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Mean Girls – L’isteria collettiva

Mean Girls (2004) di Mark Waters è forse il più grande cult teen movie di tutti i tempi, uno spaccato crudele e realistico dell’adolescenza femminile.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 17 milioni – fu un enorme successo commerciale, incassando 130 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Mean girls?

Cady è una ragazza di 16 anni che ha vissuto tutta la sua vita in Africa e che non hai mai frequentato una scuola. E il primo impatto può essere traumatizzante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mean Girls?

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Assolutamente sì.

Mean Girls è un cult imprescindibile del genere teen movie, che ha segnato l’immaginario di un’intera generazione (e non solo), proprio per la sua capacità di portare in scena con un realismo quasi satirico l’esperienza adolescenziale.

Una pellicola che gode anche di un cast semplicemente perfetto: dalla star degli Anni Duemila Lindsay Lohan alla glaciale Rachel McAdams nel ruolo della sua vita, senza contare la splendida Tina Fey, che firma anche la sceneggiatura.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Un mondo nuovo

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Cady è come se fosse una bambina.

Per questo è un guizzo di regia non indifferente la scelta di aprire il film con una soggettiva leggermente inclinata verso l’alto, così da far credere allo spettatore che la protagonista sia più bassa – e, di conseguenza, molto più giovane – dei suoi genitori.

Un’ironia piuttosto sagace, ma del tutto funzionale a raccontare lo status iniziale di Cady: una ragazza nel pieno della sua formazione, ma al contempo del tutto ignara delle dinamiche del liceo e dell’adolescenza in generale.

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

In particolare, la sua ingenuità è ben mostrata dal primo approccio con il mondo scolastico, in cui deve farsi largo a gomitate e in cui, appena cerca un contatto con una sua compagna, viene immediatamente scacciata, per poi trovarsi del tutto disorientata nel trovare il suo posto – in classe e in quel nuovo mondo.

Il racconto della prima giornata si chiude con una panoramica del clima opprimente del nuovo ambiente, in cui gli adulti hanno un atteggiamento aggressivo e che tende a schiacciarla in un complesso di regole da far girar la testa a chiunque non ci si sia mai imbattuto.

In questo senso ancora più emblematica è la lezione dell’educazione sessuale mascherata da incontro sulla salute, nient’altro che un terrorismo psicologico piuttosto patetico, che ricalca il senso di sfiducia degli adulti nei confronti degli adolescenti, anche in maniera totalmente contraddittoria ed ironica.

I due serpenti

Lindsay Lohan, Lizzy Caplan e Daniel Franzese in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Cady è tentata in due differenti direzioni.

Prima da Janet e Damian, due personaggi più ascrivibili al modello della protagonista inacidita dal comportamento dei ragazzi più popolari della scuola e dal loro immeritato successo, e che infatti hanno il compito di mostrare a Cady le giuste idee.

Un confronto piuttosto stringente, quasi opprimente, ma anche abbastanza tipico: in un momento di totale isolamento, per trovare dei nuovi amici – che si dichiarano subito come tali – è molto facile lasciarsi trasportare da idee che neanche ci piacciono…

La presentazione del terzetto delle Plastics è ormai iconica: il racconto dei loro caratteri si accompagna ad una messinscena piuttosto eloquente, nello specifico quella di Regina George, che viene portata in trionfo come Cristo in gloria, con a corollario la sequenza dedicata ai magnifici pettegolezzi che la circondano.

Rachel McAdams in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Ma Regina George non è un semplice villain da teen drama.

L’errore in cui questo tipo di film cadono sempre è cercare una sorta di redenzione per l’antagonista, magari anche in un ricongiungimento con la protagonista. Al contrario, l’iconico personaggio di Rachel McAdams è al limite del diabolico, e non ha momenti di effettivo riscatto.

Con quel suo sorriso glaciale e quella bellezza da Barbie, Regina si dimostra più e più volte una bulla crudele, che comanda a bacchetta le sue sottoposte e che ha il completo controllo sulle chiacchere che infestano la scuola, senza farsi problemi a rovinare anche totalmente la vita delle persone.

Particolarmente crudele nello specifico il pettegolezzo contro Janet, bollata come una pericolosa lesbica – in un mondo in cui essere queer definisce tutta la tua personalità – rendendola così un’emarginata e, soprattutto, un personaggio estremamente incattivito.

La vendetta sottile

Rachel McAdams, Lacey Chabert e Amanda Seyfried in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Il mondo di Mean Girls è fatto di apparenze e pettegolezzi.

Se in un primo momento Cady credeva nel buon cuore di Regina, la festa di Halloween è invece rivelatoria della vera natura del suo personaggio, che si rimette con Aaron solamente per ripicca nei confronti della nuova arrivata, solamente per pura cattiveria.

Così Cady, memore di un mondo più semplice e violento come quello animale, si deve arrendere all’idea che la vendetta non può avvenire per una distruzione fisica della persona di Regina, ma piuttosto tramite uno smantellamento sistematico della sua immagine.

Rachel McAdams e Linsday Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Ed è tanto più doloroso quando questa vendetta passa soprattutto attraverso un tipo di dispetto particolarmente crudele, ovvero il far aumentare sistematicamente di peso Regina per riuscire ad umiliarla in un mondo ossessionato dalla diet culture e dell’aspetto fisico.

Anzi da questa idea ne consegue l’unico effettivo momento di debolezza di Regina, in cui Cady dimostra effettivamente di sentirsi in colpa per il suo piano, ovvero quando piuttosto mestamente, l’ex reginetta di bellezza dice:

These sweatpants are all that fits me right now.

Questi pantaloni sono gli unici che mi entrano.

L’isteria collettiva

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

La scena della mensa è già di per sé estremamente emblematica.

Si racconta come tutti i personaggi siano inquadrati secondo delle specifiche caratteristiche e modelli da cui non possono scappare, con un lavoro particolarmente fine di caratterizzazione e diversificazione – ripreso in chiave minore dal successivo High School Musical (2006).

Ne consegue che ogni persona all’interno del liceo è inquadrata in una specifica casella, in uno specifico modello da seguire e da cui non può sfuggire, e, più in generale, che il mondo femminile è scandito da precise regole e aspettative a cui sottostare, anche indirettamente suggerite dalla controparte maschile.

Lacey Chabert e Amanda Seyfried in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

Così i vari personaggi di Mean Girls non si fanno problemi a riempirsi la bocca di insulti anche piuttosto pesanti verso le loro compagne – slut, whore… – a diventare artefici di pettegolezzi degradanti, pur in maniera sotterranea e meschina, anche per non tradire il modello che le costringe comunque ad essere piacenti e mai veramente dirette.

Ne consegue una sorta di isteria collettiva, che deriva anzitutto da un’insicurezza di fondo, che è propria di tutti i personaggi, persino di quelli più inscalfibili come Regina – che si lamenta delle sue spalle da uomo, del voler dimagrire… – e che sfocia in un bieco bullismo.

Consapevole di questa situazione, Regina rompe quell’apparenza: tramite la diffusione delle pagine del Burn Book, viene raccontata la vera natura di tutte le ragazze della scuola, ugualmente colpevoli e vittime di questo gioco perverso.

Un drammatico declino

Come detto, Cady è un’adolescente tutta da scrivere.

Per questo è così facile per lei farsi assorbire dal mondo del liceo, partendo prima come una totale outsider, per poi diventare non solo ossessionata da Regina George, ma trasformandosi proprio in una sua copia, tanto da imitarne atteggiamenti, frasi…

Di fatto la protagonista si convince indirettamente di poter conquistare Aaron solamente comportandosi come Regina, ovvero con una sottile malignità e alle spalle delle sue presunte amiche, cominciando progressivamente a svalutarsi e perdere un’identità propria.

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

In questo senso Cady ha diversi picchi drammatici.

Anzitutto, quando porta le Plastics ad escludere Regina perché non vestita adeguatamente, mostrando come la stessa possa diventare vittima del meccanismo che ha orchestrato, in uno anche dei suoi momenti più strazianti.

Subito dopo, prendendo il posto e sentendosi invincibile, in realtà con una sola festa riesce a tradire i suoi amici e a farsi definitivamente respingere dal suo ragazzo dei sogni, proprio per essere diventata così insipida e superficiale.

Ma anche peggiore è il momento in cui con i suoi maligni sotterfugi arriva quasi ad uccidere Regina George, proprio nel momento in cui è costretta a confrontarsi con lei dopo la terribile rivelazione di Janet, che acquisisce un’inedita popolarità.

Oltre l’adolescenza

Da questo momento Cady comincia la sua maturazione e definizione.

Tornata sui suoi passi per mettere a posto la sua vita, dà finalmente spazio a qualcosa che la definisca veramente come persona, ovvero la sua geniale mente matematica, che permette alla sua squadra di vincere il campionato.

In quella stessa occasione, davanti ad una ragazza che un attimo prima avrebbe definito come cessa – per non dire altro – la protagonista capisce la totale distruttività del pensiero che l’ha guidata fino a quel momento: parlare alle spalle degli altri per emergere come migliore.

Lindsay Lohan in una scena di Mean Girls (2004) di Mark Waters

La vera vittoria di Cady è infatti quella di riuscire a risultare effettivamente brillante nella gara, proprio guardando oltre l’ossessione per Aaron, e sfruttare il momento di vittoria come reginetta della scuola – il maggiore riconoscimento sociale – come invece un ripensamento sulla tossicità dell’ambiente scolastico.

In questo modo la protagonista accompagna anche gli altri personaggi verso un’idea diversa, che non comporti il parlarsi alle spalle e lo sminuirsi vicendevolmente, ma piuttosto il cercare di arricchirsi e sostenersi in una fase della propria vita già abbastanza difficoltosa.

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Harry a pezzi – La decostruzione

Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.

Di cosa parla Harry a pezzi?

Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Harry a pezzi?

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.

Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.

Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.

Partire dalla finzione…

Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donna che scende furiosamente da un taxi.

Ma subito la scena muta.

Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…

…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.

…e arrivare alla realtà

Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.

Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.

In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…

…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.

Rubare l’identità

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.

Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propria moglie.

Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.

Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.

Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.

Giù la maschera!

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.

Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.

I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.

Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.

Impossibile scappare

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.

Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.

Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…

…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.

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Radio Days – Le voci del passato

Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.

Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.

Di cosa parla Radio Days?

Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Radio Days?

Mia Farrow in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

In generale, sì.

Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.

Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.

Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…

La radio che unisce

Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.

Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.

Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…

Una risata ci seppellirà

Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.

Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).

Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.

In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti (1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.

La drammaticità di fondo

Dianne Wiest in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.

La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.

E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.

Mia Farrow e Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…

…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…

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Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Una favola violenta

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) è uno dei titoli più apprezzati di Martin McDonagh, con cui conquistò l’Academy sia per la sua sempre ottima scrittura della storia e dei personaggi, sia per il suo incredibile cast.

Con un budget abbastanza contenuto – fra i 12 e i 15 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: 160 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Mildred è una donna indurita dalla vita, che ha appena perso la figlia, e che cerca ancora di farsi giustizia, a modo suo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tre manifesti a Ebbing, Missouri?

Frances McDormand e Woody Harrelson in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film che riesce a colpirmi e a coinvolgermi ad ogni visione, proprio per la capacità di McDonagh nel bilanciare perfettamente – anzi, in questo caso anche in maniera pure più eleganteun profondo elemento drammatico con una comicità da bar.

Un film intenso, con attori straordinari che portano in scena personaggi assolutamente imperfetti, quasi negativi, ma che, proprio nella loro debolezza e cattiveria, risultano estremamente tridimensionali ed interessanti.

Mostrare i muscoli

Frances McDormand e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Fin da subito la pellicola racconta come Ebbing sia una cittadina violenza.

Infatti, i manifesti di Mildred, donna rigida e indomabile, sono la miccia che porta all’esplosione di una brutalità che in realtà era già presente nel corpo di polizia stesso, dominato dal razzismo e dalla violenza tipici dell’arida provincia statunitense.

Nonostante in un primo momento il diretto interessato – lo sceriffo Willoughby – cerchi di riportare la donna sui suoi passi, Mildred ribadisce la sua testardaggine, affermando sfacciatamente di aver anzi voluto sfruttare la situazione personale dell’uomo per i suoi fini.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

In questo modo non si fa altro che creare una faida interna alla città, una sorta di lotta fra gang, in cui i diversi personaggi si schierano contro o a favore della decisione di Mildred, con esplosioni di violenza piuttosto esplicita, come il grottesco incontro col dentista.

Tuttavia, il punto di arrivo di questa situazione è la consapevolezza.

In principio la consapevolezza dello sceriffo, quando cerca di minacciare ed intimidire Mildred, ma finendo per rinsavire per colpa di un innocuo colpo di tosse, che gli ricorda che le sue ore sono contate e che è ora di concludere la sua esistenza in maniera dignitosa.

Le origini della rabbia

Parallelamente, scopriamo le origini del dramma di Mildred.

McDonagh sceglie consapevolmente di non raccontare un personaggio distintamente positivo, una madre addolorata che non riesce a venire a patti con la tragica scomparsa della figlia, ma, piuttosto, una donna che si sente in colpa per la morte della stessa.

Sottolineando come, purtroppo, ha anche ragione di esserlo.

Infatti, in poche, ottime inquadrature viene raccontata la difficile situazione familiare della protagonista, in costante antagonismo con Angela, al punto da arrivare sostanzialmente a spingerla – pur involontariamente – nelle braccia del suo assassino e stupratore.

Tuttavia, la rabbia di Mildred non è scaturita solo nel non riuscire a fare giustizia a sua figlia, neanche da morta, ma anche dal fatto di essere già da prima una donna inascoltata, proprio per la violenza domestica che ha subito, ma a cui nessuno ha creduto, nemmeno sua figlia.

Una situazione volutamente molto ambigua: la protagonista passa dall’essere sbattuta violentemente al muro dall’ex marito, al cercare un momentaneo conforto con lo stesso, per poi cacciarlo nuovamente di casa.

Allo stesso modo il figlio, fino a quel momento irrimediabilmente in disaccordo con la madre, non esita neanche un momento nel difenderla dalla violenza del padre.

L’eredità violenta

Woody Harrelson e Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Con la sua morte, Bill Willoughby è il personaggio risolutore della vicenda.

Come anticipato, lo sceriffo raggiunge infine la consapevolezza della sua prossima dipartita, e capisce di avere la possibilità di risolvere questa lotta intestina, anzitutto offrendo il suo indiretto sostegno alla lotta di Mildred, pagando per un altro mese i tanto odiati manifesti.

Ma è soprattutto tramite le lettere che risolve la situazione.

Inizialmente sembra che la battaglia si sia solo inasprita, nella cieca rabbia di Dixon e di Mildred: se l’ex poliziotto prima aggredisce il povero Red, per poi dare fuoco ai manifesti, a sua volta la donna appicca un incendio nella stazione di polizia.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Ma, proprio mentre è inconsapevolmente immerso dalle fiamme, Dixon raggiunge la sua consapevolezza grazie alla lettera del defunto amico.

Lo sceriffo infatti gli spiega come abbia tutte le qualità per essere un buon poliziotto, ma che non riesca ad esserlo perché manca di un elemento fondamentale: l’amore – o, meglio, l’effettivo coinvolgimento nei casi trattati, in particolare quello di Angela.

E allora Dixon fa l’inaspettato.

Affronta le fiamme e sceglie di rischiare la propria vita pur di salvare i documenti del caso della figlia di Mildred, che aveva pigramente lasciato a marcire sulla propria scrivania per tanto tempo.

E questo atto è anche il primo momento di consapevolezza di Mildred.

Qualcosa è cambiato

Il cambiamento di Mildred avviene grazie alla cena con James.

Ancora sicura della sua posizione, la donna accetta freddamente le derisioni infantili dell’ex-marito, e non sembra per nulla pentita per come tratta il suo compagno di cena. Finché è lo stesso James a sbottare e a metterla davanti alla realtà del suo insostenibile comportamento.

E questo cambia tutto.

Se la Mildred di un tempo avrebbe reagito violentemente al comportamento di Charlie, questa volta, pur avvicinandosi minacciosa al suo tavolo, sceglie invece di mettere definitivamente l’uomo al suo posto, accettando in un certo senso la sua nuova relazione.

Sam Rockwell in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

Parallelamente Dixon viene premiato per la sua scelta di prendere in mano il caso di Angela, trovando l’occasione per dimostrare il suo valore.

Se in passato l’ex-poliziotto avrebbe semplicemente ignorato le battute origliate al bar, questa volta sceglie invece di mettersi in prima linea, iniziando una rissa che sa già che perderà, pur di riuscire ad acquisire il DNA che potrebbe essere il punto di svolta per il caso.

In questo modo passa da essere nemico ad alleato di Mildred, che gli è riconoscente anche solamente per avergli dato un giorno di speranza.

Frances McDormand in una scena di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh

E di nuovo vengono messi alla prova.

Dixon propone alla protagonista, in maniera neanche troppo sibillina, di utilizzare quell’uomo, quel sicuro stupratore, come capro espiatorio per la morte di Angela, portando avanti una giustizia privata in risposta all’incapacità della polizia di intervenire.

Tuttavia, finalmente questi due problematici personaggi si rendono conto di non voler più seguire quella strada, ma piuttosto di scegliere un percorso verso l’accettazione del lutto e del buono che, tutto sommato, lo stesso ha portato.

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Barbie – Un film necessario

Barbie (2023) di Greta Gerwig è uno dei film più chiacchierati dell’anno, che a tratti ha entusiasmato, a tratti ha totalmente indignato il pubblico, viste le tematiche molto controverse che ha portato in scena.

Un film che più che un film è stato un evento cinematografico come non se ne vedevano da Spider-Man No Way Home (2021), con 1,4 miliardi di dollari di incasso – a fronte di un budget di appena 145 milioni di dollari – diventando il maggior incasso del 2023.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Barbie (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior attore non protagonista a Ryan Gosling
Migliore attrice non protagonista a America Ferrera
Miglior scenografia
Migliori costumi
Migliore canzone What Was I Made For?
Migliore canzone I’m Just Ken

Di cosa parla Barbie?

In Barbieland le varie Barbie vivono in armonia nelle loro case da sogno, con delle esistenze sempre più perfette ogni giorno. Ma qualcosa è cambiato per la nostra protagonista…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: come tutta la campagna marketing di questo film, è incredibilmente ingannevole, in quanto asciuga la pellicola di tutti i suoi significati, facendola apparire solo come una commedia leggera.

A voi la scelta:

Vale la pena di vedere Barbie?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Assolutamente sì.

Barbie è uno dei film più interessanti del 2023, un’operazione molto intrigante e ben pensata per lanciare messaggi che, pur nella loro estrema semplicità, sono assolutamente fondamentali per comprendere la società odierna.

Oltre a questo, dal punto di vista totalmente intrattenitivo, è un film delizioso, nutrito di un’ottima ironia, spesso anche volutamente metanarrativa, sia sul mondo di Barbie, le sue dinamiche e la sua storia, sia per le interazioni della protagonista con il Mondo Reale.

Insomma, guardatelo e fatevi una vostra opinione.

Un mondo perfetto?

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno degli elementi più geniali di Barbie è la rappresentazione di Barbieland.

Si sarebbe potuta scegliere una blanda messinscena del mondo di Barbie come semplicemente una realtà più colorata e da sogno, ma sostanzialmente verosimile. E invece Barbieland è esattamente un giocattolo a grandezza naturale.

Tutto è di plastica, tutto è finto: dalle bottiglie non escono liquidi, il cibo è già pronto, le onde sono di plastica e non esistono le scale, ma solo gli scivoli e le mani invisibili dei bambini che muovono le bambole.

L’incrinatura di questa perfezione arriva quando appaiono i Ken in scena.

Margot Robbie, Ryan Gosling e Simon Liu in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

In questo senso il film lavora su due livelli: storico-sociale e metanarrativo.

Infatti, Ken come giocattolo nasce proprio come accessorio di Barbie, la vera protagonista della storia, tanto che molte delle bambine che ci hanno giocato si ricorderanno come il compagno maschile apparisse del tutto superfluo, facilmente sostituibile da altri generici personaggi maschili.

Dal punto di vista invece storico-sociale, i Ken sono sostanzialmente il corrispettivo delle donne nel Mondo Reale – ovviamente in maniera molto semplificata, e anche con riferimento ad epoche molto meno felici della nostra storia, senza quindi voler fare un parallelismo così netto.

I Ken vivono sostanzialmente in funzione delle Barbie che comandano il mondo, non hanno una propria casa – quindi una propria indipendenza economica – non hanno nessun merito e nessun riconoscimento dalle stesse, e appaiono anche piuttosto superficiali e sciocchi – proprio perché non hanno i mezzi e il background necessario per essere altrimenti.

Insomma, vivono oppressi in un matriarcato.

L’intrusione del tragico

Kate McKinnon in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’intrusione del tragico nella vita di Barbie è dovuta alla sua stretta correlazione con la bambina che gioca con lei.

Proprio per il fatto che Barbie, per sua natura, permette alle bambine di essere quello che vogliono, le stesse riversano nel gioco anche i loro sentimenti. Nel caso di Gloria, le insoddisfazioni e le paure di una bambina ormai cresciuta, che vive nell’ombra del modello irraggiungibile di Barbie.

In questo senso, anche vista la proposta della protagonista umana sul finale, la pellicola denuncia le pressioni sociali della donna contemporanea, spesso frustrata da modelli irraggiungibili – reali o ideali – che le impediscono di vivere ed essere felice anche nella sua ordinarietà.

Anche in questo caso si parla di un discorso molto semplicistico e volutamente accessibile, ma che racconta come il femminile a livello sociale non abbia ancora trovato la sua dimensione mediana, ma di come sia continuamente spinto a riconoscersi in modelli predefiniti – madre, donna in carriera, puttana – senza la possibilità di una via di mezzo.

L’oggettificazione

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

L’arrivo della protagonista nel Mondo Reale è una delle parti più riuscite del film.

La forza di questa sequenza è che non si parla mai esplicitamente di cat calling o oggettificazione – anzi, è la parte meno didascalica del film – ma si sceglie piuttosto di raccontare le sensazioni che prova una donna all’interno di un mondo ancora dominato dal punto di vista maschile.

Il corpo della donna, volente o nolente, è sempre un oggetto di discussione.

Nonostante Barbie scelga degli outfit normalissimi – anche se datati nonostante non voglia essere un oggetto sessuale, lo diventa comunque: continue allusioni, battute dirette, anche con la volontà di far sentire in colpa la vittima della situazione per non accettare dei complimenti.

Una realtà che purtroppo è incredibilmente reale e che porta spesso le donne a non sentirsi libere di vestirsi come meglio credono…

Alla scoperta di patriarcato

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il percorso di Ken richiede tutto un discorso a parte.

Ken, come detto, parte da una situazione di totale svantaggio ed esclusione sociale, vivendo appunto totalmente in funzione di Barbie – e delle donne in genere.

Appena approda nel Mondo Reale capisce che esiste una realtà dove, tutto sommato, non viene discriminato, ma anzi accettato e glorificato, in cui trova anche una coesione sociale con gli altri uomini, non divisi dalle invidie per le attenzioni di Barbie come in Barbieland.

Ovviamente anche in questo caso è una visione semplicistica e funzionale alla storia, nonché apertamente comica.

Ryan Gosling, Ncuti Gatwa e Kingsley Ben-Adir in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il risultato è, tuttavia, quello di sostituire un mondo ingiusto con un’altra realtà ancora ingiusta, ma in senso contrario: non sono più le donne a dominare il mondo, ma gli uomini, con le figure femminili che diventano del tutto ancillari e, di fatto, totalmente accessorie.

Tuttavia, appare evidente come lo stesso patriarcato danneggi gli uomini stessi: ubriacati in questo sogno di potenza, oltre a non rispettare le donne, sono così sicuri di sé stessi da apparire di fatto ridicoli e, soprattutto, facilmente manipolabili.

Oltretutto, l’odio intestino che sembrava essere risolto con l’avvento del patriarcato, in realtà è ancora più radicato, in una competizione per l’invidia e il possesso delle loro compagne che sfocia in una vera e propria guerra.

Il femminismo intergenerazionale

Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Uno dei discorsi più interessanti di Barbie è il femminismo intergenerazionale.

La figura di Barbie, modello per la generazione precedente – Millennials e Gen X – viene del tutto rigettata dalla Gen Z, rappresentata da Sasha, che vede in questa icona molto controversa più gli elementi negativi che positivi.

Effettivamente Barbie è di per sé una figura contrastante: nata – come ci spiega l’inizio del film – anche con l’obbiettivo di dare alle bambine una prospettiva diversa sulla loro vita e il loro futuro, al contempo ha rappresentato negli anni un modello irraggiungibile di perfezione femminile.

America Ferrera in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Per questo Sasha la respinge in toto.

Tuttavia, la ragazzina col tempo si ricrede e infine accetta il modello che ha definito la crescita e la consapevolezza della madre – e quindi della generazione precedente – arrivando, su un altro piano, ad accettare le conquiste di un femminismo forse più datato, più controverso, ma assolutamente essenziale per le conquiste presenti e future.

E, anzi, come abbiamo visto sopra, proprio questa esperienza spingerà sia Barbie che Gloria a riscrivere in un certo senso l’icona della Mattel in qualcosa di più inclusivo.

Le strade si dividono

Ryan Gosling in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

Il finale di Barbie è uno degli elementi più controversi del film.

La parte apparentemente più problematica è quella di Ken: con una lunga – e già iconica – canzone, il protagonista maschile esprime i suoi sentimenti e racconta di come si senta sempre il numero due, sempre messo da parte, vivendo in una costante insoddisfazione.

Per questo Barbie viene in suo aiuto con una riflessione che serve ad entrambi: la scelta di evadere i modelli, i simboli che sembravano definirli – sia nel patriarcato che nel matriarcato – ed intraprendere invece un percorso che li porti alla scoperta di una propria identità.

Insomma, come Ken ha un risveglio di coscienza grazie alle parole di Barbie – che ammette anche i suoi errori nell’averlo dato per scontato – allo stesso modo le Barbie, che erano state manipolate per accettare la semplicità del patriarcato, proprio come le donne di ieri, diventano consapevoli dell’ingiustizia della nuova realtà e decidono di ribellarsi.

E qui arriviamo al punto più discusso del film.

Nonostante non abbiano fatto lo stesso percorso di Barbie, anche le altre donne di Barbieland sono più consapevoli, e capiscono che non possono tornare in toto ad una realtà matriarcale ed esclusiva come quella in cui vivevano precedentemente.

Tuttavia, davanti alle richieste dei Ken di acquisire finalmente un ruolo di potere fondamentale, la Presidentessa sceglie invece di dargli un piccolo ruolo amministrativo – quello che potremmo definire ministero senza portafoglio.

Al che segue la seguente battuta della voce fuori campo:

Well, the Kens have to start somewhere, and one day the Kens will have as much power and influence in Barbieland as women have in the Real World.

I Ken devono pur cominciare da qualche parte, e un giorno avranno tanto potere ed influenza in Barbieland di quanto ne hanno le donne nel Mondo Reale.

Barbie finale spiegazione

La battuta è volutamente ironica e cattiva, e vuole raccontare quanto il problema delle discriminazioni e dell’inclusione sociale non si risolve per magia o con i buoni sentimenti, ma che serve un lavoro duro, continuativo e difficile, anche solo per arrivare ad un briciolo di parità sociale.

E, secondo me, è la scelta perfetta.

Sia perché non porta in scena una risoluzione ideale, nonché totalmente irrealistica e poco consapevole, sia perché non si sbilancia nella glorificazione femminile – in un film già molto sbilanciato in quel senso: in situazione analoga a quella del patriarcato, le donne avrebbero altrettanta difficoltà cedere i propri diritti e il proprio potere quanto gli uomini di oggi.

Un concetto che vuole ancora una volta dimostrare come non sia un problema od una colpa da addossare agli uomini in quanto uomini – come purtroppo certe correnti femministe si ostinano a sostenere – ma piuttosto un problema sistemico e sociale che va risolto dalle fondamenta.

La scelta di Barbie

Ryan Gosling e Margot Robbie in una scena di Barbie (2023) di Greta Gerwig

La scelta finale di Barbie è forse la parte ancora meno compresa della pellicola.

Dopo aver vissuto nel Mondo Reale, con le sue difficoltà e incomprensioni, Barbie man mano durante la pellicola si libera sempre di più di quegli elementi e simboli che la definivano nell’apparentemente perfetto matriarcato in cui viveva – e che non voleva cambiare.

Una scelta sempre più consapevole di cercare la propria identità altrove rispetto al modello di Barbie Stereotipata – e quindi vuota – a cui si era rifatta per tutta la vita, scegliendo di vivere in un mondo molto più difficile ad antagonistico, ma che le offre anche molte alternative.

Ed è ancora più indovinato il finale in cui la novella Barbara sceglie come primo passo di farsi visitare dalla ginecologa, ad indicare come non sia immediatamente fatta assorbire dal modello capitalista per cui il valore di una persona passa dal suo lavoro.

Piuttosto la protagonista sceglie di scoprirsi in questo nuovo corpo, diventando finalmente più consapevole e serena per lo stesso.

Barbie 2023 citazioni

Barbie è un film pieno di citazioni ad altre pellicole.

Ecco le più interessanti.

Quella più evidente è ovviamente 2001: Odissea nello Spazio (1968) nell’iconico incipit, che è stato usato come teaser trailer per il film stesso:

Quando Barbie sceglie il suo outfit all’inizio del film, è un evidente omaggio al teen movie Clueless (1995) – in Italia noto come Ragazze a Beverly Hills – nella famosissima scena in cui la protagonista si prepara per andare a scuola:

La scena danzante nella mega party di Barbie alla fine della sua giornata è un riferimento visivo alla fantastica scena in discoteca in La febbre del sabato sera (1977):

All’inizio del film si cita anche Matrix (1999): invece che fra la pillola blu o la pillola rossa, Barbie deve scegliere fra la Birkenstock e Scarpa col tacco:

Nella scena in cui Barbie torna a Barbieland e vede i Ken giocare a pallavolo, si cita la scena analoga in Top Gun (1986):

Infine, l’ormai iconica scena di ballo della canzone I’m just Ken è un mix di riferimenti a Singin’ in the rain (1952) e Grease (1978):

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Avventura Comico Commedia nera Drammatico Film Martin McDonagh

In Bruges – Spogliare il genere

In Bruges (2008) è una delle prime opere di Martin McDonagh, e anche fra quelle più apprezzate della sua produzione.

Con un budget piuttosto risicato – appena 15 milioni di dollari – incassò abbastanza bene: circa 34 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla In Bruges?

Ray e Ken sono due mercenari che, dopo il loro omicidio, devono nascondersi nella città di Bruges, in Belgio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In Bruges?

In generale, sì.

Per quanto apprezzi molto questo film, non mi sento di consigliarvelo spassionatamente: è un mix micidiale fra il dramma più sanguinoso e spinto, e una comicità nerissima.

Tuttavia se, come me, avete apprezzato Gli spiriti dell’isola (2022), sarete ancora una volta piacevolmente sorpresi dall’arguzia di questo regista nel sorprendere lo spettatore, ora con una risata angosciante, ora con una ripresa rivoltante.

Insomma, arrivateci preparati.

Un inizio sbagliato

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

L’inizio di In Bruges per un attimo sembra l’incipit di un giallo hard boiled

…ma subito si rivela per quello che è.

Oltre all’introduzione della voce narrativa assolutamente fuori luogo, viene mostrata una situazione che, se non ci fossero di mezzo due killer ed un omicidio, sembrerebbe propria di una commedia enemy to lovers tipica di quegli anni.

Infatti, i due protagonisti sono totalmente contrapposti per carattere e atteggiamento, riuscendo a sostenere la presenza l’uno dell’altro solo per dovere, con un incalzare piuttosto insistente per portare in scena anche il terzo uomo, Harry.

L’introduzione del dramma

Colin Farell in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Dopo un primo atto quasi totalmente umoristico, l’introduzione del dramma è sconvolgente.

Sia la scoperta della dinamica del primo omicidio di Ray, con una vittima innocente di mezzo, sia l’ordine piuttosto veemente di Harry, penetrano la comicità della pellicola e la rendono improvvisamente molto più angosciante, con un’alternanza sconvolgente fra picchi più profondamente drammatici e momenti apertamente comici.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Seguiamo Ken mentre, silenziosamente, accetta l’ordine di Harry, da cui scopriamo essere legato da un retroscena ben più importante della vita del suo compagno di delitti, fino ad avvicinarsi al momento dell’uccisione…

…improvvisamente interrotto da una scena quasi comica, in cui scopriamo che già di per sé Ray non riesce a continuare a vivere con il peso del suo delitto sulle palle.

E allora viene temporaneamente congedato di scena.

Picchi

Ralph Fiennes in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

Il terzo atto viene scatenato dalla telefonata di Ken, che porta finalmente in scena Harry, fino a quel momento presenza invisibile della storia.

Anche con Harry si costruisce un importante contrasto: appartenente un killer spietato e legato ai concetti di onore e responsabilità, ma al contempo anche un family man che rassicura amorevolmente i suoi cari sul fatto che tornerà presto a casa.

Tutta la parte finale è definita sempre di più dal contrasto fra comico e drammatico: dal discorso struggente di Ken, al momento di commedia quasi slapstick di Harry che gli spara alla gamba, fino all’annientamento del protagonista quando cerca di fermare il suo capo dall’uccidere il suo giovane amico.

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

A partire dalla morte di Ken, la regia gioca con il metanarrativo e il grottesco: una rapida inquadratura mostra il suo corpo distrutto mentre parla con l’amico, cercando inutilmente di salvarlo, ma le sue ultime parole rivelano come gli stessi personaggi siano consapevoli delle dinamiche della storia:

I’m gonna die now, I think.

Credo che ora morirò.

Allo stesso modo la situazione di stallo fra Ray e Harry, che dovrebbe essere estremamente drammatica e altisonante, in realtà si rivela un rocambolesco accordo fra le parti, con l’inevitabile morte del primo…

Brendan Gleeson in una scena di In Bruges (2008) di Martin McDonagh

…ma non è finita.

Dopo aver sparato altri colpi per finire il protagonista, involontariamente Harry colpisce anche Jimmy, che, così vestito, sembra un bambino.

E non servono a niente le parole di Ray per dissuaderlo dal suicidio, lasciando in bocca allo spettatore un piccolo sorriso per il paradosso drammatico e grottesco della scena…

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Avventura Commedia nera Damien Chazelle Drammatico Film

Whiplash – La musica nel sangue

Whiplash (2014) di Damien Chazelle è il suo secondo lavoro come regista, ma anche la sua prima esperienza come autore non indipendente, prima di arrivare al grande successo di La La Land (2016).

Con un budget assai contenuto – appena 3,3 milioni di dollari – fu un ottimo successo al botteghino: quasi 49 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Whiplash?

Andrew Neiman sogna di diventare il miglior batterista della sua generazione, ma la strada per la gloria è molto più insidiosa di quanto potesse pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Whiplash?

Assolutamente sì.

Whiplash è una pellicola realizzata veramente con poco, retta sulle spalle di un attore di bravura immensa come J. K. Simmons, il cui ruolo gli è stato sostanzialmente cucito addosso, grazie anche alla sua presenza scenica inarrivabile.

La scelta delle inquadrature e del doppiaggio è sublime, e riesce perfettamente ad immergere lo spettatore all’interno dei vari momenti e suoni di un’orchestra, con un’ottima dinamicità e riprese mai banali.

Insomma, un esercizio di stile veramente imperdibile.

Il sogno (im)possibile

Nella primissima scena vediamo il provino di Neiman, del tutto fallimentare.

Anzi, quasi umiliante.

E che ci racconta molto del suo carattere.

Nonostante il ragazzo sia già all’interno di una – a suo dire – delle più importanti scuole di musica del mondo, non è abbastanza: il vero obiettivo è diventare al pari delle leggende della batteria.

E l’unica via è ottenere l’apprezzamento di Fletcher.

Nonostante un primo fallimento, Nielsen si sente finalmente baciato dalla fortuna quando il terribile direttore gli permette di entrare nella sua band.

In questo momento di euforia, si lascia ingannare dalle rassicurazioni di quel lupo travestito da agnello, abbassando le difese, per poi essere travolto – come tutti – dalla vera sfida: sopportare l’umiliazione, l’aggressione anche (e soprattutto) personale, la corsa impossibile per raggiungere il giusto tempo.

E allora il protagonista comincia veramente a perdere coscienza di quello che gli sta intorno, a sfidare e a sfidarsi per superare i propri limiti per raggiungere l’eccellenza. Ma neanche questo basta: servono ancora ore e ore di provini, di sangue sputato per poter ottenere la parte.

Gloria mundi

La gloria è passeggera.

Ancora una volta Nielsen ricade nell’errore di essere troppo sicuro di sé stesso, di pensare di avere la parte in tasca, di essere indiscutibilmente il migliore di tutti. Ma, allo stesso modo, basta un errore, un taxi perso, delle bacchette dimenticate per far andare tutto a rotoli.

E così, in questa lotta disperata per essere ancora il primo della classe, per dimostrare davvero di avere la potenza di una leggenda nel sangue, Nielsen è disposto persino a trascinarsi via da un incidente automobilistico, arrivare zuppo di sangue sul palco…

…e fallire miseramente.

La vera prova

Nel terzo atto è ora di voltare pagina.

Nielsen getta via – letteralmente – il suo sogno, e decide invece di dedicarsi ad altro, di trovarsi un lavoretto, di cercare di riallacciare i rapporti con Nicole – anche se inutilmente. Ma il destino è ancora una volta in agguato.

E ancora una volta il protagonista si fa gabbare dall’apparente disponibilità di Fletcher, che lo tratta come se fosse il suo alunno prediletto, come se tutto questo fosse solo successo per spianargli la strada verso la leggenda.

Ma la vera prova è quella più inaspettata.

Fletcher aveva abilmente costruito un teatrino con l’unico fine di umiliare Nielsen, per pura vendetta. Ma, inaspettatamente, il ragazzo gli dimostra di aver imparato veramente la sua lezione.

E infatti questa volta non basta un’umiliazione per farlo desistere, ma è anzi la stessa il motore che porta il protagonista a diventare il cuore della banda, e a sfociare in un disperato, quanto perfetto, assolo.

E così, finalmente, trovare negli occhi del maestro quell’apprezzamento tanto ricercato.

Fletcher Whiplash

Whiplash ci mette davanti ad un importante dilemma morale.

I metodi poco ortodossi, anzi micidiali di Fletcher hanno portato tanti ad abbandonare il proprio sogno, addirittura un suo alunno alla depressione ed al suicidio, nonostante avesse tutte le carte in regola per entrare nella leggenda.

E il maestro ci racconta in realtà per filo e per segno il suo metodo educativo per riuscire veramente a tirare fuori dai suoi studenti il loro meglio, per riuscire a scovare la prossima promessa del jazz.

E, proprio per Nielsen, ci mette davanti ad un importante what if…

Se Fletcher non avesse fatto passare l’inferno al protagonista, se non l’avesse messo continuamente davanti alle sfide, all’umiliazione, e non l’avesse anche involontariamente portato a mettersi davvero alla prova, sarebbe veramente diventato un bravo batterista?

O sarebbe rimasto solo un mediocre musicista?

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Avventura Cinema in viaggio Commedia nera Cult rivisti oggi Drammatico Film Racconto di formazione Recult Road movie

Thelma & Louise – It’s a man’s world

Thelma & Louise (1991) di Ridley Scott è uno dei maggiori cult del genere road movie – e non solo.

Con un budget piuttosto contenuto – circa 16 milioni di dollari, circa 35 oggi – incassò piuttosto bene: 45 milioni di dollari – circa 100 oggi.

Di cosa parla Thelma & Louise?

Louise e Thelma sono due amiche con gusti e personalità molto diverse, che partono per un viaggio apparentemente innocuo, ma che in realtà cambierà la loro vita per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Thelma & Louise?

Assolutamente sì.

Thelma & Louise non è solo un incredibile cult, nonché uno dei migliori road movie mai realizzati, ma è anche un’interessantissima riflessione sul ruolo del femminile in un mondo dominato dalla presenza maschile.

Una storia di ribellione, di ricerca della libertà, di scoperta di sé stessi, con una regia ottima e due attrici con un’alchimia incredibile, per una storia che unisce il drammatico e il comico in un incontro perfetto…

L’inizio della fine

Fin dall’inizio Thelma & Louise mostra le sue ombre.

Nonostante il viaggio in macchina sembri un appuntamento molto divertente e spensierato, in realtà diversi elementi in scena raccontano altro: la telefonata con il manager del ristorante che infastidisce Thelma – anche se in maniera innocua – la pistola nella valigia e Louise che dice all’amica:

He’s gon’ kill you!

Ti ammazzerà!

Quindi fin dai primissimi minuti abbiamo tutto quello che dobbiamo sapere sulla vicenda: le protagoniste provengono da un contesto sociale opprimente e decidono di fuggire, apparentemente ridendoci sopra, in realtà ben consapevoli della loro situazione.

In particolare è piuttosto indicativa la frase di cui sopra: anche se Louise ci scherza, è quantomai probabile che il marito di Thelma potrebbe quantomeno farle violenza per avergli disubbedito.

Gli uomini sbagliati

Il rapporto di Thelma con gli uomini è il più drammatico.

Probabilmente spinta dal proprio contesto sociale ad accasarsi e ricoprire il ruolo canonico della casalinga sottomessa, Thelma è finita sotto il controllo di un uomo tossico, unicamente interessato a lei come soprammobile da tenere in bella mostra in casa.

Ma, anche cercando si sfuggire al suo terribile matrimonio e alla sua insoddisfazione sessuale, la donna viene costantemente punita – e secondo le stesse dinamiche: Harlan la corteggia in maniera apparentemente molto lusinghiera, cerca di possederla sessualmente in maniera apparentemente innocua…

…ma, appena Thelma si rivela per non essere una semplice bambolina da possedere a proprio piacimento, ma un essere pensante capace di reagire e persino alzare le mani, tutto cambia.

Lo stupro infatti in questo caso non è spinto da un effettivo desiderio sessuale, ma più che altro dalla volontà di sottomettere nuovamente questa donna ribelle.

Louise, anche se non è detto esplicitamente, è stata vittima di stupro.

E, per quanto sia comunque più matura e apparentemente irremovibile dell’amica, vive anch’essa una situazione sentimentale non del tutto positiva: anche se in chiave minore, Jimmy è potenzialmente violento, tossico, e cerca di relegarla all’ambito matrimoniale.

E, proprio per il passato che si porta dietro, Louise è la prima a reagire, è la prima ad usare la pistola anche se era inizialmente contraria ad averla con sé, è la prima a rispondere con la violenza ad una violenza irreparabile.

Da che parte stiamo?

Se ci aspetteremmo inizialmente che la più combattiva fosse Louise, in realtà è Thelma a vivere la ribellione più radicale.

Dopo essere stata per l’ennesima volta tradita ed umiliata da un uomo – questa volta dal punto di vista economico – perde totalmente e gradualmente il controllo: rapina un negozio, distrugge un camion…

Davanti a questa irrefrenabile climax, il film ci mette sempre più davanti ad un dilemma etico:

Da che parte stiamo?

Non esiste una risposta giusta.

Thelma & Louise racconta la storia di due donne che hanno preso consapevolezza della loro condizione sociale: vivere in un mondo di uomini, in cui sono costantemente punite, umiliate, non credute, messe in secondo piano.

E per questo hanno scelto di ribellarsi, in maniera anche molto violenta, non facendosi problemi ad uccidere, distruggere, punire in maniera sempre più spettacolare e sfacciata quegli uomini che – anche se in modi diversi – le hanno tormentate per tutta la vita.

Ma potremmo d’altronde stare dalla parte di questi personaggi maschili così irrispettosi, violenti e distruttivi?

Senza via d’uscita?

L’ago della bilancia di questa situazione è Hal, il poliziotto.

Un personaggio che rappresenta il lato più positivo della mascolinità: un uomo consapevole ed aperto al dialogo, che comprende i drammi e i motivi delle azioni delle protagoniste, e per questo cerca in ogni modo di farle desistere dai loro folli piani.

Quindi, di fatto, Thelma e Louise hanno sempre una via d’uscita: possono gettare le armi e accettare le responsabilità delle loro azioni, accettare di farsi punire…ma anche tornare in una realtà sociale che non possono più sopportare.

E allora, mentre Hal si slancia disperatamente per fermarle, le due invece si lanciano verso la loro distruzione: un messaggio politico forte e irreversibile, che racconta un’esasperazione sociale che non può più essere sopportata, e che porta ad un finale dolce amaro.

Le nostre eroine sono morte, ma sono morte come donne libere.

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Moonrise Kingdom – Una piccola storia di crescita

Moonrise Kingdom (2012) è un titolo un po’ meno noto di Wes Anderson, l’ultimo uscito prima del suo grande successo, Grand Budapest Hotel (2013).

Con un budget piuttosto contenuto – 16 milioni di dollari – incassò tutto sommato abbastanza bene: circa 68 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Moonrise Kingdom?

Isola di New Penzance, New England, 1965. Sam è un giovanissimo scout che decide di organizzare una fuga d’amore insieme all’amata Suzy…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonrise Kingdom?

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Moonrise Kingdom è uno dei prodotti più riusciti dell’opera di Wes Anderson, che per certi versi mi ricorda un altro cult della sua produzione, The Royal Tanenbaums (2001), in particolare nei personaggi protagonisti.

Una storia di crescita, dei primi amori, raccontata con particolare delicatezza, ma senza cercare di edulcorare il racconto, anzi regalando un’inedita importanza ai sentimenti dei giovanissimi protagonisti nella loro fuga d’amore.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Bloccati

Jared Gilman in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Nell’incipit scopriamo il vero motivo della partenza dei protagonisti.

Entrambi si trovano bloccati in uno status quo che non apprezzano: Sam, nonostante abbia imparato molto dagli scout e continui a vestire i loro simboli, si sente intrappolato in un contesto dove non viene apprezzato, anzi dove è odiato senza motivo.

Al contempo Suzy si trova in una realtà familiare che perlopiù la annoia, anche per la grande maturità che dimostra, già solo scoprendo il tradimento della madre e tenendoselo dentro per moltissimo tempo.

E allora è ora di partire.

Si parte!

Quando il film comincia, anche il viaggio è già iniziato.

E pezzo per pezzo ricostruiamo l’antefatto del loro viaggio, in particolare nel bellissimo montaggio dedicato al loro scambio di lettere, che ci racconta come il loro rapporto si sia consolidato nel tempo, nel loro ritrovarsi come due animi affini…

Nel loro viaggio, Suzy e Sam portano sé stessi.

Sam sembra l’unico ad essersi preparato per questa avventura, anche troppo: il ragazzino non abbandona mai veramente la sua identità di scout, nonostante si sia ritirato, in particolare nel sacrificio verso gli altri, aiutando costantemente la sua compagna di viaggio.

Jared Gilman e Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Al contempo Suzy sembra incredibilmente imparata: si porta dietro troppi oggetti, molti anche assolutamente inutili o eccessivi nella loro quantità: una valigia piena di libri, una cesta con dentro un gattino…

Queste valigie rappresentano in realtà le loro identità, i loro bagagli emotivi che tengono ancora sulle spalle, anche se sono ormai pronti a scoprire qualcosa di nuovo: l’amore, i primi pruriti sessuali, l’indipendenza dagli adulti.

Impossibile fuggire?

Anche se il loro viaggio sembra destinato a finire prematuramente, anche se sembra che gli adulti cerchino di nuovo di domare le loro indoli ribelli e riportarli ai loro ruoli, di fatto sottovalutano l’energia dei protagonisti.

Ma, soprattutto, avviene l’inaspettato.

Questi due outsider riescono a proseguire il loro viaggio grazie agli amici che si fanno lungo la strada, grazie a degli improbabili alleati che, davanti ad un destino fin troppo drammatico di Sam, passano da essere cacciatori a diventare loro complici.

E quando sembra che abbiamo raggiunto il picco drammatico, quando ormai sembra che non ci sia niente da fare, anche gli adulti, uno in particolare, diventa loro alleato: il povero poliziotto Sharp, che ha pena per il ragazzino e sceglie di adottarlo.

L’eterna fuga d’amore

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Il finale sembra ricomporre la situazione iniziale con poche differenze.

In realtà, tutto è cambiato.

Ora i due possono vivere più apertamente la loro relazione, senza doversi più nascondere, ma volendo comunque mantenere vivo quel senso di pericolo: motivo per cui Sam, invece per passare dalla porta, scappa come un ladro dalla finestra di Suzy.

E intanto il ragazzino ha anche trovato una nuova realtà in cui identificarsi, un nuovo mondo in cui esplorare la sua crescita: come parte della polizia locale – in maniera ironicamente paradossale visto il suo atteggiamento criminale.

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American Psycho – L’uomo impossibile

American Psycho (2000) di Mary Harron è uno dei più grandi cult del nuovo millennio, nonché la pellicola che lanciò Christian Bale, grazie alla sua fantastica ed indimenticabile performance.

Con un budget veramente risicato – appena 8 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale, nonostante il riscontro economico assai ridotto: 34 milioni di dollari

Di cosa parla American Psycho?

Patrick Bateman è un consulente finanziario in una grossa azienda, in costante competizione con i suoi colleghi per essere il migliore, e con diversi scheletri nell’armadio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Psycho?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Sì, ma…

Non stupitevi se all’inizio non ci capirete nulla: American Psycho è un film anche volutamente oscuro, che riesce a spiegarsi solo nel finale, ma lasciando in realtà aperte moltissime porte per l’interpretazione, in una voluta ed enigmatica ambiguità…

Tuttavia, è un cult non per caso: già solamente l’interpretazione veramente indimenticabile di Christian Bale vale la visione.

Anche se personalmente ho apprezzato di più altri prodotti che trattavano tematiche simili – come Il potere del cane (2021) o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970).

Ma voi guardatelo e fatevi la vostra opinione.

Fit in

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il mondo di Bateman è il mondo dell’apparire.

La totale ostentazione, definita da alcuni simboli ricorrenti: il biglietto da visita, gli abiti firmati, le carte di credito, e soprattutto, il riuscire a prenotare un tavolo al Dorsia, uno dei ristoranti più esclusivi.

E fin da subito Evelynn è la voce della ragione, che descrive perfettamente il personaggio: nonostante odi il suo lavoro, vi si impegna moltissimo, e non vuole lasciarlo – anche se probabilmente potrebbe trovarne facilmente un altro.

Il motivo?

Because I want to fit in

Perché io voglio far parte di qualcosa.

L’identità perduta

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Proprio per il suo esasperante tentativo di integrarsi, in realtà Patrick perde la propria identità.

Infatti, viene scambiato da Paul Allen per un suo collega, tanto sono identici nel modo di vestire, di mostrarsi e di pettinarsi. Ma comunque sceglie di mantenere quella maschera, perché di fatto la sua è un’identità intercambiabile.

Lo racconta molto bene la scena dei biglietti da visita: nonostante tutti i presenti cerchino di superarsi l’un l’altro con le grafiche e i font più smaglianti, in realtà sono uno uguale all’altro – stessa scritta, stesso ruolo…

La donna oggetto

American Psycho esaspera intelligentemente il concetto di oggettificazione della donna.

Infatti Patrick passa da una donna all’altra senza farsi particolari problemi, consapevole, anzi, in realtà, felice che la sua fidanzata lo stia tradendo, dal momento che lui sta facendo altrettanto.

Le donne che si muovono in scena sono quasi indistinguibili: bionde, belle, disperate, ognuna oggetto del desiderio di Patrick.

Ma non un desiderio sessuale.

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Patrick Bateman è con ogni probabilità un omosessuale represso.

Lo dimostra molto bene la scena in cui cerca di uccidere il tanto odiato Luis Carruther, e lo stesso interpreta il suo come un approccio sessuale. Da un personaggio con la mascolinità così esplosiva come Bateman, ci si aspetterebbe una reazione violenta.

E invece Patrick è visibilmente spaesato.

Come se questo non bastasse, è evidente che per lui il corpo femminile è solo un corpo da possedere, da ogni punto di vista, in cui sfogare i suoi impulsi violenti, da usare sessualmente solo come riprova sociale…

Sogno…

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il finale sembra raccontarci che tutto quello che abbiamo visto è un delirio ad occhi aperti di Patrick.

Secondo questa interpretazione, l’unica violenza che è effettivamente avvenuta è quella che non abbiamo visto: quando Patrick porta per la prima volta le due prostitute in casa, la violenza che evidentemente si è svolta non viene mai mostrata.

Al contrario, tutte le altre sono presentissime in scena, e sono al limite del gore e della pornografia, ma in realtà, per come ci racconta il film, non sono altro che delle fantasie del protagonista, che non è mai riuscito a realizzare.

Anche se…

…o indifferenza?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Un’altra interpretazione che ho maggiormente apprezzato è quella che mi ha fatto avvicinare questa pellicola a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Secondo questa lettura, in realtà la violenza, le uccisioni, sono realmente avvenute, e rappresentano la vera faccia della realtà aziendale e sociale in cui il protagonista è immerso: bellissima e smagliante all’esterno, violenta e distruttiva all’interno.

E per questo il fatto che nessuno creda alla confessione di Patrick, ma che anzi si racconti che si sia immaginato tutto, rappresenta la generale indifferenza di quel mondo verso quella violenza che è, in realtà, del tutto ordinaria.

A voi la scelta.

American Psycho meme

Lo ammetto: ho scoperto American Psycho prima di tutto dai meme.

Quello più in voga e più immediato è la scena, già ironica all’interno della pellicola, in cui Bateman cammina con faccia seria e di bronzo per l’ufficio, ascoltando Walking on the Sunshine, su cui sono state ridoppiate moltissime altre musiche:

Ma un altro che adoro è quello del dialogo finale fra Bateman e il suo avvocato, che si può ovviamente riproporre in diverse situazioni, ma questa è la mia preferita: