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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.

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Pitch Perfect Saga – Perdersi per strada

La saga di Pitch Perfect (2012 – 2017) è stato un piccolo fenomeno cinematografico della seconda metà degli Anni Dieci, che raccolse l’eredità di Glee, lanciò Anna Kendrick presso il grande pubblico, ma si perse anche drammaticamente lungo la strada.

Nonostante tutti i film abbiano portato dei buoni incassi, i risultati al botteghino sono stati alterni: un buon successo per il primo capitolo, raddoppiato per il secondo, per poi perdere una buona fetta di pubblico con il terzo capitolo.

Di cosa parla Pitch Perfect?

La trilogia di Pitch Perfect segue principalmente la protagonista, Beca, che si unisce al gruppo di canto a cappella delle Bellas, al contempo inseguendo il suo sogno di diventare una produttrice musicale…

Vi lascio il trailer del primo film per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pitch Perfect?

Anna Kendrick, Brittany Snow e Anna Camp in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dipende.

Il primo capitolo della trilogia è un mio personale confort movie: una commedia musicale piacevole, con un semplice quanto funzionale arco evolutivo della protagonista e dei personaggi secondari, e con delle performance musicali di alto livello.

Soprattutto se vi piaceva (o vi piace ancora) Glee, probabilmente lo amerete.

Purtroppo, non posso dire lo stesso degli altri due film.

Con la trilogia di Pitch Perfect ho visto dei prodotti creati principalmente per cavalcare il successo del brand, ma senza che ci fosse un’idea forte alla base dei sequel, andando anzi spesso a ripetere lo stesso schema narrativo, con una certa pigrizia di scrittura, arrivando infine deviare totalmente dalla strada principale.

Insomma, se fossi in voi, mi fermerei al primo film.

Pitch Perfect (2012)

Il primo capitolo della trilogia di Pitch Perfect è quello più robusto dei tre, pur non mancando di alcuni inciampi lungo la strada.

Ma partiamo dalle cose positive.

Una protagonista anomala

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Il successo di questa pellicola, come in altri casi analoghi, è la scelta di una protagonista inusuale.

Beca non è anomala di per sé come protagonista, ma lo è nello specifico per il genere di riferimento: in un’epoca in cui Glee rappresentava praticamente la personalità di molti adolescenti, il modello di protagonista era la ragazza timida, un po’ nerd, ma con una voce magnifica.

Beca non è niente di tutto ciò.

Anna Kendrick e Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Non ha una voce particolarmente magnifica, è una persona molto chiusa in sé stessa e che tende ad allontanare gli altri – per sua stessa ammissione – testarda come un mulo, e che vorrebbe solamente seguire la strada che si è già prefissata.

La sua maturazione, per questo, avviene su due livelli.

Il primo è quello relazionale, nel senso più strettamente affettivo: tramite Jesse – che ha quasi il ruolo da pixie girl – si rende conto della sua tendenza incredibilmente tossica di farsi terra bruciata intorno, anche in maniera piuttosto cattiva e aggressiva.

Anna Kendrick e Skylar Astin in una scena di Pitch Perfect (2012)

Più banalmente, tramite le Bellas, Beca impara a lavorare in gruppo, ad introdurre le sue idee migliorative in maniera effettivamente collaborativa, quindi non testarda e aggressiva, come aveva fatto fino a quel momento.

Ma le Bellas rappresentano molto di più.

Una nuova femminilità

All’inizio del film, conosciamo fin da subito la superbia e l’acidità che contraddistingueva le vecchie Bellas.

Il gruppo rappresentava un modello femminile ormai datato, composto da donne bianche, con dei fisici perfetti e vestite con abiti formali, ma al contempo con un aspetto assai piacente, sessualizzato quanto bastava perché non risultasse eccessivo.

Aubrey eredita questa vena dittatoriale, forzando costantemente le altre ragazze a aderire a questo modello femminile, che si trasmette anche nelle canzoni poco al passo con i tempi e portatrici di concetti ormai superati.

La bellezza del finale sta non soltanto nell’ottimo numero musicale, ma anche nella libertà riconquistata delle Bellas nel raccontarsi in maniera autentica e personale all’interno del gruppo, pur mantenendone i simboli identitari.

Non la solita musica

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect (2012)

Dal punto di vista musicale, Pitch Perfect mostra il suo lato migliore.

Anzitutto per le performance durante le gare, prima con le esibizioni dei Treblemakers e poi lo spettacolo finale delle Bellas, con dei mix up particolarmente coinvolgenti ed ottimamente coreografati.

Ma i momenti più iconici e che mi sono rimasti veramente impressi sono la scena dell’audizione e la sequenza del Rip-off, soprattutto grazie all’ottimo montaggio e alla fantastica regia, che li rende dei momenti veramente indimenticabili.

In particolare, ho apprezzato la cura che è stata messa nell’esibizione finale delle Bellas, momento che doveva distinguersi per qualità sia dalle loro precedenti performance, sia anche dall’ottima prova dei Treblemakers.

Un’inclusione fallace

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect (2012)

Come Pitch Perfect riesce a raccontare in maniera interessante e variegata la femminilità, fallisce dal punto di vista inclusivo.

Anzitutto per Fat Amy.

Il film si crede particolarmente spiritoso ed originale per questa trovata, che in realtà racconta una mal celata grassofobia, o, per meglio dire, una grande pigrizia narrativa che per l’ennesima volta rende il personaggio grasso la spalla comica della protagonista.

Questo elemento, insieme al vomito incontrollabile di Aubrey, rappresenta la pesante eredità che Pitch Perfect trae dalla più classica delle commedie del decennio precedente, in cui era tipico trovare i suddetti elementi.

Ma se Fat Amy è anche perdonabile, dal momento che comunque è un personaggio brillante e uno dei migliori del film, il punto più basso è la rappresentazione di Cyntia-Rose.

Se da una parte può essere anche positivo il fatto che il suo personaggio non nasconda la sua omosessualità, meno piacevole è quanto non solo si insista nel volerla ricondurre al classico e stanco stereotipo della lesbica mascolina, ma si spinge fortemente l’acceleratore nelle molestie comiche del personaggio contro Stacie.

Mentre guardavo Cynthia con gli occhi affondati nei seni della compagna mi sembrava di essere tornata ai tempi di Camera Cafè, ma quando insistentemente la ragazza cerca di fare la respirazione bocca a bocca a Amy…

…e soprattutto quando salta addosso a Stacie nel finale – e la stessa usa il fischietto antistupro – ho visto l’immensità dell’ignoranza che questo film rappresenta.

Purtroppo, un’ignoranza molto inconsapevole…

Pitch Perfect 2 (2015)

Con il Pitch Perfect 2 (2015) la sceneggiatura rimane in mano a Kay Cannon, ma la regia passa a Elizabeth Banks, che già dallo scorso capitolo interpretava Gail McKadden, la commentatrice delle gare di canto.

E non è proprio una buona notizia…

It’s 2015, baby!

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 segna un cambio di passo travolgente.

Lasciatosi alle spalle l’era di Glee ormai in chiusura, le Bellas approdano alla scintillante conclusione degli Anni Dieci, sembrando alternativamente delle modelle di un post di Instagram e le backup dancers del videoclip Bang Bang, che da solo rappresenta perfettamente l’estetica di questi anni.

Così dalle luci più morbide e tridimensionali del primo capitolo, si passa ad un universo fatto di colori carichi e caramellosi, accompagnato da una regia molto più fredda e anche ben poco ispirata, alla lunga quasi nauseante…

E Beca racconta perfettamente questo cambiamento.

Una Beca nuova di zecca

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Vuoi per il cambio di regia, vuoi per il maggiore potere contrattuale della stella nascente Anna Kendrick, Beca è totalmente cambiata.

Ci dimentichiamo ben presto della ragazza molto chiusa, un po’ emo, che respingeva tutti, e troviamo invece una team leader con un look fortemente diverso, che la fa sembrare proprio lo stereotipo della ragazza popolare di quegli anni.

Per fortuna che la regia non si dimentica del passato del personaggio, che mantiene una certa insicurezza nei confronti delle nuove sfide, rientrando in un topos narrativo più alla Il diavolo veste Prada (2006), ma che si risolve senza troppi drammi e riscoprendo l’importanza del gioco di squadra.

L’usato sicuro?

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Pitch Perfect 2 ricade nel più classico errore di un sequel di un prodotto di successo: portare in scena sostanzialmente la medesima storia, ma rimescolando un po’ le carte.

Ma se Cameron era riuscito in questo compito con particolare maestria con Aliens (1986) – proprio per fare un paragone volutamente improprio – non si può dire lo stesso di Kay Cannon con il sequel della sua stessa creazione, che ricalca la stessa storia, ma con molto meno mordente.

Si comincia sempre con l’incidente scatenante che mette a dura prova le Bellas, portandole a doversi mettere in gioco più che mai con un nemico ben più potente e temibile di quanto non fossero i Treblemakers.

Rebel Wilson in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Già qui entrambi gli elementi mi hanno francamente piuttosto infastidita: sia per, ancora una volta, il malcelato fat shaming nei confronti di Amy – il pubblico avrebbe avuto la stessa reazione con un corpo più canonicamente bello? – sia per la rappresentazione dei DSM.

Come non mi ha entusiasmato la banale e stereotipata rappresentazione di Cynthia-Rose, ancora meno mi è piaciuta la banalità con cui sono stati caratterizzati i leader del gruppo rivale, ovvero basandosi sulla classica ironia dei tedeschi come minacciosi e con un fare quasi militaresco.

Insomma, si poteva fare molto di meglio.

E lo stesso discorso vale per la rappresentazione di Flo, personaggio a cui, insieme ai due commentatori, il film affida l’elemento del black humor, risultando personalmente più fastidioso e fuori luogo che effettivamente piacevole.

Non c’è spazio per tutti

Hailee Steinfeld in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Uno dei problemi maggiori di Pitch Perfect 2 è il sovraffollamento della scena.

La sceneggiatura sembra avere per le mani un numero esagerato di personaggi che appare incapace di gestire, portando molti dei secondari fondamentali del precedente capitolo a scomparire sostanzialmente di scena.

È il caso di Stacie – che col nuovo look sulle prime non avevo neanche riconosciuto – ma soprattutto di Jesse, personaggio così fondamentale nel precedente film, in questo nuovo capitolo ridotto ad un minutaggio insignificante, diventando poco più che un figurante.

Anna Kendrick in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Si cerca di dare più spazio a Bumper e Amy, e così alla nuova leva delle Bellas, Emily, ma sinceramente né le loro storie d’amore né i loro personaggi in generale mi hanno detto molto più rispetto al precedente film, anzi in non pochi momenti mi sembravano degli elementi funzionali solo ad allungare il minutaggio.

Ma non è neanche la cosa che mi ha fatto più male.

A cappella?

Le Bellas in una scena di Pitch Perfect 2 (2015)

Le esibizioni di Pitch Perfect per la maggior parte non mi sono piaciute.

Mi sono sembrate molto più attente agli effetti speciali e al valore di certi momenti nella storia, più che a portare in scena delle sequenze veramente creative e interessanti, che raccontassero il grande lavoro delle protagoniste per portare la migliore performance possibile.

Anche se lo spettacolo finale dovrebbe essere il punto di arrivo del loro percorso, l’ho trovato veramente poco coinvolgente e molto meno artisticamente interessante rispetto all’analogo momento del primo capitolo.

E sicuramente la regia piatta non ha aiutato…

Pitch Perfect 3 (2017)

Pitch Perfect 3 è riuscito in qualcosa che non mi sarei mai aspettata da questa saga: mi ha profondamente annoiato.

E il cambio di regia ha aiutato meno di quello che credessi…

Un dramma ridondante

Arrivati a questo punto della saga, continuare a mettere le protagoniste all’interno di un ulteriore dramma l’ho trovato piuttosto ridondante, tanto più quando il minutaggio non basta per approfondire neanche la metà dei problemi effettivamente proposti.   

Ma la situazione peggiore è indubbiamente quella di Beca: nonostante sia riuscita ad intraprendere un’interessante carriera nel mondo della produzione, si dimostra incredibilmente immatura – sempre per necessità di trama – nell’incapacità di accettare i compromessi e le difficoltà del suo stesso lavoro.

Sarebbe stato molto più credibile se fosse stato inserito un racconto più articolato di un ambiente di lavoro tossico da cui la protagonista voleva effettivamente fuggire per trovare qualcosa di meglio…

…ma chi ne ha il tempo in soli 90 minuti di film.

Uscire di scena

Uno dei pochi pregi di questo film è la sua capacità di rendersi conto del sovraffollamento dei personaggi in scena, e fare così una buona scrematura iniziale.

Ma non basta.

Anche se i personaggi maschili sono immediatamente congedati – Jesse è lontano tremila chilometri e Bumper è stato semplicemente scaricato da Amy – ancora una volta la pellicola vuole raccontare troppe storie e dare spazio a troppi personaggi.

Così non abbiamo nessun approfondimento del nuovo amore di Chloe, del contrasto col padre di Aubrey, per non parlare dell’assoluta inutilità della nuova relazione di Lilly: storyline totalmente comandate, che dovevano esserci per fare minutaggio, ma che non si ha avuto né il tempo né l’interesse a trattare adeguatamente.

Il conflitto a tutti i costi

Uno dei pilastri della narrazione di Pitch Perfect (e di qualunque film analogo) è il racconto della maturazione delle protagoniste per arrivare allo spettacolo finale.

In Pitch Perfect 3, nonostante ci si provi moltissimo, il conflitto non esiste.

Nell’improvvisato Rip-off all’inizio le protagoniste vengono di fatto umiliate e superate da delle interpretazioni molto più vincenti dei loro concorrenti, andando a suggerire una potenziale difficoltà del gruppo per riuscire ad emergere.

Il problema è che le loro performance sono fin da subito apprezzate, quindi manca di fatto una costruzione della tensione e del dubbio che le Bellas possano non essere scelte da DJ Khaled: sono già evidentemente le più meritevoli.

Il colpo di scena è rappresentato dalla scelta di Beca come solista per aprire il concerto, con un brevissimo conflitto che porta alla più scontatala risoluzione: le Bellas sostengono la protagonista per la sua scelta e finiscono per cantare con lei.

Un momento che dovrebbe essere incredibilmente emozionante, ma che non mi ha emozionato per nulla…

Parliamo (troppo) di Amy

Forse anche per una certa consapevolezza della mancanza della tensione in scena, la pellicola concede tantissimo spazio alla storia di Amy.

Lasciando da parte l’imbarazzo che ho provato per la maggior parte delle sue battute, ho trovato in generale la sua storia, che dovrebbe essere la parte fondamentale del film, incredibilmente noiosa e prevedibile.

Ma in particolare l’ho trovata una storyline dal sapore spy totalmente fuori luogo nel contesto di Pitch Perfect, la cui risoluzione, fra l’altro, era già stata raccontata con un flash forward all’inizio del film.

Insomma, una conclusione di saga che ho trovato molto insapore.

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Genitori in trappola – Un gustoso equilibrio

Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers, remake di Il cowboy con il velo da sposa (1961), è un irresistibile incontro fra una rom-com e una commedia per ragazzi.

Con un budget veramente contenuto – appena 15 milioni di dollari (circa 28 oggi) – fu un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo – circa 172 oggi.

Di cosa parla Genitori in trappola?

Annie e Hallie sono appena arrivate al campo estivo, e scopriranno di essere più simili di quanto pensano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Genitori in trappola?

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Assolutamente sì.

In questo caso sono veramente molto di parte perché Genitori in trappola è uno dei film della mia infanzia, che guardo ancora oggi con grande piacere.

Tuttavia, è indubbio che si tratti di una pellicola molto trasversale, che può conquistare un pubblico più o meno giovane, vista la varietà di situazioni e personaggi che animano la scena.

Fra l’altro con una divisione molto precisa dei tre atti della storia, alternando stili e generi diversi: dall’avventura per ragazzi, alla commedia degli equivoci, al più struggente dramma romantico.

L’importanza del volto

Natasha Richardson e Dennis Quaid in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Fin da subito la regia di Genitori in trappola gioca sulla dinamica dell’identità celata e rivelata.

Tutta la sequenza iniziale racconta una breve ma intensa storia romantica, i cui protagonisti ci rimangono sconosciuti fino alla fine del primo atto, con un susseguirsi di particolari che rivelano i contorni dell’antefatto.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Anche se non viene esplicitata la presenza di un figlio – anzi, di due gemelle! – l’ellissi temporale di 11 anni e 9 mesi ci fa già sospettare qualcosa…

Quando poi vediamo entrare in scena le due protagoniste, cominciamo ad unire i puntini e diventiamo di fatto complici della regia, che si diverte a giocare con gli equivoci che tengono le due ragazzine divise per diverse sequenze.

Alle origini della commedia

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Un grande merito di questa pellicola è di essere riuscita ad anticipare due grandi capisaldi della commedia del successivo millennio, riuscendo a gestirli con grande equilibrio.

Anzitutto, l’utilizzo dei personaggi tipizzati.

La commedia dei primi Anni Duemila straborderà di questo contrasto fra la cultura inglese e quella statunitense, dinamica che troviamo già in nuce in Genitori in trappola, che però ha il merito di saperla contestualizzare adeguatamente.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Infatti, come Hallie è la classica californiana chiacchierona e un po’ guascona, con un carattere del tutto comprensibile visto il tipo di ambiente in cui è cresciuta, allo stesso modo Annie, figlia di una stilista elegante e raffinata, non può che essere una ragazzina a modo.

Un altro elemento imprescindibile della commedia del decennio successivo sarà l’inserimento di situazioni comiche al limite del grottesco, anche apertamente disgustose.

È questo il caso dei vari scherzi che le due gemelle si fanno fra di loro, con il picco rappresentato dal terribile risveglio di Annie, con delle trovate che ricordano molto da vicino le micidiali trappole di Mamma ho perso l’aereo (1990).

Senti chi parla ora!

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Da grande appassionata di film per ragazzi, un elemento secondo me immancabile del genere è l’assoluta superiorità dei bambini verso gli adulti.

Infatti, è un aspetto che riesce veramente ad incarnare il sogno infantile della supremazia verso un mondo adulto spesso incomprensibile, e che altrettanto frequentemente mette un freno a sogni ed a progetti, soprattutto quelli più scalmanati.

In questo caso, proprio grazie alla loro ritrovata amicizia, le due sorelle mettono in atto un piano incredibilmente audace, riuscendo a dare il via a quegli eventi che potranno finalmente riunire la loro famiglia, laddove i genitori ne erano stati incapaci.

I volti giusti

Lindsay Lohan e Natasha Richardson in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Il casting di Genitori in trappola non è per nulla casuale.

Anche in questo caso la pellicola rischiava pericolosamente di ricadere in facili stereotipi sulla giovane donna arrivista e il giusto interesse amoroso che è invece una donna diversa da tutte le altre.

Al contrario, il film sceglie di mettere sullo stesso piano Nick e Liz: anche se apparentemente sono due persone molto diverse, in realtà sono accomunate dall’incarnare il sogno tutto americano del self-made man – e woman, in questo caso.

Infatti, entrambi hanno seguito le loro passioni e si sono costruiti una vita soddisfacente e di successo nei loro rispettivi campi.

Lindsay Lohan e Elaine Hendrix in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Ma non finisce qui.

Lo spettatore può empatizzare facilmente con questi personaggi sia per i loro volti semplici, puliti, i loro sorrisi aperti e sinceri, sia per il loro modo di vestirsi – equilibrato e accessibile anche quando sono molto eleganti – e di porsi – accogliente e persino comico in non pochi momenti.

Meredith è invece tutto il contrario: appare fin da subito come una presenza artificiosa, fuori luogo, una facciata costruita con un sorriso smagliante, ma che, al contrario di Liz, è forzato e velenoso…

Una strada solitaria

Per quanto le due protagoniste si sforzino nel far rimettere insieme i loro genitori, è una strada che i due devono percorrere da soli.

In primo luogo, è Nick che deve rendersi conto del valore di quello che sta perdendo, proprio quando è messo davanti ad una scelta apparentemente difficile – scegliere fra le figlie e la futura moglie – posta da un’esasperata Meredith che mostra finalmente il suo vero volto.

Ma anche con l’uscita di scena della donna di troppo, la storia di Nick e Liz è un continuo rincorrersi, una costante paura di riprendere le fila di una storia che era stata abbandonata così bruscamente, in maniera così apparentemente irrimediabile…

Ma è col piacevolissimo colpo di scena finale che questa strana e rinnovata famiglia ritrova finalmente la sua unione.

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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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Rango – Storia di un eroe a caso

Rango (2011) di Gore Verbinski è un lungometraggio animato che rappresenta un incontro fra il western classico e thriller politico, con un pizzico di surrealismo e un buon impianto metanarrativo.

Anche se sulla carta fu un flop – appena 245 milioni di incasso contro 135 milioni di budget – la Paramount lo considerò un ottimo punto di partenza per fondare il proprio reparto di animazione.

Di cosa parla Rango?

Rango è un camaleonte pieno di sogni, che vive nella ristrettezza del suo terrario, ma che verrà catapultato in una fantastica avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rango?

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Assolutamente sì.

È veramente difficile spiegare Rango a chi non l’ha mai visto: ad una visione più superficiale, potrebbe apparire come una semplicissima avventura per ragazzi dal sapore western, ma ci sono diversi aspetti della pellicola che portano in un’altra direzione…

Senza andare troppo nello specifico, se vorrete intraprendere questa visione, vi consiglio di fare attenzione agli elementi visivi che vengono ripetuti in più momenti durante la pelliclla, specificatamente all’inizio e alla fine.

Potreste rimanere sorpresi…

Senza nome

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Rango è un eroe senza nome.

Un camaleonte che non sa di esserlo – e infatti nessuno degli altri personaggi lo definirà mai tale – incapace di integrarsi, incapace di utilizzare i suoi poteri naturali per cambiare aspetto, ma comunque deciso a vivere l’avventura che lo definisca come eroe.

Gli elementi del suo terrario sono dei placeholder piuttosto deboli, che rappresentano gli elementi fondamentali dell’avventura, particolarmente dell’avventura western: la bella da salvare, il nemico da sconfiggere, il personaggio maschile impossibilitato a proteggere la comunità.

E poi lui, l’eroe della storia.

Disillusione

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Per la maggior parte del film, Rango combatte contro sé stesso.

Per quanto agli inizi si senta totalmente coinvolto dalla storia che lui stesso ha creato, allo stesso modo è completamente consapevole, anzi esplicitamente disilluso dalla totale artificiosità della situazione, definita da pochi, fragilissimi simboli.

Ma è sempre Rango che, appena è gettato nella feroce realtà del deserto, sulle prime sembra totalmente incapace ad integrarsi e a sopravvivere, ma riesce infine, con qualche piccola arguzia, a salvarsi dal falco, e così ad arrivare a Polvere.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

In questa aspra cittadina di frontiera, Rango si rende conto di poter essere chi vuole, e prende il suo nome da eroe totalmente per caso, da una scritta su un bottiglia. Ed è la sua capacità di interpretare un personaggio profondamente teatrale che convince tutti gli altri della sua sceneggiata.

Ma nel momento in cui è messo alla prova, in cui deve dimostrare effettivamente di essere un eroe, perde in realtà tutto il suo coraggio e riesce assai debolmente a nascondersi dietro alla facciata che lui stesso si è creato.

Ma è la storia stessa che sembra venirgli incontro, regalandogli una serie di colpi di fortuna che riescono effettivamente a rendere credibile la sua maschera.

Un’arida realtà

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

La vicenda politica è la parte più adulta della pellicola.

Piuttosto indovinata l’idea di legare l’elemento di forza del potere politico a qualcosa di così fondamentale per la sopravvivenza – anche se, in realtà, basterebbe sostituire l’acqua con i soldi o il petrolio per dare alla vicenda tutto un altro sapore.

Di fatto il vero nemico della storia non è Jake Sonagli, ma il sindaco, che all’esterno appare come un benefattore della comunità – offrendo ad ogni cittadino un obolo di acqua – ma che nell’ombra agisce con una vera e propria speculazione edilizia.

Rango in Rango (2011) di Gore Verbinski

Come il più feroce degli imprenditori e strozzini moderni, prende il controllo dell’economia della città e la prosciuga del suo valore, così da poterne prendere possesso e usare quegli spazi per costruire una realtà edilizia ben più vantaggiosa.

Questo elemento è in aperto contrasto con le atmosfere western, ma, storicamente parlando, Rango si pone nel momento che segnò la fine del sogno del Far West, delle città di frontiera e dei cowboy, per lasciare spazio alla più avanguardistica realtà urbana.

Ma il western ha ancora qualcosa da dire.

Una pesante eredità

Jake Sonagli in Rango (2011) di Gore Verbinski

Nella parte centrale e, soprattutto, nel finale, l’avventura western cerca di farsi disperatamente largo in una situazione dove sembra ormai fuori posto.

In primo luogo, tramite la tumultuosa cavalcata per acciuffare i ladri della banca e ritornare come eroi, una lunga sequenza che è forse la parte più specificatamente western della pellicola, e anche la più digeribile per un pubblico infantile.

Ma la stessa si conclude con un brusco ritorno alla realtà, quando si scopre che l’acqua in realtà non era stata veramente rubata: il deposito era già stato prosciugato dal sindaco.

Per quanto Rango cerchi di fare luce su una storia ben più complessa e meno facilmente riconducibile alla classica avventura western che tanto sognava, quest’ultima lo respinge e cerca di buttarlo fuori di scena.

Ed il motore dell’azione è proprio Jake Sonagli.

Questo nemico monumentale, oltre ad essere uno dei villain più terrificanti dell’animazione dello scorso decennio, rappresenta sia il nemico ultimo da combattere per l’eroe, sia la monumentalità del sogno del Far West, che il sindaco vorrebbe spazzare via.

E proprio Jake Sonagli che spoglia Rango della sua neonata identità, gli impedisce di essere l’eroe che aveva sempre sognato – e a cui tutti avevano creduto.

Il meta-sogno

Clint Eastwood in Rango (2011) di Gore Verbinski

L’incontro con Lo spirito del West è la sequenza rivelatoria.

Rango, dopo essere finalmente riuscito a superare la prova finale dell’eroe, quella che aveva sempre temuto, incontra finalmente l’entità che rappresenta il West, nello specifico il genere western.

Ma è molto diversa da quella che si sarebbe aspettato.

Lo spirito del West è di fatto l’altra faccia di Jake Sonagli, un simbolo spogliato del suo sogno: non troviamo infatti un Clint Eastwood nei panni del suo iconico Uomo senza nome, ma piuttosto l’autore che indossa le vesti del suo personaggio, ma che è diventato qualcos’altro.

Lo Spirito del West è infatti l’Eastwood uomo, il regista e l’autore che ha collezionato diversi premi e che può godersi la ricchezza conquistata a bordo di un moderno golf card, ma che comunque non ha mai abbandonato il sogno del Far West.

No man can walk out of his own story.

Nessuno può tirarsi fuori dalla propria storia.

Questa frase emblematica insegna a Rango come possa vivere anche come eroe dei due mondi: il mondo del sogno, del Far West ormai morente, e l’eroe invece più urbano, contemporaneo, che svela le macchinazioni politiche del sindaco e che, infine, salva la comunità.

E al contempo racconta come il protagonista non debba inseguire l’icona di un eroe di parole e simboli, ma piuttosto dimostrare il suo valore tramite azioni veramente risolutive, che lo definiranno effettivamente come il salvatore della città.

Riprendersi il finale

Il finale di Rango è prevedibile quanto inaspettato.

L’elemento inaspettato è rappresentato dall’improbabile alleanza fra Rango e Jake Sonagli, da cui infine il protagonista riceve l’approvazione – e quindi la validazione – come eroe, e che porta il bandito a rivoltarsi verso il vero nemico, il personaggio che vuole distruggere il sogno: il sindaco.

La conclusione prevedibile è il salvataggio della città, in maniera piuttosto rocambolesca, quasi eccessiva, che porta sostanzialmente ad un cambio del paesaggio: il deserto diventa una piacevole spiaggia.

E così, con un discorso esplicitamente metanarrativo, Rango si congeda dalla scena come eroe che deve lasciarsi alle spalle la comunità che ha salvato per cavalcare verso l’orizzonte, verso nuove avventure che consolidino la sua posizione.

Anche se…

Rango finale significato

Il finale di Rango si presta ad una lettura molto più onirica.

Ma non solo il finale: una primissima definizione del personaggio si vede quando, fra i vari salti fra le macchine, il protagonista finisce sul parabrezza di un personaggio molto peculiare, che non è altro che Johnny Depp in Paura e delirio a Las Vegas (1998)

E, proprio a livello metanarrativo, Rango nelle sue prime vesti indossa una camicia molto simile a quella del protagonista della suddetta pellicola, oltre ad essere doppiato proprio da Johnny Depp.

Questo confronto così diretto apre la possibilità ad una ulteriore lettura: e se tutta la storia di Rango non fosse altro che un sogno dello stesso protagonista?

Johnny Depp in Rango (2011) di Gore Verbinski

Secondo questa idea, la trama politica potrebbe derivare da una visione più semplicistica dei discorsi sentiti da Rango dalla bocca dei suoi padroni, la cavalcata sarebbe nient’altro che la messinscena delle visioni dal finestrino mentre in macchina si dirigono verso Las Vegas, che è fra l’altro il luogo rivelatorio dell’intrigo del sindaco.

Una visione confermata dal finale, dove i personaggi si muovono in ambiente che è evidentemente il terrario, sia per lo sfondo con le nuvolette, sia per la presenza degli elementi che definivano lo spazio all’inizio del film.

La palma di plastica, il manichino, il pesce…

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The Darjeeling Limited – Una famiglia a pezzi

The Darjeeling Limited (2007) è uno dei titoli un po’ meno noti della filmografia di Wes Anderson: forse non la sua opera più memorabile, ma comunque impreziosita dalla sua peculiare tecnica e cura registica, oltre ad un’ottima scelta di casting.

Con un budget abbastanza contenuto – 17,5 milioni di dollari – non ottenne grande successo al botteghino: appena 35 milioni in tutto il mondo.

DI cosa parla The Darjeeling Limited?

Francis, Peter e Jack sono tre rampolli figli di una ricca famiglia, che intraprendono un viaggio per ricostruire i rapporti familiari ormai spezzati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Darjeeling Limited?

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

In generale, sì.

Anche se, come detto, non è il titolo più di pregio della filmografia di Wes Anderson, è comunque una pellicola molto piacevole, che ricorda molto da vicino una delle sue prime opere, The Royal Tenenbaums (2001), di cui condivide la tematica principale.

Un film con una durata contenuta e con una storia molto semplice, ma portata in scena con la nota maestria di Anderson nel riuscire a viaggiare fra la commedia e il dramma, con un particolare focus sull’immancabile elemento della morte.

Insomma, non un titolo imperdibile, ma sicuramente essenziale per conoscere a fondo questo fantastico autore.

Uniti per forza

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Nel suo primo atto, The Darjeeling Limited riesce a raccontare in maniera precisa e sottile il rapporto fra i tre fratelli.

Francis è l’entusiasta, che vuole a tutti i costi rimettere insieme questi rapporti familiari ormai spezzati, proprio a causa – ma non solo – della morte del padre e dell’ennesimo abbandono della madre.

Ma prende la via totalmente sbagliata.

Anche in aperta ironia verso la visione occidentale dell’utilizzare l’India come meta per recuperare la propria spiritualità perduta, il piano di Francis si rivela estremamente fragile, quasi infantile nella sua esecuzione, con il picco rappresentato dal furto dei passaporti dei fratelli…

Ritornare ai simboli

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La visione infantile si perpetua anche per altri elementi.

Anzitutto con il comportamento di Peter, che cerca di appropriarsi, come dei feticci, degli oggetti del padre perduto, insistendo nella puerile idea di essere il suo preferito, come cercando di ottenere, anche da morto, l’affetto forse mai ricevuto.

Non solamente gli occhiali, ma anche la tanto desiderata cintura, che continua a passare di mano in mano, e, soprattutto, le valigie, il simbolo più forte di tutta la storia, rappresentante l’ingombrante bagaglio emotivo che i protagonisti devono portarsi dietro.

Anche se sono evidentemente dei bagagli troppo pesanti…

Il risveglio della morte

Quando il terzetto viene cacciato dal treno, simbolicamente perde del tutto una guida, un percorso prestabilito, e decide di abbandonare il viaggio.

La mancanza di una via sicura è simboleggiata già dalla scena in cui il treno, che dovrebbe essere il mezzo di trasporto più sicuro del suo percorso, sbaglia strada e per molto tempo non sa dove andare.

Ma, proprio quando sembra tutto perduto, la famiglia si riunisce nella morte.

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

La morte del ragazzino è infatti fondamentale per la risoluzione del trauma: trovandosi nel mezzo di una drammatica situazione familiare, pur essendone inevitabilmente una parte fondamentale, i tre decidono inizialmente di allontanarsene.

Ma, con l’improvvisa e inaspettata inclusione in questa sconosciuta famiglia, distrutta ma unita nel lutto, i tre rivivono l’analogo momento funereo che avrebbe dovuto rimettere insieme il gruppo familiare, ma che non ha fatto altro che confermarne la totale divisione.

Una divisione che si riflette anche nel comportamento degli stessi fratelli nelle loro rispettive relazioni: nessuno di loro riesce a tenere insieme queste neonate famiglie, neanche nei momenti che dovrebbero renderle più unite – come la nascita di un figlio.

Affrontare i traumi

Adrien Brody, Owen Wilson e Jason Schwartzman in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Il terzo atto si definisce in tre momenti fondamentali.

Il primo è la scelta di Louis di mettersi definitivamente a nudo davanti ai propri fratelli, mostrando le ferite e le cicatrici che rappresentano in maniera simbolica, nonché assai cruda, il deterioramento del loro rapporto.

Infatti, il momento in cui l’uomo si lascia mettere nuove bende dai suoi fratelli, arrivando anche ad ammettere di essersi fatto del male solamente per attirare l’attenzione – e riunire la famiglia – è il motore che porta i protagonisti al confronto fondamentale.

Ovvero, l’incontro con la madre.

Come ci aspettavamo una madre fredda e distante, scopriamo invece una donna estremamente affettuosa con i propri figli, che li tratta anzi come se fossero ancora dei bambini – in particolare nella scena della buonanotte.

Tuttavia, riuscendo a superare il proprio stato infantile e trovando la forza per affrontare la genitrice, i tre fratelli si trovano davanti alla dura quanto schietta verità, raccontata dalla madre stessa: un affetto intenso, ma momentaneo, che può scomparire da un momento all’altro.

E, infatti, il giorno dopo Patrica esce nuovamente dalle loro vite.

Ma in questo modo i tre riescono a non essere più dipendenti dal suo affetto.

The Darjeeling Limited finale

Adrien Brody in una scena di The Darjeeling Limited (2007) di Wes Anderson

Ma il momento fondamentale è la liberazione dall’ossessione paterna.

Proprio mentre stanno per risalire sul treno – quindi metaforicamente pronti a continuare la loro vita – i protagonisti decidono di abbandonare per sempre questo bagaglio emotivo così pesante che si sono portati dietro per tutta la vita – e per tutto il viaggio.

E così, dire finalmente addio al padre.

E, proprio per piccoli elementi, ritroviamo i fratelli finalmente riuniti: si interessano finalmente alla storia di Jack – e indirettamente lo comprendono – e lasciano i propri passaporti in mano a Francis, così che sia libero di riorganizzare il viaggio, e, di conseguenza, di consolidare i nuovi legami.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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In Bruges – Spogliare il genere

In Bruges (2008) è una delle prime opere di Martin McDonagh, e anche fra quelle più apprezzate della sua produzione.

Con un budget piuttosto risicato – appena 15 milioni di dollari – incassò abbastanza bene: circa 34 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla In Bruges?

Ray e Ken sono due mercenari che, dopo il loro omicidio, devono nascondersi nella città di Bruges, in Belgio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In Bruges?

In generale, sì.

Per quanto apprezzi molto questo film, non mi sento di consigliarvelo spassionatamente: è un mix micidiale fra il dramma più sanguinoso e spinto, e una comicità nerissima.

Tuttavia se, come me, avete apprezzato Gli spiriti dell’isola (2022), sarete ancora una volta piacevolmente sorpresi dall’arguzia di questo regista nel sorprendere lo spettatore, ora con una risata angosciante, ora con una ripresa rivoltante.

Insomma, arrivateci preparati.

Un inizio sbagliato

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

L’inizio di In Bruges per un attimo sembra l’incipit di un giallo hard boiled

…ma subito si rivela per quello che è.

Oltre all’introduzione della voce narrativa assolutamente fuori luogo, viene mostrata una situazione che, se non ci fossero di mezzo due killer ed un omicidio, sembrerebbe propria di una commedia enemy to lovers tipica di quegli anni.

Infatti, i due protagonisti sono totalmente contrapposti per carattere e atteggiamento, riuscendo a sostenere la presenza l’uno dell’altro solo per dovere, con un incalzare piuttosto insistente per portare in scena anche il terzo uomo, Harry.

L’introduzione del dramma

Colin Farell in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Dopo un primo atto quasi totalmente umoristico, l’introduzione del dramma è sconvolgente.

Sia la scoperta della dinamica del primo omicidio di Ray, con una vittima innocente di mezzo, sia l’ordine piuttosto veemente di Harry, penetrano la comicità della pellicola e la rendono improvvisamente molto più angosciante, con un’alternanza sconvolgente fra picchi più profondamente drammatici e momenti apertamente comici.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Seguiamo Ken mentre, silenziosamente, accetta l’ordine di Harry, da cui scopriamo essere legato da un retroscena ben più importante della vita del suo compagno di delitti, fino ad avvicinarsi al momento dell’uccisione…

…improvvisamente interrotto da una scena quasi comica, in cui scopriamo che già di per sé Ray non riesce a continuare a vivere con il peso del suo delitto sulle palle.

E allora viene temporaneamente congedato di scena.

Picchi

Ralph Fiennes in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Il terzo atto viene scatenato dalla telefonata di Ken, che porta finalmente in scena Harry, fino a quel momento presenza invisibile della storia.

Anche con Harry si costruisce un importante contrasto: appartenente un killer spietato e legato ai concetti di onore e responsabilità, ma al contempo anche un family man che rassicura amorevolmente i suoi cari sul fatto che tornerà presto a casa.

Tutta la parte finale è definita sempre di più dal contrasto fra comico e drammatico: dal discorso struggente di Ken, al momento di commedia quasi slapstick di Harry che gli spara alla gamba, fino all’annientamento del protagonista quando cerca di fermare il suo capo dall’uccidere il suo giovane amico.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

A partire dalla morte di Ken, la regia gioca con il metanarrativo e il grottesco: una rapida inquadratura mostra il suo corpo distrutto mentre parla con l’amico, cercando inutilmente di salvarlo, ma le sue ultime parole rivelano come gli stessi personaggi siano consapevoli delle dinamiche della storia:

I’m gonna die now, I think.

Credo che ora morirò.

Allo stesso modo la situazione di stallo fra Ray e Harry, che dovrebbe essere estremamente drammatica e altisonante, in realtà si rivela un rocambolesco accordo fra le parti, con l’inevitabile morte del primo…

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

…ma non è finita.

Dopo aver sparato altri colpi per finire il protagonista, involontariamente Harry colpisce anche Jimmy, che, così vestito, sembra un bambino.

E non servono a niente le parole di Ray per dissuaderlo dal suicidio, lasciando in bocca allo spettatore un piccolo sorriso per il paradosso drammatico e grottesco della scena…

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Incontri ravvicinati del terzo tipo – La fantascienza positiva

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) è un classico della fantascienza Anni Settanta (e non solo), nato dalla mente di uno dei più grandi maestri dei cult vivente, Steven Spielberg, al tempo forte del recente successo di Lo squalo (1975).

Con un budget di appena 20 milioni di dollari – circa 100 oggi – ebbe un successo stratosferico, con un incasso di 300 milioni di dollari – circa un miliardo e mezzo oggi.

Di cosa parla Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Durante un turno di lavoro notturno, Roy Neary viene coinvolto in un inseguimento di quattro UFO da parte della polizia, vivendo così un incontro ravvicinato...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Incontri ravvicinati del terzo tipo?

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Incontri ravvicinati del terzo tipo è veramente un titolo imperdibile se siete appassionati di fantascienza, soprattutto a quel tipo di fantascienza pensata per un pubblico più giovane.

Fra l’altro una pellicola che mostra tutta l’intelligenza di Spielberg anche come sceneggiatore, capace di creare scene dal taglio orrorifico diventate immediatamente iconiche – e citate in Stranger Things – e passare organicamente a momenti di pura comicità.

Insomma, cosa state aspettando?

Gli eroi per caso

Richard Dreyfuss in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Incontri ravvicinati del terzo tipo si basa su un modello narrativo molto semplice, ma che io adoro dei film di fantascienza.

L’eroe incompreso.

Il protagonista principale è Roy, che fin da subito è raccontato come personaggio fondamentalmente non preso sul serio dalla sua famiglia, testardo, quasi infantile, contrapposto alla più autoritaria figura femminile.

A lui viene affidata un’importante sequenza comica, che crea un climax fondamentale per cucire in maniera ancora più importante la relazione con lo spettatore: del tutto vittima degli impulsi psichici a cui è stato sottoposto, in un momento di apparente follia cerca di ricreare materialmente il messaggio degli alieni.

E proprio per questo viene abbandonato.

Richard Dreyfuss e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Questo modello è trasmesso anche ad altri due personaggi: il piccolo Barry e sua madre, Jillian.

In questo caso il personaggio femminile è un po’ sacrificato, vincolato praticamente solo al ruolo materno. Ma non c’è da stupirsi: eravamo ancora agli albori della fantascienza moderna, in cui il genere era principalmente pensato per un pubblico maschile, molto lontano dell’innovazione di Alien (1979) e dalle eroine di Cameron.

Tuttavia, il contrasto fra Jillian e suo figlio ha un risultato irresistibile.

Punti di vista

Cary Guffey in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La scena più iconica della pellicola è indubbiamente l’attacco alla casa di Barry e il suo rapimento.

Una scena diretta con grande maestria e un uso delle luci veramente indovinato, che fanno da sfondo perfetto per l’orrore e le grida di Jillian, che vede improvvisamente la casa animarsi e urlare, come posseduta dai fantasmi.

Al contrario il bambino, che aveva già vissuto felicemente il primo contatto, è del tutto affascinato da questo divertente gioco di luci, e per questo si lascia rapire dalla bellezza di questo nuovo amico da scoprire.

Ed è, di fatto, l’unico a capire il vero significato del messaggio degli alieni.

La fantascienza positiva

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

La peculiarità di Incontri ravvicinati del terzo tipo è il suo approccio molto positivo alla fantascienza.

Come per Una nuova speranza – uscito lo stesso anno – Spielberg predilige una visione molto più vicina ad un target più giovane, diversamente dal taglio più drammatico e violento che sarà invece tipico del genere nel decennio successivo.

In particolare, la positività dell’incontro fra alieni e umani è racchiusa nel personaggio di Berry.

Cary Guffey e Melinda Dillon in una scena di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) di Steven Spielberg

Il bambino vive tutto come un sogno, ed è evidente il parallelismo del montaggio fra i piccoli alieni che si vedono alla fine – interpretati effettivamente da delle ragazzine – e il volto del giovane personaggio umano: non sono poi così diversi.

Allo stesso modo il contatto con gli extraterrestri è un finalizzato al legame, e non al conflitto: tramite un linguaggio universale – la musica – questi pacifici alieni cercano di insegnare agli umani come poter comunicare e poter unire le due specie.

Tanto che nel finale il protagonista è accolto sulla nave, pronto ad essere ambasciatore dell’umanità…

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.