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Moonrise Kingdom – Una piccola storia di crescita

Moonrise Kingdom (2012) è un titolo un po’ meno noto di Wes Anderson, l’ultimo uscito prima del suo grande successo, Grand Budapest Hotel (2013).

Con un budget piuttosto contenuto – 16 milioni di dollari – incassò tutto sommato abbastanza bene: circa 68 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Moonrise Kingdom?

Isola di New Penzance, New England, 1965. Sam è un giovanissimo scout che decide di organizzare una fuga d’amore insieme all’amata Suzy…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonrise Kingdom?

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Moonrise Kingdom è uno dei prodotti più riusciti dell’opera di Wes Anderson, che per certi versi mi ricorda un altro cult della sua produzione, The Royal Tanenbaums (2001), in particolare nei personaggi protagonisti.

Una storia di crescita, dei primi amori, raccontata con particolare delicatezza, ma senza cercare di edulcorare il racconto, anzi regalando un’inedita importanza ai sentimenti dei giovanissimi protagonisti nella loro fuga d’amore.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Bloccati

Jared Gilman in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Nell’incipit scopriamo il vero motivo della partenza dei protagonisti.

Entrambi si trovano bloccati in uno status quo che non apprezzano: Sam, nonostante abbia imparato molto dagli scout e continui a vestire i loro simboli, si sente intrappolato in un contesto dove non viene apprezzato, anzi dove è odiato senza motivo.

Al contempo Suzy si trova in una realtà familiare che perlopiù la annoia, anche per la grande maturità che dimostra, già solo scoprendo il tradimento della madre e tenendoselo dentro per moltissimo tempo.

E allora è ora di partire.

Si parte!

Quando il film comincia, anche il viaggio è già iniziato.

E pezzo per pezzo ricostruiamo l’antefatto del loro viaggio, in particolare nel bellissimo montaggio dedicato al loro scambio di lettere, che ci racconta come il loro rapporto si sia consolidato nel tempo, nel loro ritrovarsi come due animi affini…

Nel loro viaggio, Suzy e Sam portano sé stessi.

Sam sembra l’unico ad essersi preparato per questa avventura, anche troppo: il ragazzino non abbandona mai veramente la sua identità di scout, nonostante si sia ritirato, in particolare nel sacrificio verso gli altri, aiutando costantemente la sua compagna di viaggio.

Jared Gilman e Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Al contempo Suzy sembra incredibilmente imparata: si porta dietro troppi oggetti, molti anche assolutamente inutili o eccessivi nella loro quantità: una valigia piena di libri, una cesta con dentro un gattino…

Queste valigie rappresentano in realtà le loro identità, i loro bagagli emotivi che tengono ancora sulle spalle, anche se sono ormai pronti a scoprire qualcosa di nuovo: l’amore, i primi pruriti sessuali, l’indipendenza dagli adulti.

Impossibile fuggire?

Anche se il loro viaggio sembra destinato a finire prematuramente, anche se sembra che gli adulti cerchino di nuovo di domare le loro indoli ribelli e riportarli ai loro ruoli, di fatto sottovalutano l’energia dei protagonisti.

Ma, soprattutto, avviene l’inaspettato.

Questi due outsider riescono a proseguire il loro viaggio grazie agli amici che si fanno lungo la strada, grazie a degli improbabili alleati che, davanti ad un destino fin troppo drammatico di Sam, passano da essere cacciatori a diventare loro complici.

E quando sembra che abbiamo raggiunto il picco drammatico, quando ormai sembra che non ci sia niente da fare, anche gli adulti, uno in particolare, diventa loro alleato: il povero poliziotto Sharp, che ha pena per il ragazzino e sceglie di adottarlo.

L’eterna fuga d’amore

Kara Hayward in una scena di Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson

Il finale sembra ricomporre la situazione iniziale con poche differenze.

In realtà, tutto è cambiato.

Ora i due possono vivere più apertamente la loro relazione, senza doversi più nascondere, ma volendo comunque mantenere vivo quel senso di pericolo: motivo per cui Sam, invece per passare dalla porta, scappa come un ladro dalla finestra di Suzy.

E intanto il ragazzino ha anche trovato una nuova realtà in cui identificarsi, un nuovo mondo in cui esplorare la sua crescita: come parte della polizia locale – in maniera ironicamente paradossale visto il suo atteggiamento criminale.

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American Psycho – L’uomo impossibile

American Psycho (2000) di Mary Harron è uno dei più grandi cult del nuovo millennio, nonché la pellicola che lanciò Christian Bale, grazie alla sua fantastica ed indimenticabile performance.

Con un budget veramente risicato – appena 8 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale, nonostante il riscontro economico assai ridotto: 34 milioni di dollari

Di cosa parla American Psycho?

Patrick Bateman è un consulente finanziario in una grossa azienda, in costante competizione con i suoi colleghi per essere il migliore, e con diversi scheletri nell’armadio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Psycho?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Sì, ma…

Non stupitevi se all’inizio non ci capirete nulla: American Psycho è un film anche volutamente oscuro, che riesce a spiegarsi solo nel finale, ma lasciando in realtà aperte moltissime porte per l’interpretazione, in una voluta ed enigmatica ambiguità…

Tuttavia, è un cult non per caso: già solamente l’interpretazione veramente indimenticabile di Christian Bale vale la visione.

Anche se personalmente ho apprezzato di più altri prodotti che trattavano tematiche simili – come Il potere del cane (2021) o Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970).

Ma voi guardatelo e fatevi la vostra opinione.

Fit in

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il mondo di Bateman è il mondo dell’apparire.

La totale ostentazione, definita da alcuni simboli ricorrenti: il biglietto da visita, gli abiti firmati, le carte di credito, e soprattutto, il riuscire a prenotare un tavolo al Dorsia, uno dei ristoranti più esclusivi.

E fin da subito Evelynn è la voce della ragione, che descrive perfettamente il personaggio: nonostante odi il suo lavoro, vi si impegna moltissimo, e non vuole lasciarlo – anche se probabilmente potrebbe trovarne facilmente un altro.

Il motivo?

Because I want to fit in

Perché io voglio far parte di qualcosa.

L’identità perduta

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Proprio per il suo esasperante tentativo di integrarsi, in realtà Patrick perde la propria identità.

Infatti, viene scambiato da Paul Allen per un suo collega, tanto sono identici nel modo di vestire, di mostrarsi e di pettinarsi. Ma comunque sceglie di mantenere quella maschera, perché di fatto la sua è un’identità intercambiabile.

Lo racconta molto bene la scena dei biglietti da visita: nonostante tutti i presenti cerchino di superarsi l’un l’altro con le grafiche e i font più smaglianti, in realtà sono uno uguale all’altro – stessa scritta, stesso ruolo…

La donna oggetto

American Psycho esaspera intelligentemente il concetto di oggettificazione della donna.

Infatti Patrick passa da una donna all’altra senza farsi particolari problemi, consapevole, anzi, in realtà, felice che la sua fidanzata lo stia tradendo, dal momento che lui sta facendo altrettanto.

Le donne che si muovono in scena sono quasi indistinguibili: bionde, belle, disperate, ognuna oggetto del desiderio di Patrick.

Ma non un desiderio sessuale.

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Patrick Bateman è con ogni probabilità un omosessuale represso.

Lo dimostra molto bene la scena in cui cerca di uccidere il tanto odiato Luis Carruther, e lo stesso interpreta il suo come un approccio sessuale. Da un personaggio con la mascolinità così esplosiva come Bateman, ci si aspetterebbe una reazione violenta.

E invece Patrick è visibilmente spaesato.

Come se questo non bastasse, è evidente che per lui il corpo femminile è solo un corpo da possedere, da ogni punto di vista, in cui sfogare i suoi impulsi violenti, da usare sessualmente solo come riprova sociale…

Sogno…

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Il finale sembra raccontarci che tutto quello che abbiamo visto è un delirio ad occhi aperti di Patrick.

Secondo questa interpretazione, l’unica violenza che è effettivamente avvenuta è quella che non abbiamo visto: quando Patrick porta per la prima volta le due prostitute in casa, la violenza che evidentemente si è svolta non viene mai mostrata.

Al contrario, tutte le altre sono presentissime in scena, e sono al limite del gore e della pornografia, ma in realtà, per come ci racconta il film, non sono altro che delle fantasie del protagonista, che non è mai riuscito a realizzare.

Anche se…

…o indifferenza?

Christian Bale in una scena di American Psycho (2000) di Mary Harron

Un’altra interpretazione che ho maggiormente apprezzato è quella che mi ha fatto avvicinare questa pellicola a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.

Secondo questa lettura, in realtà la violenza, le uccisioni, sono realmente avvenute, e rappresentano la vera faccia della realtà aziendale e sociale in cui il protagonista è immerso: bellissima e smagliante all’esterno, violenta e distruttiva all’interno.

E per questo il fatto che nessuno creda alla confessione di Patrick, ma che anzi si racconti che si sia immaginato tutto, rappresenta la generale indifferenza di quel mondo verso quella violenza che è, in realtà, del tutto ordinaria.

A voi la scelta.

American Psycho meme

Lo ammetto: ho scoperto American Psycho prima di tutto dai meme.

Quello più in voga e più immediato è la scena, già ironica all’interno della pellicola, in cui Bateman cammina con faccia seria e di bronzo per l’ufficio, ascoltando Walking on the Sunshine, su cui sono state ridoppiate moltissime altre musiche:

Ma un altro che adoro è quello del dialogo finale fra Bateman e il suo avvocato, che si può ovviamente riproporre in diverse situazioni, ma questa è la mia preferita:

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La congiura degli innocenti – L’altro Hitchcock

La congiura degli innocenti (1955), traduzione piuttosto evocativa del titolo originale The trouble with Harry, è uno dei prodotti meno noti e anche più atipici – ma tipici insieme – della filmografia di Hitchcock.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 1,2 milioni di dollari, circa 13,5 oggi – incassò tutto sommato abbastanza bene: 3,5 milioni, circa 39 oggi.

Di cosa parla La congiura degli innocenti?

Durante una battuta di caccia, il capitano Wiles pensa di aver ucciso un uomo. Ma è solo l’inizio di un’incredibile avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La congiura degli innocenti?

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dipende.

La congiura degli innocenti è un film veramente particolare, che racconta un lato meno esplorato della filmografia di Hitchcock, pur sempre presente in sottofondo nei suoi prodotti precedenti: l’humor nero, in questo caso apertamente surreale.

Davanti al ritrovamento di un cadavere, ci si aspetterebbe una certa reazione dai personaggi di Hitchcock. In realtà, per vari motivi che vengono svelati durante la pellicola, le varie figure che si susseguono hanno delle reazioni imprevedibili, ma incredibilmente sensate…

Insomma, se vi piace il genere, lo adorerete.

The trouble with harry

Se non avete mai visto La congiura degli innocenti, vi consiglio caldamente di guardarlo in lingua originale.

Infatti la pellicola si basa su un’ironia piuttosto sagace, originata per la maggior parte da giochi di parole spesso intraducibili. Inoltre, senza conoscere il titolo originale, si perde il senso della conclusione.

Insomma, per apprezzarlo appieno, non rischiate!

Un omicidio inaspettato

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Dopo un paio di inquadrature funzionali a raccontare l’ambiente – una minuscola comunità rurale – ci viene immediatamente introdotta la vicenda, con il simpatico Capitano che si accorge di aver ucciso un uomo.

Un evento che in altre circostanze avrebbe portato ad un picco drammatico, in questo caso porta ad una prima scenetta comica, dal sapore molto surreale: tutti gli abitanti della città – ad eccezione dello sceriffo e della bottegaia – passano vicino al cadavere.

E ognuno di questi sembra essere fondamentalmente disinteressato o per nulla preoccupato, ma ognuno con una motivazione chiara che verrà rivelata più avanti.

Oggetti (e personaggi) di valore

Edmund Gwenn in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Durante la pellicola diversi oggetti passano di mano in mano, ognuno con un valore preciso.

Le scarpe di Harry, il coniglio morto, l’album da disegno…

Ed insieme agli oggetti, si muovono anche i personaggi, le cui vicende si intrecciano in maniera inaspettata e sorprendente, con un susseguirsi di gustosissimi colpi di scena, che rivelano a mano a mano tutti gli elementi della vicenda.

Così l’incontro fra il Capitano e Sam porta al dialogo con Jennifer e allo scoprire l’identità di Harry, il consumarsi dell’appuntamento fra il Capitano e Miss Gravely alla vera natura del delitto, e a un continuo sotterrare e dissotterrare il corpo…

Shirley MacLaine e John Forsythe in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Di conseguenza, anche la colpa – e così il motore dell’azione – passa da personaggio in personaggio.

Prima il Capitano che deve nascondere il delitto, poi Miss Gravely che deve discolparsi, infine Sam che deve sposarsi. Ma proprio alla fine, quando quest’ultimo diventa responsabile dell’ennesimo – e per fortuna ultimo – dissotterramento del corpo, riesce a ricompensare tutti per il loro silenzio.

Infatti, invece che tenersi entrambi i premi per sé – la nuova moglie e i soldi dalla vendita dei dipinti – sceglie di premiare ognuno dei personaggi, come una sorta di premio di partecipazione per averlo aiutato nel suo obbiettivo.

Che l’ironia continui!

Royal Dano in una scena di La congiura degli innocenti (1955) di Alfred Hitchcock

Soprattutto sul finale, la colonna sonora stessa racconta la natura del film.

I temi più tipici che facevano da cornice sonora ai classici thriller alla Hitchcock, vengono smorzati da delle tonalità più scanzonate. Così, l’ironia nerissima – ma nondimeno gustosa – che domina la scena sembra poter finire da un momento all’altro.

Infatti, sul finale viene introdotto un elemento di disturbo, lo sceriffo che cerca di fare luce sulla storia e, in maniera quasi metanarrativa, rovinare la festa e mettere fine all’ironia della storia.

Al punto che lo spettatore non solo non vuole che i personaggi vengano puniti, ma pretende che si mantenga fino alla fine il taglio umoristico che finora aveva dominato. E per fortuna la vicenda si chiude come si è aperta, e con una chiosa piuttosto simpatica:

The trouble with Harry is over.

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Beau is afraid – La madre rapace

Beau is afraid (2023) è la terza pellicola di Ari Aster, autore indie attivo da pochi anni, ma che si è proficuamente fatto strada nel panorama dell’horror autoriale grazie alla A24.

A fronte di un budget abbastanza consistente per questo tipo di prodotto – 35 milioni – ha aperto piuttosto male al primo weekend: appena 5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Beau is afraid?

Beau è un uomo di quarant’anni che vive in un quartiere estremamente pericoloso, e sta per andare a trovare la madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Beau is afraid?

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Assolutamente sì, anche se…

Beau is afraid non è il film che potreste aspettarvi da Ari Aster: se vi immaginate un prodotto simile ai due precedenti – Hereditary (2018) e Midsommar (2019) – cambiate idea. Questa nuova pellicola è probabilmente un punto di svolta per la carriera di questo ambizioso regista, che sceglie un taglio alla I’m Thinking of Ending Things (2020).

E forse è anche il motivo per cui mi è piaciuto.

Non vorrei che Aster in futuro abbandonasse del tutto l’horror, ma apprezzo questa nuova via che ha intrapreso, anche se non tutti potrebbero esserne altrettanto contenti. Personalmente, non essendomi entusiasmata per i precedenti prodotti, è stato un passo fondamentale.

L’unico elemento che mi sento di segnalare è l’eccessiva pesantezza della narrazione, tipica di tutti i prodotti di Aster finora: nonostante la durata importante non mi abbia infastidito, al contempo la storia poteva essere notevolmente alleggerita.

Nell’occhio del ciclone

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

La prima scena Beau is afraid mostra una situazione apparentemente tranquilla.

Beau dialoga con il suo terapeuta, facendoci capire che sta per tornare nella sua casa natale, per l’anniversario della morte del padre.

Ma già in questa scena è presente un elemento di disturbo: la madre che continua ad intervenire – tramite chiamate e messaggi – in uno spazio che dovrebbe essere privato e confidenziale.

E l’intrusione è continua.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Così, anche quando il protagonista riesce ad arrivare illeso al suo appartamento, viene continuamente stressato dall’ambiente che lo circonda, anche e soprattutto per motivazioni che non sono colpa sua – rappresentazione esplicita del suo stato di ansia e di colpevolezza.

Infine, viene totalmente scacciato da quel piccolo spazio privato che era riuscito a costruirsi, ma che viene letteralmente invaso e distrutto. E, anche se poi cerca di riprenderne possesso, ormai è stato violato.

E si può solo scappare.

Madonna Beau is afraid

Nel primo atto è interessante il contrasto fra due elementi.

La madonna e il ragno.

Prima di tornare a casa, Beau compra un regalino per sua mamma, una statuina che rappresenta una candida scena materna, con una figura mariana con in braccio un bambino – rappresentazione del suo desiderio di amore materno.

E proprio su quell’oggetto il protagonista racconta la sua angoscia interiore, un ulteriore tentativo di scusarsi con la madre, per qualcosa che non è neanche colpa sua – la morte del padre.

La stessa immagine la troviamo nell’imponente statua davanti alla casa natale.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Ma nell’appartamento è presente una figura ben più minacciosa: il ragno dal morso mortale.

È la rappresentazione effettiva della natura della madre: insidiosa, potenzialmente mortale, costantemente presente nella vita di Beau, anche senza che lui se ne renda conto.

E questo tanto più se si considera che l’appartamento in cui abita, come si scopre in seguito, è stato costruito dalla madre stessa…

Un’apparente tranquillità

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Dopo essere fuggito dal suo appartamento ed essere stato totalmente spogliato, è come se Beau rinascesse, e fosse ricondotto alla sfera infantile, che forse non aveva mai effettivamente lasciato…

Infatti, si sveglia nella stanza di una ragazzina, viene vestito solo con vestiti da ospedale e con pigiami, proprio come un infante, e trattato come se fosse il nuovo figlio di questa strana famiglia, che lo accudisce teneramente.

Ma è tutta apparenza.

In realtà, più che una casa, è una prigione: Beau è inconsapevolmente incatenato – con la cavigliera che mostra la sua posizione – e costantemente controllato da telecamera di sicurezza, come scopre solo alla fine.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Al contempo, la nuova casa è anche il luogo della colpa.

Beau viene continuamente stressato dall’idea di doversi ricongiungere con la madre, di mostrare il suo affetto, mentre la sua assenza – nonostante sia giustificata da motivi del tutto validi – è raccontata come un’umiliazione.

La vera natura della nuova abitazione – luogo di conflitto e di violenza – viene particolarmente sottolineata in chiusura dell’atto, con la terrificante morte di Toni. E, ancora una volta, la colpa viene data a Beau.

E così deve ancora scappare.

Lo spettacolo di una vita

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Sulle prime mi era veramente poco chiaro il senso dello spettacolo che Beau si immagina mentre è nel bosco.

Poi, pensando agli elementi raccontati a posteriori, sono riuscita a formulare una mia interpretazione: questo viaggio mentale del protagonista è forse l’unica parte veramente irreale della storia raccontata.

Nonostante riprenda alcuni elementi della realtà e preveda anche gli eventi successivi, è una riscrittura di Beau della sua stessa vita. In essa, infatti, si ritrovano la maggior parte degli eventi raccontati, anche se re immaginati – come lo spezzare della catena (la cavigliera) e il cane che lo insegue (Jeeves).

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Tuttavia, vi sono due elementi di differenza fondamentali: la madre morta e la famiglia di Beau.

Nella sua immaginazione, il protagonista si è liberato dalla madre – che comunque ricompare nei panni della moglie – e vive una vita piena di insidie e pericoli. Tuttavia, riesce a guadagnarsi un finale idealmente felice.

Ma proprio lì si spezza l’incanto: quando i figli ritrovati gli fanno comprendere la contraddizione delle sue parole – la loro esistenza e la verginità del padre – la scena si interrompe bruscamente.

È il momento in cui Beau capisce che questa vita felice è per lui impossibile.

Ritornare a casa

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

L’ultimo atto è dedicato al ritorno a casa.

Come nella sua immaginazione Beau ritrovava i figli, nella realtà ritrova la madre. Ma prima si esplora l’immensa figura materna: una donna potente e minacciosa, che aveva costruito un impero commerciale, ma anche una trincea intorno al figlio.

Non a caso tutte le pubblicità dei suoi prodotti si concentrano sulla sicurezza e hanno molto spesso al centro Beau stesso: quindi rappresentano il continuo tentativo della madre di proteggere il figlio dal mondo esterno.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E allora Beau prova a prendersi la prima rivalsa.

Rincontrando Elaine dopo tantissimi anni, il protagonista ammette di essersi conservato per lei, di averla aspettata per poter condividere con lei la sua prima esperienza sessuale – e ancora una volta si parla quindi di una donna opprimente che cerca di limitarlo…

Tuttavia, il protagonista sembra avere il suo riscatto, vivendo – nonostante la paura – la sua prima relazione sessuale, la stessa che la madre gli aveva negato tutta la sua vita, terrorizzandolo tramite i terribili esiti che la stessa avrebbe portato.

In realtà la madre vince ancora.

La madre rapace

La natura rapace della madre si capisce fin dal primo atto, anche se non è presente in scena.

Sia per la foto che Beau tiene in bagno – con la mano della madre che gli regge la testa che sembra un artiglio – sia per le pressioni che la donna continua a buttargli addosso, accusandolo, fra le altre cose, di non volerla andare a trovare.

Insomma, Mona è un genitore narcisista, che affoga il figlio con amore e attenzioni, ma pretendendone altrettante indietro, pena terribili ricatti emotivi. E, proprio grazie alle registrazioni delle sedute con il terapista, Beau si rende conto della tossicità del loro rapporto.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E questo viene ancora ribadito dalla scena della soffitta.

Il sogno – in realtà un ricordo – racconta proprio il loro conflitto: se nella sua fantasia Beau poteva essere un bambino che si ribellava dalle continue invasioni della madre, la stessa aveva un potere tale su di lui da riuscire a sopprimere questi inaccettabili slanci.

La soffitta è soprattutto il luogo della distruzione della virilità: sia tramite la reclusione del padre, foce della più importante paura – quella verso il sesso – sia, in maniera estremamente esplicita, tramite la segregazione dei simboli fallici.

E allora avviene l’effettiva ribellione.

Beau is afraid finale

Sul finale Beau cerca di uccidere la madre, ma poi si pente – con una reazione piuttosto infantile.

Ma ormai è fatta.

E Beau scappa, definitivamente.

Ma si trova imprigionato nel terribile tribunale che lo mette davanti alle sue colpe, anche quelle apparentemente più assurde, che aprono la strada a due diverse interpretazioni della storia nel complesso: quella letterale e quella metaforica.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se seguiamo la lettura letterale, tutto quello che è successo – tranne due momenti – è fondamentalmente reale.

Il viaggio di Beau nasce dalla morte della madre, si sviluppa nel suo continuo scappare e trovarsi in situazioni di pericolo e di conflitto, in realtà create ad hoc dalla madre, che cercava ancora una volta di avere prova dell’amore del figlio.

Tutte scene reali, ad eccezione dell’immaginazione di Beau per lo spettacolo, e la scena finale col tribunale, che potrebbe essere in parte deviata dall’immaginazione del protagonista – ed essere in realtà un semplice dialogo con la genitrice.

Kylie Rogers in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se invece seguiamo l’interpretazione metaforica, tutta la storia racconta è un viaggio immaginario di Beau, con rappresentazioni visive delle sue ansie e del suo tentativo di superare il legame opprimente con la madre.

Tuttavia, in entrambe le visioni, alla fine Beau è vinto dall’eccessivo senso di colpa che lo opprime, e decide di non provare neanche a salvarsi, ma accettare la sua morte come giusta punizione per il suo comportamento.

Quindi, alla fine, Beau è sconfitto.

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Nodo alla gola – Un omicidio da appartamento

Nodo alla gola (1948), talvolta noto anche come Cocktail per un cadavere, è la prima pellicola in Technicolor girata da Alfred Hitchcock.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 2 milioni di dollari, circa 25 oggi – ebbe un riscontro altrettanto contenuto, corrispondente agli stessi costi di produzione (fra i 2,2 milioni e i 2,8 milioni).

Di cosa parla Nodo alla gola?

Poco prima di una festa da loro organizzata, i due giovani Brandon e Phillip uccidono un loro “amico”. E per tutto il party il cadavere sarà presente in scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Nodo alla gola?

John Dall e Farley Granger in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Nodo alla gola è una delle opere meno conosciute di Hitchcock, ma è anche un’interessante sperimentazione di questo straordinario regista, per la prima volta con una pellicola a colori e con l’utilizzo di diversi ed abili piani sequenza.

Inoltre, non manca anche di un’ironia piuttosto sottile, profondamente dark, che ho personalmente molto apprezzato – la più interessante sperimentazione in questo senso finora, dopo alcuni accenni in altri prodotti, ad esempio in Rebecca (1940).

Cominciamo subito!

L’elemento sicuramente più interessante della pellicola è l’incipit.

Vediamo fin da subito l’omicidio, rappresentato anche in maniera piuttosto esplicita e violenta. E conosciamo immediatamente anche i colpevoli, una coppia piuttosto singolare di giovani rampolli della buona società.

La tensione è palpabile fin dal primo momento, definita proprio dal contrasto fra i due: mentre Brandon si sente brillante ed invincibile, al contrario Philip è evidentemente preoccupato, sicuro di essere scoperto da un momento all’altro.

E sembra che lo svelamento del mistero sia chiamato fin dall’inizio…

Il vero protagonista

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Anche se apparentemente la coppia omicida è la protagonista, in realtà il vero focus della pellicola è il personaggio di James Stewart.

Dopo un piccolo susseguirsi di figure di contorno che animano la festa, Rupert compare improvvisamente in scena, dopo essere stato annunciato dai protagonisti stessi con una discreta tensione: Philip rimprovera l’amico di aver invitato il loro ex insegnante, essendo questo una persona molto sospettosa.

In realtà il professore è molto di più: mentre i due conversano amabilmente del più e del meno, mentre Brandon si sente particolarmente acuto nelle sue battute piene di doppi sensi, l’uomo osserva attentamente la scena, e coglie tutti gli indizi che lo portano allo svelamento del mal celato delitto.

Non a caso, la camera si sofferma in un paio di momenti fondamentali ad inquadrarlo per diversi secondi, mentre i due si stanno tradendo con le loro stesse mani, anche se nessuno, a parte il professore, sembra essersene accorto…

Il gioco è finito

John Dall e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Nell’ultimo atto è chiaro sia allo spettatore che ai due assassini che Rupert ha capito il loro gioco.

A questo punto, il professore e il suo allievo cominciano a giocare, raccontando una storia a parole assurda, ma che mostra in realtà come Rupert sia perfettamente consapevole delle dinamiche del loro delitto. E, proprio per questo tono leggero, Brandon pensa di poter avere l’approvazione del suo maestro.

Ma è il suo più grave errore.

Nel momento dell’effettivo svelamento, il giovane cerca di convincere il professore di aver solo messo in pratica le teorie da lui stesso promosse, ma Rupert lo respinge violentemente, annullando i suoi sogni di superiorità quasi con disprezzo, e rimettendolo così al suo posto.

E il finale è piuttosto esplicativo in questo senso.

Nodo alla gola finale

Il finale è particolarmente indovinato.

E finalmente, come anche per il precedente Notorious (1946), in questa fase Hitchcock comincia a gestire in maniera ottimale le chiusure delle sue pellicole.

Infatti, dopo una costruzione perfetta della tensione, con Rupert svela l’arma del delitto e Philip che cerca di aggredirlo, la scena si ricompone.

Osserviamola.

John Dall, Farley Granger e James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Philip e Brandon cercano di riprendere le loro posizioni, di riacquistare il loro safe space: Philip si ritira al pianoforte, dove si era continuamente rifugiato durante la festa, ma dove comunque Rupert era riuscito ad insidiarlo.

Invece Brandon sceglie di versarsi un altro drink e di rimanere al centro della scena, come se la festa che tanto l’aveva divertito fosse ancora in corso, e lui potesse mantenere il suo status di giovane brillante ed innocente.

James Stewart in una scena di Nodo alla gola (1948) di Alfred Hitchcock

Per Rupert è tutto il contrario.

Dopo aver ristabilito la sua autorità a voce, la ridefinisce anche a livello visivo: ha in mano sia l’arma del delitto che la pistola, e diventa una sorta di custode del cadavere, la prova decisiva per incastrare i due (ex) allievi indisciplinati.

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Watchmen – Trasporre un capolavoro

Watchmen è una graphic novel cult ad opera di Alan Moore, uno dei più grandi fumettisti viventi, autore anche di altri prodotti di culto come V per Vendetta e Batman – The Killing Joke.

Non conoscevo la sua opera se non per i prodotti derivativi, ma per anni ho avuto il desiderio di leggere il suo fumetto più importante: Watchmen, appunto. E da questa lettura è nata la necessità di una più ampia riflessione in merito alla possibilità di trasporre un prodotto già così perfetto di per sé.

E ho avuto anche la fortuna di potermi confrontare con un’opinione diversa dalla mia.

Per questo ringrazio Simone di Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) per il prezioso contributo.

Perché Watchmen è un’opera fondamentale

Prima di cominciare la valutazione delle trasposizioni del fumetto, è fondamentale chiarire l’importanza dell’opera di partenza.

I dodici albi che compongono l’opera uscirono fra il 1986 e il 1987, ovvero agli sgoccioli della Guerra Fredda. E, infatti, una delle tematiche principali dell’opera è proprio il conflitto nucleare stesso, una minaccia costante e onnipresente.

Una paura vera, reale.

Al contempo, anche confrontando l’opera con prodotti più recenti, non esiste niente di paragonabile, nessun prodotto che abbia saputo raccontare una storia apparentemente supereroistica nella maniera meno convenzionale possibile, uscendo da tutti i canoni e raccontando davvero cosa significherebbe l’esistenza di supereroi nella società statunitense.

Insomma, prodotti come The Boys e Invincible sono solo la pallida ombra di Watchmen.

Il resto, lo lascio alla vostra lettura.

Watchmen di Snyder

Per anni ho avuto un rapporto molto altalenante e conflittuale con il film di Snyder del 2009: inizialmente, per la troppa violenza, non riuscivo neanche a guardarlo fino in fondo. Poi ho cominciato ad apprezzarlo, e, ad oggi, non lo sopporto.

Questa analisi vuole essere il più equilibrata possibile, riconoscendo i meriti, i difetti e i limiti di una trasposizione così complessa, partendo dalla chiosa di Simone, persona molto più esperta di me in materia:

L’opera di Moore è talmente un capolavoro che neanche Snyder poteva rovinarla.

Iniziare col botto

Una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Un elemento abbastanza incriticabile – persino per me – sono i titoli di testa.

È ormai iconica la sequenza di immagini che racconta la gloria e la caduta del Minutemen, riesce subito a farti immergere nello spirito della storia di Moore: eroi che sembrano una carnevalata in un modo duro e sanguinoso.

Altrettanto d’impatto l’inizio vero e proprio e, più in generale, le scene dedicate all’indagine di Rorschach – le uniche per me veramente funzionanti all’interno della pellicola – che riescono effettivamente a rendere adeguatamente la controparte fumettistica.

Oltre ad essere anche quelle più ricordate e citate.

Ma se di Rorschach possiamo parlar bene…

Un casting bello a metà

Jackie Earle Haley nei panni di Rorschach in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il casting dei personaggi del film mi ha convinto a metà.

Sia per quanto riguarda le capacità recitative degli attori, sia per l’estetica in generale.

Per come sono rimasta positivamente convinta del casting di Rorschach, del Comico e del Gufo – sia per il loro physique du rôle, sia per le loro capacità recitative, due sono invece gli attori che non mi hanno convinto.

A livello più estetico che interpretativo, ho trovato poco convincente la scelta di Matthew Goode come Ozymandias: nel fumetto il suo aspetto da adone, una figura quasi eterea che si paragona al mitico Alessandro Magno, era fondamentale anche per la sua caratterizzazione.

Un ruolo poco calzante purtroppo per questo attore.

Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Invece è stata veramente una scelta pessima da ogni punto di vista castare Malin Åkerman come Spettro di Seta.

Per quanto non apprezzi neanche particolarmente la controparte cartacea, le capacità recitative di questa attrice me l’hanno fatta quasi rivalutare: Laurie non era semplicemente una ragazzina isterica e senza sapore come appare nel film.

E si collega anche il primo grande problema della pellicola.

Attualizzare i costumi?

Jeffrey Dean Morgan nei panni del Comico e Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Bisogna ammetterlo: i costumi del fumetto potevano apparire quasi ridicoli in un film con questo tono.

Infatti, sembrano molto più vicini a quelli dei titoli di testa: banalmente, molto fumettosi. Tuttavia, arrivare nella maggioranza dei casi a banalizzarli e a renderli simili al costume di Batman – e non uno qualsiasi, ma proprio quello di Snyder – è stata una scelta al limite del ridicolo.

E mi interessano sinceramente poco le motivazioni che ci possono essere state.

Il picco di bruttezza è ovviamente Laurie, che appare come una Vedova Nera ante-litteram, con la sua tutina provocante in latex che non fa altro che amplificare la poca cura e profondità del suo personaggio nel film.

L’eccesso

Patrick Wilson nei panni del Gufo Notturno Malin Åkerman nei panni di Spettro di Seta in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il secondo grande problema del film, almeno per quanto mi riguarda, è che comunque l’ha diretto Snyder, autore – ricordiamolo sempre – di capolavori come 300 (2006) e Sucker Punch (2011).

Un regista che a livello tecnico sa comunque il fatto suo, che sa mettere la sua impronta nei progetti di cui si occupa, ma che proprio per questo è capace di raggiungere delle vette di bruttezza inimmaginabili.

Billy Crudup nei panni di Dr. Manhattan in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

In questo caso non so se abbia voluto fare il suo compitino attraverso il citazionismo esasperato o se sia stato tenuto al guinzaglio: in ogni caso, rendere alla lettera un’opera non rende un prodotto bello – come Ghost in the shell (2017) in parte ci dimostra.

E l’impronta di Snyder si percepisce nei continui ed estenuanti slow-motion, nella assoluta mancanza di comicità, nelle scene soft porn che non hanno un briciolo dell’eleganza di quelle del fumetto, e nella scelta piuttosto dozzinale della colonna sonora.

Insomma, poteva anche andare peggio, ma non significa che in questo meno peggio ne emerga un buon prodotto.

Il finale (e oltre)

 Matthew Goode nei panni di Ozymantis in una scena dal film Watchmen (2009) di Zack Snyder

Il finale mi ha non poco innervosito.

Non perché di per sé non funzioni o non abbia senso, ma perché di fatto cambia e banalizza quello che, nell’opera di Moore, era una conclusione magistralmente pensata e che ha lasciato un segno indelebile nella storia del fumetto.

La chiusa invece del film la posso paragonare a molte altre e, come concetto, a quello che si vede in Batman vs Superman (2016), proprio per dirne una.

Per costruire un finale al pari dell’opera originale, semplicemente, non si sarebbe dovuto provare a comprimere una storia di così ampio respiro come quella di Watchmen in un film di appena due ore e mezza – impresa che neanche l’autore più abile sarebbe riuscito a compiere.

Infatti, così ne viene fuori un prodotto veramente pesantissimo e che non lascia il giusto spazio né la giusta dignità ad un’opera così immensa.

Insomma, Snyder non ha rovinato Watchmen, ma è stato totalmente incapace di eguagliarlo.

La miniserie Watchmen

Quando uscì la serie nel 2019 la guardai avendo solo una vaga conoscenza del mondo di Watchmen, tramite proprio il ricordo del film di Snyder.

E, seppur con le dovute differenze, le mie conoscenze fumettistiche non hanno più di tanto mutato le mie opinioni originali.

Is this a requel?

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Cominciamo mettendo da parte le dichiarazioni degli autori del fumetto, viziate da interessi probabilmente del tutto estranei ad un puro giudizio artistico.

Come Scream 5 (2022) ben ci insegna, di fatto la serie di Watchmen è un requel, ovvero un sequel reboot: una riproposizione della medesima storia prendendo direzioni diverse.

E per me è un ottimo requel.

Fondamentalmente, è tutto quello che io vorrei vedere quando un autore, soprattutto se un autore di talento, prende in mano un’opera e la fa sua, scegliendo strade diverse, ma senza mai tradirne lo spirito originario della materia prima.

Per fortuna Lindeloff, lo showrunner, ha deciso sapientemente di prendere totalmente le distanze dalla trasposizione di Snyder, in primo luogo mettendo il vero finale del fumetto e dando decisamente maggior dignità ai personaggi rispetto al film, in particolare per Laurie.

Purtroppo, ha fatto un unico, grosso, buco nell’acqua.

Il Dr. Manhattan.

Un dio in pigiama

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Partiamo col dire che il Dr. Manhattan della serie non è tutto da buttare: i suoi punti forti sono l’interpretazione di Yahya Abdul-Mateen II e la prima apparizione del personaggio.

Il momento in cui Manhattan entra per la prima volta in scena è davvero incredibile: rimane per tutto il tempo di spalle per non svelarne il vero volto. Infatti, proprio come un dio, il suo aspetto esterno è utile solamente per mostrarsi agli uomini. Inoltre, tutta quella scena riprende evidentemente lo splendido Capitolo IX, Nelle tenebre del puro essere.

E in generale l’attore è riuscito davvero a calarsi nella parte, portando in scena un personaggio per la maggior parte del tempo apatico e freddo, con un intenso sguardo vitreo davvero affascinante e convincente.

Il problema è il resto del tempo.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan in una scena della miniserie Watchmen

Purtroppo si è scelto rendere il personaggio più accessibile ed emotivo, legandolo sentimentalmente ad Angela. Tuttavia, si tratta del tutto di una scelta out of character, che esce proprio dai principi fondanti del Dr. Manhattan e del suo totale distacco dalle vicende umane.

Inoltre – come ben mi ha fatto notare Simone – è problematica anche la messinscena: scegliere di non far brillare il personaggio, di tenerlo vestito per la maggior parte del tempo, ovvero renderlo così umano ha il solo esito di non trasmettere per nulla l’imponenza della sua figura.

Purtroppo, su questo devo dire che Snyder ha fatto meglio.

Un mistero stratificato

Watchmen è una serie che vive di tensioni.

Il mistero è complesso, intricato, ben stratificato e, in ultimo, torna per tutte le sue parti – anche per quelle di Manhattan. Infatti, per quanto il suo personaggio non sia sé stesso, all’interno della reinterpretazione – pur sbagliata – della serie, ha perfettamente senso.

Inoltre, il suo legame emotivo non è così determinante per la storia nel complesso: sarebbero bastati pochi tocchi di sceneggiatura e una maggiore fedeltà al personaggio per far tornare comunque tutto: semplicemente, Manhattan sapeva di dover morire perchè era la cosa migliore nel complesso degli eventi.

Yahya Abdul-Mateen II nei panni di Dr Manhattan e Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Tuttavia, per la questione dell’uovo c’è da fare un discorso a parte.

A livello strettamente narrativo, il cliffhanger finale è per me una delle scelte migliori mai viste in una serie tv – soprattutto a fronte della giusta e ferma decisione di non fare un’inutile seconda stagione. È una splendida chiusura, che lascia per sempre il dubbio sullo svolgimento futuro della storia.

Tuttavia, a livello invece più canonico, mi ha poco convinto.

L’idea che Dr. Manhattan possa trasferire i suoi poteri ad un altro, nonostante la logica interna della serie, depotenzia tantissimo il personaggio e la sua origine, rendendo potenzialmente il suo potere accessibile a chiunque.

E privandolo della sua fantastica unicità.

La ridicolizzazione dei villain

Hong Chau nei panni di Lady Trieu in una scena della miniserie Watchmen

Un altro elemento che ho semplicemente amato del finale è la ridicolizzazione dei villain, nessuno escluso.

Per tutto il tempo infatti gli stessi vogliono farsi passare come intelligenti e onnipotenti, in realtà nel finale si rivelano per tutte le loro debolezze. Al minimo imprevisto sembrano infatti dei bambini capricciosi che vogliono avere il pubblico per il loro spettacolo di magia.

E per cui non avevano neanche considerato tutte le conseguenze.

Jeremy Irons nei panni di Ozymantis in una scena della miniserie Watchmen

Soprattutto, finalmente, Adrian viene punito come non era possibile invece nel fumetto.

E viene fatto in un contesto del tutto credibile: come ai tempi della Guerra Fredda era del tutto plausibile la sua scelta, nel contesto sociopolitico mutato contemporaneo queste manie di onnipotenza e di voler risolvere tutto con uno schiocco di dita non hanno più spazio.

E quindi, per lui come gli altri, i discorsi da villain dei fumetti sono più volte smentiti e interrotti.

Come è giusto che sia.

Costumi terreni

Regina King nei panni di Sister Night in una scena della miniserie Watchmen

Sui costumi e gli interpreti ci sarebbe un enorme discorso da fare.

In breve, adoro ogni scelta che è stata fatta.

Gli interpreti sono tutti perfetti, perfettamente in parte, carismatici, bucano lo schermo. Particolarmente ho apprezzato moltissimo Jeremy Irons come Ozymandias e Jean Smart come Laurie – le perfette controparti anziane dei personaggi del fumetto. E finalmente degli attori che abbiano un physique du rôle credibile.

Discorso a parte per Regina King come Angela, perfetta nella sua parte e con uno dei costumi più belli di tutta la serie, che si integra perfettamente in un’idea di maschere terrene ed attuali – insomma, tutto il contrario di quelle di Snyder.

E già solo il costume è un discorso a parte.

Una rete di riferimenti

La serie è piena di riferimenti al fumetto.

Solo per citarne alcuni: il gufo di Laurie che richiama Gufo Notturno, l’inquadratura sul sangue che cola da sotto la porta dopo il pestaggio di uno dei Seventh Cavalry che richiama la scena del pestaggio di Rorschach nella prigione, lo schizzo di sangue sul distintivo di Judd Crawford quando muore…

Dei richiami ben contestualizzati che si distanziano molto dal puro e pigro citazionismo del film, ma più che altro dei piccoli easter egg per gli appassionati.

Inoltre, la serie ha una serie di citazioni interne, che rendono il tutto perfettamente collegato: si parte dal cappuccio bianco del Ku Klux Klan che l’allora Hooded Justice cerca di combattere, mettendosi a sua volta un cappuccio nero, ma in realtà la cui vera maschera è la tinta bianca sugli occhi.

La stessa tinta, però nera, della nipote quando si traveste da Sister Night.

In chiusura, il prezioso contributo di Simone Storie e Personaggi (@storie_e_personaggi) riguardo alla serie.

Guardai la serie per la prima volta nel 2019 e l’ho riguardata in occasione di questa recensione. Esattamente come quell’anno, ho cercato di abbandonare tutti i pregiudizi, ma rimango comunque dell’idea che all’inizio sembri un prodotto molto interessante, ma che le ultime tre puntate facciano crollare tutto come un castello di carta.

Per questa recensione voglio dire tre cose che mi sono piaciute, e tre che trovo quasi delle bestemmie in confronto al prodotto di partenza.

E spiegare soprattutto il perché.

Serie tv Watchmen

Premetto che le colpe delle ultime tre puntate non vanno solo affibbiate allo showrunner – la writer’s room era piuttosto ampia – ma piuttosto si può parlare di un concorso di colpa.

Soprattutto perché all’interno della serie ci sono tantissimi e ripetuti ammiccamenti allo spettatore, continuando a sottolineare la conoscenza dell’opera di partenza. Tuttavia, questo diventa totalmente inutile quando non si rispettano i canoni dell’opera stessa che si cita.

Anzi, li si stravolge.

Ma partiamo dai pro.

La sequenza iniziale

La serie si apre con una sequenza dedicata ai disordini di Tulsa del 1921 – fatto storico avvenuto realmente – ponendo le basi per il tema di fondo di tutta la serie.

Il razzismo.

Se infatti la graphic novel rifletteva sulle paure della società di metà degli Anni Ottanta – l’Olocausto Nucleare e la minaccia della Guerra Fredda – nella società contemporanea la paura più grande è il razzismo, la xenofobia, la circolazione delle armi degli Stati Uniti.

Quindi la serie punta su temi molto attuali.

Seventh Kavalry

Per questo mi sento di fare – l’unico – plauso agli sceneggiatori, per essere riusciti a capire perfettamente la frangia di estremisti, nazionalisti e anarchici trumpiani e prevedere in qualche misura in cosa sarebbe sfociata.

E l’assalto al Campidoglio del 2021 non era ancora successo…

In particolare nella seconda puntata si mette in scena il raid alla baraccopoli della Seventh Cavalry, mostrando questi redneck con la camicia di flanella e la maschera di Rorschach, con il pupazzone di Nixon – ma che potrebbe facilmente essere quello di Trump.

Insomma, la rappresentazione di quella che negli Stati Uniti è una paura reale e concreta.

I poliziotti come vigilanti

Mi ha altrettanto positivamente colpito la scelta di raccontare la polizia di Tulsa che diventa sostanzialmente un gruppo di vigilanti: la polizia mascherata è il sogno di ogni società fascista, in cui le forze dell’ordine possono agire senza paura delle conseguenze.

Nell’opera originale il Decreto Keene, che mette al bando i vigilanti, deriva dal malcontento e dagli scioperi della polizia, mentre nella serie i poliziotti diventano i vigilanti stessi, con tanto di nomi da battaglia.

Un sovvertimento del canone che ho davvero apprezzato.

La scrittura della serie

La scrittura della serie è molto buona.

Gli incastri sono ottimi, la protagonista, Angela, è un personaggio ben scritto, sempre in bilico fra il concetto di giustizia e vendetta, che riflette sul peso della sua maschera, anche riscoprendo le sue radici. E, soprattutto, non ci sono buchi di trama, e si riparte dal finale del fumetto e non del film.

Ma non basta.

Non basta dare coerenza alla trama, se poi si stravolge il cuore dell’operazione e non si rende giustizia al prodotto originale. E purtroppo non possiamo neanche avere un confronto credibile con gli autori del fumetto.

Gibbons, il disegnatore, è stato consulente della serie e ha dichiarato che il prodotto l’ha reso molto contento, ma non possiamo ovviamente sapere quanto il denaro che gli è stato offerto abbia viziato la sua opinione. Moore, dal canto suo, ha bocciato il prodotto – ma lo avrebbe fatto a prescindere.

Passiamo quindi ai contro.

L’incoerenza di Laurie

Il personaggio di Laurie è per molti versi sprecato.

Nella serie ha per la maggior parte un ruolo importante, forte, da spietata detective dell’FBI che ha sempre la risposta pronta e il polso fermo. Finché non cade in una botola, finisce legata ad una sedia, e lì si esaurisce il suo personaggio.

Ma non è neanche quello il problema peggiore.

La genialità di Moore in Watchmen stava proprio nella sua satira contro le maschere: nel fumetto si raccontava cosa sarebbe successo in una società reale dove per cinquant’anni si vedevano eroi scendere per strada e picchiare i cattivi. E quello che sarebbe successo è la paura delle persone, proprio per la presenza della maschera – e tutto quello che ne consegue.

Il Comico, come anche Laurie, rappresentava questo paradosso, in un contesto sociale con un sentimento popolare ben preciso. Quindi, anzitutto, perché Laurie fa parte di una task force contro i vigilanti, ma soprattutto perché sembra che il sentimento sia cambiato?

Infatti, nella scena in cui Laurie arresta un vigilante, la folla sembra essere contro l’FBI, mentre dovrebbe essere totalmente il contrario. Insomma, si va a distruggere un elemento portante della trama di Watchmen, che era anche il punto di partenza delle vicende dei protagonisti.

Questo non è Manhattan

La gestione di Manhattan è uno dei problemi maggiori della serie.

Il Dottor Manhattan è uno dei personaggi meglio scritti nella letteratura del XX sec.: come viene raccontato il suo distacco dall’umanità, la sua percezione del tempo, la narrazione della sua vita sono tutti elementi che hanno contribuito a rendere Watchmen un capolavoro.

Considerato il fatto che la serie è sequel di Watchmen e con tutti i riferimenti al fumetto, ci si aspetterebbe come minimo una certa sensibilità e rispetto del canone del personaggio. Invece è tutto il contrario: Dr. Manhattan – chiamato fin troppe volte Jon – è totalmente umanizzato e porta lo spettatore a dimenticarsi che si tratta praticamente di un dio.

Anzitutto è problematica l’idea che ritorni sulla terra: nel fumetto la sua storia è chiusa perfettamente e il personaggio non avrebbe nessun motivo per comportarsi così. Invece si è deciso di piegare la sua figura alle necessità della serie, banalmente perché non si poteva fare un prodotto di Watchmen senza il Dr. Manhattan.

Ma se si doveva fare così, meglio non farlo.

Soprattutto davanti ad una serie di sequenze assurde e totalmente fuori dal personaggio, in particolare la scena dell’incontro con Angela: Manhattan sembra in difficoltà davanti alle domande di questa donna e sembra volerle fare la corte.

Lo stesso personaggio che, ricordiamolo, durante la Guerra in Vietnam aveva lasciato che il Comico sparasse ad una donna incinta.

Giusto per fare un esempio del suo distacco dall’umanità.

Dr. Manahttan Watchmen serie

Questo non è il Dr. Manhattan.

Anche se per assurdo dovessimo accettare questa rappresentazione, il make-up e gli effetti sono ingiustificabili. Stiamo parlando di una serie da milioni di dollari e che ha vinto diversi Emmy, dove il personaggio è ridotto ad un trucco posticcio, finto, che lo umanizza terribilmente e che gli toglie tutta l’aura divina.

E, soprattutto, non brilla.

Come se tutto questo non bastasse, si sono anche permessi di ucciderlo. E, soprattutto, Gibbons ha detto sì a questa idea.

La distruzione di Adrian

Non voglio dare colpe a Jeremy Irons: è anche accettabile che non abbia mai letto il fumetto e si sia semplicemente rifatto alla sceneggiatura che si è trovato ad interpretare.

Il problema è che Adrian Veidt viene ridotto alla sottotrama comica della serie: siamo passati dalla mente dietro ad un piano machiavellico, responsabile di tre milioni di morti, che si paragona ad Alessandro Magno…a Rick Sanchez di Rick & Morty – una sorta di patetico scienziato pazzo.

Tutta la sua storia poteva essere raccontata mantenendo il carattere del personaggio: un cattivo furbo e abile che pianificava la sua fuga dal suo pianeta di prigionia, senza doverlo esasperare in gag comiche improponibili.

Adrian Veidt Watchmen

In più, Adrian non ci sarebbe mai andato nel paradiso di Manhattan: semplicemente, perché non se l’è conquistato lui. E invece lo stesso uomo che si rivede in Alessandro Magno quasi si commuove davanti all’offerta di andare in quell’utopia.

E ancora peggio il finale.

Tutta la maestosità del personaggio viene totalmente distrutta da una semplice chiave inglese e si banalizza il concetto finale del fumetto: se con questo arresto verrà rivelato il suo inganno che ha salvato l’umanità, allo stesso modo così si vanifica il senso del finale stesso.

Infatti l’intento dell’opera di Moore era di permettere ai lettori di scegliere quale fosse la proposta moralmente più giusta, senza prendere posizione. Invece, la serie toglie questa possibilità e decide quale finale giusto dare alla storia.

La scelta più abietta di tutta la serie.

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Avventura Commedia nera David Fincher Film Racconto di formazione Recult Satira Sociale Surreale

Fight Club – Distruzione e rinascita

Fight Club (1999) di David Fincher è stato il quarto film della sua carriera, nonché uno dei maggiori titoli di culto da lui diretti, insieme a Seven (1995).

Con un budget simile a quello del titolo da lui precedentemente diretto (The Game) – 64 milioni di dollari – fu anche in questo caso un discreto flop: poco più di 100 milioni di incasso. Infatti, il culto intorno a questa pellicola nacque solo con il suo rilascio in home video.

Di cosa parla Fight club?

Il protagonista, dal nome ignoto, è il classico impiegato frustrato dal lavoro e dalle aspettative della società. Grazie all’incontro con l’enigmatico Tyler, la sua vita cambierà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fight club?

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Sì, e con attenzione.

Fight club è un film terribilmente denso di contenuti, di spunti narrativi e di riflessioni su una realtà sociale che è ancora drammaticamente attuale – forse anche più del momento in cui fu girato il film. Una narrazione e uno svolgimento che travolge lo spettatore, con un tocco surreale che non poteva mai mancare nelle prime produzioni di Fincher.

Insomma, se non l’avete mai visto, guardatelo senza informarvi oltre.

Dentro una casella

Edward Norton in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il punto di partenza del protagonista è l’anonimato.

Ma un anonimato socialmente accettabile: è perfettamente incasellato nelle aspettative sociali, con un lavoro ordinario e monotono, scandito da una routine scialba e ripetitiva. L’unico sbocco di felicità sembra nella stabilità degli oggetti acquistati – o che la società in cui siamo immersi ci spinge a comprare.

Gli oggetti che rappresentano il nostro status sociale.

Particolarmente azzeccato è il racconto della nuova pornografia, rappresentata dal catalogo IKEA. Una dinamica che oggi potrebbe essere facilmente accostata al fenomeno di Tik Tok e degli influencer, che ci spingono a desiderare tanti – troppi – oggetti di cui non abbiamo nessun bisogno, ma che ci definiscono positivamente agli occhi degli altri.

Autodistruzione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Inconsapevolmente stanco di questa condizione, il protagonista procede alla sua autodistruzione.

E, infine, alla sua rinascita.

Il primo passo è liberarsi da ogni elemento che lo definiva come uomo ordinario schiavo del consumismo capitalista, con un’azione violenta ma necessaria: dare fuoco a tutti i suoi possedimenti che gli facevano vivere una vita sicura e socialmente accettabile.

Ma anche un’esistenza miserabile.

E così sceglie un’altra strada, molto più folle, dissociata e isolata: una stamberga nella periferia della città, del tutto caotica nella sua struttura e del tutto diversa dal grigio appartamento in cui viveva prima – che, anzi, manca quasi dei servizi essenziali.

Il passo fondamentale che si accompagna ad un altro elemento cardine della sua rinascita: l’alienazione.

Alienazione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Incapace di essere totalmente responsabile della sua scelta, il protagonista sceglie di mettere qualcun altro al centro della propria vita.

Tyler è una figura totalmente anarchica e distruttiva, cosciente di tutti gli inganni socialmente accettabili. Proprio per questo è un personaggio che è un continuo sabotatore, che inquina ogni ambiente che invade: le nuove indicazioni di emergenza sugli aerei, i frame porno nei film per bambini…

Al contempo, è anche una figura ammirabile, eroica, che riesce dove il protagonista sente di fallire, in particolare in due ambiti: il sesso e la violenza. E invece infine viene svelato come il protagonista fosse sempre stato al centro dell’azione, anche in contesti dove si era immaginato ai margini.

E l’ultimo atto, nel tentativo di totale distruzione di sé stesso, fallisce e invece porta al vero trionfo auspicato da Tyler – e quindi dal protagonista stesso.

La distruzione della società dalle fondamenta e dai suoi simboli.

Cos’è il Fight club?

Il Fight club che dà il titolo al film è molto più importante di quanto potrebbe sembrare.

In prima battuta il protagonista, per risolvere la sua insonnia e quindi la sua ansia sociale di essere sempre attivo e presente, sceglie di frequentare degli spazi sicuri in cui può lasciarsi andare, dove è socialmente accettabile piangere anche per un uomo, dove si può essere veramente ascoltati.

Una scelta che gli permette di continuare il suo ruolo sociale.

Jared Leto e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il Fight club è un ribaltamento di queste realtà.

Altrettanto sicuro e protetto, ma anche privo di regole, tranne una: tutti possono e devono combattere, senza pagare nulla, ma il combattimento termina quando uno dei combattenti lo chiede.

Di fatto, è il luogo dove chiunque può decidere di sfogare le sue ansie sociali, essere libero dalle proprie ansie e problemi – e secondo i suoi tempi.

Ma anche senza trovare una soluzione agli stessi.

Il significato del sapone in Fight club

Il sapone è uno degli elementi cardine e racconta molto bene il tema di fondo del film stesso.

Infatti, se pensiamo ad una saponetta, ci vengono in mente concetti come pulizia, candore, bellezza. Ma sappiamo veramente di cosa è fatto quel sapone? In Fight club i due protagonisti fanno i soldi creando del sapone dai disgustosi scarti industriali, proprio quelli di cui la società si vorrebbe liberare.

Proprio per questo, il sapone rappresenta la società stessa: vuole apparire splendida e desiderabile all’esterno, in realtà è composta dal marciume e dagli scarti, sorretta proprio da quegli elementi umani che cerca di emarginare, che in realtà sono il motore della società stessa.

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Accadde quella notte... Commedia nera Drammatico Film Notte degli Oscar Surreale

Birdman – La dura finzione

Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu è la pellicola che fece veramente conoscere questo regista al grande pubblico, proprio grazie alla sua improvvisa – e inaspettata – vittoria agli Oscar 2015, confermandone la (breve) ascesa l’anno successivo con Revenant.

A fronte di un budget davvero risicato (16,5 milioni di dollari), riscosse un ottimo successo commerciale: 103 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Birdman?

Riggan è un ex-star del cinema supereoristico che sta cercando di riproporsi al pubblico in una veste nuova, portando il suo spettacolo teatrale a Brodway. Ma il passato lo assilla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Birdman?

Michael Keaton, Naomi Watts e Zach Galifianakis in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Assolutamente sì.

È davvero difficile parlare in maniera oggettiva di una pellicola che è fra le mie preferite in assoluto. Sono assolutamente innamorata del suo taglio surreale e fantastico perfettamente bilanciato, dell’utilizzo magistrale del piano sequenza e della costruzione della trama davvero avvincente.

Nonostante non abbia visto tutta la filmografia di Iñárritu, è in assoluto la mia preferita delle sue opere, nonché l’inizio di un brevissimo amore, dissipatosi con Revenant (2015) – film artisticamente splendido ma che trovo di una pesantezza immane – e sopratutto col profondo fastidio che ho provato vedendo Bardo (2022).

Ma, anche per questo, vi consiglio caldamente di recuperarlo.

Il nido

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

La maggior parte della pellicola si svolge in un claustrofobico piano sequenza all’interno del teatro.

Ed è veramente opprimente per come la macchina da presa inquadra i personaggi, molto spesso quasi schiacciandoli nell’inquadratura e al contempo inseguendoli di spalle nei loro movimenti, con una dinamicità veramente coinvolgente.

Il teatro è come un luogo di incubazione, un nido in cui il protagonista si è rinchiuso per riuscire a rinascere, spiccare il volo. Ma quello che dovrebbe essere un luogo conciliante e stimolante, è invece profondamente angosciante, più simile ad una trappola.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Il teatro rappresenta profondamente il tentativo di rinascita di Riggan, che si sente totalmente schiavo della sua identità da eroe mascherato, e che non vuole farsi coinvolgere all’interno del vortice perverso di star di alto livello che diventano supereroi.

E si citano casi da poco avvenuti, come Jeremy Renner, AKA Occhio di falco, che si era fatto conoscere poco tempo prima per The Hurt Locker (2008).

E infatti Riggan, appena esce dal teatro, viene ogni volta assalito dall’identità di cui vuole liberarsi, anche se cerca di rifugiarsi in luoghi altrettanto chiusi ed angusti

La verità in scena

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Nonostante le apparenti differenze e l’aspro antagonismo, Riggan e Mike sono due figure complementari.

Entrambi non riescono ad avere successo nella vita reale, e per questo mostrano la loro vera faccia solo quando sono in scena. Tuttavia, con delle differenze fondamentali: Mike è del tutto consapevole di questa realtà, e anzi la sbandiera quasi con rassegnazione. E infatti diventa tanto più aggressivo sul palco, nella disperazione di voler plasmare l’unica realtà che riesce veramente a controllare: quella scenica.

Al contrario, Riggan si sente oppresso dal palcoscenico, e riconosce solamente col tempo quanto la stesso racconti effettivamente le sue angosce più profonde. Così il suo desiderio di essere apprezzato, i suoi problemi relazionali e il suo arrendersi all’inevitabile…

L’identità strappata

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Il tormento del protagonista per la sua identità si traduce anche materialmente in scena.

In particolare, nella scena in cui si trova chiuso fuori dal teatro viene privato, proprio con uno strappo, della sua identità. E si ritrova confuso, senza una meta, a vagare, nudo, immerso in una folla che lo soffoca e reclama a gran voce che ritorni nei panni che sta cercando di fuggire: quelli di Birdman.

Per questo la tappa successiva è il ritorno al teatro stesso, in questo splendido gioco metanarrativo in cui il protagonista irrompe in scena e mima la finzione scenica, non bussando alla porta ma urlando knock knock, e usando la mano a mo’ di pistola.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Ed è quello il momento della consapevolezza.

Proprio recitando le parole che ha detto mille volte – ma mai veramente capito – io non sono qui, sono invisibile, accetta finalmente non solo di liberarsi della sua identità, ma anche di portare la sua vera realtà sulla scena, accentandola come spazio per esprimersi.

Finalmente può spiccare il volo.

Cosa succede nel finale di Birdman?

Il finale di Birdman parla di morte e rinascita.

Riggan, in un certo senso, muore due volte: si uccide in scena, ma si uccide anche nella vita reale – in realtà poi solo distruggendosi il naso. Si ritrova così nella stanza dell’ospedale con un’altra maschera addosso – quella delle garze – che gli copre parte del volto e che sembra proprio la maschera di Birdman.

A quel punto, guardandosi allo specchio, vede come il suo nuovo naso lo faccia ben più assomigliare al suo demone, ma decide definitivamente di salutarlo – anche in maniera piuttosto brusca.

Michael Keaton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Come sembrava che ci potessero essere solo due identità possibili – o Birdman o l’attore di teatro – Riggan trova una terza via. Il piacere del volo, del poter viaggiare sopra agli altri era all’inizio solamente una fantasia – come ben testimonia la conclusione della sequenza dedicata.

Invece alla fine il protagonista capisce di potersi librare, leggero e senza il peso di nessuna identità ingombrante, e spiccare il volo come un uomo nuovo.

E ridere di felicità insieme alla figlia.

Birdman: quando la realtà supera la finzione

Il caso di Birdman è veramente singolare.

Fin dall’inizio è evidente l’idea di costruire un personaggio su misura per Michael Keaton, pieno di riferimenti al suo vero passato cinematografico. Non a caso Birdman in inglese assomiglia molto nella pronuncia a Batman, personaggio che lo rese effettivamente famoso.

Tuttavia, da lì in poi, non era mai riuscito a spiccare il volo con qualche altro ruolo.

E, in un primo momento, il ruolo nel film di Iñárritu concesse a Keaton di intraprendere pellicole di ampio respiro e di alto livello, come Il caso Spotlight (2015) e poi The Founder (2016). Ma, in poco tempo, prese la strada infausta prospettata dal film.

Infatti nel 2017 prese i panni dell’Avvoltoio nel film Spiderman Homecoming.

E il parallelismo con Birdman è quasi scontato.

Non ho idea di quanta ironia ci fosse nella scelta di Iñárritu in questa pellicola, né se all’epoca sapesse dei progetti di Keaton – che sembra che accettò il ruolo da supervillain solo nel 2016. Tuttavia la coincidenza è impressionante.

Ma lo è ancora di più se si pensa che, da qui a poco, Keaton dovrebbe riprendere i panni di Batman proprio in The Flash (2023), in un ruolo che sembra quasi da coprotagonista, per la gioia dei fan del personaggio…

Edward Norton Birdman

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

Un discorso analogo si può fare per Edward Norton.

Il suo personaggio è stato costruito proprio sulla sua vita e carriera: all’inizio si dice che Mike ha abbandonato un progetto, probabilmente sia perché licenziato sia perché si è fatto cacciare, come suo solito. È interessante perché non molto tempo prima Norton era stata recastato come Hulk dopo la sua performance in L’incredibile Hulk (2008) nei panni del protagonista.

E i motivi sembrano proprio quelli raccontati nella pellicola: sembrerebbe che Norton facesse il bello e cattivo tempo con la sceneggiatura e sul set, e per questo fu cacciato.

Michael Keaton e Edward Norton in una scena di Birdman (2014) di Alejandro González Iñárritu

La sua carriera era già da tempo in declino, dopo i grandi successi che lo avevano reso iconico di La 25ª ora (2002) e Fight club (1999), fra gli altri, partecipando solo sporadicamente ai film di Wes Anderson come cameo, e poco altro. E dovendo anche scontrarsi anche col flop del suo secondo film da regista, Motherless Brooklyn (2019).

Per fortuna ultimamente l’abbiamo rivisto in scena in un film di ampio successo, Glass Onion (2022), in un ruolo che ho personalmente apprezzato e che spero sia il punto di partenza per una sua rinascita attoriale.

Birdman meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2015 portarono diverse novità.

Per la prima volta in Italia la cerimonia venne trasmessa in chiaro dal Canale Cielo, e, più in generale, tutti i candidati vennero annunciati tramite conferenza stampa – fino a questo momento solo le dieci categorie più importanti erano annunciate in tv.

Un’edizione dove i film con maggiori candidature ebbero anche il maggior numero di premi: nove statuette per Birdman e Grand Budapest Hotel, e quattro vittorie ciascuno. Oltre al film di Wes Anderson, nella categoria Miglior film c’erano altri contendenti forti: American Sniper e La teoria del tutto.

Tuttavia, vinse appunto Birdman.

Per quanto consideri diversi contendenti molto validi – sopratutto Grand Budapest Hotel – non penso che nessun film meritava una vittoria più di Birdman, un film incredibile sotto ogni punto di vista: registico, artistico e interpretativo.

Il miglior film dell’anno, per davvero.

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Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

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Glass onion – La ricetta vincente

Glass onion – A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson è il sequel di quel piccolo successo che fu al tempo Knives out (2019). Un riscontro di pubblico tale, per una produzione comunque non particolarmente impegnativa, da far acquisire i diritti a Netflix e ordinare due sequel.

Un prodotto che mi ha colpito così tanto tanto da vederlo due volte di fila senza annoiarmi neanche un minuto.

Tuttavia, vanno fatte delle giuste premesse.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Glass onion (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore sceneggiatura non originale

Di cosa parla Glass onion?

Il detective Blanc viene coinvolto in un nuovo mistero, con al centro un eccentrico miliardario, che però non è ancora morto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Glass onion?

Daniel Craig, Kate Hudson, Madelyn Cline e Leslie Odom Jr. in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Per me, assolutamente sì.

Tuttavia, ci sono diverse mani da mettere avanti.

Anzitutto, ovviamente, se non vi è piaciuto Knives out, non guardate il sequel: non aspettatevi niente di diverso. Oltre a questo, Glass onion gioca ancora di più in maniera sperimentale con il genere whodunit, sostanzialmente snaturandolo. Per questo, se invece cercate le classiche dinamiche del genere, non è il film che fa per voi.

Invece se, come me, non siete particolarmente appassionati dei racconti di genere giallo, sopratutto nelle sue dinamiche che, pur indubbiamente vincenti, risultano ridondanti alla lunga per i non appassionati, potrebbe piacervi. E anche molto.

L’importante è partire con il giusto mindset.

Mantenere la ricetta…

Daniel Craig in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Glass onion gode di una grande furbizia di scrittura.

Rian Johnson si è trovato davanti all’impresa di dover portare un sequel ad un film autoconclusivo, non snaturando l’opera originale e creando un prodotto che fosse altrettanto avvincente per il pubblico che aveva apprezzato il primo film.

E così ha scelto di utilizzare uno scheletro narrativo piuttosto simile, ma esplorandolo in direzioni diverse e cambiando radicalmente la caratterizzazione di alcuni personaggi, che pure hanno un ruolo molto simile rispetto al primo capitolo.

Ed è stata una strada vincente, con risultati inaspettati.

…per uscire dal genere

Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Sopratutto alla seconda visione, mi sono resa conto di quanto la pellicola esca dai canoni del giallo whodunit.

Infatti, se il primo film complessivamente si poteva considerare un giallo classico, che poteva però infastidire gli appassionati per la profonda ironia e la mancanza di volontà di rimanere nel seminato, in questo caso possiamo felicemente parlare di un’uscita dal genere di riferimento.

Non ci sono colpi di scena che rivelano il vero colpevole, tutti gli indizi sono mostrati allo spettatore, e, nonostante in qualche misura sembri seguire le strade più classiche, sul finale rivela tutto il contrario.

In particolare tramite il gioco metanarrativo della glass onion.

Glass onion: un gioco metanarrativo

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Come per il primo Knives out, Glass onion è un film assolutamente democratico.

Infatti tutti gli indizi necessari per risolvere il mistero sono già in scena, e sono tanto più evidenti tanto più si entra nella logica metanarrativa della glass onion.

La pellicola gioca ampiamente con lo spettatore e con le sue aspettative: io stessa per tutta la durata mi aspettavo un grande colpo di scena finale che rivelasse chissà quali misteri. E invece, per ammissione dello stesso Blanc, il mistero è tanto semplice quanto stupido.

E infatti la questione si risolve su più livelli, per cui sia il mistero che Miles sono come una cipolla di vetro: apparentemente complessa e stratificata, in realtà evidente e sotto gli occhi di tutti. Lo stesso miliardario basa la sua identità su una serie di stratificazioni ingannevoli e fragili, mentre la sua vera natura è palese e insignificante.

Il simbolismo di Mona Lisa

Janelle Monáe in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Dal versante totalmente opposto, troviamo il personaggio di Helen, che viene più volte associato alla figura di Monna Lisa.

Infatti sia il suo personaggio che la misteriosa donna di Leonardo condividono una personalità e uno sguardo tanto più enigmatico e intrigante, e così anche per la sorella gemella: difficili da leggere e da comprendere. E ben più sottili e interessanti di quanto appaia all’esterno.

E infatti il dipinto di Mona Lisa è una sorta di simbolo di quello che Miles vorrebbe essere, e dell’immagine che cerca di costruirsi per diventare altrettanto intrigante e enigmatico. Ma, appunto, come la stessa glass onion rivela, non è nulla di tutto questo.

Un finale migliore

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline, Edward Norton in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

In prima battuta il finale mi aveva deluso.

Poi, ho capito di essere caduta nella mia stessa trappola: considerare questa pellicola per quello che non era, e aspettarmi delle dinamiche che non sono nella sua natura. E infatti, come molti altri come me, mi aspettavo un grande colpo di scena finale o una rivalsa più classica in cui il villain veniva incastrato.

E invece non è così, ma è meglio così.

Infatti, se ci si ragiona un attimo, Helen non avrebbe avuto nessun vantaggio ad incastrare Miles a livello legale: con le sue connessioni e con l’omertà diffusa, il miliardario se la sarebbe comunque cavata. Invece, riuscire a distruggere il suo impero dalle fondamenta, rivelarne tutta la sua fragilità, è la mossa perfetta per mettere davvero in scena una vendetta vincente.

Ancora attuali

Dave Bautista in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Anche più della scorsa pellicola, Glass onion riesce ad essere incredibilmente attuale.

Già l’idea di ambientarlo nel 2020 era intrigante, ma lo è stata tanto più in quanto non ci si è fossilizzati su questo elemento, che poteva già apparire datato. Al contrario, si dedica ampio spazio al discorso della cosiddetta woke culture e in generale degli scandali nati su internet.

Per fortuna il discorso non è banalizzato per nulla, anzi si mostra, senza raccontarlo esplicitamente, di come personaggi stupidi e fondamentalmente negativi giustifichino il loro comportamento sbagliato con quello che noi chiameremmo il politicamente corretto.

Un argomento tanto attuale, quanto raccontato in maniera interessante e quasi grottesca.

La delicatezza

Hugh Grant in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Il cameo di Hugh Grant merita un discorso a parte.

L’attore appare all’improvviso nella seconda parte della pellicola, e ci rivela un elemento del tutto inaspettato, ma raccontato con una tale delicatezza che non ho potuto smettere di pensarci. Nonostante Blanc non sia una macchietta né uno stereotipo – anzi non lo diresti mai – è in una relazione con un uomo.

Molti dovrebbero prendere spunto da come è stato introdotto questo elemento nella pellicola, senza feticizzarlo, senza drammatizzarlo, ma rendendolo un elemento assolutamente organico nella trama.

Tanto più che la rappresentazione di coppie omosessuali di uomini adulti più avanti con gli anni è quasi totalmente assente nel cinema contemporaneo…

Sherlock sei tu?

Con la preziosa collaborazione di Irene

All’interno della pellicola, non mancano i riferimenti a Sherlock Holmes.

Anzitutto nella scena del bagno in cui Blanc sta giocando ad Among us con i suoi colleghi, fa un discorso che riprende molto le mosse di Sherlock: come il famoso detective, il protagonista afferma di aver bisogno di casi interessanti per combattere la noia.

Questo elemento è presente sia nell’opera originale, sia nelle trasposizioni: nel romanzo per combattere la noia fa utilizzo di eroina, nella serie tv Sherlock utilizza i cerotti di nicotina.

Così anche nella stessa scena, nella vasca da bagno regna il disordine più totale: così al 221B Baker Street, nei romanzi come nei prodotti derivati, l’ambiente è dominato dal caos.

Più in generale, il personaggio di Blanc sembra un interessante incontro fra le versioni televisive e cinematografiche Poirot quanto di Sherlock.

Per le modalità dello svelamento del mistero e sopratutto la rivelazione del finto omicidio di Miles ricorda in particolare lo Sherlock di Benedict Cumberbatch nella serie omonima, che desidera svelare immediatamente le sue deduzioni, quasi per vanità…