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She’s the man – Bloccati in un genere

She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla She’s the man?

Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She’s the man?

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Assolutamente sì.

She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.

Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.

Insomma, da riscoprire.

Definizione

Amanda Bynes in una scena in spiaggia di She's the man (2006) di Andy Fickman

L’incipit di She’s The Man è fondamentale.

Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, un maschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.

Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…

…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.

Seminato

Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.

Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.

E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…

Modello

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.

Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.

Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma sono dei modelli fragili.

Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.

E invece queste figure hanno molto da raccontare…

Successo

Amanda Bynes e Laura Ramsey in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

La chiave del successo di Viola è cangiante.

Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.

Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.

E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.

Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.

Traguardo

She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.

Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.

In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.

Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.

E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…

Interiore

Amanda Bynes in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.

Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.

Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità

…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.

Aspetto

Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.

Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).

Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.

Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.

Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.

Equivoci

L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.

Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.

Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.

Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.

Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.

Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…

…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.

Rivelazione

L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.

Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.

Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.

Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.

Amanda Bynes e Channing Tatum in una scena di She's the man (2006) di Andy Fickman

Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.

Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.

E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.

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Not another teen movie – La parodia definitiva

Not another teen movie (2001) di Joel Gallen, noto anche come Non è un’altra stupida commedia americana, è un film parodia del genere teen movie Anni Ottanta – Novanta.

A fronte di un budget di appena 15 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 66 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Not another teen movie?

Mescolando le trame di She’s all that (1999) e 10 cose che odio di te (1999), con un pizzico di Varsity Blues (1999) e Cruel Intentions (1999), è la solita storia di una scommessa per conquistare una ragazza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Not another teen movie?

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Sì, ma…

È molto difficile consigliare questo film a chi non sia estremamente addentro al genere: come parodia funziona solo se si conoscono i film di partenza – e i titoli citati e parodiati sono davvero moltissimi.

Ma, se volete intraprendere questo viaggio, vi consiglio di dare prima un’occhiata, oltre ai titoli prima citati, a Pretty in Pink (1986), Breakfast Club (1985), Mai stata baciata (1999) e Bring it on (2000).

A quel punto, sarete (forse) pronti.

Pubblico

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

L’incipit di Not another teen movie può essere letto in più modi.

Ad un livello più superficiale è un grandissimo schiaffo nei confronti di un genere cinematografico che per anni aveva messo al centro delle sue storie e demonizzato la sessualità femminile, accostando due elementi apparentemente inconciliabili:

una ragazza sfigata e innamorata dei classici della commedia romantica, e un’intesa masturbazione.

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Ma, se volessimo andare ad un livello più profondo, il fatto che appena Janey cominci a darsi piacere da sola irrompa non solo la sua famiglia, ma anche l’intera comunità che assiste al suo piuttosto spettacolare orgasmo è piuttosto eloquente.

Come se la sessualità di una donna, soprattutto così giovane, fosse in qualche modo affare di tutti – e così l’essere scoperta deve essere il più possibile vergognoso e fuori luogo.

Ma è solo l’inizio.

Passerella

Mia Kirshner e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Il primo atto è una grande passerella di personaggi – e citazioni.

Assolutamente irresistibile l’entrata di Jake, che ripercorre passo passo il percorso del suo alter ego in She’s all that, ma con due importanti differenze: l’esasperazione dell’ammirare del suo ritratto appeso in corridoio – con uno scatto che lo immortala mentre lo osserva…

…e un racconto molto più esplicito di quanto il personaggio sia al centro di moltissime attenzioni sessuali – anche non apprezzate – che raggiungono l’apice del esasperazione con l’arrivo di Catherine, una ripresa quasi 1:1 della focosa protagonista di Cruel Intentions.

Mia Kirshner in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Infatti il suo personaggio vive di una presenza scenica esplosiva e di una serie di battute che indicano una conoscenza quasi maniacale del prodotto di partenza: come nel cult del ’99 si ripeteva ossessivamente you’ve been dumped (sei stato mollato) …

…Catherine fa una serie di battute su come lei faccia un dump (volgarmente, grossa cagata) sui suoi partner, a cui concede di metterglielo dove vogliono – facendo riferimento al particolare più succoso per cui Sebastian accettava la scommessa con la sorellastra nella pellicola originale.

E poi c’è Priscilla.

Incontro

Priscilla è un incontro fra passato e futuro.

Al tempo non era altro che la ripresa della velenosa Taylor di She’s all that, che sceglie, come il suo alter ego, di lasciare Jake per uno strambo compagno – che in questo caso non c’entra davvero niente con l’originale, ma è una parodia di American Beauty (1999).

Inoltre, è anche la protagonista della sottotrama delle cheerleader, che racconta l’assurdità del film cult del genere, Bring it on (2000), basato proprio sull’idea di una routine rubata dalle avversarie. 

Ma in realtà il suo personaggio è in tutto e per tutto Regina George di Mean girls (2004), che tre anni dopo rappresenterà veramente l’apoteosi della cattiva ragazza – al confronto Priscilla appare molto più incolore e, come tutti i personaggi di questo film, bloccata nel suo ruolo.

E se si parla di ruoli…

Token

Il racconto di Malik, il Black Token Guy, è devastante.

Per prepararsi a comprendere veramente la scena e l’amara ironia di fondo conviene dare un’occhiata alla scena parodiata di She’s all that: per quanto i personaggi coinvolti siano tre, in realtà Preston – il token guy, appunto –rimane costantemente sullo sfondo, intervenendo solo di tanto in tanto nella conversazione.

Non a caso, in Not another teen movie il personaggio rivendica il suo ruolo di pura presenza scenica, annunciando che si esprimerà solamente con una serie di battute stock – e facendo esattamente questo per tutti il resto della pellicola…

…bloccato nel ruolo di pallida guida morale del protagonista da usare all’occorrenza. 

Ma la parodia razzista non si ferma qui.

Ricalcando le sembianze del protagonista di The Karate Kid, in realtà Bruce, il wannabe asiatico, è una parodia nella parodia dei finti rapper neri, uno dei gruppetti in 10 cose che odio di te, che vengono qui rappresentati mentre si lamentano del suo essere un tale poser.

E vale la pena di aprire una parentesi sul gruppo degli sfigati.

Pressure

La storia di Mitch e del suo sgangherato gruppo di amici è parodia di tante cose diverse…

…ma principalmente è la ripresa di Kevin di American Pie (1999) e di Preston in Can’t hardly wait (1999), e del concetto che li accomuna: la devastante peer pressure di dover a tutti costi far parte della corsa del sesso.

Un concetto più volte messo in discussione dai suoi stessi compagni, che criticano l’incomprensibile urgenza del personaggio, nient’altro che un ragazzino che ha appena raggiunto l’adolescenza e che ha ancora tutta la vita davanti.

La loro storia in particolare si articola nell’incidente del bagno – uno dei momenti che meno apprezzo del film, e che funsero da apripista per una tendenza che personalmente detesto della commedia statunitense – in una simpatica citazione a The Breakfast Club

…ma soprattutto nel ribaltare la trama di Can’t Hardly Wait, raccontando come sia sostanzialmente assurdo che una ragazza si innamori del protagonista solamente leggendo una sua lettera – nonostante la punch line conclusiva racconti comunque il successo del progetto.

Ma le assurdità sono appena cominciate.

Squalificante

Janey è una parodia incredibile e continua.

Il suo personaggio racconta tutta l’inconsistenza di questo tipo di personaggio – la ragazza ribelle e alternativa – che popolava il genere nel decennio precedente, con protagoniste costruite a tavolino e spesso veramente incolori – nello specifico, Kat in 10 cose che odio di te.

In particolare ho amato il fatto che si prenda in giro un elemento veramente assurdo di She’s all that – e non solo: l’idea che una ragazzina sia già un genio artistico incompreso, riducendo la sua arte a degli incredibili disegni stilizzati.

Chyler Leigh in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Ma ancora più assurdo è il perché Janey diventi l’oggetto della scommessa: esattamente come il personaggio di She’s all that, la protagonista in questo caso è di per sé una ragazza molto carina, che semplicemente è considerata irrimediabilmente brutta perché porta i capelli legati e gli occhiali.

E proprio questi due elementi la fanno emergere dalla passerella improbabile delle altre ragazze – dalla chitarrista albina alle gemelle siamesi – che rende la scena veramente irresistibile nel suo raccontare una delle assurdità più gettonate del genere in questo periodo.

E come conquistare questa ragazza impossibile? 

Conquista

Chyler Leigh e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

La parte del corteggiamento di Laney è forse la mia preferita.

Seguendo pedissequamente le indicazioni di Catherine, si va prima a parodiare il momento in cui eroicamente Zack salva il fratello della sua amata dai bulli in She’s all that – con una resa, per quanto ironica, anche più credibile…

…per arrivare alla mia scena preferita in assoluto: la dedica di una canzone a Laney, che non solo è una parodia geniale della medesima scena di 10 cose che odio di te, ma è anche una zampata non indifferente ad un problema delle scuole americane ancora oggi.

Mia Kirshner in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Dopo l’ultimo tentativo con il banana split – utilizzato in maniera molto più simpatica rispetto alla scena piuttosto improbabile di Varsity Blues – si arriva al classico momento del makeover, ridotto ai minimi termini per raccontare la palese assurdità di questa dinamica.

La sezione dedicata al party è forse la meno graffiante: non si fa che sottolineare ancora l’inconsistenza dello stereotipo che Laney rappresenta – specificatamente facendo riferimento a 10 cose che odio di te – e si ammorbidisce di molto la dinamica di She’s all that sul tema del bullismo.

Ma è arrivato il momento di parlare della sottotrama del football…

Credibile

La parodia di Varsity Blues merita un discorso a parte.

Il film sportivo del ’99 era già assurdo di suo: una drammaticissima storia di doping figlia di una cultura texana estremamente machista, che offriva però il fianco per momenti al limite del grottesco proprio per il suo prendersi estremamente sul serio.

Per questo motivo a Not another teen movie basta mescolare semplicemente le carte in tavola e aggiungere qualche elemento di ironia, portando in scena una sorta di what if in cui la presa di posizione del protagonista non ha un finale particolarmente felice…

Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

…e, al contempo, riscrivendo il personaggio del coach, già abbastanza assurdo in originale, qui veramente al limite del surreale, soprattutto nel suo trattare il povero Reggie Ray, con il conto sul tabellone delle botte che gli rimangono prima di lasciarci la pelle.

Ma in generale la rappresentazione degli adulti è una meraviglia.

Ribaltamento

Randy Quaid in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Not another teen movie gioca moltissimo nel ribaltamento delle figure paterne.

Infatti, fra gli Anni Ottanta e Novanta, erano possibili solo due modelli narrativi: il genitore presente e saggio, di cui spesso la protagonista doveva prendersi cura – il padre delle protagoniste di She’s all that e di Pretty in Pink – e invece la figura paterna opprimente e assillante – il padre del protagonista in She’s all that e in parte anche in 10 cose che odio di te.

Ed entrambe le parodie sono splendide.

Randy Quaid e Chris Evans in una scena di Not another teen movie (2001) di Joeal Gallen

Da una parte troviamo l’esasperazione del primo modello nel padre di Laney, ubriacone assente nella vita della figlia e dispensatore di consigli non proprio utili, erede della generazione devastata dalla Guerra in Vietnam e di fatto, più dannoso che utile.

Ma ancora più esasperato è il padre di Jake, che ci tiene così tanto che il figlio segua le sue orme da comportarsi come se l’avesse già fatto, con i manifesti molto eloquenti di Princeton e addirittura un fotomontaggio piuttosto amatoriale della laurea del figlio.

Realtà

La sezione conclusiva è quella che porta più con i piedi per terra il genere.

Il momento di passaggio assomiglia molto a Tonight, Tonight di West Side Story, in cui i personaggi raccontano le loro intenzioni per la sera che sta per arrivare – anche se sono molto meno romantici di quelli del musical del ’57…

…per poi arrivare al prom vero e proprio, che parodizza l’iconico momento danzante di She’s all that e ne segue sostanzialmente i passi per anche i momenti successivi, con l’aggiunta della gara fra Ricky e Jake, che ricalcano due modelli narrativi quasi abusati.

Particolarmente spassoso è l’inseguimento, a cui ovviamente Jake va tutto liscio, mentre Ricky, splendida parodia di Duckie in Pretty in Pink, sembra come voler evadere il suo ruolo da migliore amico ossessionato che infine deve accettare il nuovo compagno della protagonista…

…e per questo viene punito.

Ma il punto più alto del film è indubbiamente il finale, con la splendida partecipazione di Molly Ringwald, l’apoteosi della protagonista dei teen movie Anni Ottanta, che toglie valore ai discorsi di riconquista di Jake, copiati da altri film di successo.

E, se proprio Jake le ricorda quanto siano fin troppo idealizzati i finali di questi film, sembra però impossibile evitarli…

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10 cose che odio di te – In superficie

10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger è un cult del genere teen movie Anni Novanta, ma che ha avuto la sua fortuna soprattutto nel decennio successivo.

A fronte di un budget medio per questo tipo di prodotti – fra i 13 e i 16 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 10 cose che odio di te?

Un ardito piano per conquistare una ragazza porterà due caratteri apparentemente inconciliabili ad incontrarsi in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 10 cose che odio di te?

Julia Stiles e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Dipende.

10 cose che odio di te è forse il titolo più debole del genere trattato finora: pur riprendendo un canovaccio narrativo piuttosto standard, la pellicola prova a dargli un maggiore spessore riflessivo, lasciando però tutto in una tristissima superficie.

Infatti, nonostante fosse potenzialmente un film che superava di diverse lunghezze il contemporaneo She’s all that (1999), finisce per perdersi in se stesso, risultando un prodotto con poco mordente, che segue una serie di step preimpostati senza riuscire ad aggiungere molto.

Però è un classico, quindi se volete farvi una cultura…

Diversa

L’introduzione della protagonista è uno dei pochi aspetti che mi ha veramente convinto della pellicola.

Un’ampia sezione introduttiva accompagna lo spettatore all’interno della storia, mostrando in prima battuta un gruppo piuttosto standard di ragazzine che si godono il ritmo pimpante di One week dei Barenaked Ladies

…per poi venire brutalmente interrotte dalla classica Bad Reputation di Joan Jett, con una breve carrellata che non solo ci mostra la protagonista, ma che ci racconta già moltissimo della sua personalità programmaticamente alternativa rispetto alle altre ragazze.

Così, anche l’introduzione degli altri due protagonisti è piuttosto esplicativa.

I personaggi sono subito raccontati come immersi in un ambiente ostile ed incontrollato, in cui gli adulti sono spesso del tutto incolori e assenti – in particolare Ms. Perky, più interessata al suo racconto erotico che agli studenti che dovrebbe aiutare…

– …e in cui un adolescente può o gettarsi nella gabbia dei leoni senza protezioni – come il disorientato Cameron – o rispondere in maniera insubordinata e creandosi una reputazione quasi leggendaria – come Patrick, fin da subito individuabile come l’alter ego della protagonista.

E l’ambiente è davvero opprimente.

Competizione

Joseph Gordon-Levitt, David Krumholtz e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Il clima della Padua High School è colorito quanto competitivo.

Tramite il racconto di Michael, veniamo accompagnati alla scoperta di un panorama con non pochi spunti interessanti – come i finti rapper neri e i cowboy – anche se non abbastanza esplorati come si meriterebbero – una dinamica ripresa e migliorata successivamente da Mean Girls (2006).

Ne emerge quindi un ambiente estremamente classista, in cui è fin troppo facile farsi escludere da un gruppo – come succede appunto al nostro cicerone – e in cui ragazzi più popolari sono talmente tanto influenti anche solo un loro saluto può diventare merce di scambio.

Joseph Gordon-Levitt e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Questo bizzarro quadretto viene chiuso dall’introduzione degli ultimi personaggi di rilievo: il viscido Joey Donner, che fin dalla sua prima apparizione racconta il suo obbiettivo, ovvero conquistare l’impossibile Bianca giusto per divertimento…

…e, appunto, la più giovane delle sorelle Stratford, graziosa quanto ingenua, e per questo facile preda delle maliziose attenzioni del top guy della situazione.

Ma la via è irta di ostacoli…

Divieti

Julia Stiles e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Walter Stratford è l’altro lato del mondo adulto.

Ormai abituato a vedere ogni giorno ragazzine che diventano madri troppo presto, e ancora ferito dall’abbandono della moglie, il suo personaggio cerca di comandare le sue figlie a bacchetta, nonostante siano entrambe molto meno ingenue di quanto pensi.

La situazione diventa sempre più paradossale nel raccontare una serie di limitazioni quasi da presa in giro: sicuro che Kat non avrà mai relazioni in vita sua, il padre mette come assurda condizione alla vita relazionale della figlia minore che la maggiore abbia un effettivo appuntamento.

Julia Stiles, Larry Miller e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Da qui parte l’intricato piano alle spalle della protagonista, che ha fra i punti di arrivo la confessione del padre, che ammette che i divieti derivino da una sua profonda insicurezza nel diventare solo spettatore della vita delle sue figlie, che invece vuole sempre più tenere legate a sé.

Uno dei tanti temi, purtroppo, lasciati a se stessi.

Ma il vero problema è altrove.

Relazione

Julia Stiles, Heath Leadger e Allison Janneyin una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Ogni racconto enemy to lovers di questo periodo segue una serie di step precisi.

Il confronto va ancora una volta a She’s all that, molto simile nelle sue dinamiche, ma che riesce molto meglio e in maniera molto più credibile – pur con tutti i suoi limiti – a raccontare lo sbocciare dell’amore fra i protagonisti e la parallela maturazione degli stessi.

Al contrario, forse anche per le capacità non eccellenti dell’attrice protagonista, l’intrecciarsi del rapporto con Patrick appare molto macchinoso, e del tutto incapace di integrare la loro relazione con un’esplorazione interessante dei caratteri dei personaggi.

Julia Stiles e Heath Leadger in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

Infatti, se almeno Kat gode di un momento di importante – quanto incolore – confessione sul perché è così scontrosa – interessantissimo spunto, ma lasciato a se stesso – il racconto della vera natura del personaggio di Heath Ledger è incredibilmente dispersivo e poco incisivo.

E si salva solo leggermente la poliedricità di questo interprete immortale, per quanto qui ancora acerbo.

Joseph Gordon-Levitt e Larisa Oleynik in una scena di 10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger

E mi ha lasciato ancora più amareggiata la povertà di scrittura a fronte della ben più interessante maturazione di Bianca, che, per una volta, non ha bisogno di essere salvata dal personaggio maschile, ma arriva alla sua presa di consapevolezza in sostanziale autonomia.

Ma, ancora una volta, sono spunti che si perdono come lacrime nella pioggia…

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Midnight in Paris – La notte appartiene ai sognatori

Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.

A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Midnight in Paris?

Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=FAfR8omt-CY&t=1s

Vale la pena di vedere Midnight in Paris?

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

In generale, sì.

Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…

…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.

Pioggia

I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.

Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.

Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.

Owen Wilson e Rachel McAdams in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.

Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.

Ma c’è una via di fuga.

Esclusiva

Adrien Brody in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

La magia di Parigi non è per tutti.

La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.

E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.

Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.

Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.

Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.

Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.

Consapevolezza

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.

La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.

Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…

Owen Wilson e Léa Seydoux in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…

Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.

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Melinda e Melinda – Punti di vista

Melinda e Melinda (2004) è, al pari di Crimini e misfatti (1989), è una delle opere più sperimentali della carriera di Woody Allen.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un discreto riscontro al botteghino: 30 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Melinda e Melinda?

Due autori di teatro si sfidano a trovare la differenza fondamentale fra commedia e tragedia, partendo dalla stessa storia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Melinda e Melinda?

Radha Mitchell e Chloë Sevigny in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

In generale, sì.

Melinda e Melinda appare a suo modo una riflessione molto intima di Allen sulla sua carriera fino a quel momento, ricalcando dinamiche comiche ormai consolidate nella sua produzione, ma anche esplorando nuovi versanti drammatici…

…proprio alla soglia di prodotti più rivolti in questa direzioneMatch Point (2005) e Blue Jasmine (2013), ma anche Scoop (2006) a suo modo – quasi come se il regista se sdoppiasse, portando in scena due tendenze opposte che sentiva in quel momento.

Melinda e Melinda prende spunto da due visioni diverse.

I due autori dibattono su quale sia il favore del pubblico, se verso la commedia o la tragedia, risolvendosi ad andare a cercare quell’elemento che effettivamente cambia il tono e il taglio di una storia, mettendola da l’una o l’altra parte.

Ma, fin da subito, la differenza di visione è quella fondamentale.

Visione

Il medesimo evento – il racconto del passato – assume un tono diverso a seconda del diverso punto di vista dell’autore: se la Melinda tragica porta in scena un doloroso monologo sul suo passato, il racconto della Melinda comica non appare per intero, ma riassunto solo nei suoi punti salienti.

Per lo stesso evento, cambia moltissimo anche la regia della scena: il monologo tragico appare particolarmente emotivo perché Melinda è l’unica protagonista della scena, mentre il racconto comico code di una visione più ampia su tutti i personaggi della scena.

Radha Mitchell in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

Lo stesso discorso si può fare anche per il tentativo di suicidio.

Essendo un elemento proprio del racconto tragico, Max nella sua versione la abbraccia totalmente, mostrandolo come un evento inevitabile della sfortunata vita di Melinda, come ben sottolineato dalla voce fuori campo di Laurel che chiude la storia.

Al contrario, nel racconto comico, l’elemento del suicidio è relegato ad un personaggio di contorno, che sceglie di togliersi la vita in una bizzarra escalation del suo flusso di pensieri – che ha molti parallelismi col primo monologo della Melinda tragica.

E il riferimento agli stilemi classici non è casuale…

Destino

I due racconti sembrano rifarsi ai dettami classici dei due generi.

Infatti la Melinda tragica è come se fosse destinata ad avere una conclusione infelice, tanto più straziante quando nella sua vita si affaccia la possibilità di una seconda occasione relazionale, che fra l’altro gli viene sottratta da quella che credeva sua amica.

Al contrario, il racconto della Melinda comica sembra voler a tutti i costi avere una conclusione positiva, andando fortuitamente ad fare corrispondere la fine del matrimonio di Hobie con la nascita del suo interessamento per la protagonista.

Ma infine una domanda rimane…

Perché?

Wallace Shawn in una scena di Melinda e Melinda (2004) di Woody Allen

Perché Melinda e Melinda?

Pur non essendo la prima volta che Allen sperimenta con la metanarrativa – come nel già citato Crimini e misfatti – è la prima volta che Allen si affaccia al genere drammatico in senso stretto, ed è come se con questo film volesse riproporsi al pubblico in una veste nuova…

…e, al contempo, riflettere con sé stesso sul cinema, e chiedersi come e se potrebbe sperimentare con un racconto strettamente drammatico, arrivando alla conclusione che non sono i temi a definire il taglio di un film, ma la mano stessa dell’autore.

Non a caso, il successivo Match Point ha alla base un racconto più e più volte portato in scena da Allen…

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Clueless – Il risveglio

Clueless (1995) di Amy Heckerling, noto anche come Ragazze di Beverly Hills, è un cult del genere teen movie.

A fronte di un budget piccolino – 12 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 88 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Clueless?

Cher è una ragazza ricca e popolare, ma che usa la sua influenza per aiutare gli altri. Ma la sua ingenuità sarà la sua rovina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Clueless?

Assolutamente sì.

Clueless rappresenta davvero una perla del genere, anticipando fortemente i tempi con una narrazione dell’adolescenza femminile più collaborativa che vendicativa – come invece si vede in molte occasioni… – e un racconto della sessualità piuttosto dirompente.

Oltretutto, a differenza di film più difficilmente digeribili – per quanto magnifici – come Heathers (1989), è anche un prodotto piacevolissimo da guardare, che comunque non si risparmia in una serie di battute piuttosto sottili e non sempre a portata di adolescente…

Ingenuità

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher è totalmente ignara della sua condizione.

Intraprendendo fin da subito un intenso dialogo con lo spettatore – ottimo metodo, se ben pensato, per potenziare la narrazione, che sarà poi ripreso anche il Mean girls (2004) – ci racconta già moltissimo del suo personaggio – e della sua totale ingenuità.

Pur godendo di un armadio gigantesco, addirittura di un sistema di matching per gli outfit – una delle scene più iconiche, riprese, fra gli altri, in Barbie (2023) – Cher non è la classica adolescente ricca e viziata come ci si potrebbe aspettare.

Fin dalla prima scena viene infatti svelata la sua – seppur ingenua – buona volontà nell’aiutare gli altri, soprattutto il padre, così immerso nella sua turbolenta professione da non essere capace di prendersi cura di sé stesso.

Ma non è finita qui.

Bivio

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Clueless si trova in più momenti davanti ad una serie di bivi.

Cher è un personaggio che fin da subito si distingue dagli altri personaggi femminili dal punto di vista relazionale: genuinamente disgustata dai ragazzi della sua generazione, racconta fra il divertito e l’apprensivo la relazione fra la sua migliore amica, Dionne, e Murray.

E se questo poteva essere un buon momento per far partire la classica divisione fra ragazze buone e cattive…

Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

…e invece Clueless stupisce: non vi è mai un giudizio negativo nei confronti della libertà sessuale delle protagoniste, se non quello che talvolta i personaggi mettono su sé stessi – come quando Donnie dice, quasi con sprezzo, di essere tecnicamente ancora vergine.

E anche la stessa posizione di verginità della protagonista è piuttosto aleatoria…

Buone azioni

Alicia Silverstone in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Anche durante la classe di dibattito, Cher dimostra la sua deliziosa ingenuità.

La sua posizione sull’immigrazione è una piccola zampata nei confronti della totale cecità della borghesia statunitense nei confronti dei problemi reali del paese, ma anche un ulteriore momento per sottolineare la sostanziale bontà della protagonista.

Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Infatti, come Cher potrebbe utilizzare la sua posizione per vendicarsi dei brutti voti di Mr. Hall, invece sceglie di prendere il meglio di quanto ha imparato da suo padre e di ammorbidire il carattere burbero del professore, facendolo innamorare.

Così, anche se un motivo assolutamente egoistico, Cher riesce a far ritrovare due persone molto sole.

Ed è solo l’inizio.

Makeover!

Brittany Murphy in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Fatta la prima buona azione, Cher non ne può più fare a meno.

Dopo uno sguardo piuttosto ironico sul panorama adolescenziale di Beverly Hills e le sue ragazze ricche, viziate e piene di botulino, viene introdotta la preda perfetta, la totale outsider che la protagonista può prendere sotto la sua ala per una nuova buona azione.

Qui Clueless raccoglie particolarmente l’eredità del romanzo da cui si ispiraEmma di Jane Austen – con un arguto parallelismo fra la società iper-classista della Regency e il panorama sociale non meno spinoso dell’alta società californiana.

Per questo, Tai è la via del risveglio.

Brittany Murphy, Alicia Silverstone e Stacey Dash in una scena di Cluless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Cher cerca fin da subito di catturare la sua nuova amica nel complesso sistema della scuola, partendo dal più classico momento di passaggio – il makeover – che viene però totalmente stravolto, riducendolo – al pari di tutte le indicazioni di Cher – in una mania senza significato.

Ed infatti è piuttosto interessante che fin da subito Tai tende a sottrarsi ai tentativi di Cher di incasellarla, prima di tutto negando la sua verginità – elemento estremamente raro in un personaggio di questo tipo – e interessandosi ad un ragazzo che Cher considera inadeguato.

Ma l’alternativa non è migliore…

Voltafaccia

Brittany Murphy e Alicia Silverstone
 in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Il piano di Cher è un disastro.

Proprio come una matchmaker d’altri tempi, la protagonista trova subito il candidato perfetto che Tai può usare come accessorio per riuscire ad imporsi definitivamente con la sua rinnovata immagine e posizione.

E se i tentativi nel complesso sembrano portare nella direzione giusta, con un Elton che si dimostra interessato ad avvicinarsi alla ragazza, infine scoppiano come bolle di sapone quando il personaggio rivela tutta la sua arroganza e classismo, cercando di saltare addosso a Cher.

E così, la caccia ha di nuovo inizio…

…aprendo la sezione che io personalmente considero più geniale della pellicola.

Seduzione

Alicia Silverstone in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Per quanto ingenua, Cher è molto più furba di quanto potrebbe apparire.

Appena posati gli occhi su Christian, prende subito le redini della seduzione, con tutta l’intenzione di dimostrarsi interessante agli occhi di questo fascinoso ragazzo, in una scena che mima sottilmente l’atto sessuale, come ben rivela la battuta di Mr. Hall:

It’s time for your oral!

È ora del tuo orale.

Tutta la dinamica successiva continua a calcare su questo fine racconto erotico, in cui Cher si rende sempre di più desiderabile e desiderata, in particolare portando l’attenzione sulla sua bocca sempre impegnata:

And anything you can do to draw attention to your mouth is good.

E qualsiasi cosa che attiri l’attenzione sulla tua bocca è una buona idea.

Ma la realizzazione infine che Christian non potrai mai essere il suo fidanzato – con una rivelazione molto figlia di tempi, ma perlomeno non offensiva nei toni – è il primo passo per la graduale presa di consapevolezza di Cher di non aver mai avuto il controllo sulla situazione…

…e di aver guardato sempre dalla parte sbagliata.

Insomma, è ora di parlare di Josh.

Realtà

Alicia Silverstone e Paul Rudd in una scena di Clueless (1995) anche noto come Ragazze di Beverly Hills

Josh è la chiave di volta per la maturazione della protagonista.

Sulle prime il loro rapporto sembra il classico enemy to lovers, ma è una dinamica abbandonata non appena il personaggio ha modo di mostrare il suo vero carattere: non uno sfaccendato collegiale, ma un ragazzo timido e insicuro, che cerca rifugio in un’altra famiglia…

…e che, come Cher, ha a cuore gli altri: particolarmente dolce e significativo il momento in cui, alla festa con Christian, la protagonista si rende conto che Tai si senta escluso, ma si rassicura quando vede l’intervento di Josh, che la fa meno sentire fuori posto.

E proprio la realizzazione di essere innamorata del suo ex-fratello, apparentemente improvvisa, invece mette un punto molto interessante al personaggio: non la classica protagonista che cerca il vero amore, ma piuttosto una ragazza che sa cosa è meglio per sé, e che vuole accanto una persona che senta vicina.

Allo stesso modo, Clueless getta una nuova luce su tutti i personaggi – e stereotipi che li accompagnano, svelando una realtà molto più complessa e variegata da quella che viene solitamente raccontata in prodotti similari.

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Un compleanno da ricordare – Il desiderio edulcorato

Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes, noto anche come Sixteen candles, è un piccolo cult del genere teen movie, con protagonista la star del genere negli Anni Ottanta: Molly Ringwald, futura protagonista anche in The Breakfast club (1985) e in Pretty in Pink (1986).

A fronte di un budget piccolino – appena 6,5 milioni di dollari, circa 19 milioni oggi – fu un buon successo commerciale: 23 milioni di dollari in tutto il mondo, circa 65 oggi.

Di cosa parla Un compleanno da ricordare?

Sam è una ragazzina che ha appena compiuto sedici anni, ma a cui niente sembra essere cambiato. E invece sarà un compleanno pieno di sorprese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Un compleanno da ricordare?

Molly Ringwald (Sam) e Michael Schoeffling (Jake) nel finale di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Assolutamente sì.

Mi sbilancio così tanto nel consigliarvi questa pellicola perché è un tuffo quasi alienante in una visione del mondo così ingenuamente stringente, con una classificazione dei personaggi – particolarmente quelli femminili – fra buoni e cattivi – e senza possibilità di replica.

Oltre a questo, Un compleanno da ricordare, nonostante voglia raccontarsi come una commedia romantica, è in realtà uno dei pochi teen movie che parla in maniera veramente poco edulcorata dell’esplosivo desiderio sessuale adolescenziale.

Insomma, vale la pena di riscoprirlo.

Desiderio

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Per quanto il film cerchi di edulcorarlo, il desiderio della protagonista è chiarissimo.

All’inizio la sua sembra la più innocua fantasia di cambiamento, di crescita, di vedere davvero un mutamento così fondamentale, che ormai dovrebbe essere avvenuto, ma che invece sembra invisibile a tutti gli altri – tanto che nessuno sembra essersi ricordato del suo compleanno.

Poi, emergere il vero desiderio.

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Tramite un piccolo questionario anonimo, ci immergiamo in tutti i dubbi più tipici della scoperta sessuale: la volontà di avere un rapporto, ma la paura di non riuscirci, di non sapere addirittura se qualcosa è già successo, nonostante l’oggetto del desiderio sia lampante.

E lo stesso ha dei risvolti quantomeno dubbi…

Interesse

Michael Schoeffling (Jake) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Fin da subito Jake è il protagonista di una dinamica leggermente inquietante, ma che ben inquadra la forse involontaria ambiguità del personaggio: come Sam lo guarda piena di desiderio, lo stesso sembra ricambiare l’interesse, impossessandosi avidamente delle sue risposte rivelatorie al questionario.

Ma, forse anche complice la scarsa interpretazione di Michael Schoeffling, appare poco chiara la nascita del suo desiderio verso Sam: se da una parte appare ormai stufo del suo attuale rapporto, vuoto e inconsistente su una ragazza che, come vedremo, neanche rispetta…

Michael Schoeffling (Jake) e Haviland Morris (Caroline) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

…dall’altra, è davvero poco trasparente il motivo per cui Sam le interessi così tanto: anche se afferma di voler cercare altro oltre al semplice rapporto sessuale, davvero basta che la protagonista dimostri un minimo di interesse nei suoi confronti per farlo innamorare?

Oppure…

Vergine

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Un compleanno da ricordare appare per certi versi un goffo manuale della castità.

Infatti la positività della protagonista non è spiegabile al di fuori della sua verginità: volendosi rivolgere ad un pubblico molto giovane, il film racconta un’adolescente piuttosto tipica, con le sue insicurezze e il suo facile indispettirsi quando non ha tutte le attenzioni per sé.

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Al contrario, non tanto la sua illibatezza, ma il suo desiderio di conservarsi per una persona in particolare la rendono evidentemente migliore di tutti gli altri personaggi femminili: Caroline, la tanto disprezzata ragazza di Jake, e Ginny, la sconsiderata sorella della protagonista.

Due donne con una sessualità fin troppo libera e che, per questo, devono essere punite.

E come vengono punite…

Punizione

Blanche Baker (Ginny) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Ginny e Caroline sono due personaggi sostanzialmente sovrapponibili.

Ginny è anzitutto colpevole di distogliere l’importante attenzione della famiglia di Sam dal compleanno della protagonista, per focalizzarsi invece su un’occasione che non determinata il coronamento di un sogno d’amore, ma solamente la conferma dell‘incosciente condotta del suo personaggio.

Infatti in non poche scene appare chiaro come la scelta del compagno non derivi da un effettivo interesse nei suoi confronti, ma piuttosto da un desiderio di riposizionamento sociale: non più come donna che salta da un letto all’altro, ma come una moglie da rispettare – anche se di un uomo insulso…

Haviland Morris (Caroline) e Anthony Michael Hall (Ted) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Ed è inquietante quanto interessante come un momento in cui avrebbe dovuto essere estremamente presente, Ginny è invece totalmente in balia degli eventi proprio come Caroline, una donna di così poco conto da poter essere – a parole e nei fatti – violata più volte.

Il suo personaggio è infatti in assoluto il più bistrattato: preso sulle spalle come un sacco della spazzatura e portato in macchina di uno sconosciuto che non fa di fatto niente per evitare di essere colpevole di uno stupro – di cui, anzi, si compiace.

Perché, in verità, il personaggio maschile attivo sessualmente è sempre premiato.

Premio

Gedde Watanabe (Dong) nella scena del ballo di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Oltre alla protagonista, due sono i personaggi che ricercano attivamente il sesso.

Da una parte lo strambo Dong, rappresentazione ingenuamente razzista di un apparente geek incapace di relazionarsi con le ragazze, ma che invece viene coinvolto nel party di Caroline, in cui può rivelare la sua sessualità veramente esplosiva, diventando il comic relief della storia.

In particolare a lui si devono i momenti più esplicitamente sessuali della pellicola: dal rapporto vestito con la sua nuova fiamma, fino al lento del ballo, in cui Dong si appoggia letteralmente sul seno della ragazza e dà adito ad una sfilza di battute a sfondo erotico anche piuttosto intraprendenti visto il tipo di target.

La scena delle mutande di Sam di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

L’altro geek premiato è Ted.

Il suo personaggio comincia una rincorsa impossibile verso Sam, in una maniera che lo definirebbe immediatamente come fuori dalla corsa del sesso, tanto sono viscidi e improvvisati i suoi tentativi di rimorchio, di rivalsa sociale – per cui è disposto a spendere fin troppo.

E, invece, assumendo il ruolo di aiutante della protagonista e di promotore della coppia, Ted non solo riesce ad ottenere la prova della sua vittoria sessuale, ma addirittura ad avere il suo primo rapporto con una ragazza apparentemente ancora più inavvicinabile di Sam.

E lo stupro è presto perdonato…

Sacro

Il finale di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

La dinamica del finale è pregna di un simbolismo veramente rivelatorio.

Sam viene rivestita di abiti incredibilmente verginali e idilliaci, tanto da prendere in qualche modo il posto della sorella come sposa – anche per il fraintendimento dello stesso Dong – e quindi venir ricondotta ad uno status sociale totalmente accettabile, anzi desiderabile.

Di fatto, proprio per quanto detto sopra, Sam viene premiata con una sorta di unione sacra con Jake, un dolce bacio scambiato al lume di candela che chiude la pellicola – apparentemente non lasciando trasparire altro dal loro rapporto.

Anche se…

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Pretty in Pink – Una pallida origine

Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch, in Italia noto anche come Bella in rosa, è un classico del genere teen movie Anni Ottanta.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 9 milioni di dollari, circa 25 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 114 oggi).

Di cosa parla Pretty in Pink?

Con un’estrazione sociale bassissima e l’emarginazione sociale continua nel suo liceo per ricchi, Andie si trova coinvolta in un innamoramento pericoloso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pretty in Pink?

Molly Ringwald (Andie), Jon Cryer (Duckie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

In generale, sì.

Pretty in Pink è un classico davvero in senso stretto: all’interno della pellicola ritroverete dinamiche piuttosto tipiche del genere, ma molto più all’acqua di rose, molto più con i piedi per terra, con pochi picchi drammatici davvero significativi.

Una visione che ci riporta agli albori del teen movie quando, positivamente o meno, queste pellicole erano molto più con i piedi per terra, e molto meno smaccati rispetto ai – forse – più godibili prodotti dei decenni successivi.

Però, dategli un’occasione.

Status

Molly Ringwald (Andie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Andie vive in uno status quo da cui sembra impossibile evadere.

La protagonista è amaramente consapevole della sua disprezzabile estrazione sociale, del suo aspetto e abbigliamento stravagante – dovuto anche all’impossibilità di comprarsi abiti di prima mano – e al non avere un appuntamento per il ballo scolastico…

…ma, anche ampiamente spalleggiata da Duckie, mostra anche una certa superiorità nel non essere come quei ragazzi ricchi e viziati, che ora la punzecchiano per avere un appuntamento, ora la bullizzano apertamente.

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) nella scena del loro primo incontro di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Eppure, un’alternativa è possibile.

Il primo approccio con Blane deriva proprio dalla situazione sociale della protagonista: nonostante sia evidentemente interessata a questo nuovo ragazzo, Andie si pone fin da subito sulla difensiva, lanciandosi in qualche battuta classista molto goffa.

Ma questo non ferma Blane, che comincia un dolcissimo corteggiamento della protagonista, rispettando i suoi spazi e avvicinandosi a lei con delicatezza e nei giusti tempi, mostrandosi totalmente ignaro della aspra contesa sociale in atto.

Intrusione

Molly Ringwald (Andie) e Jon Cryer (Duckie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Con il loro primo appuntamento, è come se Blane e Andie volessero mettere alla prova i loro rispettivi spazi sociali.

Già tutta l’attesa di Blane racconta la profonda insicurezza della protagonista, continuamente intimorita dall’idea di essere solo un interesse passeggero, di essere in realtà una vergogna per questo fin troppo dolce ragazzo.

Ma l’effettivo arrivo di Blane è il trigger emotivo inevitabile di Duckie: in questa fase il suo personaggio è insopportabilmente chiassoso, incapace di comunicare serenamente il suo disappunto per la nuova relazione, tanto da tirare ridicolmente in mezzo la stessa Iona.

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

E non è neanche la situazione peggiore.

L’intrusione nel party di Jeff è ingenua quanto disastrosa: non ancora consapevole del disprezzo del suo amico nei confronti della sua nuova fiamma, Blane introduce la protagonista in un panorama che le sta fin da subito stretto.

Così, il loro spazio intimo è da ricercare altrove: la conclusione del secondo atto è rappresentata dal picco drammatico e romantico della neonata coppia, con la confessione dolorosa quanto fondamentale di Andie, che infine porta al primo bacio.

Incubazione

Molly Ringwald (Andie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Nell’atto finale, tutto si ribalta.

Al trionfo romantico della coppia si alterna invece al climax per l’inevitabile allontanamento, alimentato dai dubbi da entrambe le parti: le pressioni sociali di Blane da parte di Jeff e la concretizzazione delle paure di Andie dall’altra.

Un momento particolare della pellicola, che offre alla protagonista lo spazio per rinascere, per superare la sua quasi totale passività al quadro sociale – sopratutto alle sue recenti evoluzioni – e invece ritornando attiva proprio nella scelta di partecipare al ballo pure senza accompagnatore…

…ma non è la sola.

In questo momento di passaggio, anche altri personaggi trovano la conclusione della loro storia: anzitutto il padre di Andie, fin dall’inizio sferzato dalla figlia per migliorare la sua condizione lavorativa, che ammette finalmente il motivo del suo immobilismo.

Ma sopratutto assistiamo al punto di arrivo di un personaggio che ha vissuto sostanzialmente sullo sfondo: Iona, personaggio in cerca di un’identità che, pur in maniera un po’ discutibile, trova il suo punto di arrivo in un ragazzo con la testa sulle spalle, con cui trova finalmente la sua felicità.

Confronto

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Lo scioglimento della vicenda è da manuale.

La ricomposizione della coppia è possibile solo se ognuno dei due personaggi risolva la situazione che in primo luogo ha rovinato la relazione: e se per Andie è una risoluzione costruttiva, con Duckie che finalmente accetta il nuovo fidanzato come un personaggio rispettabile…

…e invece per Blane è una risoluzione distruttiva, che segna il distacco definitivo da Jeff e dalla sua cricca, comprendendo le vere ragioni del disprezzo del suo ex-amico verso la sua amata, e chiudendo la pellicola con il più classico bacio risolutore dei due personaggi.

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Juno – Il fallimento della comunità

Juno (2007) di Jason Reitman è uno dei più importanti cult adolescenziali dei primi Anni Duemila, che fra l’altro lanciò Elliot Page come attore.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 6.5 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 232 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Juno?

Juno è una ragazzina di 16 anni che si trova davanti ad un problema molto più grande di lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://youtu.be/ldEt22KEKhU?si=lboYCLY1YdSHa8sQ

Vale la pena di vedere Juno?

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dipende.

Juno è un film che terrei il più possibile lontano da bambini e adolescenti: è difficile quantificare quanto questo prodotto sia diseducativo e totalmente fuori dal tempo – anche se rappresentativo di aree politiche ancora molto reali…

Se siete abbastanza grandi da guardarlo con un occhio critico e volete immergervi in un prodotto che è la rappresentazione di tutto quello che c’era – e c’è tutt’ora – di sbagliato nella concezione del corpo femminile, sarà una bella avventura…

Una ragazza diversa

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Juno è una ragazza diversa.

Questo concetto viene riproposto in innumerevoli momenti del film, sia in senso positivo che negativo, ma andando a rincorrere un ideale incredibilmente popolare nei teen movie del periodo: dividere le donne in figure di serie A e di serie B.

Solitamente la protagonista femminile in questo tipo di prodotti viene premiata proprio per la sua diversità dal resto delle ragazze così superficiali, insipide e che inseguono le mode del momento, oltre ad essere molto spesso fin troppo sessualmente attive – per non dire altro…

La protagonista e il film stesso si nutrono profondamente di questo ideale, andando anzi ad elevare ancora di più il suo personaggio così tanto altruista e che, secondo la morale della pellicola, ha fatto la scelta che nessuna ragazza avrebbe fatto – e quella più giusta.

Il sesso meccanico

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ancora più problematica è la rappresentazione del sesso.

Per quanto Juno dica che l’intercorso con Becker sia stato fantastico, la scena e i personaggi raccontano invece tutt’altro: la messinscena è nient’altro che la rappresentazione del sogno erotico maschile, della ragazza pronta a soddisfarlo, senza aver avuto bisogno di alcun preliminare…

… e non è un caso che si mostri il piacere di Becker, ma mai quello di Juno.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Ma il racconto del sesso da parte degli adulti è anche peggiore.

Nello specifico, Brenda spiega come gli adolescenti facciano sesso perché si annoiano, tenendo nello specifico a sottolineare che il rapporto con Becker è stata un’idea di Juno: una ragazza che va quindi colpevolizzata, e che deve portare fino alla fine i risultati della sua colpa, per riuscire a trarne qualcosa di buono.

La comunità ostile

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La radice del problema va ricercata negli adulti, e in generale in tutta la comunità di cui Juno fa parte.

Anzitutto, è particolarmente problematica la rappresentazione di Woman Now, che dovrebbe essere un luogo che, come dice la stessa Juno, aiuta le donne, ma che invece nella realtà del film, le umilia, come ben raccontato dal modo in cui la ragazza al welcome desk si rivolge a Juno:

We need to know about every score and every sore

Devi metterci ogni scopata e malattia beccata.
Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Questo scambio ha, di fatto, due principali obbiettivi: anzitutto, raccontare questi luoghi come dei covi di donne con una sessualità esplosiva e quindi condannabile, financo disgustosa – in questo senso, lo scambio sui preservativi è tutto un programma.

Oltre a questo, questi luoghi, che dovrebbero appunto aiutare le donne, in realtà non sono per nulla accoglienti, anzi, sono degli spazi ostili, dove le donne dovranno far presente di tutta la loro vergognosa vita sessuale.

Al contrario, Brenda e soprattutto Vanessa sono figure materne e accoglienti, capaci di chiudere un occhio sulla cattiva condotta della protagonista, premiandola proprio per il suo essere così altruista nel portare avanti questo miracolo divino.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

La ciliegina sulla torta è Su-chin, la ragazza che Juno incontra davanti a Woman Now, che si fa portatrice di una retorica propria dei movimenti antiabortisti: i bambini che le donne abortiscono soffrono, e sono già molto più formati di quanto si creda.

Non penso di dover spiegare quanto queste argomentazioni siano deliranti, nonchè puro terrorismo psicologico.

Ma Juno è ancora più un fallimento della sua comunità perché la stessa non è stata in grado di fornirle un’adeguata educazione sessuale, che le permettesse in primo luogo di non vivere l’esperienza sessuale come un’alternativa alla noia, e che le insegnasse in particolare il misterioso concetto di sesso protetto.

Un figlio a tutti i costi

La rappresentazione del rapporto fra Vanessa e Mark è terrificante su più livelli.

Anzitutto per Mark, che non solo si mostra totalmente indifferente per tutta la dinamica della nuova famiglia, ma al contempo è anche un adulto incapace di crescere e maturare, del tutto ancorato all’immaginario adolescenziale.

Ovviamente l’elemento peggiore è come uomo di quasi quarant’anni intraprenda una relazione con una sedicenne, evidentemente cercando di essergli molto più che un amico, anzi sottintendendo di voler lasciare Vanessa per intraprendere un rapporto con lei…

Ma neanche Vanessa è molto meglio.

Ovviamente per il film il suo personaggio è quasi una donna angelica, il cui unico obbiettivo è diventare madre – non a caso, non sappiamo se abbia un lavoro e quale sia – e che celebra e santifica la gravidanza e la maternità come esperienze a prescindere splendide e imperdibili.

Ma se guardiamo più cinicamente il suo personaggio, sotto quest’aurea mariana intravediamo una maniaca del controllo, che si è costruita un matrimonio su misura, con un compagno che evidentemente – e anche legittimamente – ha altri interessi nella vita oltre all’essere un padre.

L’unica speranza è che sia una migliore come madre che come una compagna…

La gravidanza idilliaca

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

Dei genitori giudiziosi avrebbero accompagnato la figlia verso la scelta più giusta per la sua età, e soprattutto per il suo reale desiderio.

Infatti, è veramente grottesco quanto Juno insista sul fatto di quanto non voglia quel figlio: non quindi una donna effettivamente altruista, ma piuttosto un’adolescente che anche comprensibilmente – vuole togliersi un peso.

Ma, di fatto, Juno è il sogno di ogni antiabortista.

Un discorso che viene spesso proposto per dissuadere le ragazzine ad abortire è l’idea di tenere il bambino e darlo in adozione – esattamente quello che succede nel film – del tutto ignorando cosa significa per una donna – soprattutto una giovane donna – affrontare una gravidanza.

Elliot Page in una scena di Juno (2007) di Jason Reitman

E infatti nel film fondamentalmente non vediamo mai alcun problema fisico o psicologico che la protagonista deve affrontare, ma al più i suoi turbamenti legati al rapporto tossico dei genitori adottivi, e a come Juno sia una martire a portare avanti la gravidanza, nonostante tutti le parlino dietro…

…elemento che, nei fatti, non viene mai mostrato.

Ed è tanto più semplice raccontare come Juno si disinteressi totalmente del bambino nato, lasciandole alle amorevoli cure di Vanessa, con una dinamica che sfiora la depressione post-partum, ma che viene portata in scena come una conclusione ideale.

Infatti, l’amore e la vita hanno trionfato.

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High School Musical – Un fenomeno generazionale

High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.

A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.

Di cosa parla High School Musical?

Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere High School Musical?

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Assolutamente sì.

A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.

Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.

Insomma, da recuperare.

Qualcosa di nuovo

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I never opened my heart
to all the possibilities

Non mi sono mai aperto a tutte le possibilità

Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.

I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.

E il loro duetto è determinante per più motivi.

I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.

Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.

Fuori dagli schemi

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Just keep ya head in the game

Devi stare concentrato sul gioco

Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.

Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.

Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.

In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.

Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.

Troy e Gabriella provino

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma arrivare alle audizioni non basta.

Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.

In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…

Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.

E così accade l’inaspettato.

Una villain magnetica

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I’ve never had someone as good for me as you

Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.

Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls (2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.

Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.

Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.

Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.

Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…

Lo status quo

Stick to the stuff you know

Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.

In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce, della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.

Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.

Zac Efron e Monique Coleman in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma la ribellione non può essere fermata.

Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.

In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.

E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.

Crescere

Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

There’s not a star in heaven
That we can’t reach

La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.

Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.

Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.

Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.

A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.

High School Musical sequel

High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.

Ma vale la pena di vederli?

In generale, sì.

Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 2 (2007) di Kenny Ortega

High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.

La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada (2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.

Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.

Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 8 (2006) di Kenny Ortega

Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.

Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.

Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.