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Triangle of sadness – Siamo tutti uguali

Triangle of sadness (2022) è l’ultima opera di Ruben Östlund, regista svedese che ha conquistato per la seconda volta la Palma d’Oro a Cannes, dopo averla già vinta col precedente The Square (2017).

Un film che è passato fondamentalmente sotto silenzio, e che in Italia si è cercato di vendere come un film molto divertente. In realtà è una pellicola devastante, e per diversi motivi. E non a caso, davanti ad un budget risicatissimo (13 milioni di euro), ha incassato comunque pochissimo: per ora, appena 7 milioni.

E non potrei essere meno sorpresa.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Triangle of sadness (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Di cosa parla Triangle of sadness?

Carl e Yaya sono due modelli, che si trovano a gestire la loro insidiosa relazione, sullo sfondo di una crociera di lusso che prende una piega inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Triangle of sadness?

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

È complicato.

Io di mio l’ho trovato un film davvero incredibile, fra i migliori usciti quest’anno. Ma, al di là del mio apprezzamento personale e del grande valore artistico e politico della pellicola, è potenzialmente una pellicola che molti potrebbero profondamente odiare.

Diciamo che se non riuscite a ritrovarvi in una humor nerissimo, che gioca moltissimo sulle battute paradossali e al limite dell’angosciante, potrebbe darvi solo fastidio. È un film da cui bisogna lasciarsi davvero rapire, con tutto il suo devastante significato.

Se vi sentite pronti, guardatelo.

Prologo

Harris Dickinson in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta conclusa la pellicola, la prima parte dedicata ai due apparenti protagonisti potrebbe apparire fondamentalmente inutile alla storia.

In realtà, tutta la prima parte, se la si guarda con attenzione, è un gigantesco foreshadowing del terzo atto del film. Infatti all’inizio Yaya racconta come la relazione con Carl non sia frutto dell’amore, ma di un rapporto di mutuo vantaggio.

Anche se non viene spiegato esplicitamente, è probabile che si intenda che, come Yaya ottenga maggiore attenzione potendo pubblicizzare la sua relazione con un bel ragazzo come Carl, così Carl possa vivere della luce di lei.

E così la ragazza racconta come l’unico modo in cui può uscire dal lavoro sfiancante del mondo della moda è quello di diventare una moglie trofeo per qualcun altro, idealmente Carl.

Così nel terzo atto Carl stesso diventa il marito trofeo di Abigail, sempre in una relazione non amorosa, ma di vantaggio: la donna può intrattenersi con un ragazzo piacente, mentre quello stesso ragazzo può avere un vantaggio sociale nella loro piccola comunità.

Incomprensione

Sunnyi Melles in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Uno degli elementi principali della pellicola è la totale incomprensione della classe sociale più agiata verso la realtà del mondo.

Il momento più agghiacciante in questo senso è quando Vera costringe tutto l’equipaggio della nave a scendere dallo scivolo della nave e a farsi un bagno.

Dal suo (apparente) punto di vista, in questo modo avviene una giocosa inversione dei ruoli. In realtà è solo una donna potente che ha fatto uso del suo potere per utilizzare i suoi sottoposti come preferisce.

Altrettanto graffiante la scena in cui la coppia anziana che vende bombe raccoglie candidamente la mina antiuomo, e la donna chiede

È una delle nostre?

A seguito di un dialogo anche più agghiacciante avvenuto prima fra la coppia e i due protagonisti, in cui i due raccontano candidamente e in maniera così paradossale da essere esilarante, di come i loro affari siano stati guastati dagli stupidi tentativi dell’ONU di evitare spargimenti di sangue.

Ma è un mondo fragile e illusorio.

Fragilità

Vicki Berlin Tarp, Dolly Earnshaw de Leon e Charlbi Dean Kriek in una scena di Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund, palma d'ora al Festival di Cannes 2022

Una volta sbarcati sull’isola, i sistemi della società si azzerano, principalmente per mano di Abigail. Infatti la donna, una volta pescato il polpo, si rende subito conto del valore del suo operato, e ne sfrutta tutto il vantaggio.

E, anche se Paula cerca immediatamente di ridimensionarla, i bisogni primari sono così pressanti che il nuovo ordine viene subito stabilito.

Ed è tanto più evidente da dove nasceva la scintilla di questa nuova idea quando Abigail si trova improvvisamente seduta su un piccolo tesoro di acqua e cibo tanto desiderato, e a malincuore (e pure ingiustamente) deve cederlo a chi non ha nessun motivo di averlo.

E questo porta anche ad un’interessante riflessione sulla fragilità della società capitalista: basta davvero così poco per stravolgerla e mettere di nuovo al primo posto chi di fatto porta un vero valore alla società?

A quanto pare, sì.

Angoscia

Come detto, se si riesce ad essere coinvolti con l’umorismo del film, può risultare incredibilmente divertente.

Io personalmente raramente mi sono divertita così tanto.

Tuttavia, è una risata angosciante, che ti fa ridere solo superficialmente, ma che, se si ragiona veramente sul significato dei dialoghi e delle scene, è incredibilmente angosciante – fra l’altro, con molto spesso una regia che gioca molto sul contrasto fra l’incredibilmente divertente e il drammaticamente devastante.

Due fra tutte: i discorsi surreali di Dimitry e del capitano Thomas, assolutamente spassosi che fanno però da sottofondo ad inquadrature particolarmente tragiche degli ospiti della nave impauriti.

Anche di più quando Dimitry discute concitato con Paola e Nelson accusando quest’ultimo di essere un pirata, mentre vediamo Theresa, una donna disabile che non ha più nessuno ad aiutarla, impotente nella scialuppa.

E la regia stessa spesso sacrifica la più basilare grammatica della messa in scena per farci immergere nei personaggi e nelle loro espressioni.

A volte inserendo degli effettivamente elementi di disturbo nella scena, che servono a sottolineare la drammaticità di fondo, come l’insopportabile mosca quando Carla e Yaya discutono sulla nave.

Una società di simboli

Molto interessante è stato rappresenta la società della ricca borghesia come basata su un sistema di simboli in cui viene dato un valore più di rappresentanza che economico.

Così i due ricconi, Dimitry e Jarmo, cercano di pagare il loro ingresso nella scialuppa offrendo orologi di lusso. Così Carl è particolarmente contento quando trova un profumo fra i detriti. E tanto più grottesco quando Dimitry ritrova il corpo della moglie e la cosa più importante è recuperare i gioielli dal suo cadavere.

Cosa succede nel finale di Triangle of Sadness?

Il finale di Triangle of sadness è molto ambiguo, ma la dinamica è del tutto chiara: mentre Yaya offre ad Abigail di diventare la sua assistente, la donna si rende conto di come uscire dalla piccola società che si è creata la depotenzierà, ma, soprattutto, la riporterà in un mondo ingiusto e castrante.

Per me quindi quel colpo è stato calato.

E per lo stesso motivo Carl, il personaggio più vicino a comprendere il dramma di Abigail, alla fine sta forse cercando di correre in aiuto alla fidanzata. Oppure alla donna prima che abbia un risvolto violento.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia nera Drammatico Film Giallo Horror Humor Nero Scream - Il secondo rilancio Scream Saga Thriller

Scream 5 – Just another requel

Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett rappresenta il secondo e più recente rilancio della saga omonima, presa in mano da due giovani registi emergenti, dopo la triste dipartita di Wes Craven.

Una riproposizione del brand che, nonostante poche e contenute sbavature, riesce a riportare in scena un cult ormai nato quasi 30 anni fa e che è sempre riuscito a riproporsi e ad adattarsi ai nuovi tempi.

E con Scream 5 lo fa quasi con la stessa freschezza di Scream 4 (2011).

Tuttavia, in questo caso fu anche un successo commerciale: con un budget molto più contenuto del precedente (21 milioni contro 40 milioni di dollari) e con un incasso anch’esso contenuto, tuttavia portando complessivamente ad un film molto redditizio: 140 milioni dollari in tutto il mondo.

E infatti è già pronto il sequel, Scream 6 (2023).

Di cosa parla Scream 5?

Dopo 30 anni dall’inizio della scia di sangue di Woodsboro, la saga ricomincia nella stessa città, con questa volta due nuove protagoniste, Tara e Sam, perseguitate dal loro passato legato agli eventi del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 5?

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì.

Scream 5 è un fresco e piacevole rilancio della saga, riuscendo ad adeguarsi ai nuovi gusti, ma mantenendo gli schemi classici dell’horror slasher e della saga in generale. La grande novità della pellicola è che, a differenza degli altri film, dove di solito si instaurava un dialogo metanarrativo con il film stesso, in questo caso il dialogo è con lo spettatore.

Una bella scelta che riesce a rinnovare la colonna portante della saga.

Inoltre gli elementi degli scorsi film sono utilizzati con maggiore consapevolezza e capacità, in maniera pure superiore a Scream 4, che comunque io avevo apprezzato, ma che forse come punto debole aveva proprio il rimettere troppo in scena i vecchi personaggi.

Qui è tutto perfettamente equilibrato.

Un nuovo horror

Jenna Ortega in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Ask me about Hereditary! Ask me about It follows!

Chiedimi di Hereditary! Chiedimi di It follows!

Il primo passo che il film doveva fare era riuscire a rimettersi in contatto con il nuovo pubblico e il nuovo gusto in fatto di horror. Non essendo fan dell’horror mainstream contemporaneo e quindi conoscendone poco, avevo paura di rimanere spaesata.

E invece il film ha voluto sorprendermi.

Quando a Tara nella prima scena viene chiesto quale sia il suo film horror preferito, lei risponde molto candidamente Babadook (2014), elogiando anche la profondità del racconto e della trama. E così dopo continua citando altro horror autoriale come The Witch (2015), Hereditary (2018) e It follows (2014).

Così si racconta un panorama del cinema horror davvero mutato, dove i film autoriali non sono più così tanto di nicchia, ma riescono anzi ad incontrare il gusto di un pubblico più ampio, e in generale ad essere elogiati, come viene fatto anche nel film.

Una scelta davvero azzeccata.

Dialogare col pubblico

Jack Quaid in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Real Stab movies are meta slasher whodunits, full stop

Un vero film di Stab è uno slasher metanarrativo di stampo giallo, fine.

Come anticipato, la grande novità del film è il dialogo fra il film e il pubblico.

Il punto centrale del film è come gli stessi registi fossero consapevoli che ci sarebbero state molte critiche nei confronti della loro pellicola da parte dei nostalgici, che avrebbero voluto rivedere una riproposizione della trilogia originale.

E infatti questa è la tendenza generale di molte riproposizioni di cult (horror e non), fra cui l’esempio più evidente è sicuramente Halloween, che utilizza ancora schemi narrativi dei primi slasher, gli stessi che Scream derideva negli Anni Novanta.

E gli stessi killer infatti sono dei fan incalliti di Stab, che vogliono creare una storia vera da utilizzare per un sequel degno di questo nome.

Anche se in certi momenti risulta eccessivo da questo punto di vista, è davvero interessante includere nel film un discorso così vero e attuale, anticipando appunto le stesse critiche del film, anche a fronte dell’insuccesso di Scream 4, che era molto innovativo rispetto all’originale.

La regola del prevedibile

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Uno dei punti forti del primo Scream era la sua prevedibilità.

Davanti ad un pubblico abituato all’idea che il killer non è mai la persona più prevedibile, Scream scelse come uno dei killer proprio la persona più prevedibile. In Scream 5 praticamente dall’inizio sentiamo la soluzione del mistero dalla bocca di Dwight:

Never trust love interest

Mai fidarsi del proprio fidanzato

e infatti uno dei killer è Richie, il ragazzo di Sam, come fra l’altro le sottolinea proprio nel momento della sua rivelazione. Fra l’altro scelta eccellente castare un attore come Jack Quaid, conosciuto in questo periodo soprattutto per il suo remissivo personaggio di Hughie in The Boys.

E sempre Dwight aggiunge:

The first victim always has a friend group that the killer is a part of

La prima vittima ha sempre un gruppo di amici di cui il killer fa parte

E infatti l’altro killer è Amber, che sembra anche il personaggio che, paradossalmente, più si preoccupa della salute di Tara.

Inserire l’originale con il nuovo

Melissa Barrera in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Come detto, Scream 5 riesce in maniera pure migliore di Scream 4 ad aggiornare effettivamente le protagoniste del film, che sono davvero al centro della scena e della storia.

Mi è piaciuta particolarmente Tara: Jenna Ortega, non comunque alla sua prima esperienza e pronta ad esplodere con la prossima serie tv Wednesday, è riuscita a portare in scena in maniera davvero convincente tutto il dolore fisico e reale del suo personaggio.

Mi ha leggermente meno convinto il personaggio di Sam, che viaggia pericolosamente sul filo del trash: il fatto che veda il padre Billy Loomis che la incita a fare quello che fa nel finale, dove sfoga la sua furia omicida, è un elemento che potrebbe facilmente sfuggire di mano, sopratutto in un sequel.

Ben organico invece l’inserimento di Sidney e Gale, che sono solo delle spalle dei protagonisti che riescono ad arricchire il racconto e ad aiutare i personaggi a risolvere il mistero con la loro esperienza passata, ma senza mai rubare la scena alle protagoniste.

Ed era ora di passare la fiaccola.

Una nuova regia

Marley Shelton in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

La regia di Scream 5 mi ha piacevolmente sorpreso.

Uno degli elementi più piacevoli della saga è sempre stata la regia molto ispirata e con non pochi guizzi, fin da Scream (1996). E uno degli elementi più importanti da gestire sono sempre state le morti e la violenza, riuscendo sempre a renderle spettacolari e quasi artistiche.

Altrettanto bene riesce questa coppia di autori a portare una regia interessante e con non pochi momenti di rara eleganza. Anzitutto, l’uso del sangue, che ho trovato veramente magistrale, andando non poche volte a creare quasi dei quadri grotteschi e drammaticamente splendidi da osservare.

Ma la sequenza che mi ha davvero colpito è stata quella riguardante la morte di Judy e del figlio Wes. La genialità nasce quando al telefono Ghostface dice alla donna

Ever seen the movie Psycho?

Hai mai visto Psycho?

e poi si stacca con un’inquadratura eloquente sulla doccia che si sta facendo Wes, che è una delle inquadrature iconiche della famosa scena della doccia di Psycho (1960), appunto. Fra l’altro, come viene anche raccontato in Scream 4, il capolavoro di Hitchcock è considerato fra i capostipiti del genere slasher.

E si prosegue con una lunghissima sequenza in cui la camera gioca continuamente con lo spettatore, con Wes che apre e chiude infiniti sportelli dietro ai quali ci aspetteremmo di vedere il killer che sappiamo essere in casa.

Puoi essere più metanarrativo di così?

Ghostface in una scena di Scream 5 (2022) di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett

Stop fucking up my ending

Basta rovinare il mio finale

Nonostante non sia l’elemento principale, la metanarrativa e la consapevolezza dei protagonisti degli schemi del film stesso che stanno vivendo è presente, e pure fatta bene.

L’unica sbavatura che mi sento di segnalare è che tutto questo elemento avrebbe dovuto essere nelle mani di Mindy, la quale da un certo punto in poi prende le redini di questo discorso come erede spirituale di Randy.

E infatti è la stessa che diventa la protagonista della scena più metanarrativa del film: Mindy che grida a Randy in Stab di girarsi che ha il killer alle spalle, mentre lo stesso grida la medesima cosa a Jamie Lee Curtis in Halloween, mentre Mindy stessa ha alle spalle il killer.

Ed è la stessa che anche racconta la questione dei requel, ovvero di remakesequel che effettivamente abbondano in questo periodo e che, in un certo senso è pure Scream 5. E quando siamo alle porte del terzo atto, ovvero quello della rivelazione, Mindy istruisce Amber di cosa non fare per non essere uccisa dal killer, con anche diversi finti colpi di scena sull’identità del killer.

Con la stessa Amber che annuncia l’inizio dell’ultimo atto del film:

Welcome to act three

Benvenuti nel terzo atto
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Scream 4 – Now streaming

Scream 4 (2011) è il quarto capitolo della saga omonima, arrivato a più di dieci anni di distanza da Scream 3, che chiude la trilogia originale.

L’ultimo film del compianto Wes Craven, che ci ha lasciato in eredità un prodotto che non solo era al passo coi tempi, ma che anticipava alcune dinamiche della società stessa.

Questo film ebbe un budget abbastanza sostanzioso (40 milioni), ma non ebbe il grande riscontro che ci si aspettava, con solo 97 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Scream 4?

A dieci anni dalle vicende di Scream 3, si torna a Woodsboro, con un cast di protagonisti rinnovato, che rappresentano la nuova generazione. Fra queste anche la cugina di Sidney, Jill, che dovrà cercare di riappacificarsi con la famosa parente, mentre la scia di omicidi sembra di nuovo prendere piede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 4?

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, Scream 4 è il miglior film della saga, secondo solamente al primo capitolo.

Riesce con grande freschezza a riportare in scena le dinamiche tipiche fin dal primo film, riuscendo ad aggiornarle al nuovo decennio, con anche delle grandi novità che rompono gli schemi classici.

Un film dove l’elemento horror diventa quasi comico a suo modo, mettendosi in linea con l’horror più violento che andava di moda in quel periodo, ovvero quello della saga di Saw, che al tempo ancora furoreggiava (e che infatti è pure citata nel film). Ma senza mai scadere nel torture porn.

Insomma, da recuperare assolutamente.

Questo inizio ha troppi livelli

Lucy Hale in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You gotta have an opening sequence that blows the door off

La sequenza iniziale deve essere qualcosa di incredibile

L’inizio di Scream 4 credo che sia una delle cose più geniali mai concepite nel cinema horror.

Si comincia con un inizio che sembra l’effettivo inizio del film, in cui fra l’altro la pellicola si mette in linea con tutte le novità sia del genere, sia della società di dieci anni dopo: Facebook, i cellulari, le nuove saghe di successo come Saw.

Ed è la classica sequenza iniziale in cui le due ragazze in casa da sole sono le prime vittime di Ghostface (o di qualsiasi altro killer in uno slasher).

Tuttavia, il film ci catapulta in un altro inizio, che sembra ancora quello vero, con una coppia di ragazze che stava vedendo Stab 6, andando poi a screditarne la validità, perché banale e ripetitivo. Ma una delle due difende la saga per essere diversa dal solito che esce, e a sorpresa accoltella l’amica perché parla troppo.

E questo è l’inizio di Stab 7.

E poi si arriva all’effetto inizio del film che è di fatto quello che sembrava l’inizio all’inizio, in un meraviglioso cortocircuito mentale che ho semplicemente adorato.

Essere drammaticamente attuali

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

The killer should be filming the murders

Il killer dovrebbe filmare i suoi omicidi

La grande novità di questa pellicola è l’idea che il killer ora sia sostanzialmente un vlogger, quando questa era ancora una realtà emergente nella nascente cultura di internet e dei social.

Oltre ad essere un elemento di grande freschezza, che raggiunge un interessante apice nel finale, è una questione drammaticamente attuale anche oggi: senza andare a scavare troppo nel torbido, sappiate solo che, in tempi recenti, dei terroristi hanno fatto cose simili.

Ma più in generale, quello che al tempo sembrava una cosa strana o comunque molto nuova, è diventata quasi la quotidianità nel nostro tempo, anche prendendo strade diverse, con vlogger che spopolano su TikTok.

In questo senso, da capogiro lo scambio fra Sidney e Robbie:

– You film your entire high school experience and what, post it on the net?
– Everybody’ll doing it someday, Sid.

Registri la tua intera vita del liceo e poi che fai, lo posti su internet? – Tutti lo faranno in futuro, Sid.

Vecchi moventi, nuovi moventi

Emma Roberts in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You have your 15 minutes, now I want mine!

Hai avuto il tuo momento di gloria, ora è il mio turno!

La genialità del finale sta nel fatto di riprendere un movente simile del primo Scream, ma al contempo riuscendo a renderlo molto più attuale per il suo tempo. Nel primo film la vera radice del movente era la vendetta personale, in questo caso è l’invidia e il desiderio di essere al centro della scena.

Un sentimento tanto più comprensibile oggi, quando la popolarità sembra sempre dietro l’angolo e a portata di mano, tanto è semplice prendere in mano un cellulare e diventare, anche solo per poco tempo, famosi sui social.

In questo caso eravamo ancora all’inizio di questa ubriacatura di popolarità, ma non di meno questo sentimento esisteva.

Come infatti dice la stessa Jill:

We all live in public now, we’re all on the internet

Siamo tutti esposti oggi, siamo tutti su internet

Saper funzionare, 10 anni dopo

Una scena di Stab in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You forgot the first rule of remakes, Jill. Don’t fuck with the original.

Hai dimenticato la regola più importante dei remake, Jill. Non puoi fottere l’originale

Un elemento che mi ha sempre dato da pensare di Scream è il personaggio di Sidney e in generale la volontà di creare una storia tutta in continuità, con il rischio di fare gli stessi errori della saga di Saw, che è andata inutilmente ad incartarsi. E, anche per questo, avevo paura di trovarmi davanti ad una trama ripetitiva.

Ovviamente, non potevo più sbagliarmi.

Sidney è un personaggio che funziona sempre, proprio perché è un personaggio femminile che funziona e che non ricade nella dinamica da Mary Sue. È una giovane donna con tante fragilità, ma che sa sempre rimettersi in piedi, affermare la sua posizione e lottare senza mai arrendersi contro Ghostface.

E in una maniera sempre credibile.

La violenza comica

The kills gotta be way more extreme

Le uccisioni devono essere molto più estreme

Le morti nel film sono tanto estreme da diventare quasi comiche per la loro originalità: abbiamo i poliziotti uccisi con un coltello piantato nel cervello, una ragazza con le budella fuori, tantissimo sangue, fino ad arrivare alla mia preferita:

La madre di Jill uccisa alle spalle col coltello che passa attraverso la buca delle lettere.

Ed è proprio una risposta ad un tipo di cinema e di violenta orrorifica inaugurata proprio da Saw, che fra l’altro non sono mai riuscita ad apprezzare. E infatti non potrei più essere d’accordo con quello che si dice all’inizio del film:

It’s not scary, it’s gross. I hate all that torture porn shit.

Non fa paura, è imbarazzante. Odio tutto quella merda di torture porn.

Il casting pazzesco di Scream 4

Una delle cose che più mi hanno sorpreso è quanto siano riusciti a castare praticamente tutti gli attori più famosi e popolari delle serie tv e film mainstream dall’inizio degli Anni 2000 fino circa a metà del decennio successivo.

Anzitutto Lucy Hale, che interpreta una delle due ragazze di Stab 6, e che era appena sbocciata come star per Pretty Little Liars. Poi Kristen Bell, la voce di Gossip Girl fino al 2011 e che interpreta una delle due ragazze in Stab 7.

Fra le protagoniste, Hayden Panettiere, che interpreta Kirby, che io ricordo soprattutto per Malcolm in the middle, ma che al tempo era molto conosciuta per la serie Heroes. E poi ovviamente Emma Roberts, che bivacchiava fra molti prodotti teen di secondo livello come Wild Child (2008).

Nota di merito anche alla presenza di Adam Brody, attore amatissimo al tempo per O.C. e che qui interpreta uno dei poliziotti, oltre a Rory Culkin, fratello del ben più famoso Macaulay Culkin, che qui interpreta Charlie, uno dei due Ghostface.

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Scream 3 – Una rara conclusione

Scream 3 (2000) di Wes Craven è il terzo capitolo della saga omonima, che chiude quella che potremmo chiamare la trilogia originale, che venne poi ripresa nel 2011 con Scream 4 e poi ancora nel 2022 con Scream 5.

Il capitolo che, insieme al successivo, ebbe il maggiore budget della saga: ben 40 milioni, ben ricompensato da un incasso complessivo di 161 milioni di dollari.

Di cosa parla Scream 3?

Dopo gli avvenimenti del precedente film, Sidney vive in una vita appartata, nascosta da tutti, per paura di essere di nuovo presa di mira da Ghostface. Tuttavia l’incubo non è finito, con anche la scoperta del passato misterioso della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=tyABaaJCRRs&ab_channel=GhostfaceItalia

Vale la pena di vedere Scream 3?

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, il terzo capitolo di Scream è anche più interessante del precedente, con una costruzione più mirata e pensata, che è riuscita ad evitare un importante scivolone nel trash, pur esplorando il topos piuttosto tipico di scoperta del passato oscuro dei personaggi, che invece ha una risoluzione semplice ma efficace.

Un film che gioca veramente tanto con lo spettatore e con le sue aspettative, creando un fantastico dialogo metanarrativo fra i personaggi in scena e il film stesso, con un buon esempio di chiusura di una trilogia con poche sbavature.

Insomma, se vi è piaciuto Scream finora, non ve lo potete perdere.

Dialogare con il film

Liev Schreiber in scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Il tratto metanarrativo di Scream 3 si arricchisce con un elemento nuovo: i personaggi che sembrano dialogare con i creatori stessi del film, tanto più quando sono i personaggi di Stab 3, con un cortocircuito mentale di grande eleganza e genialità.

Si comincia subito con la battuta di Cotton

Why can’t these guys write me a fucking decent part?

Perché non sono capaci di scrivermi una parte decente?

facendo riferimento narrativamente a Stab 3, ma in realtà metanarrativamente proprio al suo ruolo in Scream 2 quanto nel terzo capitolo: nel film precedente era alla stregua del comico-grottesco, mentre in questo capitolo è una delle prime vittime.

Jenny McCarthy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

Così Sarah, che nel film interpreta Candy, la classica vittima dei film horror di serie b, e che infatti dice:

I’m Candy, the chick the gets killed second

Sono Candy, la sgallettata che viene uccisa per seconda

e infatti è la seconda vittima. Così anche il Detective Kincaid, che fa riferimento a come i killer di solito diano la caccia ai poliziotti che indagano sui loro casi.

Usually one cop makes it

Di solito uno dei poliziotti sopravvive

dice quasi un po’ con speranza. E nel finale rischia non poco di non essere così fortunato.

Il pericolo del trash

Jamie Kennedy in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

The past will come back to bite you in the ass

Il passato si ritorcerà contro di te

Un grande pericolo che ho percepito, soprattutto nella sequenza della cassetta di Randy, era il rischio che volessero strafare, e quindi di ricadere nel trash più putrido. Secondo le sue stesse parole, il terzo film di una saga horror è raro che venga prodotto.

Ma, quando succede, è un film con i fuochi d’artificio.

In particolare l’elemento più pericoloso era l’idea di indagare il passato della madre di Sidney, che poteva scadere nelle più terrificanti dinamiche da soap opera. Invece si è scelto di raccontare una backstory abbastanza semplice e credibile, in cui semplicemente la madre era un’aspirante attrice divenuta vittima delle ben note dinamiche di sfruttamento sessuale di Hollywood.

Il topos del killer imbattibile

Ghostface in una scena di Scream 3 (2000) di Wes Craven

You’ve got a killer who’s gonna be superhuman

Il killer è come un super umano

È tremendamente attuale il racconto che Scream 3 fa del topos del killer imbattibile: basti solo pensare che la questione è diventata quasi un meme per il personaggio di Michael Myers nella nuova trilogia di Halloween, dove torna sempre in vita, nella maniera più ridicola e incredibile che potete immaginare.

E senza voler essere divertenti.

In questo caso effettivamente il killer sembra effettivamente imbattibile, ma c’è una giusta ragione: si è attrezzato con una tuta antiproiettile. Tuttavia, una volta scoperto, basta semplicemente sparargli alla testa per riuscire effettivamente a batterlo.

Anche se comunque, in maniera ovviamente comica, Ghostface torna in vita.

Il buon finale per Sidney

Anyone, including the main character, can die

Chiunque, compreso il personaggio principale, può morire

Per mettere un po’ di pepe alla narrazione, all’interno del film si nomina la possibilità che la protagonista, la scream queen, possa effettivamente rischiare la vita e perdere del tutto la plot-armor che la definisce.

Ed infatti sembra che Sidney rischi più volte la vita, e, ad un certo punto, sembra davvero morta, ma utilizza lo stesso trucco del killer: si è protetta con la tuta antiproiettile ed effettivamente scompare dopo che è sembrato essere morta, cogliendo contropiede il killer stesso.

Una scelta che ho trovato veramente geniale.

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Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

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Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…

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Do Revenge – L’adolescenza a mille

Do Revenge (2022) è un teen movie recentemente uscito su Netflix, per la regia di Jennifer Kaytin Robinson, che ricordiamo con piacere (?) per essere stata alla sceneggiatura del recente Thor: Love & Thunder (2022). Un film che mi era stato consigliato e che avevo guardato in prima battuta con grande superficialità.

Tuttavia, andando avanti, mi sono resa conto di quanti spunti di riflessione offrisse.

Così l’ho visto una seconda volta.

Di cosa parla Do Revenge?

Drea è una ragazza al penultimo anno di una high school privata e prestigiosa, in cui è entrata grazie ad una borsa di studio. Nonostante faccia parte del gruppo dei ragazzi più popolari (e ricchi) della scuola, la sua vita viene rovinata dalla diffusione di un suo video intimo, probabilmente per mano del suo ex-ragazzo.

Per questo, con la complicità della nuova arrivata, Eleanor, decide di vendicarsi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Do Revenge?

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Non fatevi (del tutto) frenare dal fatto che si tratti di un teen movie e dal fatto che appaia potenzialmente molto trash: è indubbio che faccia parte di quel genere, ma non raggiunge mai picchi di narrazione scadente ed esagerata. Personalmente io sono un’amante del genere, ma mi rendo anche conto che, essendo uscita ormai da un pezzo da quella fase della mia vita, questi film spesso non parlino più la mia lingua.

Tuttavia, questo succede quando un teen movie non ha altro da aggiungere alla trama se non una semplice crescita dei protagonisti, tipicamente con focus sulle dinamiche amorose. In una scala di gravità, mettiamo al punto più alto prodotti come Tutte le volte che ho scritto ti amo (2018), nel mezzo film anche piacevoli come Love, Simon (2018), nel punto più lontano capolavori di genere come Mean Girls (2004).

Poi c’è Do Revenge.

Quando i teen movie sono godibili anche se non sei teen

L’ostacolo che pongono i teen movie solitamente è che non sono pensati solamente per un pubblico di adolescenti, con un linguaggio cinematografico e generazionale che può essere facilmente incomprensibile nel caso in cui si faccia parte di quella generazione.

Quindi sono anche prodotti con una data di scadenza: senza niente togliere a chi sia piaciuto, il già citato Tutte le volte che ho scritto ti amo probabilmente non sarà considerato dalla prossima generazione ed è talmente un prodotto usa-e-getta ancorato al suo genere di appartenenza è difficile che sia apprezzato al di fuori del target di riferimento.

Al contrario abbiamo prodotti come Mean Girl per gli Anni Duemila e Clueless (1995) per gli Anni Novanta che sono dei cult intramontabili, assolutamente apprezzabili anche oggi.

Perchè sono prodotti non del tutto legati al loro genere, che riescono a raccontare dinamiche intergenerazionali, e a mischiarsi con altri generi cinematografici. Come Mean Girl aveva un taglio surreale e quasi grottesco, Clueless è una brillante riproposizione del romanzo Emma di Jane Austen.

Do Revenge, senza poter raggiungere quelle vette, riesce comunque a raccontare tematiche profonde e anche impegnative, come la difficoltà del coming out, il classismo, il sessismo sotterraneo, e via dicendo. Questo, riuscendo anche a incontrarsi quasi con il genere thriller.

Un film che non manca di ingenuità, ma che vale la pena di recuperare.

Anche se non vi piacciono i teen movie.

Un uomo, un harem

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

La parte forse più interessante della pellicola è il villain maschile, ovvero Max.

Max è una sorta di Regina George, che però ha il grande merito di raccontare il nuovo gusto estetico di questa generazione. Si può notare infatti come abbia un abbigliamento vagamente queer: gli orecchini, lo smalto alle unghie, le camicie ampie che lasciano scoperto il petto glabro.

Un tipo di estetica che è nata recentemente intorno a personaggi come Harry Styles e Timothée Chalamet, che raccontano un maschile che riesce finalmente a liberarsi di opprimenti stereotipi sociali. E che si sente di sperimentare con abbigliamenti stereotipicamente attribuiti all’altro sesso.

Senza che per questo sia additato come meno maschile, appunto.

Il sessimo in Do Revenge

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Oltre a questo, Max è un villain davvero interessante perchè racconta una dinamica drammaticamente reale, ovvero quella di un’uomo che, avendone le possibilità, si attornia di donne che utilizza come oggetti, unicamente per accrescere il suo ego.

E la rivelazione finale è significativa in questo senso: Max ha rovinato con odio e cattiveria la vita di Drea semplicemente perchè lei non era stata evidentemente grata nei suoi confronti per averla resa importante.

Si vede che c’è anche una dinamica simile per esempio con Tara, l’ex migliore amica della protagonista, il cui padre è aiutato da Max nella sua carriera al senato. E la stessa, nonostante si senta in colpa per aver escluso Drea, supporta continuamente Max, anche quando si dimostra un evidente traditore.

La difficoltà di raccontare personaggi queer

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il personaggio di Nora è interessante quanto problematico.

Da una parte è lodevole veder raccontare, in un prodotto comunque pensato per un target molto giovane, la difficoltà del coming out per un adolescente queer e l’omofobia sotterranea che deve sopportare. La storia di Nora è particolarmente drammatica: era riuscita a dichiararsi alla sua ragazza dei sogni, di cui era evidentemente innamorata, ed è stata non solo respinta, ma sotterrata da un pesantissimo pettegolezzo.

Questo aveva fra l’altro fatto ritornare la sua fidanzata, Carissa, nello stanzino, ovvero rendendola incapace di vivere serenamente la sua sessualità. E così Nora si incattivita, si è chiusa in se stessa, sentendosi (ed essendo effettivamente percepita) come un’intoccabile, arrivando pure a sottoporsi alla chirurgia estetica in giovanissima età.

Ed è ancora più insicura per l’omofobia sotterranea che serpeggia nel suo ambiente sociale, già solamente per come Drea definisce Carissa, abbastanza con disprezzo ed etichettandola come

That crunchy granola lesbian

Quella lesbica hippie

Gli stereotipi di Do Revenge

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il problema tuttavia rimane per come Nora e gli altri personaggi femminili queer vengono rappresentati, ovvero come diversi dagli altri, o trasandati (come Nora prima del makeover) oppure associati ad una estetica da tomboy. Una rappresentazione che ho idea che non sia stata fatta con malizia, ma con sincera ingenuità, ma che è comunque un grave errore all’interno di un prodotto con questi propositi.

Il problema del classismo

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un altro macrotema della pellicola è il classismo che strozza la società americana.

Nella società statunitense è veramente difficile emergere se non si hanno i soldi per farlo, anzi è un paese con una mobilità sociale piuttosto bassa. Per questo Drea si prende sulle spalle l’impegno di sopravvivere l’ultimo anno in un contesto che è diventato per lei l’inferno, perchè è l’unico modo in cui può entrare in una università importante e così costruirsi una vita migliore.

Perchè lei, provenendo da una famiglia non abbiente, non riesce ad entrare così facilmente come le sue amiche che, grazie ai soldi e alla loro posizione sociale, corrono in una corsia prioritaria.

Svelare l’ipocrisia

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Ad oggi le maggiori aziende non cercano più di convincerti sulla qualità del prodotto, ma sui valori dell’azienda stessa. Così funziona per certi versi anche col personal brand, elemento centrale del personaggio di Max.

Un ragazzo che è in realtà incredibilmente egocentrico, sessista e che usa ed oggettifica le donne, ma che vuole vendersi come invece progressista. Così per l’improbabile club dei CIS Hetero Man Championship Female Idenfying Student League (non significa fondamentalmente nulla), con l’idea di portare un San Valentino più inclusivo e scardinare l’idea delle relazioni monogame.

Concetti che sono di per sè anche giusti, ma che vengono dalla bocca di una persona che è appunto a parole in un modo, ma che nella realtà (come si vede alla fine) non ha alcun rispetto per le donne nè crede in nessuno di questi concetti che propone.

L’elemento thriller

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un elemento davvero gustoso della pellicola è il taglio thriller sul finale.

La rivelazione di per sè non annulla la costruzione del personaggio di Nora, che comunque rimane una ragazza con tante difficoltà nel trovarsi le giuste amicizie e a relazionarsi con gli altri. Cosa che fra l’altro la rende così violenta e macchinatrice, come si era mostrata fin dall’inizio.

Ed è esilarante la scena in cui aspetta Drea a casa come se fosse proprio un serial killer che aspetta la sua vittima, scena fra l’altro che è stata retta benissimo sulle spalle di Maya Hawke: in mano ad un’altra interprete meno capace, la stessa sequenza sarebbe risultata inevitabilmente ridicola.

Tuttavia, andando a portare questo elemento così forte come plot-twist, si rende leggermente meno credibile la riconciliazione finale fra le protagoniste, che sono di fatto ridimensionate nella loro cattiveria perchè riescono a confrontarsi e perchè si mettono contro con un personaggio indubbiamente negativo e per nulla pentito delle sue azioni.

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Il capo perfetto – Essere l’eroe della storia

Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa è una commedia amara uscita lo scorso anno e che ha avuto un discreto riscontro anche in Italia. Io inizialmente mi sentivo poco attirata da questa pellicola, perchè avevo paura che fosse la classica commedia dei buoni sentimenti. Mi aspettavo infatti una storia riguardo al capo di una piccola azienda che avrebbe dovuto gestire drammaticamente le disgrazie dei suoi dipendenti, con magari un finale consolatorio.

Non avrei potuto sbagliarmi di più.

Il budget non è noto, ma, nonostante la presenza di una star come Javier Bardem, probabilmente sarà stato molto risicato. E ha avuto anche un incasso piuttosto ridotto, di appena 7 milioni.

Di cosa parla Il capo perfetto?

Julio Blanco è a capo dell’azienda di bilance ereditata dal padre. Nonostante all’esterno sembri una persona specchiata, che tiene ai suoi dipendenti come se fossero i suoi figli, in realtà rivela subito la sua natura subdola e meschina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè Il capo perfetto è un film da recuperare

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il capo perfetto è una commedia assolutamente irresistibile, il cui l’umorismo si basa proprio su come lo spettatore oscilla fra l’essere coinvolto dalle terribili azioni del protagonista, quanto spinto dalla volontà di vederlo punito per le stesse. La comicità è tanto più incalzante quanto più le sue azioni si spingono al limite (e oltre).

Un’ottima pellicola che ha l’ardore di portare in scena un protagonista assolutamente negativo, senza banalizzarlo, anzi creando una sensazione di tridimensionalità per nulla scontata in un prodotto del genere.

Un film da recuperare, senza dubbio.

E da recuperare in lingua originale, possibilmente.

Javier Bardem: che sorpresa!

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Ammetto di non aver seguito tanto da vicino la carriera di questo attore, apprezzandone comunque di volta in volta le sue interpretazioni. Ma sicuramente non l’avevo mai visto recitare nella sua lingua madre e sopratutto in un ruolo comico-grottesco come in questo caso.

E sono rimasta stregata.

Barden riesce a portare in scena un personaggio incredibile, molto più profondo e interessante di quanto potrebbe sembrare sulle prime, sulla scorta di un’incredibile capacità espressiva che si adatta alle diverse situazioni e scene, oltre che i ruoli che interpreta.

Un personaggio che ti viene da respingere ma che al contempo anche ti appassiona sinceramente, non riuscendo a tifare per lui perchè è troppo respingente e freddo, ma al contempo l’eccesso della sua meschinità è tremendamente appassionante.

Essere gli eroi della nostra storia

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il film lavora su un interessante concetto psicologico, ovvero quello per cui ci sentiamo i protagonisti della nostra storia, nonchè gli eroi. Raramente nella nostra vita riusciremo ad ammettere effettivamente di essere in torto e di non aver avuto delle buone ragioni o delle motivazioni circostanziali che ci hanno spinto a determinate azioni.

Così ci sentiamo sempre i buoni della situazione.

Anche in questo caso, in un toccante monologo verso il finale, Blanco ammette candidamente e anche in maniera piuttosto sconsolata che si comporta così perchè effettivamente spinto a proteggere la sua azienda, in tutti i modi possibili.

Anche se questo significa ricadere nei più classici vizi del capo: mancanza di empatia, nepotismo, avances inappropriate verso i dipendenti, oltre che allo sfruttamento di una potente rete di conoscenze politiche.

Il significato del finale

Almudena Amor in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il finale ha una drammaticità inaspettata, ben raccontata dall’incontro con la Commissione come una scena estremamente luminosa e patinata. Ma noi, dopo aver vissuto una settimana nell’azienda, sappiamo cosa nasconde questa apparente scena idilliaca.

Di fatto, quella di Blanco è stata una gara di meschinità, in cui è dovuto sottomettersi ad una persona anche più meschina di lui, ovvero Lilliana, che si vendica nei suoi confronti per ottenere quello che vuole. Ma, visto il comportamento terrificante di Blanco nei suoi riguardi, non possiamo che essere un pochino dalla sua parte…

Il capo perfetto

Allo stesso modo il licenziamento di Miralles non arriva pacificamente nè racconta un tipo di maturazione di fatto dovuta del personaggio. Semplicemente Blanco vuole infine liberarsi di un personaggio che sta portando danno alla sua azienda, e che infine rivela tutta la falsità del loro rapporto: non sono mai stati veramente amici, ma Miralles è sempre stato un suo sottoposto.

E anche in questo caso Blanco lo vince con la sua meschinità e furbizia, che l’altro evidentemente non possiede.

Ma il finale veramente amaro è quello con Fortuna, il padre di Salva, il ragazzo che muore proprio per colpa di Blanco. La situazione che si crea è l’esempio massimo della pochezza d’animo del protagonista: con il suo tentativo di uccidere il suo ex dipendente fastidioso, fa perdere la vita ad un ragazzo già invischiato in traffici poco puliti. Lo stesso che aveva promesso di riportare sulla giusta vita.

E persino a quel punto non può non commuoversi, sentendo, forse per la prima volta, il peso delle sue scelte.

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Il sorpasso – Il dramma del boom

Il Sorpasso (1962) di Dino Risi è un film che si inserisce nel cosiddetto genere della commedia del boom.

Un filone che si sviluppò fra la metà degli Anni Cinquanta e Sessanta per raccontare il fenomeno economico-sociale del Boom Economico che travolse, fra gli altri, anche l’Italia.

E fu anche un enorme successo commerciale: nonostante una timida apertura, la pellicola godette di un ottimo passaparola, diventando il prodotto di maggior successo in Italia quell’anno.

Di cosa parla Il sorpasso?

Roberto è un timido studente di legge, che si trova da solo a studiare durante la giornata di Ferragosto a Roma. Viene coinvolto in un viaggio improvviso e travolgente da Bruno, un uomo conosciuto proprio quella mattina.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Il Sorpasso è un film imperdibile

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso è una perla della cinematografia nostrana, una pellicola con un incredibile Vittorio Gassman, che interpreta Bruno, che è la perfetta controparte del compianto Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto.

Una commedia irresistibile, che lascia però un sorriso amaro in bocca: capace di raccontare il sogno del boom, ma svelando anche la drammaticità con pochi tocchi ben azzeccati.

Al contempo, è considerabile un buddy movie ante litteram, che si dice abbia persino influenzato Easy Rider (1969, dal titolo con cui era stato distribuito negli Stati Uniti, Easy Life).

Un capolavoro intramontabile, insomma.

Bruno: l’inarrestabile nel Sorpasso

Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto ieri mattina.

Bruno rappresenta il fragile sogno del boom economico: apparentemente travolgente e inarrestabile, in realtà con una fragilità e una fallibilità intrinseca.

Il suo personaggio infatti solo apparentemente si destreggia facilmente fra i luoghi, le donne e gli affari. In realtà fino alla fine del film non ha un soldo in tasca e solo fortuitamente guadagna 50.000 lire dal futuro marito della figlia.

Così ci prova praticamente con tutte le donne che incontra, dalle tedesche che insegue fino alla ex-moglie alla fine, ma nessuna sembra interessata a lui o comunque si concede davvero. Così sembra sempre pronto a destreggiarsi fra gli affari, ma in realtà non ne combina veramente nessuno.

E proprio la sua fallibilità si definisce quando perde il suo slancio e viene riportato coi piedi per terra dai personaggi che gli stanno intorno, in particolare Roberto, che agisce un po’ da grillo parlante. Così, quando inseguono le ragazze tedesche e si trovano in un cimitero, quando un Bruno indeciso cerca comunque di continuare il suo piano, è Roberto che lo invita ad andare via. E Bruno accetta.

Roberto: l’inetto nel Sorpasso

È che ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia.

Come Bruno rappresenta lo sfolgorante sogno del boom, Roberto è invece l’immagine di una sorta di nostalgia infantile per il passato, dell’incapacità di adattarsi alla frenesia del nuovo presente.

In particolare vive dei suoi sogni d’infanzia, della stanza dei lettini nella casa degli zii, dell’amore ancora vivo per Zia Lidia, degli apparenti fallimenti con Valeria, la ragazza dei suoi sogni. E al contempo vive nei suoi pensieri, dove sembra pronto all’azione, ma che non realizza mai fino alla fine.

Roberto è un personaggio continuamente in imbarazzo e fuori posto, in particolare nella scena della spiaggia, dove non accetta mai di scoprirsi come gli altri, dove non vuole mai adeguarsi. Anzi la sua è una continua fuga, un continuo tentativo di tornare sui suoi passi e scendere dal treno e tornare ai suoi libri, alla Roma deserta ma rassicurante.

E, quando decide finalmente di adattarsi alla nuova realtà, viene punito.

Il dramma del boom

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso rappresenta in tutto e per tutto la fragilità del sogno di ricchezza e di possibilità senza limiti, quando l’Italia stava vivendo una ritrovata (e apparente) situazione di felicità.

Questa euforia è rappresentata in primo luogo dal viaggio spericolato e che non si pone regole, anzi le infrange volutamente. Poi dalla ricchezza dei luoghi frequentati: prima l’autogrill, poi il club del Cormorano e infine la spiaggia.

La spiaggia in particolare è davvero il luogo più travolgente e imprevedibile, da cui Roberto cerca continuamente di sottrarsi. Pieno di gente fino a scoppiare, rumoroso e concitato, e che sembra sempre il punto di partenza per possibilità diversissime.

Non a caso sul motoscafo di Bibì si parla di arrivare a Portofino in un paio d’ore, e alla fine proprio Bibì e Lilly vanno via improvvisamente alla volta dell’Isola dell’Elba.

Una corsa inarrestabile, che non sempre si risolve in un esito positivo.

Il momento anzi più alto che svela la fragilità del boom è quando Bruno cerca di comprare l’incidente: vediamo solo le casse a terra, il guidatore che lo ascolta e, senza una parola, si allontana con le mani premute in viso, mentre l’inquadratura si allarga e mostra un cadavere a terra.

Un sogno bellissimo, ma che può facilmente fallire.

Scrivere in corsa (e schiantarsi)

Vittorio Gassman in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

La bellezza di questo film è che fu scritto col preciso fine di raccontare un’Italia credibile e vera.

Per questo, durante la scrittura del film gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari tenevano sempre sottomano i giornali del giorno, per inserire riferimenti anche alla immediata attualità.

Un esempio è quando Bruno parla della giurisprudenza marziana, perché proprio in quel periodo, quando il sogno dell’Allunaggio si faceva più vicino, si cominciava a parlare di questi argomenti.

Il finale fu, secondo gli stessi autori, deciso per una scommessa, ma in realtà non potrebbe essere più giusto che così: un sogno sfavillante che si conclude con una terribile tragedia.

La figura della donna

La figura della donna ne Il Sorpasso è estremamente variegata.

Per la maggior parte del tempo vediamo donne enigmatiche, irraggiungibili e che non si concedono molto facilmente: così le due ragazze tedesche del cimitero, la cassiera all’autogrill, e persino la ragazza che Roberto incontra alla stazione.

Per la maggior parte donne immerse nella bellezza del boom, che decidono per se stesse, a partire dalla giovanissima figlia di Bruno.

Ci sono due splendide eccezioni che si pongono ai due estremi: la zia Lidia, timida donna di campagna che si lascia per poco tentare dalle lusinghe di Bruno, ma che, guardandoli andare via, ricompone la sua crocchia e si ritira di scena.

E al lato opposto la donna rapace: Gianna, la moglie del Commendatore, che seduce senza pietà Bruno al Club del Cormorano, anche davanti agli occhi del marito.

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Avventura Azione Commedia nera Dramma familiare Drammatico Film Horror Humor Nero Jordan Peele

Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.