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Crimini e misfatti – Il meta-dramma

Crimini e misfatti (1989) è una delle prime pellicole in cui Woody Allen, fra la commedia e il dramma, spazia in riflessioni esistenziali e metanarrative.

A fronte di un budget medio – 19 milioni di dollari, circa 46 oggi – fu un pesante flop al botteghino, con un incasso che fu quasi pari alle spese di produzione.

Di cosa parla Crimini e misfatti?

La pellicola segue due storie parallele e collegate in maniera piuttosto peculiare: da una parte Cliff Stern, un regista di documentari che vive di sogni, e dall’altra Judah Rosenthal, un dottore di successo ma con un oscuro segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimini e misfatti?

In generale, sì.

Per quanto sia nel complesso una visione piacevole e anche genuinamente divertente, Crimini e misfatti rappresenta un tentativo a mio parare ancora acerbo di accostare all’interno della stessa pellicola una profonda tematica esistenziale alla tipica comicità di Woody Allen.

Ne risulta una riflessione esistenziale, metanarrativa, che anticipa il più riuscito Match point (2005) e che tenta ancora una volta di mischiare il dramma con la commedia – una sperimentazione che avrà il suo picco in Melinda e Melinda (2004) – in con un prodotto non del tutto riuscito.

Il dramma invisibile

Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

In un clima festoso e apparentemente confortante, un angoscioso flashback ci svela l’oscuro segreto del protagonista.

Parte così un inseguimento alla scheggia impazzita, a quella donna così isterica e incontrollabile che potrebbe non solo distruggere la vita matrimoniale di Judah – omen, nomen – ma anche la sua credibilità sociale.

Con questa vicenda dai risvolti quasi thriller, Crimini e misfatti racconta anzitutto un dramma esistenziale legato ad un personaggio di successo e con una vita apparentemente desiderabile, in realtà con diversi scheletri nell’armadio.

Ma il peggio deve ancora arrivare.

La ricercata colpevolezza

Martin Landau e Jerry Orbach in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

L’uccisione della donna appare quasi inevitabile.

Ma è la stessa a far intraprendere al protagonista un’angosciosa riflessione sulla colpa e sulla punizione, andando anche a ripercorrere l’educazione religiosa che l’aveva convinto che ad un crimine seguisse sempre un giusto castigo.

Proprio per questa convinzione Judah – in una dinamica che per certi versi mi ha ricordato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – sembra quasi che voglia farsi scoprire, rischiando più volta di rovinare un piano dall’ideazione praticamente perfetta.

Cinema e religione

Woody Allen in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

La storia di Cliff viaggia parallela a quella di Judah.

Il collegamento più immediato è la totale simmetria fra i due drammi: come Judah tempo prima, anche il personaggio di Allen si trova invischiato in una storia amorosa e adultera che sembrerebbe risolutiva del suo insoddisfacente matrimonio.

Se questa tematica di per sé non è niente di nuovo per la produzione di questo regista, il collegamento più interessante è quello metanarrativo.

Per quanto i due personaggi non si conoscano fino alla fine, in realtà Cliff vede la storia di Judah grazie ai diversi titoli che visiona con la nipote durante la pellicola – in ordine, Il signore e la signora Smith (1941), Il fuorilegge (1942), Happy Go Lucky (1943) e L’ultimo gangster (1937).

Woody Allen e Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

Per questo l’incontro finale è fondamentale.

In un’amara riflessione, Judah racconta a Cliff il suo dramma personale nell’essere colpevole, ma non punito, andando quindi a vanificare tutte le sicurezze morali che avevano definito la sua vita fino a quel punto.

E, proprio davanti alla replica di Cliff, che cerca di ricondurre la storia a degli stilemi narrativi fittizi e cinematografici, l’altro gli ricorda che la realtà – purtroppo – funziona diversamente, e non è possibile avere sempre un finale positivo, o anche solo soddisfacente.

In questo modo, anche se indirettamente, il personaggio di Woody Allen si rende conto che le sue convinzioni per cui Halley non avrebbe mai premiato il borioso e insopportabile Lester, in realtà si sono rivelate illusorie e derivanti proprio dai film che tanto amava, distrutte davanti alla più amara realtà che ha dovuto sopportare.

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Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

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Genitori in trappola – Un gustoso equilibrio

Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers, remake di Il cowboy con il velo da sposa (1961), è un irresistibile incontro fra una rom-com e una commedia per ragazzi.

Con un budget veramente contenuto – appena 15 milioni di dollari (circa 28 oggi) – fu un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo – circa 172 oggi.

Di cosa parla Genitori in trappola?

Annie e Hallie sono appena arrivate al campo estivo, e scopriranno di essere più simili di quanto pensano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Genitori in trappola?

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Assolutamente sì.

In questo caso sono veramente molto di parte perché Genitori in trappola è uno dei film della mia infanzia, che guardo ancora oggi con grande piacere.

Tuttavia, è indubbio che si tratti di una pellicola molto trasversale, che può conquistare un pubblico più o meno giovane, vista la varietà di situazioni e personaggi che animano la scena.

Fra l’altro con una divisione molto precisa dei tre atti della storia, alternando stili e generi diversi: dall’avventura per ragazzi, alla commedia degli equivoci, al più struggente dramma romantico.

L’importanza del volto

Natasha Richardson e Dennis Quaid in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Fin da subito la regia di Genitori in trappola gioca sulla dinamica dell’identità celata e rivelata.

Tutta la sequenza iniziale racconta una breve ma intensa storia romantica, i cui protagonisti ci rimangono sconosciuti fino alla fine del primo atto, con un susseguirsi di particolari che rivelano i contorni dell’antefatto.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Anche se non viene esplicitata la presenza di un figlio – anzi, di due gemelle! – l’ellissi temporale di 11 anni e 9 mesi ci fa già sospettare qualcosa…

Quando poi vediamo entrare in scena le due protagoniste, cominciamo ad unire i puntini e diventiamo di fatto complici della regia, che si diverte a giocare con gli equivoci che tengono le due ragazzine divise per diverse sequenze.

Alle origini della commedia

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Un grande merito di questa pellicola è di essere riuscita ad anticipare due grandi capisaldi della commedia del successivo millennio, riuscendo a gestirli con grande equilibrio.

Anzitutto, l’utilizzo dei personaggi tipizzati.

La commedia dei primi Anni Duemila straborderà di questo contrasto fra la cultura inglese e quella statunitense, dinamica che troviamo già in nuce in Genitori in trappola, che però ha il merito di saperla contestualizzare adeguatamente.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Infatti, come Hallie è la classica californiana chiacchierona e un po’ guascona, con un carattere del tutto comprensibile visto il tipo di ambiente in cui è cresciuta, allo stesso modo Annie, figlia di una stilista elegante e raffinata, non può che essere una ragazzina a modo.

Un altro elemento imprescindibile della commedia del decennio successivo sarà l’inserimento di situazioni comiche al limite del grottesco, anche apertamente disgustose.

È questo il caso dei vari scherzi che le due gemelle si fanno fra di loro, con il picco rappresentato dal terribile risveglio di Annie, con delle trovate che ricordano molto da vicino le micidiali trappole di Mamma ho perso l’aereo (1990).

Senti chi parla ora!

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Da grande appassionata di film per ragazzi, un elemento secondo me immancabile del genere è l’assoluta superiorità dei bambini verso gli adulti.

Infatti, è un aspetto che riesce veramente ad incarnare il sogno infantile della supremazia verso un mondo adulto spesso incomprensibile, e che altrettanto frequentemente mette un freno a sogni ed a progetti, soprattutto quelli più scalmanati.

In questo caso, proprio grazie alla loro ritrovata amicizia, le due sorelle mettono in atto un piano incredibilmente audace, riuscendo a dare il via a quegli eventi che potranno finalmente riunire la loro famiglia, laddove i genitori ne erano stati incapaci.

I volti giusti

Lindsay Lohan e Natasha Richardson in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Il casting di Genitori in trappola non è per nulla casuale.

Anche in questo caso la pellicola rischiava pericolosamente di ricadere in facili stereotipi sulla giovane donna arrivista e il giusto interesse amoroso che è invece una donna diversa da tutte le altre.

Al contrario, il film sceglie di mettere sullo stesso piano Nick e Liz: anche se apparentemente sono due persone molto diverse, in realtà sono accomunate dall’incarnare il sogno tutto americano del self-made man – e woman, in questo caso.

Infatti, entrambi hanno seguito le loro passioni e si sono costruiti una vita soddisfacente e di successo nei loro rispettivi campi.

Lindsay Lohan e Elaine Hendrix in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Ma non finisce qui.

Lo spettatore può empatizzare facilmente con questi personaggi sia per i loro volti semplici, puliti, i loro sorrisi aperti e sinceri, sia per il loro modo di vestirsi – equilibrato e accessibile anche quando sono molto eleganti – e di porsi – accogliente e persino comico in non pochi momenti.

Meredith è invece tutto il contrario: appare fin da subito come una presenza artificiosa, fuori luogo, una facciata costruita con un sorriso smagliante, ma che, al contrario di Liz, è forzato e velenoso…

Una strada solitaria

Per quanto le due protagoniste si sforzino nel far rimettere insieme i loro genitori, è una strada che i due devono percorrere da soli.

In primo luogo, è Nick che deve rendersi conto del valore di quello che sta perdendo, proprio quando è messo davanti ad una scelta apparentemente difficile – scegliere fra le figlie e la futura moglie – posta da un’esasperata Meredith che mostra finalmente il suo vero volto.

Ma anche con l’uscita di scena della donna di troppo, la storia di Nick e Liz è un continuo rincorrersi, una costante paura di riprendere le fila di una storia che era stata abbandonata così bruscamente, in maniera così apparentemente irrimediabile…

Ma è col piacevolissimo colpo di scena finale che questa strana e rinnovata famiglia ritrova finalmente la sua unione.

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Indovina chi viene a cena? – Un momento di passaggio

Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer è uno di quei cult senza tempo che riescono a fotografare l’epoca storica in cui sono usciti, ma al contempo rimanere attualissimi negli anni a venire.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 4 milioni di dollari, circa 36 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 56.7 milioni in tutto il mondo – circa 517 oggi.

Di cosa parla Indovina chi viene a cena?

Joey è una ragazza solare e apparentemente molto ingenua: nonostante venga da una famiglia bianca, sceglie di fidanzarsi con John, un uomo nero di grande successo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Indovina chi viene a cena?

Assolutamente sì.

All’interno di un impianto da commedia anche piuttosto leggera, Indovina chi viene a cena? racconta un passaggio fondamentale tra la generazione che pose le basi per superare uno scontro sociale secolare, e i figli della stessa che misero effettivamente in pratica le idee imparate dai genitori.

Infatti, nelle sue ultime battute, la pellicola abbraccia toni più drammatici e seriosi, offrendo diversi punti di riflessione.

Insomma, un manifesto antirazzista ancora attualissimo.

Guardami negli occhi

Il primo atto della pellicola è definito dagli sguardi.

Mentre Joey vive la situazione con la massima serenità, del tutto ignara delle espressioni delle persone che inevitabilmente giudicano le sue scelte relazionali, la regia si sofferma costantemente sulle reazioni dei personaggi con cui i protagonisti vengono a contatto.

Reazioni per la maggior parte dei casi mute, ma definite da espressioni assai eloquenti.

La peculiarità di queste situazioni risiede proprio nel fatto che di per sé la maggior parte delle persone non si sconvolge nel trovarsi davanti un uomo nero, anzi si mostra rispettosa nei suoi confronti chiamandolo dottore

…ma tutto cambia quando Joey annuncia la loro relazione, scatenando perplessità e disapprovazione.

Non vedere i colori

Katharine Houghton in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Joey rappresenta appieno la nuova generazione, cresciuta con ideali più inclusivi e pronta a metterli in pratica.

Una gioventù che manca totalmente di quel peso sociale della discriminazione fra bianchi e neri – in una visione ovviamente molto idealizzata e funzionale – al punto che la protagonista, prima ancora di informare i genitori dell’etnia del suo fidanzato, ne racconta il meraviglioso carattere.

Perché è davvero la prima cosa che vede.

Katharine Hepburn e Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

E allo stesso modo i suoi genitori sono del tutto disarmati, non riuscendo a trovare un solo motivo per opporsi al loro matrimonio, che non sia proprio un motivo razziale: John è semplicemente la migliore persona che potrebbero voler vedere al fianco della figlia.

E l’assoluta novità del film è il fatto di non mostrare né visivamente né nei comportamenti un’effettiva differenza fra le due famiglie – anche banalmente non utilizzando stereotipi poco felici – ma rappresentandole proprio come l’una lo specchio dell’altra.

Il primo risveglio

La prima persona che arriva effettivamente ad una consapevolezza positiva è Christina, la madre di Joey.

Ed è una consapevolezza che sopraggiunge nella maniera più brutale.

La donna, pur piena di dubbi, si trova a confrontarsi con Hilary, la sua collega di lavoro, che dimostra tutta il suo malcelato razzismo per la situazione di Joey, portando Christina a rendersi conto di starsi guardando in un orrendo specchio: quella potrebbe essere lei, se continua sulla strada del dubbio.

Per questo infine sceglie di diventare la principale promotrice della scelta della figlia, in primo luogo allontanando un personaggio scomodo come Hilary, ripromettendosi silenziosamente di non aver più certe persone intorno.

Lo scontro generazionale

Roy Glenn in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Il terzo atto è dominato da una regia quasi teatrale, con molte inquadrature fisse e semplici campi-controcampi, in cui i personaggi vengono inquadrati con mezzi primi piani, che li rendono gli assoluti protagonisti della scena, liberi di muoversi nella stessa.

Gli ostacoli al coronamento del sogno dei protagonisti sono due, ovvero i padri.

John Pertince Sr. sembra il personaggio più accanito, ma in realtà è quello che il figlio riesce più facilmente a sconfiggere.

Roy Glenn e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Tramite il loro scontro, il film mostra esplicitamente e per la prima volta la sua vera faccia, delineando un discorso intergenerazionale in cui i padri richiedono rispetto per il mondo che hanno creato e per i sacrifici che hanno fatto per i loro figli.

Ma sono i figli i primi a ribellarsi, e anche violentemente: con una retorica incredibilmente avanguardistica, John rigetta l’idea della colpa di essere nato, facendo ricadere le responsabilità dei sacrifici del padre sul genitore stesso.

Ma la svolta più significativa è quella di Matt.

Mettersi in gioco

Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

John mette il futuro suocero davanti ad un aut aut: o accetta in tutto per tutto la relazione della figlia, oppure questo matrimonio non s’ha da fare. Il giovane uomo si dimostra infatti ben più consapevole della fidanzata circa le difficoltà che dovranno affrontare come coppia mista.

E per questo vuole evitare di averne in primo luogo nella sua stessa famiglia.

Portando così Matt ad intraprende una riflessione per nulla scontata – ma non ci saremmo potuti aspettare di meno dal padre di Joey.

Spencer Tracy e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Infatti, le sue riflessioni e le sue paure non sono pregiudizi razziali, ma piuttosto concrete preoccupazioni sul destino incerto e potenzialmente molto difficoltoso della coppia, non riuscendo, fino all’ultimo, ad essere veramente sicuro di volerlo approvare.

Invece alla fine, con un monologo quanto più semplice, quando più attuale possibile, mette finalmente in pratica quegli ideali che ha trasmesso così efficacemente alla figlia.

E così rigetta l’insensato razzismo che vorrebbe dividere una coppia meravigliosa solamente per la diversa pigmentazione della pelle. E proprio grazie a lui finalmente i componenti di questa neonata famiglia possono sedersi ad un tavolo come pari.

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Shrek – Lo schiaffo dovuto

Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson è uno dei titoli più cult dell’animazione del nuovo millennio, una delle prime prove di animazione 3D della Dreamworks.

Non a caso, fu un successo incredibile: a fronte di 60 milioni di budget, incassò ben 484 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Shrek?

Shrek è un orco che vive in una serena solitudine in un mondo favolistico. Ma un nuovo decreto di Lord Farquaad metterà a rischio la sua isola felice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek?

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

C’è da chiederlo?

Shrek è un cult non per caso, anche solo per l’importanza storica che ebbe per l’animazione: un approccio davvero rivoluzionario, con un protagonista totalmente fuori dagli schemi che il pubblico aveva visto fino a quel momento.

Fra l’altro, una pellicola dalla durata veramente limitata, ma che riesce perfettamente a bilanciare i tempi e raccontare tematiche di inedita profondità pur con un minutaggio ridotto.

Insomma, cosa state aspettando?

Meglio vedere Shrek in originale o in italiano

Meglio vedere Shrek doppiato o in originale?

Secondo me, entrambi.

Il doppiaggio italiano di Shrek è uno dei migliori di quegli anni, in particolare nel suo riuscire a rigirare frasi o termini fondamentalmente intraducibili con trovate assolutamente geniali e iconiche.

Fra queste, le più celebri sono sicuramente le scapolottine e l’uomo focaccina.

Tuttavia, se l’avete sempre visto in italiano, magari perché ci siete cresciuti, vi consiglio di provare a guardarlo in originale: il doppiaggio anche in quel caso è davvero ottimo, forte di un voice cast veramente pazzesco.

Lo schiaffo (dovuto)

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’incipit di Shrek ha fatto la storia dell’animazione.

Sostanzialmente è la Dreamworks che prende sessanta e più anni di storia Disney e la distrugge, la deride, la usa come carta igienica – per non dire altro…

Così vediamo per la prima volta un protagonista animato che non è immediatamente positivo, anzi è a tratti veramente disgustoso per tutta la sequenza iniziale, con la sua iconica quanto sconvolgente routine mattutina.

Per non parlare di come vengano messi al bando i personaggi più iconici della concorrenza: da Geppetto che vende Pinocchio per due soldi a Peter con Trilli chiusa in gabbia, è tutto un programma…

Fra tradizione e modernità

Farquaad in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

L’altro elemento di grande novità lo vediamo chiaramente nella scena di introduzione di Farquaad.

L’interrogatorio, la tortura fisica che in altri contesti sarebbe disturbante, diventa una gustosissima miscela fra favola e modernità, con anche Farquaad che cestina Zenzy in un cestino di metallo che sembra veramente preso da uno scaffale dell’IKEA.

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ancora più geniale l’iconica scena delle scapolottine con lo Specchio: la scelta della moglie diventa un programma televisivo con il voto da casa, a raccontare anche tutta la misoginia e pochezza del villain.

Ma probabilmente il picco è Duloc, che di fatto non è altro che un’evidentissima presa in giro di Disneyland: dalla fila con il tempo di attesa, ai tornelli all’ingresso, alla mascotte con la faccia di Farquaad…

Tutto così fuori luogo e improbabile, ma in realtà semplicemente geniale.

La metafora della cipolla

Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

La metafora della cipolla ci racconta già tutto su Shrek.

La cipolla puzza, fa piangere, ma è anche un alimento essenziale e composto da diversi strati, che nascondono altro rispetto a quanto appaia all’esterno.

E non si può addolcire la cipolla

Infatti, nonostante Ciuchino cerchi di mutare la metafora di Shrek, provando a paragonare gli orchi prima ad una torta, poi alle lasagne, ovvero cibi che piacciono a tutti, Shrek non ci sta.

Infatti, il protagonista non vuole assolutamente illudersi: proprio per la sua natura, è consapevole di non poter essere una persona che piace a tutti, quindi preferisce essere apprezzato per altro, ovvero quello che è meno evidente all’esterno.

E, per motivi diversi, trova due compagni che lo apprezzano proprio per questo: Ciuchino e, soprattutto, Fiona.

Il dramma di Fiona

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Fiona è uno dei più interessanti personaggi femminili portati in un prodotto di animazione.

Il suo dramma si scopre a poco a poco, ed è molto meno superficiale della semplice maledizione, ma piuttosto derivante dalle pressioni sociali per un certo tipo di comportamento che gli altri si aspettano da lei.

Fiona è una principessa, quindi deve comportarsi come tale, lasciandosi ubriacare ed illudere dalle promesse del vero amore che l’avrebbe portato ad un fantastico lieto fine – una ricompensa davanti ad una vita di reclusione sia fisica che mentale…

Fiona in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

In realtà, Fiona è aguzzina di sé stessa.

Come scopriamo durante la visione, Fiona non è per nulla la classica principessa illibata e ingenua, ma è anzi abile, piuttosto furba, e piena di risorse e capacità – fra cui il sapersi proteggere da sola.

Per cui appare evidente che la ragazza avrebbe potuto senza troppi problemi scappare dalla torre in cui era stata rinchiusa, ma ha costretto sé stessa a restarci proprio per seguire il preciso percorso da principessa da salvare a cui è stata indottrinata.

Quindi la maledizione è solo la punta dell’iceberg, una rappresentazione materiale di quello che Fiona realmente è – e non solamente perché è un’orchessa, ma perché non corrisponde allo stereotipo della donna in pericolo fino a quel momento proposto nella maggior parte dell’animazione.

L’amore con poco

Fiona e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Shrek è proprio la rappresentazione di come dei buoni sceneggiatori siano capaci di raccontare un rapporto efficace anche con poco tempo a disposizione.

Nonostante il minutaggio limitato, la costruzione dell’innamoramento funziona perfettamente.

Tanto più che di fatto Shrek e Fiona si salvano a vicenda: Fiona capisce che può essere sé stessa e trova qualcuno che la ama per questo – e non solo in quanto orchessa, perché Shrek si innamora di lei vedendola umana.

Al contempo, Shrek grazie a Fiona capisce che, per la cattiveria subita per tutta la sua vita, si è troppo chiuso in sé stesso, con la conseguenza di giudicare gli altri con la stessa superficialità a cui si sente condannato…

Un vero amico

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek (2001) di Andrew Adamson e Vicky Jenson

Ma l’effettiva consapevolezza viene da Ciuchino.

L’asino parlante è un personaggio incredibilmente positivo e funzionale, perché riesce veramente a far aprire Shrek alla possibilità di essere qualcos’altro rispetto all’orco odiato da tutti, al reietto sociale – in una auto reclusione non dissimile da quella di Fiona.

In primo luogo, dimostrando di essere qualcuno che non si lascia frenare dalla prima impressione, non scappando a gambe levate appena vede un orco, anzi seguendolo e cercando di diventare suo amico.

E così, pur con tutti i muri che Shrek mette fra di loro, Ciuchino riesce a scuotere il protagonista e portarlo al suo lieto fine, diventando di fatto l’imprescindibile motore dell’azione sul finale.

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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson
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Manhattan – Inghiottiti dalla città

Manhattan (1979) è la pellicola più importante e iconica di tutta la produzione di Woody Allen, un cult nonché un capolavoro del cinema occidentale. E i motivi si sprecano.

Fondamentalmente, se avesse smesso improvvisamente di produrre film dopo questa pellicola, sarebbe stato comunque artisticamente inarrivabile.

Troviamo ancora una volta come protagonista Diane Keaton, con una dinamica altrettanto amara e coinvolgente come in Io e Annie (1977). Fu anche il primo grande successo del regista: a fronte di un budget di 9 milioni di dollari, ne incassò 40.

Di cosa parla Manhattan?

Isaac è un autore televisivo con una vita sentimentale tormentata: divorziato dalla moglie con cui è ancora ai ferri corti e in una relazione con una ragazza molto più giovane di lui, si innamora della donna sbagliata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Manhattan?

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Manhattan è considerato un capolavoro del cinema, e non a caso: un livello artistico che definire mostruoso è poco, con scelte che non sono solo un vezzo o un esercizio di stile, ma organiche al tipo di narrazione profonda e coinvolgente.

Ma non dirò di più: se non l’avete mai visto è giusto che lo scopriate da soli.

Oltre a questo riprende la bellezza di Io e Annie proprio nel raccontare delle relazioni genuine e profondamente coinvolgenti, con, fra l’altro, un umorismo brillante e ben dosato.

Insomma, uno di quei film che non possono non essere visti.

Quando il bianco e nero non è solo un vezzo

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Manhattan è un film girato in bianco e nero, ed è una scelta registica con un significato ben preciso: Allen gioca continuamente con la luce e il buio, portando scene anche completamente buie o molto luminose sui toni del bianco in cui le figure scure dei personaggi si stagliano sullo sfondo.

Ancora più interessante è l’uso della luce diegetica: le scene per la maggior parte vivono della luce in scena, l’unica di cui i personaggi possono servire per apparire agli occhi dello spettatore, finendo spesso per essere facilmente inghiottiti dal buio che li circonda.

Entrambe queste scelte senza il bianco e nero non avrebbe avuto lo stesso effetto.

La città al centro

Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Altra scelta registica peculiare sono state le non poche sequenze con camera fissa, in cui i personaggi entrano ed escono dai limiti della scena senza che la macchina da presa li segua. A volte interi dialoghi avvengono proprio fuori scena, con inquadrature che invece privilegiano la vista della città.

Come se questo non bastasse, i personaggi sono sempre messi a lato dell’inquadratura, anche quando sono gli unici soggetti in scena. Questo sempre con la volontà di mettere la città, e per estensione lo spazio, al centro, e fare in modo che la stessa inghiotta i personaggi.

La comicità naturale

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

We should meet some stupid people once in a while. We could learn something.

Potremmo frequentare delle persone stupide ogni tanto. Potremmo imparare qualcosa.

Con questo film Allen riesce a trovare definitivamente una sua dimensione comica, tenendo tutta la comicità sulle sue spalle e portando un tipo di umorismo molto naturale, con poche battute brillanti e genuinamente divertenti.

Molta della comicità nasce dalla situazione paradossale in cui la società dei ricchi newyorkesi persa nelle sue divagazioni senza senso per darsi un tono, con situazioni paradossali e spassosissime, che si prestano facilmente a battute di effetto.

Insomma con questo film Allen capisce che è meglio poco, ma di qualità.

Cosa ci insegna Manhattan delle commedie romantiche

Woody Allen e Meryl Streep in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Come già in Io e Annie, Manhattan racconta in maniera sincera il mondo delle relazioni, con le sue complicatezze e insidie. Solitamente le commedie romantiche hanno un finale confortante, per cui ogni cosa si risolverà inevitabilmente a nostro favore e tutto andrà al proprio posto, nonostante tutto.

E come sembra che il nostro partner viva in nostra funzione.

Invece con questa pellicola Allen ci racconta la realtà contraria, la più dolorosa: come quella relazione che sembrava perfetta può in realtà finire in una bolla di sapone, ci si può ripensare, tornare sui propri passi. Lasciare. Non aspettare. E, infine, accontentarsi.

Con un finale amarissimo, ma dovuto.

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Do Revenge – L’adolescenza a mille

Do Revenge (2022) è un teen movie recentemente uscito su Netflix, per la regia di Jennifer Kaytin Robinson, che ricordiamo con piacere (?) per essere stata alla sceneggiatura del recente Thor: Love & Thunder (2022). Un film che mi era stato consigliato e che avevo guardato in prima battuta con grande superficialità.

Tuttavia, andando avanti, mi sono resa conto di quanti spunti di riflessione offrisse.

Così l’ho visto una seconda volta.

Di cosa parla Do Revenge?

Drea è una ragazza al penultimo anno di una high school privata e prestigiosa, in cui è entrata grazie ad una borsa di studio. Nonostante faccia parte del gruppo dei ragazzi più popolari (e ricchi) della scuola, la sua vita viene rovinata dalla diffusione di un suo video intimo, probabilmente per mano del suo ex-ragazzo.

Per questo, con la complicità della nuova arrivata, Eleanor, decide di vendicarsi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Do Revenge?

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Non fatevi (del tutto) frenare dal fatto che si tratti di un teen movie e dal fatto che appaia potenzialmente molto trash: è indubbio che faccia parte di quel genere, ma non raggiunge mai picchi di narrazione scadente ed esagerata. Personalmente io sono un’amante del genere, ma mi rendo anche conto che, essendo uscita ormai da un pezzo da quella fase della mia vita, questi film spesso non parlino più la mia lingua.

Tuttavia, questo succede quando un teen movie non ha altro da aggiungere alla trama se non una semplice crescita dei protagonisti, tipicamente con focus sulle dinamiche amorose. In una scala di gravità, mettiamo al punto più alto prodotti come Tutte le volte che ho scritto ti amo (2018), nel mezzo film anche piacevoli come Love, Simon (2018), nel punto più lontano capolavori di genere come Mean Girls (2004).

Poi c’è Do Revenge.

Quando i teen movie sono godibili anche se non sei teen

L’ostacolo che pongono i teen movie solitamente è che non sono pensati solamente per un pubblico di adolescenti, con un linguaggio cinematografico e generazionale che può essere facilmente incomprensibile nel caso in cui si faccia parte di quella generazione.

Quindi sono anche prodotti con una data di scadenza: senza niente togliere a chi sia piaciuto, il già citato Tutte le volte che ho scritto ti amo probabilmente non sarà considerato dalla prossima generazione ed è talmente un prodotto usa-e-getta ancorato al suo genere di appartenenza è difficile che sia apprezzato al di fuori del target di riferimento.

Al contrario abbiamo prodotti come Mean Girl per gli Anni Duemila e Clueless (1995) per gli Anni Novanta che sono dei cult intramontabili, assolutamente apprezzabili anche oggi.

Perchè sono prodotti non del tutto legati al loro genere, che riescono a raccontare dinamiche intergenerazionali, e a mischiarsi con altri generi cinematografici. Come Mean Girl aveva un taglio surreale e quasi grottesco, Clueless è una brillante riproposizione del romanzo Emma di Jane Austen.

Do Revenge, senza poter raggiungere quelle vette, riesce comunque a raccontare tematiche profonde e anche impegnative, come la difficoltà del coming out, il classismo, il sessismo sotterraneo, e via dicendo. Questo, riuscendo anche a incontrarsi quasi con il genere thriller.

Un film che non manca di ingenuità, ma che vale la pena di recuperare.

Anche se non vi piacciono i teen movie.

Un uomo, un harem

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

La parte forse più interessante della pellicola è il villain maschile, ovvero Max.

Max è una sorta di Regina George, che però ha il grande merito di raccontare il nuovo gusto estetico di questa generazione. Si può notare infatti come abbia un abbigliamento vagamente queer: gli orecchini, lo smalto alle unghie, le camicie ampie che lasciano scoperto il petto glabro.

Un tipo di estetica che è nata recentemente intorno a personaggi come Harry Styles e Timothée Chalamet, che raccontano un maschile che riesce finalmente a liberarsi di opprimenti stereotipi sociali. E che si sente di sperimentare con abbigliamenti stereotipicamente attribuiti all’altro sesso.

Senza che per questo sia additato come meno maschile, appunto.

Il sessimo in Do Revenge

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Oltre a questo, Max è un villain davvero interessante perchè racconta una dinamica drammaticamente reale, ovvero quella di un’uomo che, avendone le possibilità, si attornia di donne che utilizza come oggetti, unicamente per accrescere il suo ego.

E la rivelazione finale è significativa in questo senso: Max ha rovinato con odio e cattiveria la vita di Drea semplicemente perchè lei non era stata evidentemente grata nei suoi confronti per averla resa importante.

Si vede che c’è anche una dinamica simile per esempio con Tara, l’ex migliore amica della protagonista, il cui padre è aiutato da Max nella sua carriera al senato. E la stessa, nonostante si senta in colpa per aver escluso Drea, supporta continuamente Max, anche quando si dimostra un evidente traditore.

La difficoltà di raccontare personaggi queer

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il personaggio di Nora è interessante quanto problematico.

Da una parte è lodevole veder raccontare, in un prodotto comunque pensato per un target molto giovane, la difficoltà del coming out per un adolescente queer e l’omofobia sotterranea che deve sopportare. La storia di Nora è particolarmente drammatica: era riuscita a dichiararsi alla sua ragazza dei sogni, di cui era evidentemente innamorata, ed è stata non solo respinta, ma sotterrata da un pesantissimo pettegolezzo.

Questo aveva fra l’altro fatto ritornare la sua fidanzata, Carissa, nello stanzino, ovvero rendendola incapace di vivere serenamente la sua sessualità. E così Nora si incattivita, si è chiusa in se stessa, sentendosi (ed essendo effettivamente percepita) come un’intoccabile, arrivando pure a sottoporsi alla chirurgia estetica in giovanissima età.

Ed è ancora più insicura per l’omofobia sotterranea che serpeggia nel suo ambiente sociale, già solamente per come Drea definisce Carissa, abbastanza con disprezzo ed etichettandola come

That crunchy granola lesbian

Quella lesbica hippie

Gli stereotipi di Do Revenge

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il problema tuttavia rimane per come Nora e gli altri personaggi femminili queer vengono rappresentati, ovvero come diversi dagli altri, o trasandati (come Nora prima del makeover) oppure associati ad una estetica da tomboy. Una rappresentazione che ho idea che non sia stata fatta con malizia, ma con sincera ingenuità, ma che è comunque un grave errore all’interno di un prodotto con questi propositi.

Il problema del classismo

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un altro macrotema della pellicola è il classismo che strozza la società americana.

Nella società statunitense è veramente difficile emergere se non si hanno i soldi per farlo, anzi è un paese con una mobilità sociale piuttosto bassa. Per questo Drea si prende sulle spalle l’impegno di sopravvivere l’ultimo anno in un contesto che è diventato per lei l’inferno, perchè è l’unico modo in cui può entrare in una università importante e così costruirsi una vita migliore.

Perchè lei, provenendo da una famiglia non abbiente, non riesce ad entrare così facilmente come le sue amiche che, grazie ai soldi e alla loro posizione sociale, corrono in una corsia prioritaria.

Svelare l’ipocrisia

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Ad oggi le maggiori aziende non cercano più di convincerti sulla qualità del prodotto, ma sui valori dell’azienda stessa. Così funziona per certi versi anche col personal brand, elemento centrale del personaggio di Max.

Un ragazzo che è in realtà incredibilmente egocentrico, sessista e che usa ed oggettifica le donne, ma che vuole vendersi come invece progressista. Così per l’improbabile club dei CIS Hetero Man Championship Female Idenfying Student League (non significa fondamentalmente nulla), con l’idea di portare un San Valentino più inclusivo e scardinare l’idea delle relazioni monogame.

Concetti che sono di per sè anche giusti, ma che vengono dalla bocca di una persona che è appunto a parole in un modo, ma che nella realtà (come si vede alla fine) non ha alcun rispetto per le donne nè crede in nessuno di questi concetti che propone.

L’elemento thriller

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un elemento davvero gustoso della pellicola è il taglio thriller sul finale.

La rivelazione di per sè non annulla la costruzione del personaggio di Nora, che comunque rimane una ragazza con tante difficoltà nel trovarsi le giuste amicizie e a relazionarsi con gli altri. Cosa che fra l’altro la rende così violenta e macchinatrice, come si era mostrata fin dall’inizio.

Ed è esilarante la scena in cui aspetta Drea a casa come se fosse proprio un serial killer che aspetta la sua vittima, scena fra l’altro che è stata retta benissimo sulle spalle di Maya Hawke: in mano ad un’altra interprete meno capace, la stessa sequenza sarebbe risultata inevitabilmente ridicola.

Tuttavia, andando a portare questo elemento così forte come plot-twist, si rende leggermente meno credibile la riconciliazione finale fra le protagoniste, che sono di fatto ridimensionate nella loro cattiveria perchè riescono a confrontarsi e perchè si mettono contro con un personaggio indubbiamente negativo e per nulla pentito delle sue azioni.

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Io e Annie – Una lettera amara

Io e Annie (1977) di Woody Allen rappresentò il momento in cui artisticamente il regista divenne quello che conosciamo oggi, autore di commedie con un’ironia frizzante ma anche amara, e trame sempre più consolidate.

Questa pellicola si potrebbe definire superficialmente una commedia romantica, ma in realtà è molto più di quello. È una lettera d’amore molto amara a un amore appena sbocciato.

E che non durò per molto.

Il film fu anche il primo incasso sostanzioso della carriera di Allen: davanti ad un budget di 4 milioni, incassò ben 38,3 milioni di dollari.

Di cosa parla Io e Annie?

Alvy e Annie si sono appena lasciati, e si ripercorre, con diverse intersezioni e flashback, la nascita e la fine del loro amore.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io e Annie?

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Assolutamente sì.

Io e Annie è una di quelle pellicole che personalmente non mi ha preso del tutto sulle prime, ma che poi mi ha fatto quasi involontariamente affezionare ai protagonisti e alla loro relazione, così difettosa e al contempo davvero divertente.

Non fatevi frenare dall’idea che sia una commedia romantica, perché non utilizza neanche una delle dinamiche tipiche del genere. Vuole anzi in tutto e per tutto essere un racconto credibile e sentito, una storia vera in cui è facile riconoscersi.

Un film da vedere quasi come prologo prima di arrivare a Manhattan

Raccontare una storia

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Scelta curiosa, ma anche intelligente, quella di cominciare la storia con la sua fine, raccontando già da subito di come la relazione si sia conclusa.

E poi partire con un racconto davvero tenero e appassionante di come la relazione è sbocciata nella maniera più ingenua possibile, per poi mostrare tutti i momenti di rottura e di difficoltà nel farla funzionare.

E anche con tante contraddizioni che li portano ad allontanarsi temporaneamente, per fortuna evitando quella classica dinamica per cui la donna amata appaia perfetta a discapito delle altre donne imperfette.

Infatti, il riavvicinamento avviene per colpa di Annie, che cerca una qualsiasi scusa per riallacciare i rapporti e portare all’ultimo periodo insieme.

Un finale dolce e amaro

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

La bellezza di Io e Annie è anche e soprattutto il finale, in cui ammetto che mi sono sinceramente commossa, nonostante me lo aspettassi. Forse non tanto perché tutto sommato mi ero affezionata alla coppia protagonista, ma perché è un boccone amaro e malinconico.

Non vi è la volontà di raccontare un finale consolatorio o speranzoso, ma di due persone che semplicemente decidono di non far più parte della vita dell’altro. Con una carrellata finale dei momenti più significativi della loro storia, che fa scendere l’inevitabile lacrima sul finale…

La maturazione artistica di Diane Keaton

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Ammetto che non ho mai seguito più di tanto la carriera di Diane Keaton, ma questo è il secondo film in cui mi ha davvero sorpreso.

Se in Il dormiglione (1973) era principalmente esuberante, anche se piacevolissima, in Io e Annie mostra di essere un’attrice già in parte arrivata, con una recitazione ben calibrata e dosata.

Il suo personaggio non è infatti per nulla semplice e scontato, ma definito da più tratti: la sua ingenuità all’inizio, la sfrontatezza con cui guida, il suo rapporto col sesso…e si potrebbe andare avanti. In questa pellicola Keaton si è veramente sbizzarrita, ma senza mai andare all’eccesso sul lato comico.

I camei che non ti aspetti

In questa pellicola ci sono due camei davvero inaspettati, proprio come era stato per Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971)

Il fratello di Annie è interpretato da niente poco di meno dell’immenso Christopher Walken, al tempo appena trentenne, a pochi anni di distanza dalla vittoria agli Oscar per Il cacciatore (1979). In questo caso la sua gag piuttosto dark, per quanto sia breve, l’ho piuttosto apprezzata e mi ha strappato una sincera risata.

Molto più rapido il cameo di Jeff Goldblum, che appare in una piccolissima scena in cui risponde al telefono. Goldblum al tempo era anche più giovane: appena vent’anni sulle spalle e da pochi anni attivo sulle scene, ancora lontano dal grande successo di Jurassic Park (1996).

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Harry ti presento Sally – L’incubo delle relazioni

Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner è un cult del genere rom-com. Divenne un modello sopratutto per il sottogenere dell’enemy to lovers, ovvero le storie romantiche incentrate su due personaggi che passano da una condizione di antagonismo ad una di amore.

Un cult non per caso: pur non incassando moltissimo, per un film del genere portarsi a casa 93 milioni contro un budget di 16 fu indubbiamente un grande successo commerciale.

Ma perché Harry ti presento Sally è diventato un cult?

Di cosa parla Harry ti presento Sally?

La vicenda si dipana nell’arco di dieci anni (o più) da quando Sally e Harry si incontrano per un viaggio e poi si perdono e si rincontrano negli anni successivi. E da un rapporto cominciato non con i migliori presagi, nascerà qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Harry ti presento Sally può fare per me?

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

I motivi per cui questo film è diventato un cult non sono da ricercare nei suoi meriti artistici, ma nel fatto che è indubbiamente una commedia romantica per nulla banale. Indubbiamente alcune dinamiche le avrete già viste in commedie recenti, ma con ogni probabilità le stesse prendono le mosse proprio da qui.

Ma tanto più questa pellicola può essere piacevole anche per chi (come me) non ama questo genere cinematografico.

Infatti, non andandosi ad arenare su dinamiche semplici e prevedibili, ma raccontando una storia di più ampio respiro con anche tematiche non scontate, è un film che può dare più soddisfazioni di quanto si potrebbe pensare.

Perché Harry ti presento Sally è un cult?

Banalmente, Harry ti presento Sally è diventato un cult perché non è banale.

In particolare, due elementi sono stati vincenti in questo senso: raccontare le reazioni in maniera autentica e non buttarsi via con l’instant love.

Gran parte del film, ancora prima di arrivare alla stessa relazione fra i protagonisti, è dedicata all’incubo delle relazioni, a questo inseguire la necessità di essere accoppiati, pena mancare il match perfetto. Ed è una sensazione in cui, oggi come al tempo, molti spettatori si possono ritrovare.

Così anche la mancanza dell’instant love, ovvero quella modalità narrativa tipica delle rom-com, soprattutto di scarso livello, in cui i due protagonisti si innamorano istantaneamente.

Ovviamente nella vita reale sono cose che possono anche succedere, ma quando vediamo un film vogliamo una storia interessante e strutturata, che ci appassioni. Oltre a questo, ovviamente, la pellicola è diventata un modello nel genere nelle sue dinamiche, particolarmente l’appassionante dichiarazione d’amore finale.

L’incubo delle relazioni

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Harry ti presento Sally ha la capacità di raccontare in maniera interessante il mondo delle relazioni sentimentali.

Infatti, i personaggi sono costantemente frustrati dall’idea di doversi trovare un compagno, di doversi sistemare.

E al più presto possibile.

Perché, se non ci si accalappia il compagno subito, questo andrà a qualcun altro. E noi rimarremo per sempre soli. Un modo molto meccanico, ma di fatto anche credibile, di raccontare queste dinamiche, come una giostra da cui si continua a scendere e salire.

L’unico elemento in cui si perde, ma è anche motivo del suo fascino, è l’idea che Harry e Sally siano fatti per stare insieme, e che quindi dopo più di dieci anni riusciranno a raggiungere una relazione soddisfacente solamente se si metteranno insieme.

Ma, appunto, mancando questo elemento, la storia amorosa non avrebbe funzionato.

Un enemy to lovers mai banale

Billy Crystal in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Il sottogenere dell’enemy to lovers è intrigante quanto facilmente banalizzabile.

Lo vediamo in molti prodotti di scarso valore come il recente Bridgerton, e spesso i protagonisti si perdono in relazioni sciocche e adolescenziali, in cui l’antagonismo nasce non da basi concrete, ma da motivi fumosi e poco credibili.

Al contrario questa dinamica in Harry ti presento Sally viene costruita fin dall’inizio e con grande abilità: Harry e Sally sono due personaggi diversi e in contrasto, ma per motivi mai banali.

Infatti Harry è un uomo, soprattutto all’inizio, piuttosto sgradevole, totalmente mancante di una maturità emotiva, anzi che sente di sapere tutto sulle relazioni e sulle sue dinamiche.

Sally è la sua giusta controparte: un personaggio che si sente comunque oppresso dalle dinamiche relazionali, ma non si lascia mai ingoiare dalle stesse. Quindi, anche dopo molti anni di relazione, lascia il suo fidanzato, si approccia sessualmente ad Harry con grande genuinità ed ha soprattutto l’energia per tenergli testardamente testa.

E non può infine accettarlo, se non quando lui gli dimostra di essere emotivamente maturato.