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Moonrise Kingdom – Una piccola storia di crescita

Moonrise Kingdom (2012) è un titolo un po’ meno noto di Wes Anderson, l’ultimo uscito prima del suo grande successo, Grand Budapest Hotel (2013).

Con un budget piuttosto contenuto – 16 milioni di dollari – incassò tutto sommato abbastanza bene: circa 68 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Moonrise Kingdom?

Isola di New Penzance, New England, 1965. Sam è un giovanissimo scout che decide di organizzare una fuga d’amore insieme all’amata Suzy…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonrise Kingdom?

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Moonrise Kingdom è uno dei prodotti più riusciti dell’opera di Wes Anderson, che per certi versi mi ricorda un altro cult della sua produzione, The Royal Tanenbaums (2001), in particolare nei personaggi protagonisti.

Una storia di crescita, dei primi amori, raccontata con particolare delicatezza, ma senza cercare di edulcorare il racconto, anzi regalando un’inedita importanza ai sentimenti dei giovanissimi protagonisti nella loro fuga d’amore.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Bloccati

Jared Gilman in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Nell’incipit scopriamo il vero motivo della partenza dei protagonisti.

Entrambi si trovano bloccati in uno status quo che non apprezzano: Sam, nonostante abbia imparato molto dagli scout e continui a vestire i loro simboli, si sente intrappolato in un contesto dove non viene apprezzato, anzi dove è odiato senza motivo.

Al contempo Suzy si trova in una realtà familiare che perlopiù la annoia, anche per la grande maturità che dimostra, già solo scoprendo il tradimento della madre e tenendoselo dentro per moltissimo tempo.

E allora è ora di partire.

Si parte!

Quando il film comincia, anche il viaggio è già iniziato.

E pezzo per pezzo ricostruiamo l’antefatto del loro viaggio, in particolare nel bellissimo montaggio dedicato al loro scambio di lettere, che ci racconta come il loro rapporto si sia consolidato nel tempo, nel loro ritrovarsi come due animi affini…

Nel loro viaggio, Suzy e Sam portano sé stessi.

Sam sembra l’unico ad essersi preparato per questa avventura, anche troppo: il ragazzino non abbandona mai veramente la sua identità di scout, nonostante si sia ritirato, in particolare nel sacrificio verso gli altri, aiutando costantemente la sua compagna di viaggio.

Jared Gilman e Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Al contempo Suzy sembra incredibilmente imparata: si porta dietro troppi oggetti, molti anche assolutamente inutili o eccessivi nella loro quantità: una valigia piena di libri, una cesta con dentro un gattino…

Queste valigie rappresentano in realtà le loro identità, i loro bagagli emotivi che tengono ancora sulle spalle, anche se sono ormai pronti a scoprire qualcosa di nuovo: l’amore, i primi pruriti sessuali, l’indipendenza dagli adulti.

Impossibile fuggire?

Anche se il loro viaggio sembra destinato a finire prematuramente, anche se sembra che gli adulti cerchino di nuovo di domare le loro indoli ribelli e riportarli ai loro ruoli, di fatto sottovalutano l’energia dei protagonisti.

Ma, soprattutto, avviene l’inaspettato.

Questi due outsider riescono a proseguire il loro viaggio grazie agli amici che si fanno lungo la strada, grazie a degli improbabili alleati che, davanti ad un destino fin troppo drammatico di Sam, passano da essere cacciatori a diventare loro complici.

E quando sembra che abbiamo raggiunto il picco drammatico, quando ormai sembra che non ci sia niente da fare, anche gli adulti, uno in particolare, diventa loro alleato: il povero poliziotto Sharp, che ha pena per il ragazzino e sceglie di adottarlo.

L’eterna fuga d’amore

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Il finale sembra ricomporre la situazione iniziale con poche differenze.

In realtà, tutto è cambiato.

Ora i due possono vivere più apertamente la loro relazione, senza doversi più nascondere, ma volendo comunque mantenere vivo quel senso di pericolo: motivo per cui Sam, invece per passare dalla porta, scappa come un ladro dalla finestra di Suzy.

E intanto il ragazzino ha anche trovato una nuova realtà in cui identificarsi, un nuovo mondo in cui esplorare la sua crescita: come parte della polizia locale – in maniera ironicamente paradossale visto il suo atteggiamento criminale.

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Shrek Terzo – La grande debolezza

Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller è il terzo capitolo della saga cult di Shrek, nonché il film considerato più debole fra quelli prodotti finora per questo personaggio…

Con un budget leggermente superiore al precedente – 160 milioni – fu sempre un grande successo, ma non riuscì ad avvicinarsi alla soglia del miliardo come Shrek 2, con appena 813 milioni di incasso.

Di cosa parla Shrek Terzo?

Dopo essere riuscito a tornare in buoni rapporti con i genitori di Fiona, Shrek cerca una via d’uscita dalla soffocante vita di corte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek Terzo?

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

In generale, sì.

Per quanto Shrek Terzo manchi assolutamente della brillantezza dei precedenti, è complessivamente un capitolo piacevole, che riesce, pur con molta difficoltà, a rimanere sui binari della saga, cercando di introdurre qualche novità…

È anche il capitolo in cui si punta di più sull’ironia, con però, ancora una volta, un umorismo molto meno interessante e originale rispetto a quello a cui ci aveva abituato fino a questo momento…

Insomma, se siete innamorati di Shrek, potreste amarlo quanto odiarlo…

Un nuovo ostacolo

Ciuchino, Shrek, Fiona e Il gatto con gli stivali in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come ogni film di Shrek, anche in questo caso il protagonista si deve trovare davanti ad un ulteriore ostacolo che metta in discussione il suo status quo.

E, a fronte di tutte le possibili strade che si sarebbero potute intraprendere, si è preferito portare Shrek sui binari dell’uomo medio, ovvero alle medesime problematiche che affliggono i protagonisti della maggior parte delle sitcom e delle commedie romantiche.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Prima il matrimonio, poi i figli.

E purtroppo non si sono resi conto di quando questa scelta non faccia altro che allontanare il personaggio da sé stesso, mentre aveva potenzialmente la strada spianata per mettersi veramente alla prova, non tanto come padre, ma piuttosto come regnante.

Invece questa possibilità viene subito tolta dal tavolo.

La banalità

Per due film Shrek ci aveva stupito con delle location profondamente originali, incontri vincenti fra il vecchio e il nuovo.

Purtroppo, non si può dire lo stesso di Worcestershire.

La high school in stile medievale di per sé non è malvagia, ma personalmente ho visto video fanmade su Facebook più riusciti. Fra l’altro, un’idea veramente vista e rivista, poco originale, e che è stata replicata in tutte le salse anche troppe volte.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Al contempo portare Shrek in questo contesto così da teen movie l’ho trovato abbastanza fuori luogo per il personaggio, unicamente finalizzato all’inserimento di momenti di comicità spicciola e slapstick – alcuni anche vagamente indovinati, altri veramente poco interessanti…

E parlando di Artie…

La strada obbligata

Artie in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come per Shrek, anche Artie imbocca una strada obbligata dalla sceneggiatura.

Uno dei punti di forza di Shrek è sempre stato di riuscire a costruire i rapporti fra i personaggi e i loro archi evolutivi in breve tempo. In Shrek Terzo, anche per una narrazione estremamente spezzettata, l’evoluzione di Artie funziona fino ad un certo punto.

Infatti, se tutto sommato il personaggio riesce a compiere la sua maturazione e diventare più sicuro di sé, appare molto più forzato invece il fatto che riesca così facilmente a prendersi sulle spalle una responsabilità come quella di essere un re per un paese sconosciuto…

L’esasperante girl power

In Shrek Terzo sembrano improvvisamente essersi resi conto che Fiona era un personaggio più secondario del dovuto.

Indubbiamente la scena della rivolta delle principesse è la parte più iconica del film e di per sé non è neanche un’idea scadente, ma ho anche sempre avuto la sensazione che fosse qualcosa di molto raffazzonato, e che andasse persino a banalizzare il senso dell’evoluzione di Fiona.

Fiona e Mildred in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Infatti il significato della sua emancipazione non era tanto quello di potersi salvare da sola – cosa di cui, come abbiamo detto, era capacissima di fare – ma più che altro di liberarsi da quella prigione mentale autoimposta dell’essere la principessa perfetta.

Al contrario qui le principesse sembrano rendersi conto di quanto sia stupido essere del tutto dipendenti dalla figura del principe, mostrando scene veramente interessanti come quella di Biancaneve, ma complessivamente un ragionamento molto più superficiale rispetto a quanto visto nel primo capitolo.

Il tema di fondo

Artie e Merlino in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Il tema di fondo di Shrek Terzo è fondamentalmente l’idea di emanciparsi dalla posizione sociale (auto)imposta.

Quindi si distribuisce la tematica comune di tutti e tre i film su più personaggi, idea che potrebbe essere anche complessivamente interessante, ma che in realtà ho trovato una scelta, arrivati a questo punto, francamente ridondante.

Nonostante questo, Azzurro non mi dispiace come villain.

Azzurro in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Per quanto preferisca i precedenti antagonisti, recuperare un personaggio negativo ma non troppo esplorato del secondo film e renderlo un villain in tutto e per tutto è stata secondo me la scelta migliore di tutta la pellicola.

Tanto più che Azzurro si autoproclama il paladino della diversità, ma in realtà agisce per motivi puramente egoistici, ovvero riuscire a recuperare lo status sociale che gli è stato tolto, facendo leva sull’insoddisfazione di personaggi che avrebbe disprezzato fino al giorno prima…

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Spider-Man: Across the Spider-Verse – Il canone tirannico

Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson è il sequel del quasi omonimo film del 2018, con protagonista Miles Morale – l’altro Spiderman.

Un film che promette molto bene al botteghino: a fronte di un budget di circa 100 milioni, ha già raddoppiato i suoi costi di produzione, con 208 milioni di incasso nel primo weekend.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Dopo più di un anno dall’incontro con lo Spider-Verse, Miles e Gwen stanno facendo i conti con i loro irrisolti problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Spider-Man: Across the Spider-Verse?

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Assolutamente sì.

Spider-Man: Across the Spider-Verse compie diversi ed importanti passi avanti rispetto al precedente film – che era già ottimo: una tecnica artistica che si evolve in nuove direzioni, raccontando visivamente in maniera nuova e fresca i diversi universi, retta anche da una scrittura molto più consapevole.

Infatti, questo film nasce inizialmente come un unico prodotto, ma si è scelto successivamente di dividerlo in due parti. E, a fine visione, sono sicura che di questo capitolo non avreste tolto un minuto: un’introduzione potente e robusta per una storia monumentale.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Ricominciamo da Gwen

Gwen Stacy in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spider-Man: Across the Spider-Verse ricomincia, a sorpresa, da Gwen.

Il suo personaggio è quanto essenziale, quanto poco esplorato nel precedente capitolo. In questo caso, invece, domina la scena per la primissima parte della pellicola, ri-raccontando per certi versi – ma in maniera più approfondita – il trauma personale che la definisce come Spider Woman.

E da qui si sviluppa anche il dramma del rapporto non risolto col padre, che si esplica anche in un senso di forte solitudine, di necessità di trovare un’identità e di far parte di un gruppo – ovvero la Spider Society.

Ma con una scelta che la porta – e per non poco tempo – ad abbandonare il padre stesso…

I super problemi

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

La seconda parte del primo atto è invece dedicata a Miles.

Anche il giovane protagonista sta affrontando questioni non tanto dissimili da quelle di Gwen, anche se con un taglio narrativo decisamente molto più ironico – in funzione del finale, che invece raggiunge un picco drammatico non indifferente.

Ancora una volta, scopriamo Miles prima come Miles, e poi come Spiderman.

Un ragazzo che sta vivendo un momento di passaggio in realtà abbastanza tipico per il suo personaggio: pensare a che tipo di vita costruirsi oltre alla sua identità segreta, a vivere il peso di rivelare la stessa ai genitori – soprattutto al padre.

Ma anche Miles si lascia momentaneamente il problema alle spalle, per unirsi alla Spider Society.

Un villain di contorno?

Spot in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spot ha un ruolo tutto particolare.

Inizialmente sembra veramente un villain puramente comico, il villain della settimana, che Spiderman sconfigge facilmente, per poi passare al prossimo super problema.

Ma lui stesso si ribella da questo ruolo, riuscendo invece a riscoprire i propri poteri come molto più interessanti di quanto aveva compreso finora. Purtroppo, le sue motivazioni sono molto banali: vendicarsi su Spiderman.

Per questo motivo nel terzo atto di fatto scompare, rimanendo solo come una minaccia nell’ombra, che aggrava ancora di più una situazione già di per sé assai spinosa…

Il problema del canone

Il vero nemico di Spider-Man: Across the Spider-Verse è Spiderman stesso.

Con un ottimo gioco metanarrativo, si racconta come tutti gli Spiderman, proprio per riuscire a mantenere intatto quello che volgarmente chiamiamo Spider-Verse, devono accettare e di fatto sottostare alle regole del canone.

In questo modo si giustifica come il personaggio, nelle sue varie incarnazioni cinematografiche – in particolare quelle della Sony – ripercorra bene o male le medesime tappe e affronti i medesimi problemi, pur con le dovute differenze.

Ma è questo il vero dramma.

Miguel O'Hara in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Spiderman per essere tale è costretto ad affrontare anche traumi davvero sconvolgenti, che solitamente riguardano la perdita degli affetti.

Per questo il personaggio di Miguel O’Hara è così tanto grigio: avendo vissuto sulla sua pelle cosa significa davvero andare contro il canone e vivere solamente per sé stessi, lo impone giustamente (?) anche a tutti gli altri.

Ma Miles è ancora troppo giovane, troppo inesperto – ancora una volta – e non è pronto ad affrontare un nuovo trauma in così poco tempo. Un trauma che, con ogni probabilità, lo porterebbe ad una distruzione della sua identità e a chiudersi in sé stesso.

E allora cos’è più importante?

Salvare sé stessi o salvare il multiverso?

Spider-Man: Across the Spider-Verse finale spiegazione

Il finale di Spider-Man: Across the Spider-Verse è piuttosto oscuro.

Quantomeno inizialmente Gwen ottiene un finale positivo: anche se scopre che per colpa sua il padre ha lasciato il lavoro da poliziotto, in questo modo non diventa capitano della polizia, non seguendo quindi la strada del canone che l’avrebbe portato alla morte.

Invece il finale di Miles è quasi macabro.

Finalmente pronto ad affrontare i suoi genitori per rivelare la sua identità segreta, il protagonista si confida con la madre, che sembra non capire di cosa stia parlando. E, se in un primo momento la situazione sembra credibile, minuto dopo minuto la verità comincia ad emergere…

Miles Morales in una scena di Spider-Man: Across the Spider-Verse (2023) di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson

Miles ha sbagliato universo, è finito in quello da cui deriva il ragno che l’ha morso, dove proprio per questo manca uno Spiderman. E non è neanche la cosa peggiore: Miles, perdendo il padre e non essendo morso dal ragno, è diventato un supercattivo, Prowler.

Ed è piuttosto credibile: nel primo film veniva raccontato quanto Miles fosse legato allo zio, quindi è altrettanto comprensibile che, in mancanza di un’altra strada, si sia lasciato sedurre dalla possibilità di essere super, ma dalla parte sbagliata…

Spider-Man: Across the Spider-Verse Andrew Garfield Donald Glover

Spider-Man: Across the Spider-Verse è il miglior racconto del multiverso di Spiderman portato finora al cinema.

La tecnica narrativa e artistica si arricchisce, portando nuovi e fantastici personaggi, ognuno definito da una propria estetica, peculiare e unica: dallo Spider Punk all’Avvoltoio di Età Rinascimentale.

Ma anche Gwen ha una propria identità visiva, quasi espressionista: una realtà molto sfumata, che cambia a seconda delle sue emozioni.

Un multiverso incredibilmente intelligente, che riesce anzitutto a portare un’ironia metanarrativa particolarmente indovinata:

Ma, soprattutto, sembra mettere finalmente un punto al rapporto fra live action e realtà animata nell’Universo Marvel-Sony.

Semplicemente, i personaggi in live action rimangono tali, non cambiano entrando nell’universo animato. E così il film si collega a tutti gli altri Spiderman della Sony, in maniera molto più organica rispetto a No Way Home (2021).

Ma il collegamento più importante è anche quello che potrebbe sfuggire: Donald Glover nei panni di Prowler, che molti potrebbero essersi dimenticati che è apparso – pur con un minutaggio limitato – in Spiderman: Homecoming (2016):

Quindi già al tempo sapevamo dell’esistenza di Miles Morales nell’universo live action.

Quindi è probabile che questi due mondi – animato e live action – rimangano divisi – e che altrettanto probabilmente ci sarà un Miles Morales diverso in live action (nel già annunciato film) e un sequel di No Way Home, che sembra già essere in produzione.

Così, se tutto va bene, non faranno un disastro.

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Gli spin-off

Solo – A flop story

Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard è stato il secondo tentativo di portare una storia spin-off nell’universo di Star Wars al cinema, dopo Rogue One (2016). E con risultati molto diversi…

Non a caso fu un discreto flop: a fronte di un budget stimato di 275 milioni di dollari, ne incassò appena 392 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Solo?

Il giovane Han (non ancora Solo) è imprigionato dal pianeta Corellia, sotto lo stringente controllo di Lady Proxima. Ma ha forse trovato finalmente una via di fuga…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Solo?

Chewbecca in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Sì e no.

Solo non è un prodotto che mi sento di sconsigliare in toto, ma sicuramente non ve lo raccomando se vi è piaciuto Rogue One o se siete amanti di Star Wars: semplicemente, non è un film della saga.

È un generico film di fantascienza su cui hanno appiccicato alcuni elementi di Star Wars, con una scrittura assai banale, un protagonista che purtroppo non ha un’unghia del carisma di Harrison Ford e una storia nel complesso veramente poco appassionante…

Perché Solo è stato un flop?

Il flop di Solo è secondo me la coincidenza di diversi fattori.

Anzitutto, il periodo di uscita: a differenza di Rogue One, che arrivò in un momento di rinascita del brand, il mercato cinematografico nel 2018 era ormai saturo di Star Wars, con già cinque nuovi prodotti nel giro di pochi anni.

In secondo luogo, Solo partiva molto più svantaggiato: se il precedente spin-off era uscito dopo un film accolto abbastanza positivamente dal pubblico, questa pellicola arrivò dopo Gli ultimi Jedi (2017), prodotto che ancora oggi è incredibilmente divisivo per il pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In ultimo, forse più indirettamente, la situazione dei personaggi della trilogia originale non era delle più rosee: sia Luke che Han erano ormai morti per il canone, e in particolare Harrison Ford si era prestato controvoglia al ritorno nel personaggio.

E se a tutto questo si aggiunge la scarsa qualità della pellicola…

Dove si colloca Solo?

Solo è ambientato esattamente dieci anni prima di Una nuova speranza (1977).

Cominciamo male

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Per molti tratti, ho avuto la sensazione che Solo volesse copiare spudoratamente Rogue One, ma senza capirne i punti di forza.

Infatti, l’incipit è molto simile: una sorta di prologo, a cui segue un’ellissi temporale abbastanza ampia, che purtroppo diventa totalmente irrilevante vista banalità dello sviluppo del rapporto fra Han e Qi’ra.

Ma non è finita qui.

Anche peggio è come si compone il gruppo principale della storia: sia per l’introduzione di Chewbacca, totalmente out of character, ma soprattutto con la devastante debolezza delle motivazioni che portano Tobias ad accogliere Han nella sua squadra.

Basta un così veloce scambio di battute per far passare il personaggio dal voler condannare il protagonista a morte all’includerlo in una missione così importante e pericolosa?

Il mancato interesse

Una cosa che Rogue One aveva capito molto bene è quanto sia essenziale che la storia raccontata sembri importante allo spettatore.

Se ci pensate, tutti i prodotti cinematografici di Star Wars hanno come fine ultimo qualcosa di davvero importante – solitamente la salvezza della galassia – che riesce a coinvolgere lo spettatore all’interno di una dinamica imponente e fondamentale.

Invece, perché dovrebbe importarmi della storia di Solo?

Tutta la missione non sembra altro che una side quest molto diluita, un riempimento sentito come necessario per arrivare a due ore di film e per collegare infine tutti gli elementi che caratterizzano il personaggio di Han Solo.

E non è neanche credibile.

Un film di nicchia

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Vi ricordate quando parlavamo di quanto fosse importante in Rogue One la scelta di eliminare tutti i personaggi in scena, per evitare buchi di trama incolmabili con la Trilogia Originale?

Solo non solo sbaglia in questo, ma fa gli stessi errori dei film successivi.

Andando a fare qualche ricerca, si scopre che il futuro di Q’ira dopo questa pellicola viene raccontato nell’Universo Espanso a fumetti, usciti, ovviamente, dopo La trilogia originale.

Prodotti di nicchia, per la maggior parte non conosciuti dal grande pubblico.

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

In questo modo, si dà per scontato che lo spettatore non abbia un cortocircuito mentale vedendo il personaggio sopravvivere e non apparire nei film successivi, visto che facilmente non conoscerà i fumetti.

In questo modo, come è stato per la seconda stagione di The Mandalorian, ma anche per la futura serie di Asoka, si allontana una buona fetta di pubblico, quegli stessi casual fan (come me) che hanno di solito una conoscenza limitata ai prodotti cinematografici.

E i risultati si vedono…

Star Wars?

Alden Ehrenreich in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

E, nonostante questo, paradossalmente Solo è il film meno Star Wars che mi sia capitato di vedere in tempi recenti.

Evidentemente Ron Howard non ha la stessa eleganza e intelligenza per riuscire a rinnovare l’aspetto della saga di quella che ha dimostrato Gareth Edwards in Rogue One. Infatti, Solo presenta un’estetica molto generica, che non riesce a ricollegare visivamente la pellicola al brand, tranne per pochi elementi.

E, anche peggio, Han Solo non sembra sé stesso.

Per quanto Alden Ehrenreich si sia impegnato, non ha lo stesso carisma e iconicità di Harrison Ford, e quindi non riesce veramente a raccontare un personaggio più giovane e immaturo, portando una backstory francamente neanche così interessante, anzi…

Inutili colpi di scena

Emilia Clarke in una scena di Solo: A Star Wars Story (2018) di Ron Howard

Il finale di Solo vive di colpi di scena.

Ogni personaggio si scopre di avere un secondo, terzo, quarto obbiettivo o piano nascosto fino a questo momento, con una sequela di colpi di scena quasi nauseante, che sembra voler tenere lo spettatore con la bocca aperta per tutto il terzo atto.

Tuttavia, vuoi per la debolezza delle relazioni dei personaggi, vuoi per il poco interesse che la storia in generale mi ha suscitato, mi sono sentita veramente poco coinvolta, e più esasperata che sorpresa…

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Intrigo Internazionale – Il thriller comico

Intrigo internazionale (1959) – traduzione molto goffa del titolo originale North by Northwest – è una delle opere più note della filmografia di Hitchcock, nonché l’ultimo in cui lavorò con il suo attore feticcio, Cary Grant.

A fronte di un budget medio – 4,3 milioni di dollari, circa 45 oggi – incassò abbastanza bene: 9,8 milioni di dollari (circa 102 oggi).

Di cosa parla Intrigo Internazionale?

Roger Thornhill è un agente pubblicitario che viene involontariamente coinvolto in uno scambio di persona e in un intrigo spionistico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Intrigo Internazionale?

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Intrigo Internazionale è uno dei titoli più interessanti della filmografia di Hitchcock, dove sperimenta in maniera particolarmente avvincente con il genere thriller, ma con importanti contaminazioni comiche e della spy story.

Una storia intrigante e piena di tensione, che mi ha ricordato molto la storia di Carl Barks Paperino e le spie atomiche (1951).

Non manca qualche piccolo inciampo sul finale, ma elegantemente camuffato da una regia intelligente e piuttosto indovinata, che mostra un Hitchcock perfettamente padrone della sua arte, proprio alle porte del suo capolavoro…

Lo strappo

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

L’incipit di Intrigo internazionale è magistrale.

Si apre con una lunga sequenza che ci introduce il personaggio: un agente pubblicitario piuttosto intraprendente, pienissimo di impegni e particolarmente carismatico. Piccole scene dal sapore comico, che fanno immergere lo spettatore in atmosfere apparentemente tranquille e quotidiane…

…per poi catapultarlo nel vivo dell’azione.

Mentre Roger sta serenamente intrattenendo la tavolata, la macchina da presa si muove improvvisamente, con uno scatto repentino, per mostrare un elemento della stanza che era rimasto fuori dalla scena fino a quel momento: due loschi individui che hanno adocchiato il protagonista.

Scene vertiginose

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Così Roger si trova incastrato in una situazione da cui sembra impossibile uscire, nonostante cerchi continuamente di imporre la propria autorità.

Tuttavia, viene costretto ad una rocambolesca fuga in auto, dopo essere stato ubriacato forzatamente. E qui Cary Grant sfodera le sue incredibili capacità di attore comico, reggendo sulle spalle una scena particolarmente complessa, soprattutto considerando le tecniche disponibili al tempo.

Ma l’attore feticcio di Hitchcock riesce perfettamente a calibrare la situazione nella sua grottesca comicità, aiutato anche da abili movimenti di macchina, che Hitchcock già aveva già utilizzato nella scena analoga di Caccia al ladro (1955).

E non è finita qui.

Un Grant inedito

Cary Grant e  Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Forse volendo smorzare i toni dopo la tiepida accoglienza del ben più drammatico Vertigo (1958), in Intrigo Internazionale Hitchcock lascia ampio spazio alla recitazione comica.

Tuttavia, non è la solita comicità alla Hitchcock, quell’humour nerissimo che aveva avuto il suo picco in La congiura degli innocenti (1955): troviamo invece dinamiche più semplici, quasi da slapstick comedy.

Ed è qui che Cary Grant dà veramente il suo meglio.

Già molto esperto nel genere, l’attore riesce a muoversi con abilità sia nelle sequenze più drammatiche e di tensione, con il suo sguardo penetrante, sia nei momenti più apertamente comici, in particolare la spassosissima scena dell’asta.

Un’intrusione fondamentale

Cary Grant in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Una sequenza fondamentale, posta sul finale del primo atto, è quella dedicata allo svelamento dell’intrigo.

Ma solo allo spettatore.

Una breve scenetta in cui le menti dietro al fittizio George Kaplan raccontano il loro piano, fornendo una bussola chiara allo spettatore per il seguito delle vicende. Una tecnica già utilizzata in Vertigo, che permette di continuare a seguire il protagonista nei suoi inciampi senza esasperare la tensione.

In questo modo, inoltre, si rende anche più interessante il momento di svolta in cui il personaggio diventa veramente attivo negli eventi.

Il motore necessario?

Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Sulle prime ho particolarmente apprezzato il personaggio di Eva.

Una scelta di casting piuttosto peculiare per Hitchcock, che si lascia alle spalle le bellezze più magnetiche di Grace Kelly quanto di Kim Novak, preferendo invece un’attrice come Eva Marie Saint, che funziona molto bene nel ruolo della donna intrigante.

Una donna di difficile lettura, che ricorda quello che sarà poi Janet Leigh in Psycho (1960).

Intorno alla stessa ho anche apprezzato il momento di indipendenza del protagonista, che diventa più furbo delle spie stesse, riuscendo momentaneamente a sbrogliarsi dall’intrigo in cui era stato coinvolto.

Cary Grant e Eva Marie Saint in una scena di Intrigo Internazionale (1959) di Alfred Hitchcock

Ho invece meno apprezzato l’idea che Roger di leghi così profondamente ad Eva, tanto da rimettersi in gioco e rischiare davvero la propria vita per salvarla, volendo ovviamente portare all’happy ending romantico.

Una costruzione che ho trovato meno convincente rispetto ad altri prodotti di Hitchcock, che come sempre include l’elemento romantico, percepito evidentemente come necessario, ma che alla fine mi è parso abbastanza debole come motore della vicenda.

Anche se…

Intrigo Internazionale finale

Il finale di Intrigo Internazionale è uno dei più indovinati della filmografia di Hitchcock.

In una scena di incredibile tensione sul Monte Rushmore, quando sembra ormai che Eva sia destinata a morire, Roger la solleva e improvvisamente la scena si riforma in un contesto ben più intimo e accogliente: il treno.

Come creare un finale positivo e senza sbavature.

Intrigo internazionale titolo originale

Il titolo originale di Intrigo internazionale è North by Northwest.

Ma cosa significa?

Letteralmente significa Da nord a nordovest, facendo riferimento al percorso del protagonista: dal Palazzo delle Nazioni Unite (New York), al monte Rushmore (Sud Dakota).

Ma, secondo alcuni critici, lo stesso prende spunto da Amleto (2,2):

I am but mad north-northwest

Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest

quindi rendendo il protagonista un eroe shakespeariano moderno.

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Il castello errante di Howl – Il gioco delle maschere

Il castello errante di Howl (2004) è uno dei miei prodotti preferiti di Miyazaki, nonché di uno dei progetti più ambiziosi del maestro nipponico.

A fronte di un budget non particolarmente sostanzioso – 2,4 miliardi di yen, circa 24 milioni dollari – fu un incredibile successo commerciale, incassando 236 milioni di dollari. In Italia uscì nel 2005 e in DVD nel 2006, il primo film Ghibli distribuito dalla Lucky Red.

Di cosa parla Il castello errante di Howl?

Sophie è una modesta cappellaia di paese, che sembra non voler abbandonare il negozio di famiglia. Ma la sua vita prenderà una via inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il castello errante di Howl?

Testa di rapa e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Ammetto che dopo una recente revisione de Il castello errante di Howl l’avevo un po’ rivalutato in negativo, per via di alcuni snodi di trama che mi sembravano poco chiari e comprensibili.

In realtà, rivedendolo, mi sono resa conto che, comprendendo la chiave di lettura, tutto assume un senso.

Oltre a questo è un superbo film di avventura, con un world building paragonabile per bellezza solo a La città incantata (2001), ma che prende strade nuove e anche più importanti, pur con temi comuni.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il castello errante di Howl è incredibilmente basso.

Come detto, questo fu il primo film distribuito dalla Lucky Red e anche il primo doppiaggio dello Studio Ghibli curato da Cannarsi. Proprio perché era agli inizi e non aveva neanche tutto questo potere decisionale, fece un lavoro incredibilmente accettabile.

Ovviamente non mancano gli arcaismi, i dialoghi che suonano a tratti artificiosi, ma niente che vi porterà a voler abbandonare la visione.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Un’origine modesta

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

L’incipit racconta anche solo visivamente il carattere della protagonista.

Una ragazza dall’aspetto e dai comportamenti molto riservati e modesti, che si scontra continuamente con il carattere e l’estetica molto più chiassosa delle altre donne della sua vita, soprattutto la madre e la sorella.

In particolare la sorella, ragazza piacente e corteggiata da molti uomini, si oppone all’idea della sorella maggiore di rimanere per sempre ancorata al suo nido paterno, per condurre una vita riservata e senza grandi sorprese.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo l’incontro con Howl è così sconvolgente.

Il mago è infatti un personaggio emotivo e travolgente, che trascina improvvisamente Sophie nella sua vita. Una vita fatta di fughe e di colpi di scena, in cui la protagonista sembra costantemente di star partecipando ad un gioco di cui tutti conoscono le regole, tranne lei.

Ovviamente Sophie è subito – comprensibilmente – folgorata, ma si lascia anche abbastanza facilmente l’accaduto alle spalle.

Una nuova maschera

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il primo incontro-scontro con la Strega delle Lande è tanto più determinante.

Sophie mostra abbastanza in fretta di non essere così tanto docile come potrebbe apparire, reagendo piuttosto fermamente alla scortesia della donna. Potrebbe sembrare che questo suo comportamento sia il motivo della maledizione…

…ma non è così.

La strega, così come Howl, è un personaggio sfacciato e pieno di se stesso, così altrettanto indifferente delle conseguenze delle proprie azioni. Per questo, avrebbe comunque punito Sophie per aver aiutato il suo nemico.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

In realtà, questa maledizione è un’opportunità.

Sia in senso positivo che negativo.

In senso positivo, Sophie può cambiare vita: la protagonista non ci mette molto ad accettare la sua nuova condizione, e si rifugia in realtà abbastanza divertita dietro una serie di luoghi comuni e battute frizzanti che il suo nuovo aspetto le permette.

In senso negativo, Sophie ha una nuova maschera dietro cui nascondersi: anche se riesce comunque a mostrarsi più intraprendente e decisa nel suo agire, in qualche modo finisce per trovare anche un altro rifugio per il suo tanto agognato quieto vivere.

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per questo, Sophie non è tanto diversa da Howl.

Con queste nuove vesti da vecchietta innocua ma decisa, si ritaglia il suo spazio nella vita del mago, senza arrendersi mai neanche davanti alle proteste degli altri personaggi.

Ma è ancora una volta un’apparenza dietro cui nascondersi, per celare tutta la sua insicurezza e paura, che non a caso emerge di tanto in tanto, anzitutto col primo (ri)incontro con Howl, mentre sta cucinando…

Una sfacciata apparenza

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Howl è un giovane favoloso.

All’apparenza è un uomo attraente e sicuro di sé, che si muove abilmente in tutte le situazioni della vita con anche una certa giocosità, fin dalla sua primissima apparizione quando si trova tampinato dagli sgherri della Strega delle Lande.

Questo aspetto viene ancora confermato, anche se in senso diverso, dalla sua attività segreta: scegliere di non allearsi per principio con il Re per combattere la guerra, ma boicottarla segretamente, mettendo in pericolo la sua stessa vita.

E proprio qui avviene il punto di svolta.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da un errore apparentemente innocuo – una tinta per capelli andata male – Howl svela la sua prima insicurezza.

L’ossessione per la bellezza esteriore.

Infatti basta questo piccolo ostacolo per farlo crollare in una profonda depressione, tale da annientarlo completamente e fisicamente, oltre a mettere in pericolo anche chi gli sta intorno. E in questo momento la sfuriata di Sophie è più fondamentale di quanto sembri…

Una svolta inaspettata

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Come un bambino imbronciato, Howl si chiude in camera sua.

Un contesto già in apparenza assai infantile – con molti giocattoli che ricordano quelli di Bō, il figlio di Yubaba, ne La città incantata – ancora più sottolineato dal suo non voler parlare e non accettare le cure di Sophie.

Tuttavia, Howl ha già imparato qualcosa.

Ha accettato almeno una parte del suo aspetto, scegliendo di non tingersi più – neanche successivamente – i capelli, ma mantenere il suo aspetto originale. Insomma, la sfuriata di Sophie contro la sua vanità incontrollata ha avuto un inaspettato effetto positivo.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Inoltre, da questo momento Howl comincia a fidarsi di Sophie.

Per quanto sia probabile che Howl abbia riconosciuto subito la ragazza appena se l’è trovata in casa, proprio la notte che torna dal combattimento la vede addormentata col suo vero aspetto, e così conferma il suo sospetto.

E per questo, consapevole della determinazione della protagonista, le affida una missione importante per riuscire ad affrontare faccia a faccia Madame Sullivan, non essendo capace lui stesso di fronteggiare le trappole della maga.

Howl e Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

E infatti, in un gioco delle parti piuttosto intraprendente, Howl entra nel luogo che aveva da così tanto tempo avuto paura di penetrare.

Sia lui che Sullivan sono fin da subito consapevoli di star giocando – Howl sa che Sullivan l’ha riconosciuto – ma è l’unico modo per cui il mago riesce finalmente a dire alla sua ex-maestra che non vuole prendere parte a questa guerra.

Ovviamente la maga non si arrende così facilmente, e cerca di insidiarlo con diverse e spaventose illusioni, in cui lui rischia inevitabilmente di soccombere, se non fosse ancora una volta per l’intervento di Sophie.

La lenta trasformazione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

La prova del palazzo è un punto di svolta anche per Sophie.

È infatti il primo momento in cui la protagonista esprime apertamente i suoi sentimenti felici, che la fanno ritornare improvvisamente al suo vero aspetto. Aspetto che è per tutto il tempo sotto gli occhi di tutti, ma che lei è l’unica a non voler accettare.

Dal rientro al castello, Sophie comincia piano piano ad abbandonare la sua maschera, ringiovanendo lentamente, ma visibilmente:

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Da questo momento Howl comincia sempre di più a mostrare il suo amore e la sua riconoscenza verso la ragazza: non solo col trasloco le dà una stanza tutta per sé, ma con lo stesso ricrea la casa natale della protagonista.

Ma il picco è il rifugio nella natura.

Il mago le fa questo meraviglioso regalo, che la fa scoppiare di felicità, facendola ritornare improvvisamente al suo aspetto reale. Nella stessa occasione Sophie prova anche ad esternare le sue paure, e Howl le risponde con forza per rassicurarla, ma riuscendo solo a farla rinchiudere di nuovo in se stessa.

Sophie  e Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Il momento effettivo è quando Sophie si rende conto delle intenzioni di Howl.

Quando infatti la protagonista accetta finalmente l’amore del mago, accetta di essere amata nonostante non sia bella, e quando altresì la paura la domina definitivamente, si ribella ai suoi stessi timori e prende in mano la situazione.

E ritorna definitivamente al suo aspetto.

Distruzione e costruzione

Sophie in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Pur armata di grande determinazione sulle prime, Sophie è un personaggio umano, che quindi può sbagliare.

Anzitutto la protagonista accetta la sua vera forma, anzi sceglie di prenderne una nuova: regalare la sua treccia a Calcifer, e cambiando del tutto aspetto. Ed è anche il primo momento di distruzione di Howl, tramite il castello stesso, che rappresenta questa apparenza dietro a cui il mago continua a nascondersi.

Ma l’inseguimento non va a buon fine.

Howl in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Questo momento di apparente sconfitta – Sophie è convinta di aver ucciso Howl gettando l’acqua su Calcifer – in realtà è il momento della rivelazione. Grazie all’anello che l’amato le aveva regalato, la ragazza riesce a trovare Howl, scoprendo il suo segreto.

Sophie capisce così come salvare il mago da se stesso, ridonandogli quella vera natura che ha cercato di fuggire per tutta la vita – ovvero il suo cuore. E Howl è ancora più felice quando vede Sophie nella sua splendida, migliore forma.

La strega delle lande spiegazione

Nel terzo atto, le azioni della Strega delle Lande e Heel, il cane di Madame Sullivan sono apparentemente incomprensibili.

In realtà, sono facilmente spiegabili.

La Strega delle Lande ha vissuto tutta la vita con un solo obbiettivo: possedere Howl – le interpretazioni sul come vuole possederlo le lascio alla vostra immaginazione.

E neanche quando è privata dei suoi poteri, non si arrende.

Cerca infatti giocosamente di boicottare Howl, in modo da indebolirlo e potersene impossessare. Per questo dà in pasto l’insetto spione a Calcifer – che viene annientato e non può più proteggere la casa.

Infatti per questo il castello viene preso di mira, portando Howl a tornare e ad intestardirsi nel difenderlo, ma essendo anche in costante difficoltà.

E infatti alla fine riesce a prendere possesso del cuore.

Strega delle lande il castello errante di Howl

Perché Howl non la caccia?

Ci possono essere varie motivazioni, ma una in particolare è la più comprensibile: come Chihiro in La città incantata, Howl ha la capacità di vedere la vera natura delle persone – e non solo.

Per questo si rende conto che la Strega, ormai senza poteri, non può fargli del male e che non ha neanche effettive cattive intenzioni: è semplicemente ossessionata, ma anche pronta ad arrendersi per il bene di Howl stesso.

Heel il castello errante di Howl

Heel in una scena di Il castello errante di Howl (2004) di Hayao Miyazaki

Per lo stesso motivo, Howl non caccia Heel.

Per quanto abbia paura di Sullivan, Howl è anzitutto sicuro di essere protetto dalla sua magia e da Calsifer, quindi accetta quasi giocosamente di avere la maga alle calcagna – avendo fra l’altro la testa su tutt’altro obbiettivo.

Ma, soprattutto, Howl capisce le vere intenzioni del cagnolino, che è naturalmente riconoscente a Sophie, di cui ha visto la natura generosa e temeraria, e che per questo non vuole boicottare – e infatti non lo fa.

Il castello errante di Howl rapa

Una storia molto secondaria è quella di Testa di Rapa.

Un personaggio apparentemente molto di contorno, in realtà fondamentale in molti momenti: dopo che Sophie l’ha salvato, le fornisce un aiuto per camminare, le trova una casa e le recupera anche lo scialle.

E, oltre alla tenerissima scenetta in cui la aiuta col bucato, è il personaggio che di fatto salva la vita a tutti i personaggi quando stanno per cadere in un dirupo, mettendosi lui stesso in pericolo…

E, proprio in quel momento, Sophie gli dimostra finalmente affetto e lui può tornare alla sua vera forma così da fermare la guerra, pur dovendo accettare un amore non ricambiato…

Anche dal punto di vista artistico, Il castello errante di Howl è uno dei prodotti che più apprezzo della filmografia di Miyazaki.

Insieme a Yubaba, Sophie nella sua versione anziana è uno dei migliori visi anziani gestiti nella filmografia del maestro, ricchissimo di particolari e con delle animazioni stupefacenti:

Nonostante per i personaggi di Howl e Sophie – da giovane – Miyazaki utilizza dei modelli piuttosto standardizzati, senza particolari note di merito, non manca una cura particolare nei dettagli e nell’uso delle ombre, oltre che nel loro cambiamento durante il film:

Ma uno dei punti più alti è sicuramente la rappresentazione degli ambienti, sia esterni che interni.

Il castello in particolare è pieno zeppo di particolari, sia nella sua visione esterna che interna, sopratutto nei momenti di distruzione e cambiamento:

Così mi ha sempre fatto sognare la bellezza e la profondità con cui Miyazaki è riuscito a raccontare visivamente gli spazi esterni, in particolare la città reale:

Ma forse quello che mi piace di più di questo film è la rappresentazione del cibo e soprattutto dei personaggi che lo mangiano:

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La congiura degli innocenti – L’altro Hitchcock

La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici – ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene: 3,5 milioni, circa 39 oggi.

Di cosa parla La congiura degli innocenti?

Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dipende.

La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.

Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…

Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.

The trouble with harry

Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.

Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.

Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!

Un omicidio inaspettato

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.

Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.

E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.

Oggetti (e personaggi) di valore

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.

Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…

Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.

Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…

Shirley MacLaine e John Forsythe in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.

Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.

Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.

Che l’ironia continui!

Royal Dano in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.

I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.

Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.

Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:

The trouble with Harry is over.

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Avventura Azione Comico Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Giallo Star Wars - Trilogia prequel

Star Wars: L’attacco dei cloni – Il capitolo della resa

Star Wars: L’attacco dei cloni (2002) di George Lucas è il secondo capitolo della cosiddetta trilogia prequel.

Il budget fu lo stesso del primo capitolo – 115 milioni – ma guadagnò quasi la metà: appena 645 milioni di dollari.

Di cosa parla Star Wars: L’attacco dei cloni?

Dieci anni dopo Episodio I, Anakin è un giovane Padawan pieno di dubbi, e che non riesce a smettere di pensare a Padmé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Star Wars: L’attacco dei cloni?

Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Dipende.

Nonostante complessivamente abbia apprezzato un pochino di più questo capitolo rispetto al precedente, non mi ha lasciato un buon sapore in bocca. In questo film infatti si intraprende definitivamente la via più banale e meno interessante per raccontare un personaggio essenziale come Anakin.

Tuttavia, perlomeno il film dedica uno spazio importante ad Obi-Wan, con una storyline complessivamente interessante – soprattutto nel complesso della lore di Star Wars. Non un elemento che riesce a risollevare il mio entusiasmo, ma sicuramente meglio della noia che mi ha procurato il primo capitolo…

Insomma, se volete affrontare la trilogia prequel fino in fondo, dovete passare anche di qua.

Manca un pezzo?

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Cominciando L’attacco dei cloni, ho avuto un senso di vuoto.

Mi è stata sostanzialmente confermata la sensazione che Episodio I sia un prodotto sprecato, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del protagonista – che era l’elemento centrale nella trilogia originale.

Infatti, Anakin ci racconta tutte le sue problematiche e i suoi dilemmi solamente a parole, affrontando anche questioni piuttosto importanti – il sentirsi pronto all’essere un maestro ma non poterlo diventare, il suo sentirsi sottovalutato…

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Insomma, l’idea alla base di questo capitolo centrale era di mostrare una maturazione – anche negativa – del personaggio, in particolare attraverso il tentativo di ricongiungimento tanto desiderato con la madre.

Tuttavia, neanche in questo caso a mio parere si è fatto centro: mi viene onestamente da chiedermi cosa servisse questa costruzione estremamente melodrammatica, se non a portare, ancora una volta, alla più banale caratterizzazione del personaggio come spietato e schiavo delle emozioni.

Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Rimango insomma dell’idea che manchi un pezzo fondamentale, che permettesse di rendere veramente tridimensionale questo importantissimo personaggio, che è stato fondamentalmente rovinato da una scrittura poco indovinata e da una recitazione molto approssimativa.

Tanto più che di fatto Anakin non è altro che un ragazzino, pieno di emozioni e incapace di canalizzarle correttamente. Ormai purtroppo con questo capitolo mi sono arresa all’idea che questa sia la strada scelta, ma non posso che soffrire la mancanza di un approccio ben più profondo e vincente…

Un amore senza basi

Hayden Christensen e Natalie Portman in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Per lo stesso motivo di cui sopra, la storia d’amore è monca.

Era evidente che Lucas avesse bisogno di questa relazione per giustificare quanto successo dopo, ma si è dimenticato di introdurla. Infatti, mi vengono i brividi anche solo a pensare che l’innamoramento sia sbocciato quando Anakin era ancora un bambino…

Ho percepito la volontà di Lucas di togliere questo pensiero dalla mente dello spettatore: all’inizio Padmé vede Anakin ancora come un bambino. Tuttavia, questo elemento si mette facilmente da parte davanti all’evidente insistenza del ragazzo – e nient’altro…

Al contempo, ho trovato del tutto ingiustificata la reazione della ragazza quando il futuro Darth Veder le racconta di aver sterminato un intero villaggio, anche di innocenti, evidente foreshadowing della sua malvagità.

Un elemento chiarissimo allo spettatore, non pervenuto per Padmé…

Per fortuna c’è Obi-Wan

Ewan McGregor in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Ma, nonostante tutto, Episodio II mi è piaciuto più del precedente.

Oltre al fatto che la trama politica sembra molto meno fine a sé stessa e già più interessante, ho trovato anche piuttosto intrigante la storyline di Obi-Wan, con la sua caccia al mistero – e ai cloni – piena di tensione e di colpi di scena.

Forse uno degli elementi più vincenti della trilogia prequel è stato infatti il riuscire ad approfondire questo personaggio – che aveva uno screentime piuttosto limitato in Una nuova speranza e – finora – un passato assai misterioso.

Al contempo però ho poco apprezzato il continuo e costante contrasto, quasi velenoso, fra Obi-Wan e il suo Padawan: ne comprendo la funzione, ne comprendo i fini, ma mi sembra ancora una volta scegliere la via più facile e banale…

Sempre alla fine…

Natalie Portman, Ewan McGregor e Hayden Christensen in una scena di Star Wars: L'attacco dei cloni (2002) di George Lucas

Come per il precedente, tutta l’azione è concentrata nel finale.

E ancora una volta mi sono trovata davanti ad un lungo ed impegnativo combattimento conclusivo, che ho trovato personalmente sempre troppo dispersivo e troppo lungo, risvegliando il mio interesse effettivamente solo negli ultimi momenti.

In particolare, con lo scontro fra Yoda e Doku.

Uno duello davvero emozionante e pieno di colpi di scena, che riporta al centro della scena uno dei miei personaggi preferiti – Yoda – che purtroppo arriva dopo una sequela combattimenti molto meno soddisfacenti, financo ridicoli pensando al comportamento di Anakin…

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Guardiani della Galassia Vol. 3 – Farewell?

Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) è l’ultimo (?) capitolo della trilogia omonima creata e diretta da James Gunn per l’MCU.

A fronte di un budget piuttosto importante di 250 milioni di dollari, è stato il quarto maggior incasso del 2023, con 845 milioni di dollari al botteghino.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023)

in neretto le vittorie

Migliori effetti speciali

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 3?

Subito dopo lo Speciale di Natale, i Guardiani si trovano nella loro base, ma improvvisamente una nuova minaccia fa capolino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 3?

Chris Pratt in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In generale, sì.

Guardiani della Galassia Vol. 3 è un film fatto davvero apposta per i fan – dell’MCU, ma soprattutto del brand. Al punto che, per godere appieno della visione, è quantomai necessario vedere lo Speciale di Natale rilasciato nel 2022: la vicenda prende le mosse proprio da lì.

In generale, è un film che lavora moltissimo sul lato emotivo, con l’evidente intenzione – purtroppo per ovvi motivi – di chiudere dignitosamente tutti i personaggi, rischiando però in molti punti di forzare certe caratterizzazioni…

Ma, se siete fan dei Guardiani, ve ne innamorerete.

Il protagonista assente?

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Una particolarità di Guardiani della Galassia Vol. 3 è il cambio di protagonista.

Nonostante infatti si cerchi di dare più o meno spazio a tutti, il centro emotivo non è più Star Lord, ma Rocket e il suo passato. Tuttavia, il personaggio è assente dalla scena per la maggior parte della pellicola, vivendo solamente nei flashback.

Una storia piuttosto dolorosa, che ridimensiona il personaggio e lo porta su binari meno esplorati finora, con un’inedita crudeltà che domina la scena – pur perfettamente nascosta grazie ad una tecnica registica estremamente abile.

Rocket in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Per quanto mi sia profondamente emozionata nel veder raccontare la sua storia – che ha toccato tutti i tasti giusti – d’altra parte un po’ mi è dispiaciuto vedere così poco in scena quel Rocket a cui ero abituata finora, uno dei miei personaggi preferiti dei Guardiani…

Ma ho comunque apprezzato che la missione della pellicola fosse il suo complesso e intricatissimo salvataggio, preferendola ad una narrazione più tipica con il villain di turno da sconfiggere – soprattutto per il collegamento emotivo che è riuscito a creare.

E a questo proposito…

Il villain nelle retrovie

Will Poulter in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Adam Warlock, interpretato dalla stella nascente Will Poulter, era stato venduto se non come il villain principale, sicuramente come una figura importante nel film.

E invece è tutto il contrario.

Un personaggio che è stato quasi sicuramente riscritto e di gran lunga ridimensionato, diventando una sorta di antagonista di contorno, con una caratterizzazione piuttosto abbozzata ed un arco evolutivo altrettanto debole.

Per quanto non avrei personalmente voluto che fosse più centrale nella scena – anzi, l’avrei direttamente eliminato – mi dispiace per l’attore, per cui questo film doveva essere probabilmente un punto di svolta per la sua carriera…

Ma parlando del vero villain…

Un villain per ogni occasione

Chukwudi Iwuji  in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Ho decisamente apprezzato l’Alto Evoluzionario.

Come nel precedente capitolo, Gunn ha scelto di scrivere un villain che fosse profondamente legato ad uno dei personaggi. E questo carattere così altalenante, che passa da una finta docilità ad una rabbia distruttiva, unito al suo totale disinteresse per il valore della vita, ai miei occhi l’ha avvicinato ad un altro villain importantissimo dell’MCU.

Thanos.

Anche se ovviamente l’Alto Evoluzionario non ha la medesima profondità ed importanza, presenta la stessa malvagità giustificata del villain della Saga dell’Infinito, in questo caso nel ruolo di un dio generoso quanto vendicativo. E l’ottima performance di Chukwudi Iwuji ha fatto il resto.

I secondari al centro

Mantis in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Dovendo dire addio per sempre ai suoi personaggi, James Gunn ha voluto dare ad ognuno un proprio arco evolutivo ed una conclusione.

L’esempio più evidente è Mantis.

Personaggio introdotto come secondario in Guardiani della Galassia Vol. 2, con un ruolo da protagonista nello speciale, Mantis ha un’evoluzione essenziale quanto brusca: viene emotivamente più approfondita, diventando al contempo anche quasi aggressiva.

Inoltre, si scopre come i suoi poteri possano essere essenziali non solo come supporto emotivo per il gruppo, ma anche all’interno degli stessi combattimenti e delle intrusioni. E da quello ne deriva il suo finale: l’inizio di un viaggio per riscoprire sé stessa.

Drax in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Drax è un discorso a parte.

Il suo personaggio di per sé non ha un cambiamento significativo, anzi rimane per certi versi troppo uguale a sé stesso. Infatti, la sua comicità è fondamentalmente sempre identica: indubbiamente divertente ma, arrivati al terzo film, non ugualmente brillante come poteva apparire all’inizio…

Ma la parte importante è il suo finale: al pari di Star Lord, anche Drax capisce che è il momento di fermarsi, non essere più Il Distruttore, ma un padre per la nuova famiglia che si è creato. E, anche se è fin troppo didascalica, è comunque una conclusione che mi è parsa coerente e che ho nel complesso apprezzato.

Un protagonista indebolito?

Chris Pratt e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

In questo capitolo, Star Lord è un personaggio estremamente legato all’emotività.

Sia per il salvataggio di Rocket – di cui è il principale motore – sia per la relazione con Gamora. Se per certi versi la sua rappresentazione è forse troppo melensa e il suo rapporto con l’ex-compagna troppo insistente, probabilmente non si poteva fare diversamente.

Infatti, Peter aveva mostrato fin da subito un interesse per una ragazza che faticava anche solo ad accettarlo nella sua vita, con un rapporto, soprattutto sulle prime, assai antagonistico – in particolare da parte di Gamora – che si risolveva solo alla fine del secondo capitolo.

Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Tuttavia, ho personalmente apprezzato la conclusione.

Gunn ha scelto saggiamente di non abbassarsi alle dinamiche più tipiche da commedia romantica, con un ricongiungimento amoroso sul finale, magari costruito in maniera pure poco credibile e interessante.

Si mostra invece come Gamora ritorni ad un’altra famiglia, quella che ha ritrovato in questa realtà, e che non deve per forza di nuovo legarsi né a Quill né ai Guardiani – e trovando come loro una inaspettata nuova forma.

Ci saranno altri film sui guardiani della galassia?

All’indomani dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, la maggior parte degli attori ha chiuso le porte a future partecipazioni alla saga.

Zoe Saldana (Gamora) non ha dimostrato ulteriore interesse per l’MCU – e, essendo legata all’estremamente redditizio brand di Avatar, non ne ha francamente neanche bisogno…

Dave Bautista (Drax) ha scelto una via più drammatica per la sua carriera – recentemente come protagonista di Army of the Dead (2021) e Bussano alla porta (2022). Gli altri due personaggi – Mantis e Nebula – per quanto interessanti, non sono così tanto di richiamo da farli riapparire né in singolo né in gruppo.

Come se non bastasse, Sean Gunn, fratello del regista, non solo interpreta l’ex-ravager Kraglin, ma dà anche le movenze a Rocket – e non è da sottovalutare la sua eventuale, ma quasi scontata, assenza…

Una scena di Guardiani della Galassia Vol. 3 (2023) di James Gunn

Quindi è l’ultimo film sui Guardiani?

Secondo me, per tutti i motivi di cui sopra, sì.

E questo anche perché questo brand è troppo legato alla figura di James Gunn, che nel prossimo futuro avrà decisamente molte e altre gatte da pelare…

Tuttavia, rimane la questione Star Lord – che, a quanto pare, ritornerà. Visto l’andamento di carriera di Chris Pratt, che avuto i suoi momenti più economicamente interessanti solo legandosi a grandi brand, non mi stupisce che abbia stretto un altro accordo con l’MCU.

Ma, per quali prodotti, è ancora un grande mistero…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 3?

Come i precedenti capitoli di Guardiani della Galassia, anche il terzo film della saga è totalmente autonomo.

E, nonostante sembri che siano passati solo pochi mesi da Guardiani della Galassia (2014), il film si colloca nel 2024, quindi sia dopo Endgame (2019), sia dopo lo Speciale di Natale.

È il secondo film della Fase Cinque.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Comico Drammatico Film La magia di Miyazaki

La città incantata – La maturazione invisibile

La città incantata (2001) è forse l’opera più famosa di Hayao Miyazaki, parte di quello che io considero il terzetto delle meraviglie – insieme a La principessa Mononoke (1997) e il successivo Il castello errante di Howl (2004).

Fu anche uno dei maggiori successi del maestro nipponico: con un budget di appena 19 milioni di dollari, ne incassò quasi 400raddoppiando il successo del film precedente. In Italia venne distribuito prima nel 2003 e poi nuovamente nel 2014, con un nuovo doppiaggio.

Di cosa parla La città incantata?

Chihiro è una bambina di appena 10 anni che sta viaggiando verso la sua nuova casa. Ma nel viaggio il padre sbaglia strada, e la protagonista si trova coinvolta in un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La città incantata?

Chihiro e Lin in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Non vi nascondo che sono personalmente molto legata a questa pellicola – anche solo per il fatto che è il primo prodotto di Miyazaki che ho visto. Ma nondimeno è un film veramente fantastico, uno dei punti più alti di tutta la produzione del regista.

Un’avventura piuttosto articolata, con tanti personaggi, ma che agiscono all’interno di spazi ben precisi, e senza mai far sembrare il film troppo pesante da guardare – come era stato invece per La principessa Mononoke.

Insomma, non ve lo potete perdere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di La città incantata dipende.

Sono abbastanza sicura di averlo visto per la prima volta – e negli anni successivi – con il primo doppiaggio del 2003, curato da un’altra casa di produzione e non vivaddio! – da Cannarsi.

E infatti è un buon doppiaggio.

Il problema è che nel 2014 la palla è passata alla Lucky Red, e quindi a Cannarsi. Ho rivisto la pellicola quando è stata ridistribuita nel 2022 al cinema, con credo il doppiaggio del 2014 – a meno che Cannarsi non ci abbia di nuovo rimesso le mani.

Ed è un doppiaggio da incubo, da cui vi consiglio di stare lontani.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

La città incantata titolo originale

La traduzione del titolo de La città incantata è piuttosto particolare.

Infatti, se sostanzialmente la totalità dei titoli precedenti di Miyazaki era traducibile alla lettera – e così è stato fatto – in questo caso era un’impresa ben più complessa.

Se ci si pensa un attimo, il titolo italiano non ha molto senso.

Anzitutto, la storia non è ambientata in una città, ma principalmente in una sorta di centro benessere. Inoltre, in italiano incantata ha un’accezione più che altro positiva, favolistica, mentre in questo caso sarebbe meglio usare il termine stregata.

Una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Il titolo originale è 千と千尋の神隠し, letteralmente La sparizione causata dai kami di Sen e Chihiro.

Se è in generale la prima parte è abbastanza comprensibile – effettivamente la protagonista, che avrà i due nomi indicati, è scomparsa – meno chiara è la seconda parte.

I kami sono divinità o spiriti venerati dalla religione shintoista – e alcuni sono presenti effettivamente nella storia. Ma, più in generale, l’espressione kamikakushi contenuta nel titolo indica la sparizione improvvisa di una persona, che si presuppone essere rapita dalle divinità.

Non a caso, in inglese ha il titolo più attinente di Spirited away.

Una protagonista perfettamente umana

Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Chihiro è forse la protagonista meglio scritta della produzione di Miyazaki.

Inizialmente viene presentata come una ragazzina anche piuttosto timida, insicura e paurosa, ma anche dotata di idee molto forti, che però non riesce a farsi ascoltare. In realtà, le sue proteste iniziali verso i genitori raccontano una delle sue più importanti qualità.

L’abilità di guardare oltre l’apparenza.

Questa capacità si rifletterà nelle diverse prove che dovrà affrontare e che hanno tutte come sottofondo l’idea di capire la vera natura di qualcuno o qualcosa, mentre tutti gli altri si lasciano abbagliare solo dalla pura apparenza.

Chihiro e Kamaji in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E l’altra qualità imprescindibile della protagonista è la sua perseveranza.

Nonostante si trovi in una situazione di effettivo pericolo per la propria vita – ed è per questo evidentemente spaventata – Chihiro non si lascia mai abbattere: riesce a seguire le indicazioni di Haku ed arrivare a Kamaji, con cui insiste testardamente per avere un lavoro, tanto da mettersi in gioco in prima persona.

E proprio davanti alla perseveranza e al coraggio della protagonista, l’inquietante e burbero yōkai la aiuta.

Chihiro e Yubaba

Yubaba in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

E questa sua implacabile tenacia si vede ancora meglio nell’incontro con Yubaba.

Chihiro fino a questo momento è stata maltrattata, e, come se non bastasse, in questa scena le viene cucita la bocca, viene fisicamente aggredita da questa inquietante ed enorme donna, che minaccia – ancora una volta – la sua stessa vita e quella dei suoi genitori.

Ma ancora una volta la protagonista non si arrende, ma continua a inseguire il suo obbiettivo.

E a che prezzo…

La città incantata nome

Il modo in cui Yubaba ruba il nome alla protagonista è incomprensibile se non si conosce il giapponese.

Fondamentalmente il nome Chihiro in giapponese è scritto 千尋, quindi con due kanji – i caratteri della lingua giapponese. Yubaba ruba alla protagonista uno dei due, ovvero 尋, lasciando solo 千, che da solo si legge appunto Sen.

Il significato è piuttosto semplice: la strega sottrae il nome a chi sigla un patto con lei, quindi rubando l’identità del malcapitato, così da renderlo più obbediente – e, soprattutto, incapace di scappare…

Yubaba Kamaji folklore giapponese

Come la maggior parte dei personaggi fantastici presenti nel film, Yubaba e Kamaji sono ispirati al folklore giapponese.

Yubaba prende il nome dalla creatura di riferimento, ovvero 山姥, la Yama-uba: una mostruosa strega con i capelli spettinati, il kimono stracciato e che si nutre di carne umana.

Invece il nome Kamaji è molto esplicito: 釜爺 significa vecchio della caldaia ed è un tsuchigumo, ovvero un uomo dalla forma di ragno, animale che simboleggia l’operosità e l’abilità, ed indica anche un umano che vive sottoterra.

Le due prove

Nella parte centrale del film, Chihiro viene messa davanti a due prove.

La prima ha al centro il Dio del Fiume, travestito da Spirito del cattivo odore, ovvero una creatura il cui corpo è composto da sporco e spazzatura. Yubaba costringe la protagonista ad occuparsene, cercando di punirla.

Ma proprio per la sua capacità di guardare oltre, Chihiro – come in realtà già Yubaba – capisce che questo spirito non è quello che sembra, e cerca di aiutarlo a ritrovare il suo vero aspetto, eliminando tutta la spazzatura che lo ricopre.

Questo episodio è fra la sfida e la burla – il Dio si congratula con lei e poi scappa via ridendo, piuttosto divertito. Ma è anche il primo momento in cui Sen guadagna un po’ di rispetto dagli altri personaggi.

E, soprattutto, acquisisce un oggetto fondamentale.

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Mentre tutti i dipendenti sono abbagliati dall’oro lasciato dal dio, Chihiro si ritrova fra le mani un 苦団子, Niga-Dango: il dango è una sorta di gnocco di riso, che però in questo caso ha un sapore disgustoso – niga significa amaro.

Questo strumento è un elemento chiave per la prova successiva: Sen capisce che questo boccone disgustoso permette di liberare chi lo mangia di tutto quello che lo ricopre e con cui si nasconde, per svelarne la vera natura.

Per questo in primo luogo lo utilizza per aiutare Haku, facendoglielo mangiare quando è in fin di vita: in questo modo inconsapevolmente Chihiro libera il ragazzo sia dal sigillo che aveva rubato da Zeniba – e che lo faceva star male – sia dal demone che Yubaba usava per controllarlo.

La città incantata senza volto

Senza Volto e Chihiro in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento fondamentale è lo scontro con Senza Volto.

Uno spirito piuttosto sofferente, che è privo di un’identità, e che cerca di trovarne una incorporando proprio altre persone, di cui prende l’aspetto e la voce. E riesce a tentarle proprio offrendo loro quello che desiderano.

Ma Chihiro non è così superficiale.

La protagonista non ha bisogno dell’eccesso di ricchezza che lo spirito le offre, motivo per cui lo stesso impazzisce e non desidera altro che possederla. Ma ancora una volta Sen capisce la vera natura di chi ha davanti e lo libera tramite il dono fattogli dal Dio.

Senza Volto Dio Del fiume folklore giapponese

La misteriosa figura di Senza Volto è di fatto un’invenzione del film, ma la maschera è un riferimento alla forma di teatro giapponese 能, , caratterizzato da movimenti lenti e dei testi aperti all’interpretazione dello spettatore.

Il significato del Dio del fiume è un po’ più complesso: questo spirito non ha un nome, ma Yubaba lo descrive come 名のある川の主, ovvero Signore di un fiume famoso. Allo stesso modo in La principessa Mononoke, il Dio Cinghiale, Nago, veniva definito Signore di una famosa montagna.

Riprendendo quindi la lettura ambientalista tipica delle opere di Miyazaki, entrambi potrebbero rappresentare delle divinità naturali che sono state corrotte dalla pressante presenza umana e dall’inquinamento che ne è derivato.

L’ultimo atto

Bambino in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Nella sua corsa verso il finale, Chihiro viene accompagnata da due figure che hanno perso il loro aspetto naturale: Bō, il figlio di Yubaba trasformato in topo, e Yu-Bird, uno dei servi di Yubaba, che diventa un uccellino.

Particolarmente interessante è l’arco evolutivo del bambino: inconsapevolmente imprigionato in una stanza, soffocato dalle coccole e dalle attenzioni della madre, si trova infine nella condizione di poter esplorare il tanto temuto mondo esterno.

Sicuramente il momento di passaggio è quando la Yubaba non lo riconosce, shock che porta il personaggio a voler essere così indipendente da non accettare neanche il passaggio sulla spalla di Chihiro quando sono scesi dal treno.

Zeniba, Chihiro e Senza Volto in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

All’arrivo alla casa di Zeniba, la situazione è molto più tranquilla di quanto ci si aspettasse.

Come altri personaggi prima di lei, la strega ha compreso la natura fondamentalmente buona di Chihiro, che, invece di tenersi per sé il prezioso sigillo, ha intrapreso un importante viaggio per venire a restituirglielo e scusarsi, evidentemente perché pensava fosse la cosa giusta.

Proprio lì Senza Volto trova il suo posto nel mondo, e si scopre che i due piccoli accompagnatori di Chihiro potevano già da tempo tornare al loro aspetto originale, ma hanno preferito continuare a mantenere questa forma per portare a termine la loro missione.

Ovvero, aiutare la protagonista.

Haku la città incantata

Chihiro e Haku in una scena di La città incantata (2001) di Hayao Miyazaki

Ma il momento di passaggio fondamentale è con Haku.

Chihiro riesce a portare a termine la sua missione più importante: permettere ad Haku di ritrovare il suo nome, proprio grazie alla loro connessione, che ha permesso loro di salvarsi vicendevolmente la vita in più occasioni.

In realtà già da prima Haku era in parte riuscito a liberarsi dal giogo di Yubaba, proprio grazie all’uccisione dello spirito che lo controllava: si vede molto bene che, nel confronto successivo che ha con la strega, il ragazzo ha un atteggiamento del tutto diverso.

La città incantata finale

Nel finale, Chihiro riesce a superare efficacemente l’ultima prova di Yubaba, dimostrando ancora una volta di essere più acuta di quanto gli altri personaggi si aspettassero da lei.

L’ultima sequenza è apparentemente paradossale.

Infatti, Chihiro rincontra i suoi genitori, che evidentemente non si ricordano nulla, e torna indietro rivivendo il viaggio dell’andata apparentemente con le stesse dinamiche e sentimenti.

Ma tante cose sono cambiate.

Anche se Chihiro comunque è ancora una bambina spaventata e impacciata, ha capito molte cose su sé stessa, ha compreso la potenza delle sue qualità, e quanto sia prezioso essere gentili e corretti con gli altri.

Insomma, una maturazione invisibile, ma fondamentale.

Bambino la città incantata

Il figlio di Yubaba, Bō, è ispirato a Kintaro, un personaggio mitologico raccontato come un bambino dotato di forza sovrumana, e che secondo alcune versioni era stato proprio cresciuto da Yama-uba.

Sia Yubaba che Zeniba hanno degli shikigami, degli spiriti servitori: la prima, fra gli altri, il già citato Yu-Bird, mentre la sorella gli spiriti a forma di pezzi di carta.

La città incantata è uno dei punti più alti nell’evoluzione artistica di Miyazaki.

Anzitutto, per il lavoro fatto su Chihiro, personaggio che riprende il modello usuale per i volti più giovani, ma lo arricchisce di particolari, dandogli un’inedita profondità:

Inoltre, la protagonista è un personaggio incredibilmente espressivo, anche in maniera macchiettistica, ma nondimeno efficace:

Inoltre, in questa pellicola si trova il momento più alto nella rappresentazione dei volti anziani, con Yubaba, con un livello di dettagli e cura delle ombre semplicemente perfetto:

E anche in questo caso si continua con la rappresentazione delle donne con nuovi particolari, riuscendo a distinguerle in maniera abbastanza netta:

Ovviamente fantastica la rappresentazione di tutte le creature magiche, in particolare Yubaba, con la sua espressività esplosiva, e Haku nella sua versione drago:

Senza contare ovviamente la grande originalità nella rappresentazione degli ambienti, sempre ricchissimi di particolari e mai banali:

E, in ultimo, l’evoluzione essenziale nel rappresentare i cibi, che avrà il suo picco nel successivo Il castello errante di Howl: