altro per quello che il personaggio rappresenta: una figura che apparentemente riesce a passare dal sogno alla realtà a cui, alla fine, Alice vuole tornare.

E proprio qui sta la differenza fondamentale.

Amorale

Alice nel paese delle meraviglie di Carroll è un racconto programmaticamente amorale.

La grande differenza fra l’opera del 1865 e altri romanzi per l’infanzia era proprio come la protagonista non vivesse la sua avventura per ricevere un insegnamento, ma piuttosto per educarsi da sola davanti alle varie insidie di questo mondo meraviglioso.

Proprio per questo, particolarmente d’impatto era la conclusione dell’avventura, in cui Alice chiosava siete solo un mazzo di carte, e in quel momento riprendeva il totale controllo sul sogno – e si risvegliava – dopo un’avventura di cui lei stessa aveva definito i modi e i tempi.

Al contrario, la Alice di Walt Disney viene dipinta come una ragazzina fin troppo curiosa e scostante, che si incastra in una vicenda da cui non riesce a scappare, arrivando prima ad essere francamente stufa di tutto questo nonsense, per poi rattristarsi, convinta di non essere capace di seguire neanche i suoi stessi consigli.

Così la chiusura del film, per quanto erediti la suddetta battuta del libro, si risolve invece con Alice ancora una volta tormentata dal suo sogno, che fugge disperatamente verso la sua via d’uscita – il risveglio – con una conclusione che in realtà non risolve nulla, anzi lascia un certo senso di angoscia…

Scelta che, fra l’altro, potrebbe aver influito sull’insuccesso del film.

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Bambi – Crescere con la natura

Bambi (1942) di David Hand è il quinto classico Disney, nonché una delle produzioni più travagliate della casa di produzione in questo periodo.

Tuttavia, dopo i timidi risultati di Dumbo (1942) e Fantasia (1940), il lungometraggio fu il più grande successo commerciale dell’annata: con un budget di meno di un milione di dollari, ne incassò 3 in tutto il mondo.

Di cosa parla Bambi?

La storia segue la crescita e l’evoluzione del protagonista, Bambi, un giovane cervo nel suo primo anno di vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bambi?

In generale, sì.

Nella riscoperta dell’Età dell’Oro, finora Bambi è il Classico che mi ha meno coinvolto, forse anche per il fatto che non è tanto un film che vuole raccontare una storia, ma più mettere in scena delle atmosfere.

Infatti, i siparietti comici degli animali della foresta sono sostanzialmente la colonna portante dell’opera.

Non mancano ovviamente i momenti più strettamente drammatici – uno dei quali è fra i più citati di casa Disney – che riescono nel complesso a costruire una trama che, pur prevedibile e molto semplice, è al contempo puntuale e organica nella sua esecuzione.

Bambi Produzione

La produzione di Bambi fu travagliata.

La genesi del progetto non è chiarissima: l’unica cosa certa è che Walt Disney lesse il libro di grande successo Bambi, la vita di un capriolo (1923) dello scrittore ungherese Felix Salten, e forse fu influenzato da Sidney Franklin, che aveva tentato un adattamento in live action anni prima, senza successo.

Sicuramente la presenza di Franklin, da cui erano stati acquisiti i diritti, fu incisiva nelle difficoltà produttive: nel 1937 rigettò la prima bozza di sceneggiatura, in quanto la considerava povera di gag e poco fedele al libro di Salten.

E infatti, sia Pinocchio (1940) che Fantasia (1940), nonostante fossero cominciati dopo, vennero completati più in fretta e uscirono prima.

Una scelta particolare nella revisione della sceneggiatura fu l’essere più vicini all’opera originale, destinata ad un pubblico adulto e ricca di momenti drammatici, e in cui l’antropomorfismo degli animali è ridotto al minimo.

Infatti, si scelse di rendere i personaggi il più realistici possibile, rendendoli più umani solo nel contesto di alcune gag.

Questa scelta fu un ulteriore rallentamento della produzione, che venne ripresa in più momenti fra il 1939 e il 1940, anno in cui si cominciò definitivamente ad animare la pellicola, che venne ultimata solamente l’anno successivo grazie al successo di Dumbo (1941).

Bambi Design

 Nel libro di Salten, Bambi è un capriolo, nel film Disney divenne un cervo, accentuando anche le dimensioni del muso e degli occhi, in modo che avesse un’aria più innocente e infantile.

Un grande ostacolo era il personaggio del Principe della Foresta, che aveva un minutaggio ridottissimo, ma doveva essere la guida del protagonista: per questo gli si scelse di conferirgli una voce profonda ed impersonale, ed un modo di porsi molto incisivo e severo.

Infine, nonostante i numerosi tagli dovuti alla nuova situazione politica, uscì nelle sale statunitensi nel 1942, per poi essere ridistribuito diverse volte negli anni e pure ridoppiato, arrivando in Italia solo nel 1948.

Atmosfere

Bambi è un film di atmosfere.

La pellicola si apre con diversi quadretti naturali: dal topolino che di rinfresca con una goccia d’acqua fino ai piccoli uccellini che si contendono il cibo, il tutto serve ad incorniciare l’entrata in scena del protagonista, il grande evento cardine della storia.

I primi passi di Bambi sono anche i momenti più dolci e deliziosamente ironici: il piccolo cerbiatto impara a camminare ed è oggetto delle prese in giro degli altri animali – soprattutto da Tamburino – ed entra poi in contatto col secondo comprimario, la puzzola Fiore.

Per tutto il film i personaggi di sfondo sono quasi i veri protagonisti della scena, in un sistema di scatole cinesi, in cui le piccole avventure di Bambi e dei suoi amici sono incorniciate da momenti di quotidianità essenziali per rendere viva la scena.

Fra l’altro, raramente gli stessi sono effettivamente connessi con la storia dei personaggi principali, pur con qualche piccola eccezione – come l’anatroccolo che durante la pioggia viene travolto dalla corsa di Bambi.

Pericolo

La foresta è accogliente…

…ma anche pericolosa.

Il primo momento di effettivo pericolo è l’avventurarsi di Bambi e della madre nel prato, con importanti ammonimenti della stessa sulla pericolosità di questi spazi avvincenti quanto insidiosi, indirettamente facendo riferimento al pericolo dei cacciatori in agguato…

Tuttavia, come tipico di tutti i prodotti Disney di questo periodo, questa tragicità è fortemente ammorbidita dalla dinamica giocosa fra Bambi e Faline, in cui la giovane cerbiatta scherza e stuzzica il protagonista.

Si ritorna poi ad una certa serietà con l’incontro, pur da lontano, con l’effettivo Principe della Foresta.

Lo stesso diventerà la guida per il protagonista quando Bambi perderà la madre in uno dei frangenti più tragici eppure più intelligentemente portati in scena della storia della Disney: basta il rumore di uno sparo per raccontare tutto…

Tuttavia, ancora una volta, questa scena è fortemente ammorbidita.

Natura

Un aspetto curioso di Bambi è come la scena più drammatica è anche superata molto in fretta.

Dopo la morte della madre, Bambi ritorna in scena senza troppi rimpianti e in una veste più matura – probabilmente adolescenziale – e rientra in contatto con i suoi vecchi amici, che discutono increduli sulle dinamiche dell’accoppiamento, sicuri di non caderci mai.

E invece la natura fa il suo corso.

Oltre ad essere tutti catturati dal giogo dei primi amori, Bambi diventa protagonista di un inaspettato scontro corna a corna con il suo contendente nel corteggiamento di Faline, con un intrigante quanto inaspettato uso del chiaroscuro per caricare drammaticamente la scena.

E infine la storia si chiude come era cominciata.

La nascita di una coppia di cerbiatti, i nuovi principini della foresta, mentre lo sguardo vaga verso la figura di Bambi in lontananza, pronto a prendere il suo posto come il nuovo Principe della Foresta.