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The Old Man & the Gun – In fuga dalla noia

The Old Man & the Gun (2018) è un film scritto e diretto da David Lowery, autore indie che da qualche anno porta avanti una proficua collaborazione con la A24.

A fronte di un budget piuttosto sorprendente – addirittura 15 milioni di dollari – purtroppo è stato anche un flop commerciale: appena 17 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Old Man & the Gun?

Forrest Tucker è un rapinatore con una storia piuttosto particolare: in prigione praticamente per tutta la sua vita, è in fuga da due anni dopo una rocambolesca evasione. E il tutto alla veneranda età di 74 anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Old Man & the Gun?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Assolutamente sì.

Dopo A ghost story (2017) ero discretamente fiduciosa per questa pellicola, ma mai mi sarei aspettata che potesse piacermi così tanto. Ho apprezzato soprattutto il cambio di passo del regista, che ha abbandonato un taglio più marcatamente autoriale e concettuale, scegliendo invece di raccontare una storia più tridimensionale.

Il racconto di The Old Man & the Gun non solo è davvero ben gestito, con una messinscena pulita e puntuale, ma gode anche di un protagonista intrigante e di un taglio più leggero e godibile, nonostante non manchi di tematiche profonde e interessanti.

Insomma, fatevi un favore e guardatelo.

Il ladro gentiluomo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

The day is still young.

La giornata è ancora lunga.

Mi ha piacevolmente colpito la sottile e gustosa ironia della pellicola: il protagonista è un ladro, ma anche un gentiluomo. Educato, gentile, mai violento, e con sempre un sorriso cordiale stampato in volto.

Fin da subito gli scambi con i manager delle banche e con le commesse raccontano tutta la sua piacevolezza e il divertimento che prova nel suo lavoro.

E infatti Forrest non ha alcun interesse né nei soldi né nel tempo passato in prigione: vuole solo e solamente vivere una vita spericolata, indipendentemente dalle conseguenze.

E infatti…

Il gusto del pericolo

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Quando John Hunt parla con l’avvocato di Forrest, capisce la vera natura di questo criminale, con una frase in particolare:

It’s not about making a living. I’m just talking about living.

Non sto parlando di sopravvivere, ma di vivere.

E, proprio a sottolineare come per il protagonista sia solo un gioco, in entrambe le scene dell’insegnamento vediamo come sia lui stesso a provocarle, a scappare per farsi prendere, a non preoccuparsi se i soldi stanno volando via dalla macchina…

Allo stesso modo è lui stesso a volersi far catturare, mandando la banconota al detective, andandogli direttamente a parlare, al punto che Hunt, capendo le sue intenzioni, è quasi felice di non essere quello che mette fine al suo divertimento.

E non sarà certo neanche una donna a farlo…

Io ti salverò

Sissy Spacek in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Apparentemente Forrest sembra fare un passo indietro quando conosce Jewel.

La donna è evidentemente innamorata del suo fascino magnetico, ma, in diversi momenti, anche senza dire una parola, gli fa capire che non potrà vivere con lui se vorrà continuare con la sua carriera criminale.

E negli ultimi momenti del film sembra averlo davvero convinto – proprio quando Forrest sembrava già pronto alla sua prossima avventurosa evasione. Ma, quando esce di prigione, appare stanco, infelice, quasi annoiato.

E così, con il sorriso sulle labbra, si butta in una nuova avventura…

The old man and the gun

La bellezza del personaggio di Forrest è proprio nel suo voler essere protagonista di un infinito e spericolato gioco di ruolo.

Purtroppo, è un giocatore solitario: solo lui – e parzialmente il Detective Hunt – capisce veramente le regole della partita. E allora quando arrivano i poliziotti per arrestarlo alla fine, invece che consegnarsi, si mette in macchina e scappa.

Facciamo che eravate dei poliziotti e mi inseguivate?

Robert Redford in una scena di The Old Man & the Gun (2018) di David Lowery

Altro discorso per la pistola.

L’arma non ha mai un intento violento, è solo un oggetto di scena, un accessorio immancabile per ogni criminale che si rispetti. Insomma, come per i baffi e le cuffie, è solo uno dei tanti particolari del suo travestimento.

E diventa tutto ancora più metanarrativo quando, nel finale, Forrest scappa in groppa ad un cavallo, con addosso una sciarpa che sembra tanto il costume di un cowboy, a raccontare anche il passato attoriale dell’interprete stesso…

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2023 Avventura Azione Cinema per ragazzi Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Fantasy Film

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri – Le giuste aspettative

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.

A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?

Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Chris Pine, Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Assolutamente sì.

Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.

Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.

Ed è esattamente quello che ho trovato.

Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.

Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).

Io, comunque, ve lo consiglio.

Una trama a quest

Chris Pine e Regé-Jean Page una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.

Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.

E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.

La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.

In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.

Insomma, una campagna di D&D fatta a film.

Piccoli trucchi, nessuna forzatura

Chris Pine in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.

Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.

Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.

E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.

Ma, tutto sommato, è una piccolezza.

Un’evoluzione equilibrata

Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.

Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.

Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.

E va benissimo così.

La morale

Chloe Coleman e Hugh Grant in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.

Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.

Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.

Pochi nei in un ottimo equilibrio

Daisy Headin una scena di Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.

Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.

Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.

Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.

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Alfred Hitchcock Avventura Comico Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Film Thriller

Rebecca – L’ombra perpetua

Rebecca (1940), noto in Italia col titolo ben più esplicativo di Rebecca – La prima moglie, è un film della prima fase di Alfred Hitchcock, nonché uno dei più noti della sua prolifica produzione.

Scelto come pellicola di apertura del primo Festival di Berlino nel 1952, fu anche un buon successo commerciale: a fronte di un budget di appena 1.9 milioni di dollari (circa 40 milioni oggi), incassò circa 6 milioni in tutto il mondo (che oggi corrisponderebbero a circa 130 milioni).

Di cosa parla Rebecca?

Una giovane dama da compagnia dal nome ignoto farà la conoscenza di un ricco e avvenente aristocratico, Mr. de Winter. Ma l’ombra della defunta moglie è sempre in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rebecca?

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Nonostante qualche ingenuità di scrittura, è un piccolo cult non a caso: un mistero intrigante ed avvincente, che riesce a far sognare ed intrattenere lo spettatore lavorando profondamente di sottrazione – e fino all’ultimo.

L’elemento che forse mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda, per certi versi più banale e scontato di quanto mi sarei aspettata, anche se generalmente coerente nel complesso della narrazione.

Tuttavia, rimane una pellicola godibilissima ancora oggi.

Lo spazio all’immaginazione

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

L’elemento che forse mi ha più stupito della pellicola è lo spazio che lascia all’immaginazione dello spettatore.

Anzitutto, per Rebecca stessa: mi aspettavo in qualche momento di vederla apparire sullo schermo, magari in un filmato o in una fotografia. E invece non abbiamo nessuna idea dell’aspetto di questa donna, se non per le parole dei personaggi stessi: era una donna bellissima, mora e piuttosto alta.

Nient’altro.

Allo stesso modo le sue colpe non vengono esplicitamente raccontate, ma lasciate nell’assoluto mistero, e così la vicenda clou della storia – il suo suicidio – la conosciamo solamente tramite il racconto di Maxim, proprio nel momento invece in cui mi aspettavo partisse un flashback.

L’apparenza è tutto

Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Per catturare immediatamente lo spettatore nelle dinamiche dei personaggi, vi è una particolare cura nella scelta del casting e della recitazione.

Il maggiore contrasto è fra Mrs. Danvers e la nuova Mrs. de Winter.

La governante è piuttosto austera, nell’aspetto quanto nella recitazione: capelli corvini, con una pettinatura piuttosto datata, il naso con la gobba, il vestito nero strettamente abbottonato…

E i suoi movimenti sono molto lenti e controllati: per la maggior parte del tempo è ritta, con le mani congiunte sulla vita, mentre i suoi diabolici occhi neri si muovono anche con guizzi inaspettati…

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

La nuova Mrs. de Winter è tutto il contrario.

Il viso giovane e angelico, la purezza dei lineamenti, e così anche il modo di vestire, spesso con abiti modesti e dai colori chiari: tutto racconta una ragazza giovane e innocente. E, soprattutto, Joan Fontaine recita più col corpo che con la voce.

Si vede chiaramente come il suo personaggio sia continuamente fuori posto, e i suoi movimenti lo raccontano molto bene: si muove a scatti, impaurita, si stropiccia continuamente le mani, le usa per proteggersi…

In parte per la sua insicurezza, in parte per l’ambiente che la circonda…

L’ombra perpetua

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Non c’è posto per una seconda Mrs. de Winter.

La protagonista si ritrova in un contesto che fin dal primo momento non solo non le è calzante, ma che le è anche incredibilmente ostile, nel suo continuo voler confrontare la nuova e impacciata mogliettina con la figura monumentale di Rebecca.

Perché Rebecca è morta, ma è come se fosse ancora presente.

Questa misteriosa donna viene raccontata costantemente, soprattutto da Mrs. Danvers, vengono elogiati i suoi comportamenti, le sue abitudini, la sua perfezione, con la quale la nuova moglie non ha alcuna possibilità di confrontarsi: Rebecca era una figura potente, di successo, che tutti amavano.

Al contrario la protagonista è costantemente sminuita e scacciata, persino dal suo stesso marito…

Un alleato improbabile

Appare fin da subito evidente perché Maxim abbia scelto la protagonista come nuova moglie.

Anche se poco appariscente nell’aspetto, la ragazza è una mansueta e, soprattutto, molto giovane e influenzabile. E il tipo di considerazione che Mr. de Winter ha nei suoi confronti, almeno all’inizio, è piuttosto chiaro: non la bacia mai sulle labbra, ma sempre sulla fronte, e le parla come se fosse più una figlia che una compagna.

Il suo comportamento cambia quando finalmente comincia a considerarla non come un errore, ma come una possibile alleata per liberarsi finalmente dal fantasma della ex-moglie.

E infatti dall’incidente della festa, la protagonista comincia a cambiare abbigliamento, preferendo i colori scuri, e il marito inizia finalmente a trattarla davvero amorevolmente come si meriterebbe.

In un certo senso, comincia ad apprezzarla veramente quando la ragazza arriva ad una sorta di maturazione.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Azione Comico Drammatico Fantasy Film La magia di Miyazaki

Laputa – Il primo, comico Ghibli

Laputa Il castello nel cielo (1986) è il secondo lungometraggio di Hayao Miyazaki come autore completo, nonché il primo film prodotto dal neofondato Studio Ghibli.

E, come il precedente Nausicaä della Valle del vento (1984), fu un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget di appena 500 milioni di yen (circa 3 milioni di dollari), incassò 16 milioni in tutto il mondo.

Arrivò in Italia prima direttamente in DVD nel 2004, in una versione ritirata subito dal mercato, e solo nel 2012 venne proiettato al cinema con il nuovo doppiaggio.

Di cosa parla Laputa?

Una misteriosa ragazzina è stata rapita da degli uomini senza scrupoli. Mentre cerca di scappare, cade dall’aeronave, ma riesce a non precipitare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Laputa?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Laputa è uno dei primi prodotti di Miyazaki, ma in cui mostra già grande abilità nel raccontare una storia ben costruita e una splendida ambientazione fra il mistico e il magico.

Inoltre, dopo Nausicaä della Valle del vento, in questa pellicola il maestro nipponico introduce nuovi spunti di riflessione, che saranno ancora più approfonditi nei suoi prodotti futuri.

Inoltre, vi è un piacevolissimo incontro fra una trama veramente drammatica, quasi paurosa, e alcuni elementi comici, al limite del grottesco e dell’assurdo, alternando così momenti più tragici a sequenze più leggere.

Insomma, da vedere.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Laputa Il castello nel cielo il pericolo è medio-alto.

Il doppiaggio risale al 2012, quando Cannarsi aveva già anche troppa importanza nel settore. E sembra incredibile che sia stato approvato un adattamento così sconclusionato, al limite dell’inverosimile, tanto da risultare quasi comico.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una protagonista troppo innocente?

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Come caratterizzazione, Sheeta non è tanto diversa da Nausicaä, ma come caratterizzazione si compie un piccolo passo indietro.

Forse anche per la sua giovane età, la protagonista di Laputa è davvero un personaggio innocente, in parte intraprendente, ma anche tendenzialmente passiva, che rimette la risoluzione finale dell’avventura nelle mani di Pazu, che più che un compagno è quasi un coprotagonista.

Tuttavia, la sua caratterizzazione è del tutto funzionale alla trama: i toni più drammatici e minacciosi di Laputa e, soprattutto, di Muska, sono in aperto contrasto con la totale ingenuità della ragazzina.

Un personaggio più intraprendente e maturo non avrebbe avuto lo stesso effetto, insomma.

Il doppio nemico

Sheeta e Pazu  e i pirati in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Per questa pellicola Miyazaki sceglie di inserire ben tre gruppi di nemici, che si definiscono in una scala di sempre maggiore di cattiveria e spietatezza.

I pirati sono una minaccia per i personaggi limitatamente al primo atto, mentre la loro pericolosità si smorza sempre di più nel corso della pellicola. Diventano infatti dei personaggi fondamentalmente comici, con una leader solo apparentemente arcigna a capo di un gruppo di criminali che sono in realtà dei bambinoni.

Allo stesso modo molto meno minacciosi di quanto sembrino sono l’esercito e, soprattutto, il generale, che in realtà è totalmente nelle mani di Muska, raccontato come nemico piuttosto banale, che desidera solo arricchirsi e ottenere una nuova arma da guerra.

Mazuka Laputa

Mazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Il vero villain, appunto, è Muska.

Muska è uno degli antagonisti più temibili di tutta la produzione di Miyazaki: volendosi solo apparentemente arricchire, in realtà è un uomo assetato di potere, che non si fa alcuno scrupolo a maltrattare e usare una ragazzina così indifesa.

Molto indovinata la scelta di legarlo così direttamente alla protagonista, dando un sapore più importante al loro conflitto. Al contempo, è un antagonista elegante e ben raccontato, che non si sbilancia mai, ma rimane solo drammaticamente malvagio, a tratti persino inquietante.

Il paradiso inviolabile

Sheeta e Pazu in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

Anche se Laputa è una destinazione desiderata per le sue ricchezze e la sua potenza, la bellezza del luogo è un’altra.

L’isola è mostrata come un luogo dalla natura incontaminata, con un’atmosfera magica che racconta ancora una volta la bellezza degli ambienti quando sono sottratti al controllo umano.

Così un castello che era un’arma di distruzione, è diventato un paradiso terrestre, con dei robot killer che hanno riscoperto la loro natura gentile.

Robot Laputa

Il robot in una scena di Laputa - Il castello nel cielo (1986) di Hayao Miyazaki

La tematica dell’ambientalismo in questo caso è più sottile, mentre i temi centrali sono l’avidità umana e l’orrore della guerra. Il primo è meno incisivo, ma costante: nella loro completa onestà e ingenuità, i due protagonisti raggiungono Laputa per il piacere della scoperta, e non per arricchirsi.

Molto diverso dal comportamento dei soldati mentre spogliano il castello delle sue ricchezze senza pietà.

Più drammatico è il tema della guerra, racconto dall’azione distruttiva – letteralmente – dei villain, ma racchiuso soprattutto nella scena in cui Mazuka utilizza per la prima volta l’isola come arma, che ricorda molto una certa bomba atomica…

Temi che saranno anche meglio raccontati l’uno in La città incantata (2001), e l’altro in Il castello errante di Howl (2004).

La tecnica artistica di Miyazaki in questo film mostra già un’importante evoluzione.

La tecnica generale è ancora molto abbozzata per diversi personaggi, soprattutto nelle scene affollate, e forse è la pellicola in cui si vede di più l’importanza dell’esperienza del regista con Lupin e Heidi.

Sheeta – ma anche Pazu – è molto simile per i tratti del viso ad Heidi, e anche un po’ per la caratterizzazione:

In generale, per il momento Miyazaki rimane sul semplice per la maggior parte dei volti, e alcuni personaggi maschili ricordano Lupin, appunto.

Inoltre, in Laputa si guarda al futuro, ma anche al passato: le volpi che corrono sulle spalle dei robot sono identiche all’animale da compagnia di Nausicaä:

E ci sono due personaggi che sembrano dei bozzetti per prodotti futuri: la sorella di Pazu assomiglia moltissimo alla protagonista di Ponyo sulla scogliera (2008), mentre il macchinista dei pirati sembra la prima versione di quello che sarà poi Kamaji ne La città incantata:

Ponyo Laputa

I passi avanti più promettenti sono i primi studi fatti sui volti anziani, in particolare quello delle matrone, come appunto Dola, che avrà la sua migliore realizzazione in La città incantata con Yubaba e soprattutto in Il castello errante di Howl con la protagonista:

Altrettanto buono è il lavoro fatto sulle espressività del viso dei personaggi, che offrono molti spunti soprattutto per Mazuka, ma anche sempre per Dola:

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John Wick 4 – Una scommessa vinta

John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski è il quarto e (forse) ultimo capitolo della saga omonima con protagonista Keanu Reeves.

Un film molto ambizioso con un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – e che ha aperto benissimo nel primo weekend: 137 milioni in tutto il mondo!

Di cosa parla John Wick 4?

John Wick è pronto per la sua vendetta contro la Gran Tavola, ma un nuovo nemico si staglia all’orizzonte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere John Wick 4?

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

In generale, sì.

Nonostante abbia molto apprezzato questo quarto capitolo, ci sono indubbiamente alcune barriere all’ingresso: anzitutto, è quanto mai importante aver visto gli altri film della saga, così da avere un’infarinatura generale della storia – e abbiamo visto recentemente come non sia così scontato.

Inoltre, alcuni potrebbero non apprezzare le coreografie dei combattimenti, quantomai rocambolesche e creative, quasi fino all’accesso, nonostante io ne abbia assolutamente apprezzato la grande originalità.

Insomma, non il solito film action.

La pochezza del marchese

Bill Skarsgård in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

A primo impatto il Marchese sembra un villain piuttosto tipico e di scarso interesse, nonostante la buona prova attoriale di Bill Skarsgård.

Invece il film riesce a far spiccare i personaggi positivi per la loro moralità ferrea, e a condannare invece totalmente – pur in maniera molto sottile – l’antagonista.

Il marchese infatti non è solamente cattivo e spietato, ma è proprio un inetto ed un codardo, incapace di affrontare direttamente le sfide, preferendo prendere scorciatoie, sentendosi così invincibile nella sua posizione di potere.

Ma la sua arroganza alla fine gli si rivolta contro…

L’unione fa la forza

Shamier Anderson in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Non era facile riuscire a gestire in maniera efficace i personaggi secondari e apparenti antagonisti del protagonista.

Ma John Wick 4 ci è riuscito ottimamente.

Anzitutto Mr. Nobody sceglie di non andare più contro Wick, ma anzi di aiutarlo nella sua impresa, perché lo stesso dimostra di avere una morale che va molto oltre la pura vendetta.

E l’aver salvato il cane non solo è un bellissimo collegamento al primo capitolo, ma riesce soprattutto a legare indissolubilmente lo spietato cacciatore di taglie con il protagonista, in maniera molto convincente e credibile.

Donnie Yen in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

Ancora migliore è la gestione di Caine.

Il killer cieco e John Wick sono legati sia da un rapporto di amicizia, sia da un simile passato tormentato. E, soprattutto, sono uniti dal senso dell’onore e del rispetto dei patti. Infatti, Caine avrebbe potuto uccidere facilmente il protagonista quando era in evidente difficoltà anche solo ad arrivare al luogo del duello.

E invece ha deciso di non scendere al livello del marchese – nonostante avrebbe così ottenuto la sua ricompensa in maniera più veloce e meno rischiosa – ma di essere invece un concorrente corretto.

I rocamboleschi combattimenti

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La gestione dei combattimenti potrebbe essere un elemento estremamente divisivo.

Io personalmente ho adorato tutte le coreografie incredibilmente rocambolesche e la loro pazzesca creatività, che è stato sempre uno degli elementi che ho apprezzato della saga e che qui ho ritrovato nella sua forma migliore.

E ancora una volta si combatte con tutto, e ovunque: martelli, spade, pistole, fucili e persino carte da gioco. E con un livello ancora più interessante nel creare uno stile di combattimento assolutamente credibile per un killer cieco.

Nota di merito anche alla scelta del duello finale: lento e imponente, del tutto diverso dal taglio caotico e meno strettamente cadenzato di tutti i combattimenti precedenti, impreziosendo la sequenza finale di un importante pathos e di una intrigante tensione.

La giusta ironia

Un elemento che personalmente mal sopporto dei film action è che spesso si sceglie un tono incredibilmente serioso, con prodotti che si prendono fin troppo sul serio, risultando di spesso ridicoli e persino noiosi – sì, sto parlando proprio di The Gray Man (2022).

Invece in John Wick 4, nonostante la monumentalità della pellicola e della storia raccontata, non manca lo spazio per battute piuttosto gustose.

Ho particolarmente apprezzato la scelta di alzare il livello di assurdità delle scene di combattimento fino a renderle quasi comiche, e, soprattutto, la splendida autoironia di Caine.

Una battuta su tutte:

Vediamo le carte.

Piccole e buone didascalie

Keanu Reeves in una scena di John Wick 4 (2023) di Chad Stahelski

La costruzione della trama è pulita e abbastanza lineare: il protagonista deve arrivare a sconfiggere il boss finale – la Gran Tavola – e deve trovare anche un modo per conquistare la sua libertà.

E si sceglie un modo credibile e perfettamente coerente con la saga stessa. Al contempo, inserendo un’ottima parte centrale scaturita da una quest secondaria praticamente fondamentale per mantenere solidità della trama.

A fronte di una struttura narrativa ben congegnata, la pellicola riesce con grande abilità a fornire allo spettatore tutte le informazioni di lore di cui ha bisogno, senza risultare per questo pedante.

In particolare, la scelta più ingegnosa è stato il quaderno di appunti di Mr. Nobody, con cui identifica alcuni simboli propri della mitologia del film, e così li spiega anche allo spettatore.

John Wick 5 si farà?

Con grande dispiacere, il regista ha dichiarato che per ora la storia di John Wick è finita.

Effettivamente l’avventura di Keanu Reeves sembra conclusa e il protagonista sembra arrivato ad una sua naturale conclusione – per una saga, ricordiamolo, che non era pensata per essere tale.

Nonostante ciò, è in programma uno spin-off con protagonista Ana de Armas, in uscita nel prossimo futuro col titolo di Ballerina.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia Film Giallo

See how they run – Un delizioso meta-giallo

See how they run (2022) di Tom George, in Italia noto col titolo molto più blando di Omicidio nel West End, è una pellicola di genere giallo whodunit, con una spruzzata di metanarrativa che irride il genere di riferimento.

Una pellicola che purtroppo, come tanti altri film di piccola produzione in questo periodo, è stato un sonoro flop: a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 22 in tutto il mondo.

Di cosa parla See how they run?

Londra, 1953. Durante i festeggiamenti per la centesima rappresentazione teatrale di Trappola per topi, uno dei titoli minori di Agatha Christie, il regista viene assassinato nel backstage. E l’indagine sarà nelle mani di una coppia di poliziotti piuttosto improbabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere See how they run?

In generale, sì.

La pellicola è molto forte su alcuni punti, più debole su altri. I punti di forza sono sicuramente l’ambientazione e i personaggi: atmosfere molto curate, dal sapore vintage, che ricordano tanto un film di Wes Anderson e del giallo classico degli Anni Cinquanta.

Al contempo, personaggi piacevoli sul filo del macchiettistico, con due ottimi attori protagonisti: Saoirse Ronan e Sam Rockwell.

Tuttavia, See how they run non vuole essere solamente un giallo, ma in qualche modo giocare con il genere, inserendo elementi metanarrativi anche interessanti, ma che nel complesso risultano abbastanza deboli e non perfettamente congegnati.

Ma nulla che guasti veramente la piacevolezza della pellicola.

Cosa significa il titolo See how they run

Il titolo originale, See how they run, è fondamentalmente incomprensibile se non si è inglesi.

Si riferisce infatti ad un verso di una nursery rhyme, una canzoncina per bambini, Three Blind Mice:

Three blind mice. Three blind mice.
See how they run. See how they run.
They all ran after the farmer's wife,
Who cut off their tails with a carving knife.
Did you ever see such a sight in your life
As three blind mice?
Tre topolini ciechi, tre topolini ciechi
Guarda come corrono, guarda come corrono
Corrono tutti dietro alla moglie del fattore,
che gli ha tagliato la coda con un coltello
Hai mai visto niente di simile nella tua vita
Come tre topolini ciechi?

E probabilmente allude anche all’omonima pièce teatrale del 1944, una farsa dal sapore comico basata su scambi di identità ed incomprensioni.

Quindi il titolo in entrambi descrive la natura stessa della storia: un insieme di situazioni comiche e paradossali, proprio come quella di tre topolini ciechi che inseguono la donna che gli ha appena tagliato la coda.

E questo riferimento nella pellicola si intreccia perfettamente con lo spettacolo teatrale che è al centro della storia: Trappola per topi, appunto.

Atmosfere travolgenti

Le atmosfere e l’estetica della pellicola sono ottimamente congegnate

Soprattutto per le prime scene, mi hanno ricordato Grand Budapest Hotel (2014) – e sicuramente Wes Anderson è stato d’ispirazione per il film. Un’estetica davvero curata sia negli ambienti – che sembrano quasi teatrali – sia nei personaggi e nei costumi, perfettamente in linea con le atmosfere e il tono della pellicola.

Anche gli esterni sono piuttosto suggestivi: vicoli fumosi e strade nella penombra, in cui la brillantezza dei colori si scontra con le lunghe ombre che si allungano sulla scena, minacciando i personaggi e al contempo apparendo come irraggiungibili…

Un semplice buddy movie

Nelle dinamiche, See how they run riprende il taglio del buddy movie.

Una scelta che ha favorito anche l’ovvio inserimento di un personaggio femminile come protagonista, che risulta così ben contestualizzato nel contesto temporale: l’unica donna del corpo di polizia che deve farsi largo in un mondo di uomini che la sottovalutano.

In particolare, Stoppard la sottovaluta moltissimo, cerca costantemente di metterla al suo posto ed è quasi infastidito dalla sua eccessiva emozione nel condurre un caso, da cui cerca sistematicamente di escluderla.

Ma entrambi i personaggi hanno due picchi drammatici che raccontano l’evoluzione del loro rapporto: quando il detective mente alla ragazza dicendo di dover andare dal dentista – e viene scoperto – e quando Stalker lo accusa ingiustamente dell’omicidio.

Ma alla fine è la stessa ragazza a salvare il burbero detective.

Don’t jump to conclusions!

L’elemento metanarrativo che meglio funziona è quello del don’t jump to conclusions!

Questo è infatti l’ammonimento che Stoppard fa alla giovane poliziotta, ma in realtà anche allo spettatore: non saltiamo subito alle conclusioni! Infatti è molto tipico di questo tipo di gialli whodunit essere articolati in un susseguirsi di interviste dei sospettati.

E, per ognuno di loro, il flashback mostrato racconta la loro totale colpevolezza, ricalcata in questo caso proprio dall’irruenza di Stalker. Ma siamo appunto anche noi spettatori a saltare subito a queste conclusioni.

E infatti il film riesce comunque a prenderci bonariamente in giro: l’accusa a Stoppard è davvero credibile!

Una metanarrativa debole

Purtroppo la pellicola, volendo così entusiasticamente giocare con il genere, finisce a perdersi in se stessa.

Funziona molto meglio quando questo elemento è sottile – come abbiamo appena visto – molto meno quando la conclusione del film è stata già praticamente raccontata nella prima parte della pellicola, ovvero tramite la sceneggiatura che Leo Köpernick voleva mettere in scena.

E vederla avvenire esattamente come era stata descritta, poteva apparire sulla carta come un’idea brillante e la conclusione più metanarrativamente interessante per la pellicola stessa, ma in realtà mi è parsa solo piuttosto goffa e semplicistica.

Tuttavia, è l’unico vero difetto che mi sento di segnalare.

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Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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Antman and the Wasp: Quantumania – Is this Antman?

Antman and the Wasp – Quantumania (2023) di Peyton Reed è il terzo film dedicato al personaggio di Antman – o, almeno, lo dovrebbe essere. Un prodotto che neanche si pensava di fare in prima battuta, visto lo scarso riscontro commerciale dei film dedicati a questo personaggio.

Nonostante tutto, il film ha incassato finora 357 milioni di dollari in tutto il mondo, prospettando un buon guadagno, che sicuramente ripagherà l’investimento di 200 milioni.

Di cosa parla Antman and the WaspQuantumania?

Dopo gli eventi di Endgame, Scott Lang sta cercando di vivere una vita normale con la sua famiglia, in particolare con la figlia adolescente. Ma la stessa ha una sorpresa in serbo per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea – ma vi sconsiglio di guardarlo, visto quanto è spoileroso:

Vale la pena di vedere Antman and the WaspQuantumania?

Paul Rudd e Evangeline Lilly in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Sì e no.

Non lo considero un film totalmente da buttare: ha molte idee buone sulla carta e un villain veramente incredibile, ma entrambi sono davvero mal sfruttati, per via di una scrittura molto carente, in particolare nei dialoghi e in certe battute al limite dell’agghiacciante – livello Thor Love & Thunder (2022) per capirci.

Un film che non sconsiglio in toto, ma che non mi sento di raccomandare se cercate un film su Antman.

Non lo è.

Un inizio brillante

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Nelle battute iniziali del film ero fiduciosa.

L’incipit sembra davvero proprio di un film di Antman, con la sua gustosa ironia e con Scott al centro della scena. E ho anche il sospetto che fosse veramente l’incipit di un film dedicato ad Antman, ma che poi risulta del tutto inutile nel contesto generale della pellicola.

Infatti, a parte questi pochi minuti iniziali, il film manca totalmente di un atto introduttivo, che lasci un po’ di respiro allo spettatore prima di immergerlo nel cuore della narrazione. Così, nel giro di neanche venti minuti, i protagonisti sono già nel Regno Quantico e già si parte immediatamente con l’azione.

E non è neanche il problema principale…

Senza sapore

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

L’idea sulla carta era quella di costruire un primo atto basato sulla minaccia incombente di Kang, spiegare il passato di Janet tramite flashback, mostrare la potenza e la malvagità del villain e poi arrivare allo scontro finale.

Nella pratica, queste idee non sono sorrette da una buona scrittura.

La maggior parte degli snodi narrativi non sono ben raccontati e appaiono poco credibili. Due su tutti: la genialità riscoperta di Cassie e del suo macchinario costruito in segreto, e sopratutto Janet che non racconta qualcosa di così fondamentale come la presenza di Kang. Senza parlare della conversione di Modok: sulla carta ha perfettamente senso, ma accade per tutti i motivi sbagliati.

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

E questo anche per i dialoghi veramente scritti male, deboli e per certi versi imbarazzanti, sopratutto quando scadono in un umorismo davvero infantile, che probabilmente potrà far divertire un pubblico molto giovane, ma che a me non ha per nulla coinvolto.

Altrettanto poco mi ha coinvolto la sottotrama dei popoli distrutti da Kang: gli viene dedicato pochissimo spazio, tanto che non abbiamo modo per conoscere i personaggi e la loro storia, a cui invece era importante dedicare la parte centrale.

In questo modo, invece, non sappiamo niente di loro e ancora meno ci interessa della loro sorte nella battaglia finale.

Parliamo di Kang

Jonathan Majors in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Kang è l’elemento più forte del film.

Ma anche lui non manca di difetti.

Jonathan Majors riesce indubbiamente, con la sua presenza scenica, a raccontare un villain minaccioso e profondamente malvagio, un villain da temere. Tuttavia, la messinscena non lo premia del tutto in questo senso: viene raccontato il suo enorme ed inimmaginabile potere, ma alla fine lo stesso non viene davvero mostrato nell’effettivo.

Si temeva l’effetto Captain Marvel, per cui il personaggio sarebbe risultato troppo potente?

Comunque tutta la drammaticità e l’interesse per il personaggio mi è abbastanza scesa nel mid-credit con i vari Kang: nonostante indubbiamente l’attore si sia impegnato nel caratterizzare diversamente le sue varie versioni, il loro character design mi è sembrato veramente molto dozzinale.

Senza considerare i preoccupanti cori da stadio dei vari Kang, quasi scimmieschi…

Il ridicolo

I prodotti MCU sono sempre stati per la maggior parte caratterizzati da un umorismo piuttosto frizzante e giocoso.

Tuttavia, ultimamente, hanno smesso di farmi ridere, complice un umorismo davvero infantile e poco indovinato, che purtroppo ha cominciato a caratterizzare questi prodotti già con Thor Love & Thunder (2022) e con She Hulk (2022).

In questo film, il picco di bruttezza per me è Modok.

Il suo personaggio è veramente troppo, da ogni punto di vista: non mi ha fatto ridere sostanzialmente mai, e mi sono sentita in particolare veramente imbarazzata davanti alla sequenza dedicata alla sua morte. Ed è anche preoccupante che lo abbiano caricato della maggior parte della linea comica, quando il film ha – o dovrebbe avere – come protagonista un personaggio che si presta così ben al ruolo di comic relief.

Un rapporto buttato in faccia

Paul Rudd e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

Il rapporto fra Cassie e Scott era sempre stato molto importante sia per la caratterizzazione del protagonista, sia per il coinvolgimento emotivo che portava.

Era evidente che a questo punto il loro rapporto doveva essere riscritto e raccontato in una veste nuova, in quanto Cassie è ormai un’adolescente. Tuttavia, l’inizio del loro arco narrativo doveva essere posta nell’incipit, ma, come abbiamo visto, a questa parte si lascia pochissimo spazio.

Durante il film più in generale la costruzione del loro rapporto è molto debole e vive di spunti poco esplorati. Ma, nonostante questo, il loro rapporto è continuamente sbattuto in faccia allo spettatore, in maniera alla lunga davvero fastidiosa – quasi come se la pellicola fosse consapevole della mancanza di ulteriori elementi a supporto…

Una trama per tutti

Paul Rudd, Kathryn Newton e Kathryn Newton in una scena di Antman and the Wasp - Quantumania (2023) di Peyton Reed

A visione conclusa, mi sono resa drammaticamente conto di come questo non sia un film su Antman.

È un film su Kang.

Evidentemente Antman and the Wasp – Quantumania è stato pensato per introdurre Kang come villain della Fase Multiversale, che avrà il suo picco con Avengers: Secret Wars (2026). E, per questo, molti altri personaggi si sarebbero prestati perfettamente per questa trama e per questa ambientazione – i Guardiani e Thor, per esempio.

Quindi, con ogni evidenza questo non è un film ideato per chiudere la trilogia di Antman.

La bellezza del personaggio infatti era di essere un eroe urbano con ambientazioni molto terrene, con un taglio narrativo simpatico e giocoso. E nonostante si potessero esplorare anche ambientazioni e trame differenti, sarebbe stato bello se lo si fosse fatto avendo in mente di mettere in scena un film dedicato a questo personaggio, appunto.

E la mancanza dei personaggi secondari degli altri due film è piuttosto indicativa in questo senso…

Dove si colloca Antman and the Wasp: Quantumania?

Antman and the Wasp – Quantumania è fondamentale nel racconto complessivo dell’MCU, soprattutto della nuova fase.

Infatti introduce sul grande schermo il villain della Fase Multiversale ed è non molto successivo a Endgame (2019), quindi si ambienta probabilmente nel 2024.

È il primo film della Fase 5.

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Antman and the Wasp – Un piccolo pasticcio

Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed è il sequel di Antman (2015), che vede il ritorno del personaggio dopo il suo coinvolgimento in Civil war (2016).

Un film che incassò abbastanza bene, ma che confermò il poco interesse per questo personaggio: a fronte di un budget di circa 150 milioni di dollari, ne incassò appena 622 in tutto il mondo.

Di cosa parla Antman and the Wasp?

Due anni dopo Civil war, Scott è agli arresti domiciliari e ha apparentemente tagliato i rapporti con la famiglia Pym. Ma qualcosa di inaspettato sta per succedere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Antman and the Wasp?

Scott Lang e Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

In generale, sì.

Anche se secondo me è meno riuscito rispetto al primo capitolo, rimane comunque un buon prodotto di intrattenimento.

Il principale problema è la trama molto meno lineare e molto più pasticciata, con diverse (forse troppe) storyline e diversi personaggi. E, in particolare, fa una cosa che personalmente non sopporto: inserire più nemici nello stesso film.

Ma, a parte questo, non è un prodotto che vi sconsiglio, anzi.

Una buona retcon

Janet Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

L’incipit del film riprende le fila di Antman, e in particolare lo spunto narrativo di Janet, la moglie di Hank Pym, dispersa nell’Universo Quantico.

Tuttavia, per ovvi motivi, ha dovuto in parte riraccontarla.

Anche se la storia è fondamentalmente uguale, vengono aggiunti dettagli fondamentali e, soprattutto, viene finalmente rivelato il volto del personaggio, che nel primo film era stato del tutto nascosto allo spettatore.

Un caso di una retcon fatta bene.

Ancora più vicino

Scott Lang in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Per rendere ancora più simpatico e affabile, in Antman and the Wasp Scott viene ancora caratterizzato per essere la vittima buona della situazione.

Nonostante il pubblico sappia che il protagonista è un eroe che ha combattuto per una giusta causa – la propria libertà – viene comunque punito. E oltretutto, dimostra anche di voler sottostare alla sua punizione.

E il suo essere costretto a mettersi in pericolo – e rischiare di perdere per sempre la figlia – lo rende ancora più vicino allo spettatore.

Un pasticcio di villain

Ghost in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Invece di mettere in scena una trama lineare come nel primo, questa pellicola tende a perdersi in una trama molto più dispersiva, appunto.

Di fatto, la trama di base è molto semplice: i personaggi devono arrivare da un punto ad un altro per completare una missione. Tuttavia, gli vengono continuamente messi contro degli ostacoli e degli imprevisti.

E, se questa scelta da una parte tiene continuamente alta la tensione, dall’altra alla lunga può apparire fastidiosa e ridondante. Tanto più che gli ostacoli sono rappresentati dai due antagonisti.

Sonny in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

E ce n’è almeno uno di troppo.

Se già non apprezzo le storie con due antagonisti, ancora meno le apprezzo con due personaggi così poco interessanti. Da una parte il solito villain tormentato dal suo passato, dall’altra il classico stereotipo del boss criminale.

E non fatemi cominciare sul livello della recitazione…

Sempre peggio

 Hope Pym in una scena di Antman and the Wasp (2018) di Peyton Reed

Con Antman and the Wasp siamo vicini al picco di bruttezza della gestione dei personaggi femminili della MCU, rappresentato da Captain Marvel (2019) prima e la famosa scena del girl power in Endgame (2019) dopo.

E il personaggio di Wasp, se possibile, riesce persino a peggiorare.

Hope in questa pellicola diventa definitivamente una Mary Sue, non riuscendo ad essere in nessun modo interessante o appassionante, o anche solo lontanamente un personaggio in cui identificarsi.

Un po’ di respiro

Davanti a questi evidente difetti, la pellicola riesce comunque a non risultare una visione pesante grazie alla comicità indovinata.

I momenti comici sono tanto più riusciti perché prendono in giro cliché del genere stesso: da Scott che ridicolizza i travestimenti tipici del genere – col classico cappellino e occhiali da sole – allo scambio finale con Woo.

Momenti cominci ben pensati e soprattutto ben posizionati, che lasciano respirare lo spettatore in un film che risulta molto più drammatico del precedente, ma che decide comunque di non prendersi più di tanto sul serio.

Dove si colloca Antman and the Wasp?

Rispetto al primo capitolo, Antman and the Wasp dipende molto di più dall’universo MCU.

La pellicola è infatti esplicitamente collegata a Civil war (2016), di cui è due anni successiva: si ambienta quindi nel 2018. Rispetto agli eventi successivi, è contemporaneo ad Infinity War (2018) e si conclude proprio con lo snap.

Fa parte della Fase Tre ed è – insieme a Captain Marvel (2019) – uno dei due film di intermezzo fra Infinity War e Endgame.

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2022 Comico Damien Chazelle Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Babylon – Il cinema che resta

Babylon (2022) è l’ultima pellicola di Damien Chazelle, regista che ha avuto il suo picco di popolarità con La la land (2016), ma che ha già dimostrato di poter spaziare in diversi generi.

Anche in questo caso.

Il film si sta purtroppo rivelando un flop commerciale: a fronte di un budget di 75 milioni di dollari, finora ne ha incassati solo 15…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Babylon (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliori costumi
Miglior scenografia
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Babylon?

All’interno del cinema della fine degli Anni Venti, sulla soglia della sua più grande rivoluzione, si intrecciano le storie di diversi personaggi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Babylon?

Margot Robbie e Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

Nonostante la pellicola sia stata seppellita dalla critica statunitense – anzi, forse proprio per questo motivo – Babylon è arte pura, un racconto del profondo amore di Chazelle per la Settima Arte.

Pur con una durata veramente importante, è un film che racchiude l’apice della capacità artistica di questo regista, con degli interpreti straordinari, in particolare una Margot Robbie al massimo della forma.

Consiglio a latere: se non avete mai visto Singing in the rain (1952), vi consiglio caldamente di recuperarvelo prima della visione.

Un cinema vero

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Un grande pregio di Babylon è il riuscire a raccontare, fra il drammatico e il grottesco, cosa significava – e cosa significa – girare un film.

Un cinema disordinato, caotico, genuinamente pericoloso, dove soprattutto le più umili maestranze e comparse venivano facilmente sacrificate – anche letteralmente. Un cinema più complesso, in cui si girava tutto con la luce naturale, con mezzi quasi casalinghi.

E il passaggio al cinema degli studios non rese le cose più semplici…

Con risultati fra il comico e il grottesco.

Jack Conrad

La morte del divo

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Jack Conrad è la figura più drammatica fra i protagonisti.

Inizialmente lo vediamo come il divo intoccabile, che si muove in una consolidata rete di conoscenze e favori, la quale, insieme alla sua furbizia, gli permette di avere successo. Tuttavia da metà film la sua stella comincia lentamente a calare, in maniera inizialmente quasi impercettibile.

Ma inevitabile.

Segue fondamentalmente lo stesso arco del protagonista di The Artist (2011), ma con un esito molto più drammatico.

Ma proprio intorno a lui si sviluppa il principale concetto della pellicola: essere parte di un cinema che rimarrà, anche se ora sembra spacciato. Ma, alla fine, la pesantezza di questa conclusione, la sensazione di non avere più posto nel mondo che dava tutto il senso alla sua esistenza, costringe Jack ad uscire di scena.

Nellie LaRoy

Un minuto di fama

Morgot Robbie in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Nellie racconta in maniera molto disincantata la difficoltà di sfondare ad Hollywood, su come sia tutto basato su raccomandazioni e colpi di fortuna.

Del tutto casualmente infatti Nellie riesce a mostrare il suo talento nella recitazione – la classica situazione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E Margot Robbie regge perfettamente la parte, riuscendo con grande abilità ad entrare e uscire dal personaggio in scena.

Ma la fama improvvisa, come prevedibile, svanisce nel giro di pochi anni.

Perché, come tante dive prima di lei, Nellie è schiava dei vizi e dell’eccesso, e, quando arriva il momento, non riesce in alcun modo a riabilitare la sua immagine davanti alla buona società.

Così in qualche modo non riesce mai ad uscire dal suo personaggio, lo stesso che l’aveva portata alla gloria.

E infine viene inghiottita dal buio della scena.

James Mckay

La discesa nell’inferno

Tobey Mcguaire in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Prima di parlare del vero protagonista del film, voglio fare una menzione d’onore a Tobey Maguire.

Lontano dalle scene per tanto tempo e tornato solo recentemente per Spiderman – No way home (2021), in Babylon dimostra che qualcosa è cambiato. Sarà perché nelle abili mani di Chazelle, l’attore è riuscito a portare un personaggio che funziona perfettamente fra l’orrore e il grottesco.

La sua sequenza è un’effettiva discesa negli inferi, definita da lugubri tinte rossastre, in cui Mckay ci accompagna, ci trascina attraverso questa tenebra paurosa. Un paesaggio pieno di mostri, violenza e erotismo.

La versione orrorifica della sequenza iniziale della festa.

Manny Torres

Il cinema che rimane

Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Manny Torres rappresenta perfettamente il modello del self-made man.

Partendo dal nulla, ricoperto da sterco di elefante, riesce, sempre grazie all’ultimo capriccio del divo, a farsi prepotentemente strada nel mondo dello show business. Ma il suo vero obbiettivo è quello di salvare Nellie, il suo oggetto del desiderio.

Da questo punto di vista è davvero interessante il racconto di come si costruisce – e ricostruisce – l’immagine pubblica di un attore.

Ma Nellie è insalvabile.

E alla fine Manny sceglie di scappare e salvare sé stesso, tornando ad Hollywood solamente molti anni dopo, quando il cinema è profondamente cambiato.

Regalandoci una scena di incredibile potenza visiva.

Raccontare il cinema

Se non si ha una conoscenza almeno basilare della storia del cinema – anche legittimamente – si potrebbe non comprendere fino in fondo la potenza della sequenza finale.

In generale, Babylon è un enorme omaggio a Singing in the rain (1952), che è proprio il film che Manny va a vedere in sala. In quel momento si rende conto di quanto, nonostante la fine drammatica degli altri personaggi, le loro storie abbiano contribuito a scrivere e costruire la storia del Cinema.

E da lì parte una lunga sequenza in cui sì va avanti e indietro nel mostrare tutto quello che il Cinema ci ha regalato – da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) a Un chien andalou (1929), fino ad arrivare ad Avatar (2009).

Fino a distruggere l’immagine in semplici colori primari che si susseguono.

Con il finale che racconta la sua commossa consapevolezza.