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Il sorpasso – Il dramma del boom

Il Sorpasso (1962) di Dino Risi è un film che si inserisce nel cosiddetto genere della commedia del boom.

Un filone che si sviluppò fra la metà degli Anni Cinquanta e Sessanta per raccontare il fenomeno economico-sociale del Boom Economico che travolse, fra gli altri, anche l’Italia.

E fu anche un enorme successo commerciale: nonostante una timida apertura, la pellicola godette di un ottimo passaparola, diventando il prodotto di maggior successo in Italia quell’anno.

Di cosa parla Il sorpasso?

Roberto è un timido studente di legge, che si trova da solo a studiare durante la giornata di Ferragosto a Roma. Viene coinvolto in un viaggio improvviso e travolgente da Bruno, un uomo conosciuto proprio quella mattina.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Il Sorpasso è un film imperdibile

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso è una perla della cinematografia nostrana, una pellicola con un incredibile Vittorio Gassman, che interpreta Bruno, che è la perfetta controparte del compianto Jean-Louis Trintignant, che interpreta Roberto.

Una commedia irresistibile, che lascia però un sorriso amaro in bocca: capace di raccontare il sogno del boom, ma svelando anche la drammaticità con pochi tocchi ben azzeccati.

Al contempo, è considerabile un buddy movie ante litteram, che si dice abbia persino influenzato Easy Rider (1969, dal titolo con cui era stato distribuito negli Stati Uniti, Easy Life).

Un capolavoro intramontabile, insomma.

Bruno: l’inarrestabile nel Sorpasso

Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so. L’ho conosciuto ieri mattina.

Bruno rappresenta il fragile sogno del boom economico: apparentemente travolgente e inarrestabile, in realtà con una fragilità e una fallibilità intrinseca.

Il suo personaggio infatti solo apparentemente si destreggia facilmente fra i luoghi, le donne e gli affari. In realtà fino alla fine del film non ha un soldo in tasca e solo fortuitamente guadagna 50.000 lire dal futuro marito della figlia.

Così ci prova praticamente con tutte le donne che incontra, dalle tedesche che insegue fino alla ex-moglie alla fine, ma nessuna sembra interessata a lui o comunque si concede davvero. Così sembra sempre pronto a destreggiarsi fra gli affari, ma in realtà non ne combina veramente nessuno.

E proprio la sua fallibilità si definisce quando perde il suo slancio e viene riportato coi piedi per terra dai personaggi che gli stanno intorno, in particolare Roberto, che agisce un po’ da grillo parlante. Così, quando inseguono le ragazze tedesche e si trovano in un cimitero, quando un Bruno indeciso cerca comunque di continuare il suo piano, è Roberto che lo invita ad andare via. E Bruno accetta.

Roberto: l’inetto nel Sorpasso

È che ognuno di noi ha un ricordo sbagliato dell’infanzia.

Come Bruno rappresenta lo sfolgorante sogno del boom, Roberto è invece l’immagine di una sorta di nostalgia infantile per il passato, dell’incapacità di adattarsi alla frenesia del nuovo presente.

In particolare vive dei suoi sogni d’infanzia, della stanza dei lettini nella casa degli zii, dell’amore ancora vivo per Zia Lidia, degli apparenti fallimenti con Valeria, la ragazza dei suoi sogni. E al contempo vive nei suoi pensieri, dove sembra pronto all’azione, ma che non realizza mai fino alla fine.

Roberto è un personaggio continuamente in imbarazzo e fuori posto, in particolare nella scena della spiaggia, dove non accetta mai di scoprirsi come gli altri, dove non vuole mai adeguarsi. Anzi la sua è una continua fuga, un continuo tentativo di tornare sui suoi passi e scendere dal treno e tornare ai suoi libri, alla Roma deserta ma rassicurante.

E, quando decide finalmente di adattarsi alla nuova realtà, viene punito.

Il dramma del boom

Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

Il Sorpasso rappresenta in tutto e per tutto la fragilità del sogno di ricchezza e di possibilità senza limiti, quando l’Italia stava vivendo una ritrovata (e apparente) situazione di felicità.

Questa euforia è rappresentata in primo luogo dal viaggio spericolato e che non si pone regole, anzi le infrange volutamente. Poi dalla ricchezza dei luoghi frequentati: prima l’autogrill, poi il club del Cormorano e infine la spiaggia.

La spiaggia in particolare è davvero il luogo più travolgente e imprevedibile, da cui Roberto cerca continuamente di sottrarsi. Pieno di gente fino a scoppiare, rumoroso e concitato, e che sembra sempre il punto di partenza per possibilità diversissime.

Non a caso sul motoscafo di Bibì si parla di arrivare a Portofino in un paio d’ore, e alla fine proprio Bibì e Lilly vanno via improvvisamente alla volta dell’Isola dell’Elba.

Una corsa inarrestabile, che non sempre si risolve in un esito positivo.

Il momento anzi più alto che svela la fragilità del boom è quando Bruno cerca di comprare l’incidente: vediamo solo le casse a terra, il guidatore che lo ascolta e, senza una parola, si allontana con le mani premute in viso, mentre l’inquadratura si allarga e mostra un cadavere a terra.

Un sogno bellissimo, ma che può facilmente fallire.

Scrivere in corsa (e schiantarsi)

Vittorio Gassman in una scena de Il sorpasso (1962) di Dino Risi

La bellezza di questo film è che fu scritto col preciso fine di raccontare un’Italia credibile e vera.

Per questo, durante la scrittura del film gli sceneggiatori Ettore Scola e Ruggero Maccari tenevano sempre sottomano i giornali del giorno, per inserire riferimenti anche alla immediata attualità.

Un esempio è quando Bruno parla della giurisprudenza marziana, perché proprio in quel periodo, quando il sogno dell’Allunaggio si faceva più vicino, si cominciava a parlare di questi argomenti.

Il finale fu, secondo gli stessi autori, deciso per una scommessa, ma in realtà non potrebbe essere più giusto che così: un sogno sfavillante che si conclude con una terribile tragedia.

La figura della donna

La figura della donna ne Il Sorpasso è estremamente variegata.

Per la maggior parte del tempo vediamo donne enigmatiche, irraggiungibili e che non si concedono molto facilmente: così le due ragazze tedesche del cimitero, la cassiera all’autogrill, e persino la ragazza che Roberto incontra alla stazione.

Per la maggior parte donne immerse nella bellezza del boom, che decidono per se stesse, a partire dalla giovanissima figlia di Bruno.

Ci sono due splendide eccezioni che si pongono ai due estremi: la zia Lidia, timida donna di campagna che si lascia per poco tentare dalle lusinghe di Bruno, ma che, guardandoli andare via, ricompone la sua crocchia e si ritira di scena.

E al lato opposto la donna rapace: Gianna, la moglie del Commendatore, che seduce senza pietà Bruno al Club del Cormorano, anche davanti agli occhi del marito.

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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Get Out – Feticizzazione

Get out (2017) è l’opera prima di Jordan Peele, cineasta attivo da pochi anni ma che ha già reso riconoscibile il suo stile e la sua, seppur breve, cinematografia.

Il film fu estremamente elogiato per la freschezza e la novità che portò al genere horror, mentre il suo secondo film, Us (2019), fu molto meno considerato. E fu una vera ingiustizia.

La pellicola fu un incredibile successo commerciale: un budget ridottissimo, di appena 4.5 milioni di dollari, portò ad un incasso di 255.

Di cosa parla Get out?

Chris è un giovane afroamericano fidanzato da pochi mesi con Rose. Pur in grande imbarazzo, accetta di andare a far visita la famiglia di solo bianchi della fidanzata. Questa scelta non si rivelerà la più indovinata…

Get out può fare per me?

Lakeith Stanfield e Geraldine Singer in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Partiamo dicendo che Get out è un horror, ma non fa di fatto paura, anche perché utilizza pochissimo i tanto abusati jump scare. Più che altro è un film che crea una profonda angoscia e inquietudine. E questo grazie all’utilizzo di una recitazione ben calibrata e una scelta dei volti piuttosto azzeccata.

È una pellicola in generale abbastanza accessibile, che diventa ancora più interessante per un pubblico coinvolto con le tematiche che Peele porta sullo schermo. Ma, prima di tutto, è un prodotto horror autoriale che porta un’interessante novità al genere.

Feticizzazione

La feticizzazione dei corpi neri è il tema politico sotterraneo del film. Un problema sentito negli Stati Uniti e che è fondamentalmente l’altra faccia del razzismo: questa idea di idealizzazione del corpo nero, corredato da una serie di stereotipi (la grandezza dei genitali, la velocità ecc.).

Stereotipi che non sono falsi di per sé, ma che assumono un significato ben diverso se applicati sistematicamente a persone che condividono nient’altro che il colore della pelle o una discendenza comune. In questo modo infatti non vi è una glorificazione del corpo, ma una deumanizzazione dello stesso.

Ed è questo quello che di fatto succede in Get Out: il corpo di Chris è messo in vendita come quello di una bestia, da un gruppo ricchi bianchi che se ne vuole impossessare per godere dei presunti benefici del corpo di un afroamericano.

Far paura senza far paura

Betty Gabriel in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

Una grande capacità di Peele, che poi sprigiona tutta la sua potenza in Us, è la capacità di far paura senza far uso di tecniche abusate. Così appunto non ci sono praticamente jump scare e tutta l’inquietudine del film si basa sull’ottima recitazione corporea e facciale dei personaggi.

Particolarmente rilevanti sono Walter e Georgina, che alla fine si scopre che racchiudono le coscienze del nonno e della nonna. Ma da elogiare anche la recitazione di Allison Williams, che interpreta Rose, che è stata capace di sostenere la recitazione da brava fidanzata, per poi rivelarsi, con un solo gesto, l’invasata calcolatrice che in realtà è.

Tutto e niente

Daniel Kaluuya in una scena del film Get Out (2017) di Jordan Peele

La mia è sicuramente un’opinione impopolare, ma io considero Get out come un film per molti aspetti amatoriale, che è solo un punto di partenza per una cinematografia ben più interessante. E infatti Us mi ha stupito molto di più.

Nondimeno in questa pellicola troviamo tutti gli elementi ormai tipici di Jordan Peele: un horror che punta più sull’inquietudine che sull’orrore, un umorismo per nulla forzato, una sottotrama politica molto forte e per nulla banale.

Al tempo della visione, ebbi proprio questa idea: un buon punto di partenza, ma adesso vediamo che strada prende. E con Us sono stata ricompensata.

Insomma, per me un’ottima opera prima, ma non il capolavoro che tanti sostengono.

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Cip & Ciop agenti speciali – Attivare parental control

Cip e Ciop: Agenti speciali (2022) è una delle ultime pellicole in tecnica mista uscite su Disney+ e che sta facendo parlare molto di sé. Il motivo è semplice: se pensavate che fosse un film per bambini, dovete ricredervi.

Io per prima pensavo quanto sopra, ma, grazie al passaparola positivo che ho ricevuto da diverse persone, mi sono convinta a recuperarlo. E non è nulla di quanto mi sarei mai potuta immaginare. Mi è sembrato di tornare a tanti anni fa, allo splendido Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), cult assoluto della mia infanzia, con tutto quello che ne consegue.

Di cosa parla Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop sono amici fin dall’infanzia e riescono a diventare protagonisti di uno show televisivo (che dà il nome al film e che è stato veramente trasmesso fra il 1989-90), ma si dividono inaspettatamente per il desiderio di Ciop di smarcarsi dall’ombra di Cip.

I due dovranno riunirsi molti anni dopo per salvare Monterey Jack, il loro ex-collega della serie.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Cip & Ciop agenti speciali non è niente che potreste aspettarvi

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Come anticipato, io avevo bollato (ingiustamente) questo film come il solito revival di prodotti del passato per farli apprezzare alle nuove generazioni, come era stato appunto per il recente Tom & Jerry (2021) e altri prodotti simili. E mai come in questo caso ringrazio con tutto il mio cuore il buon passaparola che ho ricevuto.

Cip & Ciop agenti speciali è fondamentalmente un buddy movie nel senso più classico del termine, richiamando anche direttamente uno dei prodotti pionieristici del genere, 48 ore (1982). Due personaggi che partono come antagonisti (in questo caso divisi da un vecchio rancore) e che riusciranno a ricostruire il loro rapporto. Detto così, potrebbe sembrare un film innocuo. Niente di più sbagliato.

In realtà questo film non è minimamente pensato per un pubblico infantile, e forse neanche per un pubblico di ragazzini, ma principalmente per il target dei figli degli Anni Ottanta e Novanta, che conoscono i vari meme di internet e che sono cresciuti con i cartoni animati dell’epoca.

Nessuno pensa ai bambini!

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Per quanto non sia detto esplicitamente, in Cip & Ciop agenti speciali si parla di dipendenza dalle droghe, quindi spaccio e traffico di esseri umani. Già questo getta un’ombra sul film, ancora più aggravato da scene non tanto spaventose, ma sottilmente disturbanti.

Oltre a questo, un bambino rischia di annoiarsi: per la maggior parte delle battute sono riferite a meme di internet e a prodotti degli Anni Novanta e Anni Duemila. Il massimo che potrebbe intrattenerlo sarebbe la storia raccontata, ma è impossibile (e per fortuna) che la capisca fino in fondo.

Perché dovreste vedere assolutamente Cip & Ciop agenti speciali

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Fatte queste dovute premesse, Cip & Ciop agenti speciali è un film sorprendentemente geniale. La vera trama appunto riguarda temi abbastanza pesanti, cui si aggiunge il tema evergreen, già ben sperimentata in Bojack Horseman, ovvero quella riguardante la crudeltà dello show business hollywoodiano.

Un film profondo e maturo, pur con qualche ingenuità nel riprendere dei topoi molto abusati. Oltre a questo, soprattutto all’inizio, ci sono delle battute assolutamente geniali in riferimento a prodotti ormai entrati nella cultura popolare, in cui la Disney arriva a parodizzare sé stessa (e non solo). Un film gustoso e divertente, che dovreste assolutamente recuperare, soprattutto se fate parte della generazione che è cresciuta con questi personaggi.

Cos’è il genio?

Ugly Sonic in una scena del film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

That weird animation style in the early 2000s where everything looked real but nothing looked right

Quello stile di animazione all’inizio degli Anni Duemila quando tutto era realistico ma sembrava sbagliato

Riuscire a mettere così tanti riferimenti alla cultura pop di un certo periodo non era semplice, ma è Cip & Ciop agenti speciali ci è riuscito alla perfezione.

Per me le battute più geniali sono state sicuramente quelle dell’animazione anni 2000 e soprattutto Ugly Sonic, uno dei casi cinematografici più discussi in tempi recenti. Per non parlare della quantità di riferimenti di prodotti animati, Disney e non.

Riuscire poi ad edulcorare tematiche pesantissime come il traffico di organi e di essere umani, lo sfruttamento di Hollywood e la dipendenza dalle droghe, riuscendo al contempo a contestualizzare tutto perfettamente nel contesto raccontato, non è cosa da tutti. Ma, ancora, questo film ci riesce perfettamente.

Il rapporto fra Cip e Ciop

Cip e Ciop nel film per Disney+ Cip & Ciop agenti speciali (2022)

Ho davvero adorato come il rapporto fra i due non sia affatto appiattito, non limitandosi a raccontare una banalissima dinamica da buddy movie.

Cip e Ciop erano due bambini molto soli e incompresi, in particolare Cip non riusciva ad avere amici e finalmente ha trovato un compagno di vita in Ciop: il suo racconto alla fine sul corpo esanime di Cip è uno schiaffo emotivo.

Un bellissimo racconto di amicizia, di come i rapporti possono essere guastati da una semplice parola non detta, accecati da un senso di inferiorità ingiustificato verso i propri amici, anche più stretti.

La scelta del rilascio in streaming

Il film è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma Disney+, senza quindi passare per la sala. In questo caso, potrebbe non essere stata la scelta peggiore: probabilmente altri come me si saranno fermati davanti al titolo, bollandolo come un film per bambini.

Così il pubblico infantile e i genitori si sarebbero fiondati in sala, convinti di vedere un film pensato per loro. E, vista l’eccelsa capacità di rating dell’Italia (vi ricordo The Suicide Squad era classificato come film per tutti), probabilmente avremmo avuto una generazione di bambini traumatizzati per la vita.

Per questo probabilmente avrebbe avuto un pessimo passaparola e sarebbe stato un flop. Invece, rilasciandolo subito in streaming e rendendolo così più accessibile, ha permesso che fosse più facile che i vari influencer (adulti) lo vedessero e creassero un ottimo passaparola. E così è successo.

E non sarà né la prima né l’ultima pellicola che vivrà di migliore salute in streaming piuttosto che in sala.

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The Truman Show – Il seme della follia

The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.

Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura (1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.

Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.

Di cosa parla The Truman Show

Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Truman Show?

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Assolutamente sì.

Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.

Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.

Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.

Un punto di arrivo

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.

Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.

Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.

La morale

Ed Harris in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.

La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.

E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).

La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.

Il tono

Jim Carrey Laura Linney e in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Il tono di The Truman Show è ben calibrato.

Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.

Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.

Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?

All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.

Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn 99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.

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Sorry to bother you – Un sogno allucinato

Sorry to bother you (2018) è una commedia nera e surreale, scritta e diretta da Boots Riley, rapper e produttore cinematografico al suo esordio alla regia. Un film che si propone di denunciare in maniera divertente e pungente la realtà statunitense odierna, dello sfruttamento del lavoro e del razzismo onnipresente.

Al tempo fu un piccolo successo al botteghino: 18 milioni di dollari di incasso contro un budget di poco più di 3 milioni. E col tempo è entrato nel cuore di molti, andando ad infoltire la proposta cinematografica di genere satirico, ancora poco presente nel cinema mainstream.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Sorry to bother you

Sorry to bother you racconta la storia di Cassius, uno dei tanti giovani afroamericani in difficoltà economica, che porta avanti la sua vita fra lavori estenuanti e degradanti. Trova lavoro presso una compagnia di televendite e, su consiglio di un suo collega, comincia ad utilizzare la sua white voice, ovvero quel tono di voce che imita la parlata stereotipica dei ricchi statunitensi, per diventare un venditore di successo.

Questo lo porterà infatti a scalare i vertici dell’azienda, rivelandone i più assurdi e orribili segreti.

Perché guardare Sorry to bother you

Tessa Thompson e Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una commedia intelligente e graffiante, che fa riflettere su una problematica tutt’ora molto pressante (e non solo in USA): inseguire il sogno del successo tramite il duro e sfiancante lavoro, con l’idea che questo sia facilmente ottenibile. Così anche, dall’altra parte, lo sfruttamento disumano della classe lavoratrice, fino ad una disumanizzazione della stessa per ottenere il massimo del guadagno.

Una filosofia capitalista che quindi colpisce entrambe le parti: sia chi investe nel lavoro, totalmente accecato dal desiderio di guadagno e del produrre sempre di più e più velocemente, sia chi lavora, ossessionato dall’idea di far carriera ad ogni costo. Insomma, un film di quattro anni fa, ma con una tematica ancora molto attuale.

Sorry to bother you fa per me?

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una pellicola non esattamente per tutti i palati. Mi sentirei di accostarla ad altri due film molto divisivi: Don’t look up (2021) per la tematica e Scott Pilgrim vs The world (2010) per il taglio surreale. Se vi piacciono questi due prodotti, ma anche se siete vicini al cinema di Jordan Peele, in particolare Us (2018), potrebbe essere un film per voi.

Più in generale, se vi piacciono le commedie al limite del grottesco, con tematiche molto forti e attuali, guardatelo. Se rifuggite i film surreali come la peste, passate ad altro.

Use your white voice

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La questione della white voice è una delle più interessanti della pellicola: non semplicemente la voce da bianco in senso stretto, ma la voce che i bianchi americani associano ad un tipo di persona di successo, il modello di self-made man a cui aspirano.

Tuttavia, il protagonista rimane comunque una persona diversa per la comunità in cui cerca di inserirsi. Emblematica in questo senso la scena della festa a casa di Steve Lift, il capo dell’azienda, quando gli chiedono di rappare, capacità steroetipicamente associata alla comunità nera. E lui canta nigga shit, conquistando il plauso del pubblico.

Ed è l’utilizzo della white voice, così divertente ma anche grottesco, tanto da ricordarmi L’occhio più azzurro (1970, Toni Morrison), che porta il protagonista al successo. E infatti, quando diventa un Power Seller, deve abbandonare quasi del tutto la sua vera voce, che lo identifica appartenente alla comunità nera, e diventare il più possibile simile allo stereotipo di una persona bianca.

Vendere, vendere, vendere

Lakeith Stanfield e Armie Hammer in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La WorryFree è una delle trovate più geniali del film, perfetta per rappresentare la totale alienazione del lavoratore, che non può permettersi di vivere, e, lavorando per questa azienda, non dovrà più preoccuparsene, non dovendo mai abbandonare le vesti da lavoro. Probabilmente un attacco sottile ad Amazon, ma non solo.

Il passo successivo sono gli Equisapiens, nient’altro che una riproposizione moderna del concetto di schiavismo: persone private di ogni dignità e umanità, letteralmente. Questa soluzione assolutamente disumana ottiene tuttavia il consenso popolare, indice appunto di una società annebbiata dall’idea del guadagno a tutti i costi.

Il sogno allucinato

Armie Hammer in una scena del film di Boots Riley

Il film infatti non è altro che un racconto del sogno allucinato del capitalismo: tutti possono avere successo, tutti possono diventare dei Power Caller. È lì a disposizione, è sopra i vostri occhi, a portata di mano. Tuttavia la possibilità di ottenere quella vittoria è solo apparente: come è detto esplicitamente all’interno del film, facendo il lavoro degradante della classe media, non sarà mai possibile arrivare, nonostante il racconto che se ne fa, a certi livelli di guadagno.

E anche se uno su mille riesce ad ottenere quel successo, è un successo che richiede entrare nella mentalità del capitalismo selvaggio e senza scrupoli. Quindi abbandonare a poco a poco ogni moralità, fare di tutto per arricchirsi e acquisire il successo.

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Little Miss Sunshine – Vincere a tutti i costi

Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, è un piccolo cult di inizio Anni 2000.

Non a caso, a fronte di un budget risicatissimo – appena 8 milioni di dollari – sbancò i botteghini internazionali con 108 milioni di incasso, e fu candidato a tre premi Oscar, vincendone due.

Di cosa parla Little Miss Sunshine?

Una piccola famiglia della classe media affronta un viaggio improvviso per accompagnare la piccola Ollie. In questa occasione ogni personaggio svilupperà il proprio percorso, con piccoli e grandi drammi personali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Little Miss Sunshine?

Assolutamente sì.

Little Miss Sunshine divenne un cult all’epoca per tanti motivi.

Prima di tutto, è un film davvero ben scritto, che porta in scena alternativamente momenti incredibilmente divertenti, sia sequenze assai drammatiche, con sempre un’importante riflessione di fondo.

Un prodotto da recuperare assolutamente, per ridere, piangere e appassionarsi sinceramente alle storie dei personaggi, oltre che per venire vicino ad un mondo e ad una cultura che sono dominanti nel panorama internazionale, ma molto diversi dalla nostra cultura europea.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Vincere e perdere

Abigail Breslin, Toni Colette, Steve Carelle e Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

La bellezza di Little Miss Sunshine risiede soprattutto la sua capacità di raccontare una storia davvero corale, dove ogni personaggio è tridimensionale e ha un’evoluzione avvincente.

Non a caso il film si apre con una piccola carrellata di scene di presentazione di tutti i personaggi ed il loro arco narrativo.

La piccola Olive e il suo sogno, il padre e il suo corso di life coaching, il fratello e la sua sfida, il nonno e la dipendenza dalle droghe, la madre che è il suo rapporto difficile col fratello, e infine il fratello suicida.

Il tema principale, come anticipato, è la cultura della vittoria. Vincere, vincere per forza, unica cosa che conta, come ben si vede dalle prime due scene: Olive che guarda e sogna la vittoria come reginetta di bellezza e il padre che racconta come si può essere o vincitori o perdenti. E bisogna essere vincitori.

E infatti ogni personaggio riesce a vincere e a perdere la sua battaglia personale.

Olive Little Miss Sunshine

Olive è una bambina di appena sette anni, eppure è il perno dell’intera pellicola.

Vediamo molto spesso il tutto dal suo punto di vista, che riesce ad empatizzare, nonché a venire in aiuto degli altri personaggi: Frank e il suo dramma personale, così il fratello Dwayne e la sua sconfitta.

Il sogno di Olive non è realmente quello di vincere per essere bella, ma di vincere per divertirsi. Tuttavia non è, pur ingenuamente, estranea a tutte le pressioni sociali che vogliono che lei sia bella, magra e già perfetta.

Emblematica in questo senso la scena in cui il padre cerca di convincerla a non mangiare il gelato per non ingrassare, così come quelle in cui si guarda allo specchio, più di una volta, preoccupandosi di non essere abbastanza bella.

Sono bella?

Abigail Breslin in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Effettivamente Olive non è una ragazzina convenzionalmente bella: è una bambina come tante, con un aspetto nella media, che non cerca di essere niente di più bello o di diverso dalla sua età.

Ma è comunque appunto influenzata dagli stimoli esterni del mondo degli adulti, tanto che chiede al nonno se lei è effettivamente bella e se riuscirà a vincere. Tuttavia, solo delle ansie derivate esternamente, non qualcosa che nasce naturalmente da lei.

La drammatica realtà è che se Olive non avesse le influenze positive di alcuni membri della sua famiglia, in poco tempo sarebbe caduta in un disturbo alimentare, come altre ragazzine prima di lei.

Frank Little Miss Sunshine

Frank è un perdente, sia per come si sente, sia perché non riesce a vincere il suo onore e andare avanti con la propria vita.

Non riesce a lasciare da parte il più grande traguardo della propria vita, l’unica cosa con cui riesce a definirsi.

E infatti alla fine il motivo vero del suo tentato suicidio non è né un amore fallito né aver perso il lavoro, ma aver perso il suo riconoscimento, che ribadisce (anche se scherzosamente), in altri momenti della pellicola.

La vittoria di Frank è riuscire a trovare una nuova identità, a capire di essere una persona completa anche senza essere riconosciuto come vincente. E riesce a riconoscersi in un nuovo contesto e un nuovo obbiettivo: la sua famiglia.

Non a caso è il primo a correre verso l’hotel del concorso.

E, non a caso, quando vede sul giornale il suo rivale riconosciuto con il premio che lui pensa che gli sia dovuto, lo mette via con solo una smorfia di disappunto, ma, infine, di accettazione.

Dwayne Litte Miss Sunshine

Dwayne è in una crisi esistenziale estrema.

Sente di odiare profondamente la sua famiglia e porta testardamente avanti l’obbiettivo di liberarsi dalla stessa.

Ma, in realtà, c’è una persona a cui non può odiare: Olive. Non è un caso infatti che sia Dwayne sia quello che si accorge della mancanza della sorella quando questa viene dimenticata alla stazione di servizio

E così Olive è l’unica persona che riesce veramente, e senza una parola, a convincerlo a tornare dalla famiglia quando Dwayne ha la sua crisi. E infine il ragazzo, come Frank, accetta che, anche se non verrà riconosciuto come quello che vorrebbe essere dagli altri, potrà comunque fare quello che lo renderà felice.

E questo senza doversi isolare da tutti, anzi preoccupandosi sinceramente per la sorella.

Il nonno Litte Miss Sunshine

Il nonno vuole vincere la sua libertà.

La libertà di vivere come vuole, anche in modo non accettato dalla società purista americana. E continua a farlo, nonostante le conseguenze, e fino alla fine. E alla fine muore, ma felicemente.

Insieme a Sheryl, il nonno è uno degli elementi di unione e un motore dell’azione, sia da vivo che da morto. Infatti il climax finale del ballo della famiglia, una danza gioiosa di unione, è merito della sfacciataggine del nonno.

La famiglia riesce a proseguire il viaggio, nonostante il cadavere nel bagagliaio, per le riviste pornografiche che il nonno ha acquistato. E tutta la vicenda è messa in moto dallo stesso, che aiuta la nipote nel suo spettacolo.

Richard Little Miss Sunshine

Richard è l’elemento più problematico del film.

Impulsivo, ossessionato dal sogno americano di vincere o perdere.

Senza vie di mezzo.

Durante la pellicola deve tuttavia prendere delle decisioni importanti, che gli fanno mettere in discussione i suoi valori. In particolare il momento di consapevolezza avviene durante il concorso di bellezza.

Guardando quelle bambine truccate e sessualizzate all’inverosimile, capisce che non vale sempre la pena vincere sempre, che sua figlia non deve per forza gareggiare, se sono queste le condizioni.

E infine anche lui sceglie la propria famiglia, proteggendo la figlia e intervenendo per primo per aprire la danza finale, nonostante sa che così verrà definitivamente escluso ed umiliato.

Ma ormai non è più importante.

Sheryl Little Miss Sunshine

Sheryl è una donna forte, coi piedi ben piantati a terra, che cerca di unire la famiglia.

La sua vittoria, alla fine, è riuscire a riportare insieme i suoi familiari, come cerca di fare per tutta la pellicola: riprende Richard quando intimorisce Olive, cerca di aiutare Frank, cerca in tutti i modi di ricongiungersi con Dwayne quando perde la testa e, alla fine, sostiene tutti sulle sue spalle.

È davvero il collante del gruppo.

È forse il personaggio che vince di più di tutti: riesce a vedere la famiglia finalmente e davvero unita, come avrebbe voluto, e per questo chiude le danze, correndo felice verso la figlia.

Vincere da subito

Little miss sunshine

Il tema principale della pellicola è ben esplicitato dal concorso stesso, che rappresenta l’atto conclusivo nonché il punto di arrivo del climax dell’intera pellicola.

Può sembrare eccessivo ed esagerato, ma è invece tremendamente reale.

L’ultimo tassello nel mosaico della cultura della vittoria a tutti i costi degli Stati Uniti, quando fin da giovanissimi si viene messi in competizione. Vestiti da adulti, costretti a diventare degli oggetti di scena, principalmente a favore dei genitori stessi e del ritorno economico che ne può derivare.

Little miss sunshine

Ci sono state molte discussioni, soprattutto ai tempi, sulla questione dei concorsi di bellezza.

La maggiore questione è che queste occasioni rappresentavano (e rappresentano) perfettamente il sogno americano. Non seguono infatti grandi capitali per accedervi, basta essere abbastanza belli e saper fare qualcosa di interessante, soprattutto nei circuiti più bassi.

E infatti le facce delle persone del pubblico sono facce assolutamente normali e ordinarie.

L’ipocrisia

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Little Miss Sunshine mette bene in scena la sessualizzazione rasente alla pedofilia di questi concorsi, con ragazzine truccate e acconciate come modelle, eroicizzate al limite del sopportabile ed estremamente ammiccanti.

Non a caso è emblematica la faccia del padre quando vede lo spettacolo, profondamente a disagio, come ogni persona di buon senso si sentirebbe.

E così lo spettatore con lui.

E quindi l’ipocrisia sta nel fatto che, quando una bambina fa qualcosa di effettivamente erotico e apparentemente volgare, in realtà semplicemente divertendosi nella sua ingenuità dei sette anni, è assolutamente inaccettabile.

Vivere di espedienti

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Come la maggior parte della classe media statunitense e delle persone che partecipano a questo tipo di concorsi, la famiglia della pellicola è in difficoltà economica. Deve sempre vivere di espedienti e soluzioni dell’ultimo minuto per andare avanti, faticosamente, perdendo ogni energia.

Perché se ci si arrende si è, appunto, dei perdenti.

Così non possono lasciare Frank in ospedale per farsi curare adeguatamente perché non c’è l’assicurazione sanitaria adatta. Non possono prendere un aereo per andare in California, non possono permettersi un’alternativa all’auto rotta. In ogni modo devo mettersi insieme, mettersi in strada.

Il viaggio e tutti i suoi ostacoli rappresentano perfettamente come è la loro vita: un imprevisto dietro l’altro, a cui non sono sempre pronti a rispondere.

Bonus

Breaking bad, sei tu?

In Little Miss Sunshine ci sono dei collegamenti involontari alla serie Breaking bad, che esordì sui nostri schermi due anni dopo.

Anzitutto, la famiglia abita ad Albuquerque, dove si svolge anche la serie tv. Inoltre nel film appaiono per dei camei Bryan Cranston come Stan, il collega del padre e Dean Norris, come il poliziotto che li ferma in autostrada.

Rispettivamente Walter White e Hank Schrade, due dei personaggi principali della serie cult, che i fan di Breaking bad non potranno non riconoscere.