Categorie
2023 Avventura Buddy Movie Commedia Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Oscar 2024

The Holdovers – Il club dei soli

The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.

A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior sceneggiatura originale
Migliore attore protagonista a Paul Giamatti
Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph
Miglior montaggio

Di cosa parla The Holdovers?

Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Holdovers?

Dominic Sessa e Paul Giamatti in una scena di The Holdovers (2023) di Alexander Payne

Assolutamente sì.

The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…

Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente (1989).

Insomma, da non perdere.

Categorie
2023 Avventura Commedia nera Dramma romantico Drammatico Fantascienza Fantastico Film Grottesco La musa Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione Satira Sociale Yorgos Lanthimos

Poor Things – La femme sauvage

Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore attrice protagonista a Emma Stone
Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo
Miglior montaggio
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla Poor Things?

In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Poor Things?

Dipende.

Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.

Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.

In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.

Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.

Nascita

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.

Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinona incapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.

Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.

Willem Dafoe in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.

Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.

Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.

Scoperta

Il secondo atto è il momento della scoperta.

Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.

In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.

Ovvero, il controllo sul cibo.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.

Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.

Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.

Recinto

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.

In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.

Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.

La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.

Identità

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.

Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.

Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.

Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…

Vendetta

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

L’ultimo atto è il momento della verità.

Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.

Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.

Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.

La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.

Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.

Morale

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.

Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.

Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…

…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.

Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.

Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…

Categorie
Avventura Comico Commedia Commedia nera Dramma familiare Dramma storico Drammatico Fantastico Film Film di guerra Humor Nero Racconto di formazione Satira Sociale

Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

Categorie
Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Grottesco Ingmar Bergman Surreale

Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

Categorie
Avventura Comico Commedia nera Dramma storico Drammatico Fantastico Film Horror Il settimo sigillo

Il settimo sigillo – Dio, dove sei?

Il settimo sigillo (1957) è l’opera più famosa e celebrata della prolifica produzione di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget risicatissimo persino per l’epoca – appena 150 mila dollari, circa 1,7 milioni oggi – ebbe nel complesso un buon riscontro al botteghino300 mila dollari – per essere poi considerato negli anni un capolavoro della storia del cinema.

Di cosa parla Il settimo sigillo?

Antonius Block è un cavaliere che ha appena fatto ritorno dalle Crociate, ritrovandosi in una patria devastata dalla peste e della superstizione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il settimo sigillo?

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Il settimo sigillo non solo è una delle trattazioni e riflessioni più interessanti sul tema della morte e della ricerca di Dio, ma è anche un’opera capace di creare un bozzetto preciso – e per lunghi tratti persino comico – dell’Europa del XIV sec.

Una pellicola in cui momenti profondamente riflessivi e malinconici si alternano a sequenze più profondamente ironiche, con una comicità che gioca col grottesco e la mentalità dilagante di quel periodo.

Insomma, non ve la potete perdere.

Omen

Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

La sequenza di apertura de Il settimo sigillo è il primo omen.

I due personaggi sono stesi sulla spiaggia, e appaiono già morti… o forse lo sono davvero, perché proprio a quel punto la morte si approccia per la prima volta ad Antonius, invitandolo a seguirla.

La reazione del protagonista rivela al contempo la sua superbia e la sua disperazione.

Bengt Ekerot e Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Infatti, Antonius, dopo un decennio passato a perseguire una causa divina, è ancora più scettico sulla presenza di Dio, e ne ricerca disperatamente i segnali, la mano benevola che lo accompagni serenamente verso quella morte che non è pronto ad accettare.

Per questo sceglie di sfidare il destino, illudendosi di poter piegare perfino il triste mietitore ai suoi trucchi, di poterla tenere a bada il tempo che serve per ricongiungersi con il divino e liberarsi da quel turbamento costante e apparentemente irrisolvibile.

La presentazione dei due protagonisti si chiude con altri segnali – reali quanto immaginari – della Morte sempre in agguato, in cui la pellicola sparge i primi semi della sua deliziosa quanto macabra ironia.

Così Jöns, dopo aver blaterato per lungo tempo su visioni quasi apocalittiche – cavalli che si divorano l’un l’altro, quattro soli in cielo… – vede in faccia la morte, ed esorcizza l’incontro con un dialogo brillante quanto rivelatorio:

In questo senso lo scudiero dimostra di aver compreso pienamente verso quale mondo si stanno dirigendo: una realtà devastata dalla Peste Nera, un mondo dove ci sono più morti che vivi…

Natività

Con il cambio di scena, assistiamo alla prima visione.

Il settimo sigillo racconta abilmente questa dinamica fondamentale nell’Europa Medievale – la stessa che, in altro modo, porterà alla scrittura della Divina Commedia – e ne chiarisce anche la doppia natura:

una visione, maligna o benigna, poteva portare ad una benedizione quanto una condanna della Chiesa.

Nils Poppe e Bibi Andersson in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Questa prima visione – la Madonna con bambino – introduce l’altro polo della riflessione interna al film, contenuta da qui in poi nella figura di Mia: la natività, connessa anche alla dolcezza del paesaggio bucolico, contrapposta alla miseria e alla morte.

I personaggi legati al teatro sono anche vettori della sottotrama più spiccatamente comica: il tradimento della moglie del fabbro con Skat, che si toglierà dall’impiccio fingendo di morire – e poi morendo effettivamente – in una classica novella che potrebbe essere uscita dal Decameron.

La parte teatrale è anche il momento più prettamente metanarrativo: Jöns suggerisce al fabbro le parole da dire per duellare con l’attore, per poi anticipare le argomentazioni della donna per riconquistare il marito e farsi perdonare per il torto commesso.

D’altronde, inganno e maschere sono elementi onnipresenti nella pellicola.

Alternativa

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Inconsapevolmente, Antonius ha al suo fianco l’alternativa alla sua disperazione.

Ovvero, Jöns.

Lo scudiero è una maschera tipica del teatro classico – il servo furbo – anche più tridimensionale e tratteggiata in maniera quasi paradossale: come Jöns è sostanzialmente un nichilista e un disilluso – disprezza espressamente sia le Crociate quanto Dio…

…quasi anarchico – dice di ridere in faccia al suo padrone – è anche il personaggio più positivo della pellicola.

Gunnar Björnstrand in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Lo scudiero infatti aiuta le due donne vittime – prima la sua futura serva che rischiava di essere violentata, poi la strega a cui offre dell’acqua – proponendosi persino di uccidere tutti i soldati pur di liberare la futura martire

Lo stesso è anche il principale protagonista della linea comica della pellicola, col suo umorismo anche piuttosto cupo e piccato.

Inganno

Al contrario Antonius, che si crede l’eroe della storia, è in realtà vittima di un continuo turbamento che non riuscirà mai a risolvere.

Proprio nella sua disperata ricerca di Dio, si rifugia in una chiesa, specificatamente in un confessionale, per rivelare la sua profonda angoscia nel non riuscire più a vedere Dio nella sua realtà terrena…

…dove trova solo miseria, inganno e distruzione, ammettendo anche il suo pensiero di fondo, che è la chiave fondamentale per leggere la pellicola:

Abbiamo creato un idolo dalla nostra paura e l’abbiamo chiamato Dio.

Secondo questa interpretazione piuttosto lucida e disillusa, Dio non è altro che un tentativo di dare forma ad una paura – quella della morte – e così di riuscire anche ad esorcizzarla…

…anche tramite atti estremamente violenti sia su sé stessi – l’autodafé – e sugli altri – l’uccisione della presunta strega che si unisce con il maligno.

Max von Sydow in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Non è un caso che, mentre Antonius confessa queste cose credendo di parlare con un emissario di Dio, stia venendo in realtà ulteriormente ingannato, ritrovandosi a conversare con l’unico dialogante realmente presente, e che lo spinge costantemente verso questa ritrovata disillusione…

Insomma, l’unico dio è la Morte.

Salvezza

La vita terrena è definita da una costante dicotomia.

L’aspetto più disperato, più estenuante anche per la ricerca di Antonius, è assistere alla degradante processione degli auto flagellanti, che cercano in ogni modo di scacciare la morte e il maligno da sé stessi

…ma riuscendo solo ad istigare una paura e un’ossessione ancora maggiore nella comunità, che vede in loro l’apparizione di Dio.

Max von Sydow e Bengt Ekerot in una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

L’altro lato dell’esistenza terrena è la vita piccola ma soddisfacente, i semplici momenti di felicità e condivisione: così Antonius diventa ospite dei due attori, godendosi la compagnia e il cibo, e sapendo di poter conservare dentro di sé questo ricordo rasserenante.

Questa pace terrena, così semplice, ma anche così potenzialmente raggiungibile, è infatti la stessa che gli permette, almeno per un momento, di allontanarsi dalla partita a scacchi con la Morte – e quindi dall’angoscia che lo opprime – e affrontare poi la prossima mossa con una ritrovata felicità.

Morte

Max von Sydow una scena de Il settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman

Ma la morte è inevitabile.

Prima di arrivare definitivamente al suo castello, Antonius si imbatte nuovamente nella martire, a cui chiede consiglio per finalmente riuscire a vedere un segno divino – o diabolico – ma infine arrendendosi davanti alla sua totale cecità…

…inciampando ancora una volta nel suo cammino nell’unica presenza onnipresente: la morte.

L’ultima partita a scacchi è quella decisiva: come Antonius si sentiva prima sicuro di aver messo in scacco la sua lugubre compagna, invece in poche mosse viene sconfitto.

È l’occasione della seconda visione di Jof, che vede quella partita del destino, e per questo capisce che è il momento di allontanarsi, per non prendere parte a quella che sarà l’ultima e fondamentale visione: la macabra danza della Morte che conduce all’aldilà.

Invece Antonius, pure ora che ha perso contro la Morte, cerca comunque di rifugiarsi nel suo castello, e in ultimo cerca un conforto in un Dio che continua a non rispondergli, mentre gli astanti tengono lo sguardo fisso sulla Morte

…in particolare la donna che Jöns salvato, che cade in ginocchio in lacrime, proprio come davanti alla processione…

Ma la chiusura de Il settimo sigillo ci rassicura mostrandoci una morte che è ancora lontana, vincolata alla visione scherzosamente messa da parte da Mia, mentre si allontana all’orizzonte con il suo carro carico di vita…

Categorie
2023 Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Racconto di formazione

C’è ancora domani – Il futuro è nostro

C’è ancora domani (2023) rappresenta lo splendido esordio alla regia di Paola Cortellesi, nonché uno dei più grandi successi commerciali e di pubblico del 2023.

Infatti, a fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 8 milioni di euro – ha trionfato con 32 milioni di euro di incasso.

Di cosa parla C’è ancora domani?

Italia, 1946. Dalia è intrappolata in un matrimonio violento, con un marito che la maltratta e la umilia costantemente. Ma il futuro è ancora tutto da scrivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere C’è ancora domani

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Assolutamente sì.

C’è ancora domani è una splendida opera prima che riporta sullo schermo un elegantissimo neorealismo – che ricorda titoli fondamentali della nostra filmografia come Una giornata particolare (1977) e Ladri di biciclette (1948) – ma per raccontare un tema assolutamente attuale.

Così la tematica della violenza di genere è ben contestualizzata in un’Italia appena uscita dal Ventennio, per una pellicola che riesce ad appassionare per la bellezza dei suoi personaggi e l’ottima scrittura, non ricadendo quasi mai in scelte banali e prevedibili, anzi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La passerella

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

C’è ancora domani si apre con la passerella della vergogna.

Dalia entra nel nuovo giorno con uno schiaffo che le ricorda la pochezza della sua condizione: una casalinga rintanata come un ratto in un deprimente seminterrato – con un simbolismo molto potente che ricorda alla lontana Parasite (2019) – e in balia della violenza di un mondo ingiusto.

Infatti, dopo aver sopportato l’umiliazione dei due grandi patriarca della casa – il marito violento e la manina del suocero – la protagonista si immerge in un mondo che giustifica costantemente la sua condizione, il suo stare ai margini e, sopratutto, la violenza di Ivano.

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Tuttavia, Dalia non è del tutto in balia degli eventi.

Un senso sotterraneo di ribellione, di rivalsa è in qualche modo presente in lei – come si nota soprattutto nel modo in cui tratta il vecchio Ottorino – fomentata sia dalle ingiustizie che vede intorno a lei, sia dall’intraprendenza della sua amica Marisa.

In particolare, Dalia è consapevole di non essere quello che il marito le dice, ovvero una donna inutile e senza valore: al contrario, si impegna a trovare il suo angolo di libertà, si destreggia fra più lavori, mette da parte un piccolo gruzzolo, medita su come aiutare la figlia…

La danza

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La danza con Ivano è rivelatoria.

Paola Cortellesi sceglie consapevolmente di non inserire una scena di violenza tanto per inserirla, ma proprio per caricarla di uno specifico significato: il ballo fra i due personaggi rappresenta la dualità del loro rapporto, fra violenza e amore.

Insomma, si racconta con una messinscena piuttosto indovinata la rete in cui ci si impiglia nelle relazioni violente: per quanto la violenza sia reiterata e devastante, la stessa è accompagnata da momenti di scuse, di giustificazioni, di bombardamento affettivo (love bombing) – infatti, successivamente, dopo averla picchiata, Ivano la invita a ballare.

Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Inoltre, nonostante Ivano sia un personaggio veramente terribile, il suo comportamento è ben contestualizzato nell’eredità della famiglia del Ventennio – e non solo – in cui è del tutto normale punire costantemente queste stupide donne.

E, soprattutto, la sua violenza è costantemente giustificata da sé stesso e dagli altri personaggi maschili – che lo scusano per l’essere nervoso, per aver fatto due guerre – e taciuta dai personaggi femminili, in particolare il terzetto dell’omertà delle donne del cortile che ascolta impotente le urla di Dalia…

Il tavolo

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il tavolo è un simbolo costante e fondamentale in C’è ancora domani.

Il film fa indirettamente riferimento al concetto di sitting at the table, proprio del pensiero femminista, che ribadisce l’importanza per le donne di avere coraggio di sedersi al tavolo delle decisioni, e così riprendere in mano il proprio futuro.

Per questo Dalia non si siede mai al tavolo, ma è sempre in piedi, rinchiusa nella sua figura ancellare, con due eccezioni: quando si siede al tavolo secondario della cucina – in cui è più volte scacciata – con la figlia…

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

…e, soprattutto, quando viene invitata dall’altro patriarca – il padre di Giulio – a sedersi al tavolo della domenica, per poi essere immediatamente scacciata dallo stesso dal marito, per poi riprovare a sedersi, ma proprio nel momento in cui i due uomini si alzano, per essere infine definitivamente esclusa quando Ottorino le ruba il posto.

Così Dalia cerca costantemente di far sedere la figlia Marcella al tavolo, quando nella prima scena la stessa si rifiutava di farlo, proprio nel suo costante tentativo di portarla lontano dalla sua deprimente condizione.

La gabbia

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il rapporto fra Marcella e Dalia è fondamentale.

La loro relazione è fin da subito estremamente antagonistica, in particolare da parte della figlia, che disprezza esplicitamente la madre per non essere capace di liberarsi dalla sua condizione, ma anche del tutto ingenua davanti alla mancanza di alternative per Dalia.

Ma il maggior impegno della protagonista è proprio quello di poter offrire alla figlia una condizione di vita migliore – soprattutto dal punto di vista economico – mettendo da parte i soldi per portarle dare l’inizio migliore possibile: uno splendido abito da sposa.

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Per questo il risveglio di Dalia è profondamente legato alla figlia.

Quando la protagonista comincia a notare le stesse dinamiche che caratterizzarono i primi momenti del rapporto con Ivano – proprio nella classica dinamica dell’uomo violento nascosto in ogni ragazzo perbene – comincia a capire di star regalando a Marcella non un futuro, ma una gabbia.

Per questo sceglie finalmente di agire, anche in maniera piuttosto pericolosa, per vanificare quel futuro matrimonio violento, dal momento che i suoi tentativi più cauti di dissuadere la figlia nell’andare ad incastrarsi nel suo stesso incubo cadono nel vuoto.

Ed è solo l’inizio.

L’alternativa

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La condizione femminile non guarda alla classe sociale.

Per questo piuttosto interessante l’incrocio di sguardi fra Dalia, il ritratto della donna di un’epoca lontana nella casa in cui va a fare l’infermiera, e la padrona della casa stessa: con questo semplice rappresentazione, C’è ancora domani racconta una situazione femminile poco mutata nel tempo.

Se infatti persino una nobildonna del passato poteva godere di poco spazio nelle scelte politiche, così la padrona di casa che cerca di intervenire – sempre in piedi – nel tavolo di discussione degli uomini – figlio e marito – viene scacciata.

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

L’alternativa è invece Marisa.

Fin da subito si racconta come l’amica sia in una situazione matrimoniale ben diversa, in cui riesce ad essere il capofamiglia e, sopratutto, a godere di un marito piuttosto affettuoso, e che, soprattutto, la sostiene come compagna, e non come serva.

Questo è particolarmente chiaro nella scena in cui Marisa vede passare una donna incinta e si intristisce, essendo probabilmente sterile, ma subito il compagno la cinge a sé, confermando che il suo amore non è vincolato al suo ruolo di madre e moglie.

Non a caso, quando si convince a ribellarsi, Dalia si raccoglie i capelli come l’amica.

Domani

Teoricamente, l’alternativa per Dalia è Nino.

Inizialmente infatti Dalia si convince a scappare con lui, così da sottrarsi al suo matrimonio da incubo e trovare finalmente qualcuno che la ama e la rispetta.

Questa scelta mostra un momento di un effettivo tentativo di indipendenza dal marito – in particolare nella fretta e nell’affronto di camminargli davanti – apparentemente del tutto vanificata dalla morte dell’altro patriarca.

Ma c’è ancora domani.

Con il suo splendido finale, la pellicola ci mostra qual è la vera alternativa alla società in cui viviamo: non scappare, non cercare una salvezza in uomini migliori, ma invece prendere un effettivo posto al tavolo delle decisioni.

E così finalmente Marcella guarda con rispetto e gioia la madre – che le sta regalando un vero futuro, con il voto e con la possibilità di un’istruzione – e finalmente Dalia non è in basso, per terra rispetto al marito, ma lo sovrasta in cima alle scale…

…spalleggiata da quelle stesse donne che non l’avevano aiutata fino a quel momento, che anzi l’avevano osteggiata, ma che ora diventano finalmente sue alleate.

Categorie
Avventura Cinema per ragazzi Commedia Commedia nera Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror Humor Nero Unconventional Christmas

Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

Categorie
Commedia nera Darren Aronofsky Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film

The Whale – Il dramma insoluto

The Whale (2022) una pellicole di Darren Aronofsky, in cui il regista statunitense sceglie un taglio più strettamente realistico, pur non abbandonando del tutto l’elemento fantastico-simbolico.

A fronte di un budget veramente risicato – appena 3 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 54 milioni di dollari di incasso.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Whale (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior attore protagonista
Migliore trucco e acconciatura
Miglior attrice non protagonista

Di cosa parla The Whale?

Charlie è un professore universitario in un collage online, che, ad un passo dalla morte, sceglie di riallacciare i contatti con la figlia.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Whale?

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Dipende.

Personalmente mi sono approcciata a questa pellicola con l’idea di riavvicinarmi alla filmografia di Aronofsky, dopo il passo falso di Madre! (2017), che mi aveva totalmente respinto e, di fatto, portato a detestare la poetica di questo autore.

Grazie a The Whale mi sono parzialmente ricreduta, in quanto sono riuscita ad apprezzarlo decisamente di più rispetto alla sua opera precedente. Tuttavia, questa visione ha anche confermato la mia insofferenza per un taglio narrativo volto in una certa misura all’autocompiacimento un po’ fine a sé stesso.

Nondimeno, ho indubbiamente apprezzato il ritorno di Brendan Fraser in scena, che riesce a reggere sulle sue spalle una performance veramente complessa e per nulla facile da rendere senza cadere nel ridicolo.

Insomma, dipende tutto da che tipo di aspettative avete su questa pellicola.

Nido

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è il protagonista della sua tragedia personale.

Da anni ha scelto ormai di non prendersi più cura di sé stesso, ma di sprofondare in una trascuratezza e in una condizione tale da non potersi neanche più muovere, vivendo quasi del tutto isolato all’interno del suo nido.

Una sorta di lenta morte autoindotta, in cui porta avanti le sue due missioni più importanti: ispirare l’originalità e l’autonomia di pensiero nei suoi studenti, e il lasciarsi alle spalle un patrimonio tale da rendere la vita della figlia molto più soddisfacente della propria.

E qui risiede il primo problema.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Per quanto Charlie – e il film stesso – cerchino di raccontarci il contrario, Ellie non è un personaggio positivo.

Il protagonista sembra infatti incapace di giudicare la figlia al di fuori di quel saggio scritto in tenera età, in cui Ellie dimostra effettivamente una lucidità e maturità mentale tale da saper analizzare un’opera così complessa come Moby Dick...

…ma il suo personaggio è ben altro.

Ideale

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Sulla carta Ellie è un personaggio che doveva mostrare una caratterizzazione variegata e interessante, ma nell’effettivo mi è parsa maggiormente un personaggio tagliato con l’accetta.

Di fatto, la riconduco senza problemi al modello della ragazza ribelle, anche piuttosto stupida ed immatura, che però nasconde dentro di sé dei talenti che, per la sua situazione sociale, sembra incapace di sfruttare appieno – non tanto diversa da Maeve di Sex Education, insomma.

In questo senso, Charlie vorrebbe farla sbocciare, ma riesce infine solamente a trovare un riscatto personale e puramente apparente, quando sembra ricondurre la figlia sulla strada più proficua dell’originalità di pensiero e di maturazione personale.

Ma è davvero così?

Salvezza

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie non vuole essere salvato.

Nella sua casa sono presenti due stanze: in una alberga il suo presente – la trascuratezza e l’autodistruzione – nell’altro il suo passato, e possibile futuro – l’ordine, la disciplina, la cura dell’ambiente e quindi del sé.

Nella sua persona è quindi presente il potenziale per una salvezza, continuamente incoraggiata dai personaggi che lo circondano, anche grazie al patrimonio che ha conservato con tanta fatica e che potrebbe svoltargli l’esistenza.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma allora perché sceglie la distruzione?

Dopo i profondi drammi che ha attraversato, Charlie si è ormai convinto che, qualunque strada prenda, giungerà ad un’infelicità ancora maggiore: il solo tentare sarebbe già di per sé perfettamente inutile.

Per questo, sceglie Ellie.

L’importanza che viene data al patrimonio economico di Charlie è forse derivante da una mentalità estremamente statunitense del potere insito nella disponibilità economica, che può potenzialmente aprire infinite porte ed opportunità.

Sadie Sink in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Ma Ellie ha bisogno di molto altro che i soldi.

Charlie si congeda da sua figlia con una promessa, ignorando i segnali che raccontano una personalità assai problematica e fuori controllo, scegliendo di donarle solamente il mezzo per la salvezza che lui stesso non ha mai trovato, ma lasciandola senza una guida.

Una guida che poteva, anzi doveva essere Charlie, che invece ha preferito regalare la sua vita alla figlia, sembrando del tutto ignaro dell’importanza che avrebbe potuto avere per Ellie da vivo – molto più, appunto, del mero denaro.

Ma non è neanche l’unico colpevole.

Ignavia

Hong Chau in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

Charlie è circondato dai complici della sua disfatta.

Il problema di fondo non è tanto il fatto che il protagonista abbia un’idea così deviata e distruttiva della sua esistenza, ma che le persone che lo circondano non siano mai veramente capaci di salvarlo.

Da Liz a Thomas, fino alla stessa Ellie, tutti potevano effettivamente prendersi il ruolo di salvatori, ma tutti al contempo sembrano, nel loro piccolo, afflitti dalla stessa malattia di Charlie: l’incapacità di migliorarsi.

Brendan Fraser in una scena di The Whale (2022) di Darren Aronofsky

A questo proposito, non voglio dire che ogni protagonista tragico debba avere il suo riscatto o che debba per forza vivere un arco evolutivo con esito positivo, ma che lo stesso dovrebbe essere un minimo più significativo.

Diverse sono le figure che si susseguono in diverse storie che, incapaci di trovare un riscatto, si ritrovano soffocate dalle loro stesse debolezze – uno fra tutti, il protagonista di Beau is afraid (2023) – ma una buona scrittura è capace di arricchire questi drammi di importanti significati.

Al contrario in The Whale io ho trovato solamente un dramma fine a sé stesso, la storia di un uomo illuso e di fatto egoista, costretto a vivere in mondo terribile e che lo disprezza, senza che questo mi spingesse ad un’effettiva riflessione, lasciandomi invece solo con una profonda amarezza.

E nient’altro…

Categorie
Avventura Back to...Zemeckis! Commedia nera Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror

La morte ti fa bella – Un’ossessione eterna

La morte ti fa bella (1992) è uno dei film forse più particolari della prolifica carriera di Robert Zemeckis, che poté godere di un terzetto di protagonisti incredibili: Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn.

A fronte di un budget abbastanza importante – 50 milioni di dollari – fu complessivamente un buon successo commerciale: 149 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La morte ti fa bella?

Madeline è un’attrice senza talento e con un solo punto di forza: la bellezza. E farebbe di tutto per mantenerla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La morte di fa bella?

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

La morte ti fa bella è un piccolo cult della filmografia di Zemeckis, in cui sceglie delle strade già percorse in parte con Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), con un umorismo profondamente grottesco, quasi orrorifico, ma che impreziosisce un importante tema di fondo.

Una pellicola che brilla in particolare per il terzetto di attori protagonisti, che riescono a gestire una recitazione molto caricata, ma mai eccessiva, all’interno di un reparto di effettistica davvero incredibile.

Insomma, da non perdere.

Un prologo improvviso

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’incipit di La morte ti fa bella viaggia a due velocità.

Il personaggio di Mad e la sua nomea vengono introdotti fuori scena, con uno scambio piuttosto aspro fra due spettatori scontenti per la sua prestazione attoriale, seguito dall’inquadratura su un volantino abbandonato sotto alla pioggia battente…

E, all’interno del teatro, la situazione non è differente: nonostante la baldanzosa performance della protagonista, buona parte degli spettatori è annoiata, addirittura addormentata, abbandona in massa la sala in uno scontento generale.

Meryl Streep, Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Tutti tranne uno.

L’entusiasmo travolgente di Ernest lo accompagna fino al camerino di una Madeline che già si dimostra ossessionata del suo aspetto, che però basta perché i due si scambiano sguardi languidi davanti ad una Helen terrorizzata – e, a posteriori, scopriremo anche il perché.

Il matrimonio improvviso, introdotto dalla rassicurazione di Ernest ad Helen – Non ha alcun interesse per Madeline! – introduce perfettamente il personaggio: un uomo che, anche per la sua professione, si fa facilmente e superficialmente ammaliare dalla bellezza e dal fascino di una donna che conosce appena.

I due estremi

Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

La condizione di Helen sette anni più tardi è rivelatoria della natura delle protagoniste.

Le due amiche si nutrono di due ossessioni: la ricerca ostinata della bellezza e del vivere eternamente giovani, e il profondo odio covato per anni l’una verso l’altra, raccontato perfettamente dal godurioso entusiasmo di Helen mentre guarda la scena in cui Madeline viene strangolata.

Al contempo questo lasciarsi totalmente andare rivela come entrambe siano di fatto incapaci di prendersi cura di sé stesse, tanto da limitare la loro esistenza solamente a due estremi: o l’obesità impossibile o la bellezza ricercata ad ogni costo.

Per questo all’interno di questo contrasto omicida, Ernest è infine solamente un trofeo, la prova di essere effettivamente riuscite a raggiungere un grado di desiderabilità tale da poter conquistare un uomo neanche così tanto desiderabile…

Il ribaltamento

Bruce Willis e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

L’atto centrale è caratterizzato da un continuo ribaltamento di ruoli.

Una Helen tirata a lucido si ripropone agli occhi dell’ex-fidanzato, cominciando a muovere le prime pedine del suo piano omicida, in cui Ernest, ancora una volta, non è altro che un mezzo per la realizzazione di una personale vendetta.

Interessante in questo senso la sequenza che rappresenta il piano di Helen, in cui Madeline ne prende simbolicamente il suo posto – indossa infatti il vestito rosso – mentre Madeline e Ernest sono vestiti di bianco, come se si stessero finalmente sposando…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Questo incontro è anche il momento che mette davvero in crisi Madeline, attonita davanti ad un marito che, per quanto non sia neanche più così interessante, è un simbolo sociale troppo importante per lasciarselo sfuggire dalle mani dell’arcinemica.

Il picco drammatico è rappresentato dalla disastrosa fuga in macchina: dopo essere stata respinta persino dal suo giovane amante – trofeo sostitutivo del marito – una Madeline disperata getta uno sguardo al suo volto devastato dal pianto…

…e lancia un urlo di terrore.

Segue la splendida sequenza dell’elisir di lunga vita, che sembra risolvere tutti i problemi della protagonista, che anzi non avrà neanche più bisogno della conferma del marito per considerarsi bella, in quanto il suo aspetto parlerà già da sé.

Il momento della trasformazione è anche quello in cui il film comincia a dare sfoggio del suo splendido reparto di effettistica, che funziona ottimamente e con pochissime sbavature -l’unico momento poco credibile è quando Madeline ha la testa rivoltata.

L’arco evolutivo…

Meryl Streep in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Il terzo atto è il più sorprendente.

L’unico personaggio che gode effettivamente di un arco evolutivo è Ernest, che sceglie di liberarsi della moglie autonomamente rispetto al piano di Helen, nonostante sia inizialmente pronto a salvarla dalla caduta dalle scale, ricredendosi immediatamente quando la donna si rivela nuovamente per la sua acidità.

Allo stesso modo, l’uomo ricomincia a prendersi cura di lei non tanto per un ritrovato amore, ma per riuscire finalmente a tornare a praticare la sua professione, iniziativa che però lo porterà ad essere nuovamente l’oggetto del desiderio delle due donne – anche se per motivi diversi…

Bruce Willis in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Ma più si immerge nel sogno folle della vita eterna delle due donne, che pur essendo morte, pur cadendo a pezzi, vogliono continuare ad essere ricostruite e messe a posto – una rappresentazione piuttosto sagace dell’inseguimento perfezione estetica tramite la chirurgia plastica – più se ne vuole allontanare.

Addirittura, scegliendo di togliersi la vita.

Pur in maniera molto semplicistica, nel finale il film racconta come la ricerca della bellezza e della vita eterna può essere ricercata al di fuori della mera realtà materiale ed estetica, riscoprendo la nuova vita di Ernest nei suoi ultimi trentasette anni di vita.

…e involutivo

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Invece, nel loro arco involutivo, le due protagoniste dimostrano tutta la loro ristrettezza mentale.

Se fino ad un momento prima cercavano di distruggersi a vicenda, appena si rendono conto della reciproca immortalità, si ricongiungono per un motivo puramente egoistico: sostenersi in questa fragile vita eterna.

Allo stesso modo, l’interesse a tenersi vicino Ernest è del tutto dettato dalla paura di non poter effettivamente essere belle per sempre, dando anzi per scontato che questa orrenda vita eterna sia un desiderio condiviso anche dall’uomo.

Meryl Streep e Goldie Hawn in una scena di La morte ti fa bella (1992) di Robert Zemeckis

Infatti, in diversi momenti si nota come la ruggine fra le due non sia mai stata risanata, al punto che, con un piacevolissimo parallelismo, Madeline lascia che Helen cada giù dalle scale, pensando finalmente di aver vinto…

…ma la sua ben più scaltra compagna la afferra per il bavaro, così che entrambe si trovino ancora più rovinate e inguardabili di quanto già non fossero, ma con una battuta di chiusura che fa forse presupporre che non è la prima volta che succede una cosa del genere…

Categorie
Avventura Azione Comico Commedia nera Cult rivisti oggi Drammatico Fantascienza Film Horror Humor Nero L'alba del consumismo Satira Sociale

Dawn of the Dead – I veri mostri

Dawn of the Dead (1978) di George Romero – in Italia uscito con il titolo di Zombi, ma spesso noto con nome di L’alba dei morti viventi – è probabilmente lo zombie movie più famoso della storia del cinema.

Purtroppo con la traduzione italiana si perse il senso di progressione della trilogia di Romero, cominciata nel 1968 con The Night of the Dead e continuata nel 1985 con The Day of the Dead.

Un prodotto che ebbe numerosi sequel e remake – in particolare quello di Zack Snyder del 2004 col titolo omonimo – parodie – lo splendido Shaun of the Dead (2004) di Edward Wright – nonché numerose citazioni e omaggi – non ultima quella di South Park in Illogistico (9×22).

Di cosa parla Dawn of the dead?

Dopo lo scoppio di una misteriosa pandemia che fa rinascere i morti, uno sparuto gruppo di sopravvissuti si rifugia in un centro commerciale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dawn of the dead?

Assolutamente sì.

Dawn of the Dead non è solamente un classico del genere horror, ma soprattutto un unicum per gli zombie movie.

Infatti, sotto l’apparenza di survival movie, si cela una ben più aspra critica agli Stati Uniti degli Anni Settanta e, più in generale, al consumismo e al capitalismo occidentale imperante.

Oltre a questo, la pellicola si distingue per un apparato tecnico davvero superbo, in particolare per un’effettitistica che si può annoverare fra le migliori di quegli anni, insieme ad Alien (1979) ed a La Cosa (1982).

Insomma, un film imperdibile, che fa riflettere ancora oggi.

Un assaggio

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Dawn of the dead, essendo un sequel, parte subito di corsa.

La pandemia è già iniziata, il pericolo è alle porte, e questo primo breve atto consente allo spettatore di avere un assaggio dell’orrore e della violenza così crudelmente materiale della pellicola, che non manca di mostrarci fiumi di sangue e membra strappate a morsi.

Questa mancanza di un’introduzione all’orrore è in realtà incredibilmente funzionale al messaggio del film, basato proprio sull’assenza di un’effettiva distinzione fra il prima e il dopo, fra gli zombie assetati di carne umana e gli umani stessi…

La fame

Se banalmente sembra che gli zombie vogliano, nella più classica delle tradizioni del genere, mangiare i cervelli e le carni dei sopravvissuti, in realtà lo scambio fra i protagonisti sul perché i non morti si dirigono in un centro commerciale è rivelatorio della loro vera fame:

They don’t know why, they just remember. Remember that they want to be in here.

Non sanno perché, ricordano solamente che vogliono essere qui.

Difatti il centro commerciale era una novità negli anni dell’uscita della pellicola…

…ed è il tipo di spazio che è definito come non-luogo: una realtà artificiosa, che mima le atmosfere di una piccola città – la piazza, i palazzi, i ristoranti – ma che in realtà è solo un meccanismo pensato per far alimentare la voracità consumistica dei suoi avventori.

Una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Di fatto il cliente quando entra in questi luoghi non ha bisogno di uscirne, non vuole di fatto farlo, perché vi trova tutto quello di cui ha bisogno, bombardato costantemente da nuovi stimoli a spendere, ad acquisire nuovi oggetti senza che questi siano di fatto necessari…

Per questo è ancora più indicativa la definizione che viene data dei non morti:

These creatures are nothing but pure, motorized instinct.

Queste creature non sono altro che puro istinto motorizzato.

Quindi gli zombie non sono altro che gli statunitensi stessi, del tutto lobotomizzati e incapaci di pensare razionalmente, schiavi di un desiderio consumistico insaziabile, che, persino da morti, li porta ad invadere questo luogo…

I veri mostri

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

Se gli zombie sono dei personaggi quasi comici, financo grotteschi, per il loro modo di comportarsi e la musica che spesso accompagna le loro scene, il vero focus del film sono i protagonisti umani.

È come se, provocatoriamente, Romero ci chiedesse: i non morti e i sopravvissuti sono tanto diversi?

Anche se apparentemente sembra di sì, in realtà i protagonisti scelgono il centro commerciale come luogo in cui rifugiarsi non perché sia la scelta migliore in quel momento, ma perché irrazionalmente attratti dalla quantità di beni a disposizione, anche se questi non sono minimamente utili alla loro sopravvivenza.

Scott H. Reiniger in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

E per questo si mettono costantemente in pericolo, divertendosi come dei bambini a scorrazzare per i corridoi e gli infiniti negozi del centro, al punto da ricreare in un certo senso i loro spazi quotidiani – una casa perfettamente arredata – ma che, proprio come il centro commerciale, sono del tutto fittizi e artificiosi.

Un ulteriore spunto riflessivo sulla contemporaneità è suggerito dal terrificante contrasto fra le scene gioiose, quasi comiche, dei protagonisti che uccidono gli zombie ed esplorano gli spazi, e la crudeltà delle uccisioni, sbudellamenti, abbuffate che portano la maggior parte dei personaggi alla morte.

Con questo contrasto Romero racconta degli Stati Uniti affogati nel sogno capitalista e consumista, che si nutre di questo ideale totalmente illusorio, beandosi di una realtà alternativa e dimenticandosi gli orrori di cui è circondata – nel film gli zombie, nella realtà la guerra, la criminalità, il degrado sociale…

L’ossessione del possesso

Ken Foree in una scena di Dawn of the Dead (1978) di George Romero

La drammaticità dell’ossessione per il possesso e il consumismo viene ancora più svelata nell’atto conclusivo.

I protagonisti vengono attaccati e devono difendersi, ma la lotta da nessuna delle due parti è per la sopravvivenza, ma piuttosto per, ancora una volta, una smania di possesso, che porta a delle scene veramente disturbanti…

…come i bikers che strappano gli anelli dalle mani degli zombie, l’ilarità quando si impossessano di soldi che ormai non hanno alcun valore e, soprattutto, la frase pronunciata da Stephen mentre punta il fucile contro gli intrusi:

It’s ours, we took it.

È nostro, lo abbiamo conquistato.

I protagonisti quindi sono incapaci di pensare lucidamente, del tutto dipendenti da questo mondo scintillante e pieno di false promesse, tanto che Peter dice esplicitamente di non volersene andare, e sceglie solo infine di seguire Fren, le cui parole riecheggiano dolorose per tutto il terzo atto:

What have we done to ourselves.

A che cosa ci siamo ridotti.