Thor Love & Thunder (2022) di Taika Waititi è l’ultimo film della Marvel uscito nelle nostre sale la scorsa settimana, nonché il quarto film stand alone dedicato al personaggio.
Una pellicola che conferma il tentativo di recupero del personaggio, dopo due false partenze con Thor (2011) e soprattutto Thor: The Dark World (2013), considerato uno dei peggiori film della Marvel.
Dopo Thor: Ragnarok (2017), film molto divisivo già di suo, Thor: Love & Thunder è una pellicola che ha portato molte polemiche e bocciature, anche estremamente aspre. Tuttavia, per il momento comunque la pellicola ha aperto molto bene al box office, con 302 milioni in tutto il mondo nel primo weekend.
Ma è davvero così brutto?
Di cosa parla Thor: Love & Thunder?
Dopo diverse avventure con i Guardiani della Galassia, Thor si trova costretto a tornare a Nuova Asgard. Infatti una nuova e pericolosa minaccia incombe: Gorr, il macellatore di Dei. Un nome, una garanzia.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Thor: Love & Thunder è davvero così brutto?
Per questa recensione ammetto di dover fare un grande sforzo, perché, a differenza di altri, questo film mi ha lasciato complessivamente indifferente. Insomma, non mi è dispiaciuto, ma non mi ha neanche esaltato.
Uno di quei prodotti che guardi per spegnere totalmente il cervello e che non ha bisogno del benché minimo impegno per essere fruito. Purtroppo ha anche una comicità per la maggior parte molto spicciola, di quella che ti vergogni di star ridendo.
Tuttavia, non è del tutto un film da buttare: ha una struttura narrativa complessivamente coerente (a differenza di Thor: Ragnarok), dei buoni punti drammatici e un villain di primo livello. Insomma un film sostanzialmente mediocre.
Una pellicola che mi sento di consigliare soprattutto se vi è piaciuto Thor: Ragnarok, e se in generale apprezzate un tipo di comicità al limite del demenziale, financo infantile. Per me non un film imperdibile, ma neanche del tutto da evitare.
Un villain sprecato?
Non credo ci sia bisogno di dire quanto Christian Bale sia un attore capace ed estremamente poliedrico. Ma la più grande dote di un attore è il sapersi reinventare anche per i prodotti di più largo consumo.
Così ha fatto Bale per questa pellicola, regalandoci uno dei villain meglio scritti ed interpretati degli ultimi anni per l’MCU. Spietato, con una backstory semplice ma potente, a tratti volutamente grottesco.
Un antagonista forse sprecato per una pellicola di questo genere, ma che per fortuna non è mai screditato dalla stessa, mantenendo tutta la carica drammatica nelle scene a lui dedicate.
Che sorpresa Jane Foster
Partiamo col dire che io ho una (probabilmente ingiusta) antipatia per Natalie Portman, e soprattutto per il personaggio di Jane Foster. Motivo per cui ero molto scettica circa la sua apparizione nella pellicola.
E invece mi ha sorpreso: superando il fatto che Natalie Portman avesse veramente poca voglia di recitare in questa pellicola e sia sostanzialmente incapace di reggere i tempi comici, il suo personaggio nel complesso non mi è affatto dispiaciuto, prima di tutto per la spettacolare messinscena dei suoi poteri.
La sua backstory non mi è sembrata non del tutto vincente, ma inaspettatamente sono comunque riuscita ad essere coinvolta col suo rapporto con Thor e mi è pure dispiaciuto della sua morte. Tuttavia credo che, per la felicità dell’attrice e mia personale, è definitivamente l’ultima volta che la vediamo.
La comicità fallimentare
Una comicità è di fatto vincente non solo se riesce a farti ridere, ma se riesce in qualche modo a sorprenderti. Purtroppo, soprattutto nel primo atto, Thor: Love & Thunder è stato totalmente fallimentare in questo senso.
È stato abbastanza triste trovarsi a dire le battute insieme ai personaggi, tanto erano prevedibili e scontate. Non nascondo che non mancano le battute più indovinate, che mi hanno anche fatto ridere, ma complessivamente ho decisamente preferito i momenti più drammatici verso la fine, dove questo tipo di umorismo viene del tutto escluso.
Un altro difetto sulla stessa linea: in non poche scene, in particolare nella Città degli Dei, i personaggi in scena sembrano dei cosplayer davvero poco credibili. E la maschera di Thor, ma soprattutto quella di Jane, sembra creata con una CGI veramente scadente.
Insomma, per certi versi questo film sembra una grande carnevalata.
Ci sarà un sequel?
La Marvel per ora non ha dichiarato nulla di ufficiale, ma quel Thor ritornerà dopo la scena post credit è abbastanza eloquente. Credo che tutto dipenderà dall’andamento del box office, quindi è ancora tutto da vedere.
Sicuramente gli appassionati di Ted Lassoavranno riconosciuto Brett Goldstein, che nella serie interpreta Roy, e che vediamo nei panni di Ercole nella prima scena post-credit. La sua scelta come potenziale villain del sequel è mio parere indicativa di come si voglia prendere del tutto la strada della comicità.
Infatti Golsestein è un ottimo attore comico, e non credo che gli faranno sostenere una parte drammatica come a Gorr in questa pellicola. E purtroppo mi dispiacerebbe vedere Waititi perdersi in un film solamente e disastrosamente comico.
Eternal Sunshine of The Spotless Mind (2004), per la regia di Michel Gondry e la sceneggiatura di Charlie Kaufman, fu sicuramente uno dei punti più alti della carriera di Jim Carrey.
Per la seconda volta l’attore si mise sotto l’egida di un abile autore, sprigionando tutte le sue capacità recitative.
Il film è noto in Italia anche per l’orribile traduzione del titolo, ovvero Se mi lasci ti cancello e fu un discreto successo: 74 milioni di incasso contro 20 milioni di budget.
Di cosa parla Eternal Sunshine of The Spotless Mind
Joel e Clementine sembrano una coppia molto affiatata, con un amore scoppiato all’improvviso e imprevedibilmente, ma che li porta ad una lunga e importante relazione. Le cose si complicano quando Clementine decide di fare una scelta assolutamente castrante alle spalle del suo fidanzato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Vale la pena di vedere Eternal Sunshine of The Spotless Mind?
In generale, sì.
Partiamo col dire che Eternal Sunshine of The Spotless Mind non è un film semplice.
Ha una struttura per nulla lineare, nella quale è difficile orientarsi, soprattutto all’inizio. Oltre a questo, nonostante non sia una commedia romantica in senso stretto, ne eredita le dinamiche. Così, se non riuscirete ad essere coinvolti con il rapporto dei protagonisti, sarà difficile appassionarvi.
Per me questo è stato il principale problema, di cui parlerò meglio nella parte spoiler. Tuttavia, se siete riusciti a digerire un film come I’m Thinking of Ending Things (2020) e Essere John Malkovich (1999) di Kaufman e se, più in generale, riuscite ad appassionarvi alle commedie romantiche, è un film che può fare per voi.
Joel
Joel è di fatto la vera vittima di questo film.
Una persona molto chiusa in sé stessa, che riesce con difficoltà a gestire le situazioni, soprattutto quello sentimentali. Cerca di rincorrere Clementine nella sua follia, ma continua a fallire costantemente. E, infine, perde.
E per me perde doppiamente: vive nei sogni di Clementine, nella versione che aveva nella sua testa e nei suoi ricordi, cerca di rimetterla insieme e nuovamente si ributta nella relazione con Clementine e con tutte le sue trappole.
Carrey riesce a portare sullo schermo un personaggio fallibile, in contrasto con sé stesso, che riesce a lasciarsi andare in alcuni momenti comici tipici dello stile dell’attore, ma mantenendo una recitazione drammatica assolutamente credibile e toccante per tutta la pellicola.
Clementine
Ho personalmente odiato il suo personaggio fin dall’inizio.
E questo lo posso dire con tranquillità perché nella maniera più evidente il film non vuole farti odiare questo personaggio, al contrario. La figura della donna apparentemente artistica e imprevedibile, ma che proprio per questo fa immancabilmente innamorare il protagonista.
Un personaggio in cui molte ragazze, soprattutto nel periodo in cui uscì il film, potevano rivedersi. Non è di per sé deprecabile, ma condannabile per il tipo di trattamento giustificatorio della pellicola. Soprattutto perché il suo comportamento, che è anche il motore del film, non è assolutamente giustificabile.
Ma non penso di aver mai visto Kate Winslet così tanto in parte: per quanto non mi sia piaciuto il suo personaggio, penso che abbia regalato una performance di grande valore, forse la migliore della sua carriera.
Una morale discutibile
Eternal Sunshine of The Spotless Mind è aperto a più interpretazioni possibili.
Io ho trovato una morale di fondo piuttosto discutibile, che tende a giustificare la relazione fra Joel e Clementine e a farla passare come un amore impossibile ma tremendamente romantico.
Il film è vincente da questo punto di vista fintanto che lo spettatore riesce ad essere coinvolto con la storia dei suoi protagonisti.
Potrei criticare la scarsa originalità di come è trattata la loro relazione, con dinamiche tipiche delle commedie romantiche, tuttavia è più giusto ammettere che la loro storia non mi ha appassionato perché non mi appassiona il genere.
E, di conseguenza, mi è venuto da razionalizzarla. Soprattutto se si vuole leggere la rappresentazione della loro storia come credibile, di fatto il rapporto fra i protagonisti è profondamente tossico.
E io mal sopporto l’idea che una storia deve esistere perché due persone si amano, nonostante la stessa sia deleteria per entrambi.
Soprattutto il finale è diversamente interpretabile: la scena sembra dissolversi, come se ancora uno dei due (o entrambi) abbiano voluto cancellare quel ricordo. E potrebbe essere o che la relazione si sia conclusa definitivamente, oppure che i due siano entrati in un ciclo infinito e autodistruttivo in cui tentano continuamente di far ricominciare la loro relazione.
Io, personalmente, spero che sia la prima opzione.
Un puzzle non così complesso
In generale ho apprezzato la costruzione della storia: parte in una maniera che sembra introdurre una relazione nuova di zecca con dinamiche piuttosto tipiche. Poi sconvolge lo spettatore con un taglio netto e imprevedibile, introducendo a poco a poco la storia.
Così ho apprezzato l’idea della cancellazione dei ricordi, spiegata anche in maniera sensata ed intelligente, e così il viaggio di Joel e le dinamiche che si creano. In generale, tralasciando la morale discutibile, è un film che ho apprezzato.
Tuttavia, mi è dispiaciuto che il colpo di scena finale fosse così prevedibile: circa a metà film ero riuscita con non troppe difficoltà a ricostruire la timeline della storia. Non so se volesse essere un effettivo colpo di scena, ma avrei preferito che fosse più complesso e che spingesse maggiormente sul lato surreale e onirico.
Insomma, avrei voluto un film che fosse più simile a Sto pensando di finirla qui.
Cosa significa il titolo
Il titolo del film fa riferimento ad una poesia di Alexander Pope, poeta settecentesco, nella sua opera Eloisa to Abelard (1717)
How happy is the blameless vestal's lot! The world forgetting, by the world forgot. Eternal sunshine of the spotless mind! Each pray'r accepted, and each wish resign'd
Il titolo può essere tradotto circa come l’eterna bellezza della mente candida, nel caso del film riguardante la mente priva di ricordi dei protagonisti. Non a caso, alla fine del film, nonostante tutto quello che è successo, i due riescono di nuovo ad innamorarsi.
Come in tutti i film di Jim Carrey finora, anche in questo caso troviamo attori divenuti famosi successivamente.
Anzitutto, Kirsten Dunst che interpreta Mary, che due anni dopo divenne protagonista dell’apprezzatissimo Marie Antoniette(2006) e di recente ne Il potere del cane(2021). Poi Mark Ruffalo, famoso soprattutto per aver interpretato Hulk nell’MCU, ma che ha lavorato anche altrove. Così vediamo Elijia Wood, che qui interpreta Patrick ed era appena uscito dal successo incredibile de Il Signore degli Anelli, di cui era protagonista.
Yes Man (2008), per la regia di Peyton Reed, fu uno degli ultimi film da star di Jim Carrey, dopo gli splendidi successi, sia in ambito drammatico che comico, di film come Ace Ventura (1994) e Eternal sunshine of the spotless mind (2004).
Il film fu comunque un discreto successo al botteghino (223 milioni di dollari contro 70 di budget), ricevendo recensioni miste dalla critica e dal pubblico.
Insomma, non esattamente il film più iconico di questo straordinario attore.
Un Jim Carrey che mi sembra arrivato ad un punto della sua carriera dove aveva già sperimentato moltissimo coi generi, e che in questo film cerca di dare sempre il meglio di sé, non sempre riuscendoci.
Insomma, quasi il suo canto del cigno.
Di cosa parla Yes Man?
Carl lavora per una banca e, dopo il fallimento del suo matrimonio, è diventato un uomo chiuso in sé stesso, che trascura i suoi amici e le sue relazioni. Per un particolare incontro deciderà di partecipare ad un programma che impone di dire sì a tutte le proposte che gli arrivano, indipendentemente da cosa si tratta.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Vale la pena di vedere Yes Man?
Sì e no.
Personalmente Yes Man non sarebbe il primo film che consiglierei nella lunga carriera di Carrey.
Indubbiamente un film dove si è cercato di prendere una via diversa: una classica commedia del periodo, ma che cerca di prendere una strada più profonda e matura. Non riuscendoci sempre del tutto.
In questo film ho visto un Carrey che, all’apice della sua carriera, cerca di rendere organica la recitazione comica e drammatica, con risultati altalenanti. In generale, non è un film che mi sento di sconsigliare.
Tuttavia, davanti alla scelta di commedie più valide, quantomeno a livello intrattenitivo, come Una settimana da Dio(2003) e The Mask(1994), non sarebbe appunto la mia prima scelta. Ma, se volete avere un panorama completo della carriera di Carrey, non potete sicuramente perdervelo.
La parabola dell’uomo triste
Mi ha da subito colpito la tristezza del personaggio di Carl: anche la recitazione di Carrey trasmette un grande senso di tristezza e rassegnazione, di persona delusa dalla vita che vuole saperne nulla delle opportunità che gli vengono offerte.
Da subito pensavo che ci sarebbe stato un elemento magico alla Una settimana da Dio, invece Yes Man racconta la parabola di un uomo che ha perso ogni fiducia nel mondo e che deve cercare di rimettersi da solo in carreggiata e saper rischiare.
Per quanto ovviamente sia tutto portato all’estremo, ho preferito che si raccontasse un impegno e una maturazione che il protagonista fa per sé stesso, non obbligato o avvantaggiato da una forza esterna e irrazionale.
Ovviamente la soluzione finale per cui il protagonista si era auto suggestionato dall’idea di terribili conseguenze è piuttosto abusata, ma nel complesso è apprezzabile.
La recitazione altalenante
Paradossalmente, la recitazione della giovane Zooey Deschanel l’ho trovata più convincente di quella di Jim Carrey. Il problema di Carrey in questo film è il non riuscire a dosare la recitazione comica per fare in modo che sia coerente con quella drammatica.
Se appunto all’inizio cominciamo con un Carrey che è un uomo triste e incattivito, con la scelta della nuova vita esplode in una recitazione che per certi tratti si avvicina a quella folle di Ace Ventura, passando eccessivamente da un estremo all’altro.
Molto lontano, per me, dalle capacità che aveva dimostrato appena cinque anni prima in Una settimana da Dio.
Al contrario Zooey Deschanel, nella sua semplicità, è la scelta di casting perfetta: è una ragazza davvero adorabile e innocua, con una recitazione quasi infantile, ma che la rende la controparte perfetta a Carl.
Cadere negli eccessi
Un grave problema del film, per fortuna limitato, è quello di voler scadere nella comicità veramente spicciola in alcune sequenze.
Questo aspetto è particolarmente fastidioso all’interno di una commedia che, come detto, cerca di dare un minimo di profondità in più alla vicenda.Insomma, le stesse dinamiche in un film come The Mask non mi avrebbe dato così fastidio.
Mi riferisco particolarmente alla scena del rapporto con l’anziana vicina di casa di Carl, davvero di cattivo gusto, e alla presunta punchline finale del film, dove tutti i partecipanti al congresso di Yes Man hanno rinunciato ai propri vestiti, che ho trovato trovata veramente poco vincente e coerente col tono del film.
Come nella maggior parte dei film di Jim Carrey, sono presenti attori presenti in praticamente tutte le commedie del periodo o diventati famosi in altri prodotti.
Anzitutto ovviamente Zooey Deschanel, che divenne famosa per la serie New Girl a partire dal 2011, e Bradley Cooper, che dopo aver bivacchiato in diversi prodotti di questo tipo, raggiunse una prima notorietà con Una notte da leoni(2009).
Altri piccoli cameo: Terence Stamp, qui il capo degli Yes Man, è nella seconda stagione di His Dark Materials; Rhys Darby, il bizzarro Norman, è l’NPC che accompagna i personaggi all’inizio del gioco in Jumanji (2017).
Luis Guzmán, l’uomo che Carl salva dal suicidio, è il poliziotto messicano in Come ti spaccio la famiglia (2013); infine John Michael Higgins è un caratterista presente in diversi film di questo tipo, fra cuiBad Teacher (2010).
In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.
Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.
Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.
Di cosa parla In viaggio con Pippo
Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?
Assolutamente sì.
Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.
La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.
Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.
Un rapporto difficile
In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che raccontail tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.
Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.
Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.
Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.
Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.
Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.
Un film imperfetto
Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.
Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.
Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.
Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.
Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.
Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.
Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.
Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.
Perché In viaggio con Pippo divenne un cult
Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?
La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.
Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.
Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.
Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.
Perché fu un disastro al botteghino?
Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.
Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).
Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.
Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.
Una seconda possibilità
Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.
In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.
L’incredibile storiadell’Isola delle Rose (2020) è un film diretto da Sydney Sibilia, conosciuto principalmente per la trilogia di Smetto quando voglio.
Uno dei pochi ottimi registi italiani che cerca di distaccarsi dai soliti e ridondanti generi del panorama cinematografico nostrano.
Il film uscì alla fine del 2020 direttamente su Netflix.
Di cosa parla L’incredibile storia dell’Isola delle Rose
Bologna, 1968. Giorgio Rosa è un giovane ingegnere appena diplomato, con grandi sogni (non sempre vincenti) di creare qualcosa di suo, per smarcarsi dalla pesante eredità della generazione precedente.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale pena di vedere L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?
Assolutamente sì.
L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è una deliziosa commedia, con un cast internazionale di primissimo livello, che mi sentirei di consigliare praticamente a tutti.
In particolare, di grande valore l’interpretazione di Elio Germano, che ancora una volta si conferma un attore non solo di grande talento, ma dalle capacità davvero multiformi, capace di immedesimarsi in ogni tipo di personaggio.
Insomma, assolutamente imperdibile.
Una storia ancora attuale
Sydney Sibilia sceglie nuovamente di puntare sul racconto di una generazione perduta, una generazione che deve ancora vivere all’ombra della precedente, che cerca di incasellarla precisi schemi sociali.
Nel 1968 come oggi.
Infatti, il film parla soprattutto alla generazione dei millennial, che ancora oggi si affaccia al mondo del lavoro e sente il peso dei propri genitori, nati e cresciuti in un mondo diverso, quando era più scontato seguire un preciso percorso di vita.
E invece per la nuova e la nuovissima generazione non basta più. Dobbiamo reinventarci: Giorgio Rosa quarant’anni fa con la sua isola, tanti giovani e giovanissimi oggi che creano il loro brand da zero.
Così Sydney Sibilla è un regista che ha cominciato con gli spot pubblicitari e in appena tre anni è riuscito ad imporsi con un film nuovo e fresco come Smetto quando voglio (2014), smarcandosi dai soliti canoni del cinema italiano.
Lui, insieme a Matteo Rovere (regista de Il primo re e anche produttore del film di Sibilia), sono le poche giovani voci che si sono ribellate ad un cinema mainstream ridondante e saturo, portando finalmente qualcosa di nuovo e di più ampio respiro.
Scegli una storia, scrivila bene
Al tempo sentii alcune critiche per il fatto che il film avesse poca attinenza con le vicende storiche raccontate.
In generale, bisogna avere coscienza del prodotto: la pellicola non ha l’intenzione di essere fedele alla storia originale, ma di prenderla come spunto per il già accennato racconto tanto caro al regista.
Facendolo molto bene, fra l’altro.
Infatti, il tema di fondo non è esplicito, ma ben raccontato nei vari momenti chiave.
Inizialmente Giorgio viene raccomandato dal padre per un lavoro che è assolutamente evidente che sia svilente per le sue capacità e la sua inventiva. Così anche Gabriella sembra inizialmente contraria a volersi sistemare con Carlo, che la rincorre per un matrimonio, ma per lungo tempo durante il film accetta di sottostare a quello che la società si aspetta da lei.
Ma infine anche lei decide di abbandonare questa idea e abbracciare invece la ribellione di Giorgio.
Parallelamente il mondo adulto è raccontato con una sferzante ironia: i politici, che si sentono tanto potenti e importanti per aver fondato l’Italia del dopoguerra, si dimostrano in realtà interessati principalmente al proprio tornaconto, corrotti con il Vaticano e che si accaniscono sul progetto di Giorgio semplicemente per dimostrare il proprio potere.
Ma non vincono veramente: hanno ucciso un progetto, ma non possono distruggere un ideale.
Il multiforme Elio Germano
Elio Germano è la punta di diamante di questo film.
Un attore estremamente eclettico, che riesce a portare in scena personaggi sempre diversissimi fra loro: dal rozzo romano in Favolacce (2020) al suo Leopardi in Il giovane favoloso (2014), fino al giovane sognatore in questa pellicola.
Il suo personaggio non è del tutto positivo: lo seguiamo con entusiasmo nel suo assurdo progetto, perché ne apprezziamo il coraggio e la follia. Tuttavia, Giorgio è molto fallibile e poco coi piedi per terra: si fa multare due volte, non è capace di relazionarsi con il mondo e si ribella incondizionatamente al potere costituito.
E viene più volte minacciato e disprezzato dagli adulti, prima dal padre, riuscendo infine ad ottenere la sua approvazione, poi sfidato direttamente dal Governo Italiano. Ma non si perde mai d’animo, fino all’ultimo.
Un cast internazionale
Come anticipato, L’incredibile storiadell’Isola delle Rose può godere di un ottimo cast internazionale.
Anzitutto la coppia di ministri del Governo allora in carica, interpretati da due dei migliori attori italiani al momento: Fabrizio Bentivoglio è il Ministro Franco Restivo, che decide in ultimo di attaccare l’Isola delle Rose.
E l’irriconoscibile Luca Zingaretti, l’iconico Commissario Montalbano, è il Presidente del Consiglio Leone. Una coppia irresistibile, comica ai limiti del grottesco, con una recitazione sempre splendida e credibilissima.
Due altri ottimi attori internazionali: François Cluzet, attore francese noto soprattutto per Quasi amici (2011) è il Presidente del Consiglio d’Europa Jean Baptiste Toma, che tifa per Giorgio Rosa fino alla fine.
Così l’attore tedesco Tom Wlaschiha, che ha recitato in Game of Thrones nei panni di Jaqen H’ghar, membro degli Uomini senza volto che addestra Arya nella settima stagione, ma anche Enzo nella quarta stagione di Stranger Things.
Attore quindi capace di recitare in inglese, tedesco, italiano e russo: niente di meno.
Una settimana da Dio (2003) è un film diretto da Tom Shadyac, regista che aveva già lavorato con Jim Carrey per Ace Ventura(1994).
Una pellicola che, dopo quasi 10 anni dal lancio al grande pubblico dell’attore, confermò le sue capacità recitative, ancora più di The Truman Show(1998).
Il film fu un buon successo di pubblico (484 milioni di dollari contro 80 di budget) e, non a caso pochi anni dopo si tentò di produrre un seguito, Un’impresa da Dio (2007), con protagonista Steve Carell, che però fu un disastro commerciale (174 milioni di incasso contro un budget di 175).
Di cosa parla Una settimana da Dio
Bruce, interpretato da Jim Carrey, è un giornalista televisivo per Channel 7 e che ambisce a diventare il conduttore del telegiornale, scontrandosi contro il rivale, Evan. Quando la sua vita sembra andare a scatafascio, un incontro inaspettato, con niente di meno che Dio in persona, gli sconvolgerà la vita.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Una settimana da Dio fa per me?
Una settimana daDio si inserisce nel trend delle commedie dei primi Anni 2000, con tutto quello che ne consegue.
Quindi battute anche di cattivo gusto e quel fetish parecchio strano che avevamo per la pipì e alle scoregge, che a quanto pare facevano molto ridere. Tuttavia, un umorismo in questo senso ben dosato, senza mai cadere negli eccessi, pur geniali, di prodotti ben più esagerati come Dodgeball(2004).
In generale, è un film che mi sento di consigliare se vi piacciono le commedie e soprattutto se volete vedere un Jim Carrey al massimo della forma, nel periodo d’ora della sua carriera.
In questo film infatti, a differenza di un The Mask (1994), Carrey riesce a calibrare perfettamente le sue capacità comiche nelle espressioni, nella voce e, soprattutto, nella recitazione corporea.
Nel complesso è una pellicola assolutamente godibile e che vi consiglio se volete vedere un prodotto che, anche 20 anni dopo, è ancora stato in grado di farmi ridere genuinamente.
Scegli una storia, sceglila bene
Come scheletro narrativo Una settimana da Dio è sostanzialmente assimilabile a The Mask: una commedia che racconta il sogno di potenza di un uomo medio.
Tuttavia, in questo caso la morale è (o dovrebbe essere) più profonda: non semplicemente un protagonista che deve capire le sue potenzialità, ma un personaggio sostanzialmente negativo che deve migliorare sé stesso.
Infatti, Bruce è un uomo ambizioso, invidioso e iracondo, cui viene messo in mano un potere straordinario, che però utilizza solamente per il suo tornaconto. E alla fine Dio lo metterà davanti alla consapevolezza di non aver mai fatto nulla di buono con i suoi poteri, come invece avrebbe dovuto.
E, a questo punto, secondo me il film si perde.
Una conclusione?
Teoricamente questa esperienza dovrebbe portare Bruce alla consapevolezza dei suoi difetti, a ridimensionarsi e a capire che può ottenere una vita felice e soddisfacente anche accontentandosi di quello che ha. Tuttavia, questa consapevolezza non è messa in scena in maniera ottimale.
Infatti, nonostante ci siano una serie di indizi di come le azioni di Bruce causino importanti conseguenze, lo stesso sembra non accorgersene.
Il momento di consapevolezza dovrebbe arrivare prima con il discorso di Dio stesso, quando gli spiega che i miracoli sono quelli che compiono le persone tutti i giorni, e non tanto i piccoli trucchi di magia che ha fatto Bruce fino a quel momento.
E, teoricamente, da quel punto in poi il protagonista dovrebbe comportarsi in maniera migliore. Tuttavia, questo cambio di comportamento è troppo veloce e improvviso, oltre ad avere un minutaggio abbastanza ridotto.
Quindi a mio parere Una settimana da Dio è una commedia complessivamente buona e davvero divertente, che però si perde nell’ultimo atto, andando ad incartarsi nel classico finale consolatorio che troviamo nella maggior parte dei prodotti di quel periodo…
The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.
Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura(1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.
Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.
Di cosa parla The Truman Show
Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Truman Show?
Assolutamente sì.
Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.
Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.
Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.
Un punto di arrivo
Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.
Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.
Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.
La morale
The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.
La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.
E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).
La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.
Il tono
Il tono di The Truman Show è ben calibrato.
Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.
Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.
Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?
All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.
Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.
Emma. (2020) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, diretto da Autumn de Wilde, fotografa statunitense nota per i suoi ritratti e per la regia di videoclip musicali, nella sua prima opera cinematografica.
Purtroppo la pellicola uscì proprio in concomitanza con l’inizio della pandemia, quindi incassò veramente poco: appena 26 milioni di dollari,pur non risultando un flop per il budget contenuto – 10 milioni.
Di cosa parla Emma.
La protagonista della pellicola è Emma, giovane nobildonna inglese non ancora sposata, ma molto abile a tessere le relazioni altrui. In particolare si preoccupa di far sposare la sua protetta, Harriet.
Da qui seguono diversi intrighi e vicissitudini che coinvolgeranno la protagonista ed un ampio gruppo di personaggi secondari.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Emma.?
Assolutamente sì.
Emma. ed è tutto quello che potreste aspettarvi da Jane Austen: una storia romantica di matrimoni e intrighi nel contesto della piccola nobiltà inglese. Ma il suo merito è non scadere nel facile dramma che caratterizza spesso prodotti di questo tipo, e, sopratutto, non cercare di attualizzare le vicende.
Al contempo è anche una commedia frizzante e divertente, che intrattiene facilmente e dimostra come sia possibile portare in scena un dramma storico con una storia avvincente e articolata, senza dover scadere in banalità o in esagerazioni fuori contesto e luogo.
L’abito fa il monaco
Emma è in una posizione sociale superiore alla maggior parte dei personaggi, e sfrutta appunto questo suo potere per tessere le relazioni delle persone che gli stanno intorno. La sua posizione sociale prominente è evidente in ogni scena, soprattutto in quelle in cui è nel mezzo di personaggi che sono socialmente inferiori a lei.
La scelta dei costumi in questo senso è azzeccatissima.
Infatti, i personaggi di una classe più elevata si notano subito, soprattutto quelli femminili, per via di un abbigliamento più chiassoso e ricco, mentre i personaggi più socialmente svantaggiati indossano abiti più umili e contenuti.
Il percorso di Emma
Emma è un personaggio incredibilmente tridimensionale.
Compie un interessante percorso di crescita e consapevolezza, e il suo punto di arrivo non è né il matrimonio né l’innamoramento. Il fine della sua storia è infatti quello di comprendere la sua posizione e di non abusarne malignamente.
Il momento della realizzazione è quando deride pubblicamente Mrs. Bates, la quale, per la sua posizione inferiore, non può controbatterle.
E così Emma capisce di non voler diventare una persona sgradevole e vanesia come Mrs. Elton, la moglie del canonico, ma anzi di voler appunto usare la sua posizione per aiutare gli altri. Fra l’altro questo aspetto del suo carattere era il motivo Mr. Knightley si era innamorato di lei.
Un casting particolare
Scelta peculiare quella del casting dei protagonisti: per quanto consideri Anya Taylor Joy di una bellezza quasi divina, non ha comunque un volto convenzionalmente gradevole, anzi.
Il suo volto presenta dei tratti molto marcati e particolari, che la rendono una splendida scelta per il ruolo. Così Johnny Flynn, che incarna più l’ideale di bellezza del periodoche quella odierna: labbra pronunciate, sguardo assorto, capigliatura tormentata.
Al contrario, Callum Turner, che interpreta Mr. Churchill e che abbiamo (purtroppo) visto recentemente che in Animali fantastici: I segreti di Silente (2022), presenta una bellezza più convenzionale. Ma è totalmente funzionale alla trama: Emma, oltre anche per l’idea che si è fatta su di lui, deve esserne immediatamente ammaliata.
Personaggi secondari esplosivi
La pellicola può godere di personaggi secondari scoppiettanti.
Anzitutto Mr. Woodhouse, il padre di Emma, interpretato da un esplosivo Bill Nighy, che ricorderete sicuramente per essere stato il Ministro della Magia a partire da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (2009).
Un uomo che spinge la figlia a non sposarsi per non abbandonarlo, ma alla fine dà indirettamente la sua benedizione alla nascente coppia, barricandosi dietro ben due paraventi per concedere loro un po’ di intimità.
Così Josh O’Connor, che interpreta il canonico: viscido e macchinatore, con una presenza scenica al limite del grottesco, e che ben si sposa con la maligna stravaganza di Augusta, la moglie nuova di zecca che si procura dopo il rifiuto di Emma.
Due personaggi sgradevoli e bizzarri in maniera davvero spassosa.
Inoltre, Tanya Reynolds (Augusta) e Connor Swindells (Robert Martin) insieme a Josh O’Connor (Il canonico) sono tutti presi da Netflix: gli ultimi due da Sex Education(rispettivamente Lily e Adam) e Josh O’Connor lo ricorderete per aver interpretato Carlo, figlio di Elisabetta, nelle ultime due stagioni di The Crown.
L’innamoramento
Anche se potrebbe sembrare, la storia d’amore rappresentata non è la classica situazione enemyto lovers.
Infatti, Emma e Mr. Knightley sono amici da tempo per legami familiari, e lui, sapendo che a lei piace essere l’ape regina che controlla tutti e che è sempre al centro dell’attenzione, la punzecchia (per esempio esaltando la raffinatezza di Jane), ma cerca anche di riportarla coi piedi per terra, come nel caso della questione del matrimonio fra Harriet e Mr. Elton.
La seconda metà del film è il momento dell’innamoramento: Mr. Knightley mostra di apprezzare profondamente Emma, non solo per la sua bellezza, ma per altre doti intellettive e sociali, come fra l’altro Emma si aspettava da lui.
Nella scena del ballo a casa di Mr. Weston si percepisce una tensione di erotica non indifferente, che fortunatamente non si conclude in una scena di sesso anacronistica e volgare come in altri prodotti.
E alla fine arriva l’inevitabile dichiarazione d’amore, con una scena profondamente romantica e tormentata. Ma il momento è rimandato dall’urgenza di Emma di risolvere i suoi errori e di far sposare Harriet con Mr. Martin, intervenendo in prima persona.
E solo in chiusura del film il loro rapporto viene concretizzato, fra l’altro sdrammatizzando col già citato piccolo siparietto comico del padre di Emma. E non potrò mai ringraziare abbastanza questa pellicola di non essersi persa nel facile dramma strappalacrime, ma di essersi invece impegnata nella costruzione di un rapporto credibile e ben raccontato.
The worst person in the world(2021) è un film norvegese, per la regia di Joachim Trier, cineasta già attivo da molti anni e che con questo film chiude la sua Trilogia di Oslo. La pellicola è stata candidata a Miglior film internazionaleagli Oscar 2022 (perdendo contro Drive my car) e al Festival di Cannes 2021 ha conquistato il premio per Miglior interpretazione femminile.
Un film che si propone di raccontare il dilemma generazione dei millenials, all’interno di una commedia romantica.
Ci è riuscito?
Di cosa parla The worst person in the world
La pellicola racconta di Julie, una ragazza di quasi trent’anni che cerca costantemente di trovare la propria strada nella vita, stressata dalla generazione più vecchia di lei per prendere una decisione e far fronte alle sue responsabilità. E, per questo, si barcamena fra due relazioni sentimentali.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché The worst person in the world non funziona (secondo me)
Come anticipato, The worst person in the world sembrava voler raccontare un dilemma generazionale: i millennial sono una generazione di adulti trattati dalla società con gli stessi parametri di una realtà culturale ormai tramontata. Troppo giovani per essere presi sul serio, ma abbastanza adulti da prendere scelte importanti sulla propria vita.
La pellicola pare appunto voler partire da queste premesse, sviluppando la tematica attraverso il racconto delle relazioni romantiche travagliate della protagonista. In realtà, a parte qualche concetto femminista buttato lì e qualche problema generazionale non particolarmente esplorato, The worst person in the world non è altro che una commedia romantica di medio livello, che cade nel facile patetismo sul finale.
La persona peggiore del mondo?
Il film si propone fin dal titolo di raccontare il dramma e il conflitto della protagonista, che si sente appunto la persona peggiore del mondo per le sue scelte di vita. Il problema è che sicuramente Julie fa delle scelte che moralmente non sono del tutto condivisibili, ma sono anche le migliori per lei. E questo, che sembrava dover essere il tema principale della pellicola, non viene affrontato fino in fondo, non riuscendo di conseguenza a contestualizzare adeguatamente il titolo e la tematica.
Ho visto molto più focus, soprattutto nella parte finale, sul personaggio di Aksel, il fidanzato quarantaquattrenne con cui Julie ha un evidente conflitto generazionale. A lui viene infatti viene dedicato ampio spazio nelle ultime sequenze, in particolare con un monologo dal forte impatto emotivo. Insomma, il suo personaggio mi è sembrato decisamente più profondoed esplorato rispetto a quello della protagonista, complice probabilmente anche il fatto che chi ha scritto e diretto la pellicola fa parte della generazione di Askel, appunto.
Vale la pena di vedere The worst person in the world?
Nonostante il film sia a mio parere fallace nel rendere al meglio la tematica trattata, è complessivamente un film godibile, soprattutto se apprezzate le commedie romantiche. In particolare se siete amanti della produzione europea, generalmente estranea agli stereotipi più smaccati del genere, come invece tipico del cinema statunitense.
Semplicemente, non aspettatevi un film particolarmente brillante come si propone di essere.
Rapunzel (2010) è un lungometraggio animato di casa Disney, il cinquantesimo fra i suoi Classici, nonché, insieme al Re Leone (2019), il film animato più costoso della storia del cinema.
E così, con un budget di 260 milioni di dollari, incassò bene: quasi 600 milioni in tutto il mondo.
Ed è fra i miei prodotti animati preferiti in assoluto.
Di cosa parla Rapunzel?
Rapunzel è una ragazza che sta per compiere diciotto anni, passati tutti nella torre in cui è stata imprigionata da Madre Gothel, che vuole sfruttare il suo potere…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena guardare Rapunzel?
Assolutamente sì.
Rapunzel è un ottimo prodotto di animazione, che riesce facilmente ad intrattenere e a divertire.
Oltre a non avere mai dei momenti morti, presenta una narrazione incalzante, porta in scena due protagonisti con un’ottima chimica, una storia d’amore davvero coinvolgente, pur nella sua semplicità. Inoltre, una serie di personaggi secondari genuinamente divertenti e ben scritti.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Rapunzel
Rapunzel è una protagonista all’avanguardia per i tempi.
oltre ad essere, insieme a Mulan, una delle poche principesse a possedere un’arma, come Mirabel in Encanto (2021), è un personaggio intraprendente e che prende in mano la propria vita, nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti.
Ovviamente il maggiore ostacolo è Madre Gothel e i suoi ricatti emotivi, ma anche Flynn inizialmente cerca di ingannarla e manipolarla.
Ma Rapunzel è inarrestabile.
In particolare, la protagonista della pellicola ha due punti di forza: non ha un principe e si salva da sola.
Salviamoci insieme
Non solo Rapunzel si salva da sola, ma salva anche il principe.
Una caratteristica ben poco presente per i personaggi femminili, che solitamente sono figure passive che devono essere salvate, spesso premio di una prova del personaggio maschile.
In questo caso Rapunzel decide autonomamente di intraprendere il suo viaggio e riesce, pur con qualche difficoltà, a difendersi, sia fisicamente che psicologicamente, da Flynn e infine da Madre Gothel.
Inoltre, appunto, salva Flynn in almeno due situazioni: quando stanno scappando dai gendarmi dalla taverna, quando stanno per affogare, e infine, anche se indirettamente, quando Flynn è effettivamente morto.
E l’unico momento in cui viene effettivamente salvata non è il solito salvataggio della principessa in pericolo.
Flynn
Molto spesso nella narrazione classica si portava una rappresentazione del protagonista maschile che doveva essere il sogno di ogni bambina: trovare un uomo bello e ricco da sposare, possibilmente che sapesse mettersi in gioco per salvarci la pelle.
Tuttavia le prospettive e i desideri del pubblico già dieci anni fa si erano ampliati.
Per questo Flynn Rider è stato il primo anti-principe della Disney.
A questo esperimento ne è seguita una pallida imitazione con Kristoff in Frozen, e in parte Nick in Zootropolis (2016). Quindi personaggi maschili che si affiancano le protagoniste femminili più come compagni di avventure che (solo) come interessi amorosi.
Nel caso di Flynn troviamo un personaggio assolutamente inusuale per l’epoca: viene anzitutto presentato come fondamentalmente negativo, in quanto fuorilegge, furbo e approfittatore, oltre che vanitoso (caratteristica rara nei personaggi maschili protagonisti, se non per sottosensi queer).
Nonostante tutti questi difetti, Flynn ci sta subito simpatico perché è un personaggio umano.
Uscire dallo stereotipo
A differenza di Rapunzel, che è un personaggio più tipico, Flynn è un personaggio profondamente umano.
Come ci spiega lui stesso, Flynn non è rappresenta la sua reale persona, ma è una facciata che si è costruito. Anche se non è spiegato nel dettaglio, sicuramente proviene da una realtà di grave povertà, forse persino da un orfanotrofio.
Per cui rubare non era mai stato un atto di avidità, ma un modo di sopravvivere, e anche di inseguire, seppure in maniera negativa, il sogno di una vita migliore. La validità del suo sogno viene tuttavia più volte ridimensionata, anzitutto da Uncino, che gli dice Il tuo sogno fa schifo.
Compagno di vita
Così, come nel migliore dei buddy movie, Flynn insieme a Rapunzel riesce a crescere e a migliorarsi, con un effettivo lavoro di squadra, che non sia solo unidirezionale.
Infatti Flynn non salva Rapunzel in senso stretto, ma più che altro la aiuta a compiere quell’atto finale che non riusciva a compiere lei stessa, per via lavaggio del cervello cui era stata sottoposta: tagliare definitivamente i ponti, e così il cordone ombelicale metaforico con la madre.
Oltre a questo, Rapunzel riesce a tirare fuori il meglio da lui, portandolo ad abbandonare Flynn per tornare ad Eugene, ovvero una persona che si interessa a qualcun altro oltre che a sé stesso, e che ha mire definitivamente più oneste e positive.
Ovviamente all’interno di un finale molto semplice e prevedibile, ma del tutto funzionale.
L’innamoramento
Un grande pregio del film è che il rapporto Flynn e Rapunzel, nonostante sia basato sui più classici e funzionali tropoi di enemy to lovers, è ben costruito.
Inizialmente entrambi, appena si scoprono, sono quantomeno colpiti. Soprattutto Flynn, che rimane sbigottito vedendola per la prima volta, anche perché in quella scena la ragazza è disegnata in maniera più adulta.
Immediatamente, sono entrambi sulla difensiva davanti all’ignoto: Rapunzel si difende disordinatamente con la padella, Flynn con i suoi stupidissimi metodi di approccio, che potrebbero funzionare con altre donne, ma non con Rapunzel.
Poi ci riprova, vedendola in difficoltà, usando trappole emotive al pari di Madre Gothel, anche se ovviamente non in maniera così diabolica.
L’ultimo inganno a cui la sottopone è quello decisivo: alla taverna, invece di arrendersi definitivamente, Rapunzel si dimostra nuovamente capace di gestire la situazione, portandola a suo vantaggio.
E così è anche la prima volta che Flynn è genuinamente interessato a lei, come si vede dal mezzo sorriso che le rivolge mentre sono nel tunnel sotto alla caverna. Da questo momento in poi comincerà a non considerarla più una ragazzina sprovveduta.
Ed è anche la prima volta in cui Rapunzel si rende conto delle sue capacità, e di non essere una buona a nulla come raccontava Madre Gothel.
Le ultime tappe
La scena del falò è un altro momento decisivo.
Finalmente entrambi si svelano l’uno all’altro, in maniera in cui nessuno dei due aveva mai fatto con nessuno. A quel punto Rapunzel è già evidentemente già innamorata, ma Flynn non può concedersi questo passo: la guarda ammaliato, poi abbassa lo sguardo, genuinamente sorpreso, e si allontana con una scusa.
E in quel momento Rapunzel fa la mossa finale: dimostra di accettarlo per chi davvero è, e non per la facciata che Flynn ha dovuto usare tutta la vita. E da come lo guarda si vede che è definitivamente innamorata.
Lo stesso sguardo è negli occhi di Flynn quando in città vede Rapunzel con i capelli intrecciatidi fiori. Ma, ancora una volta, davanti allo sbeffeggiamento di Maximus, cerca di allontanare quel pensiero.
L’amore fra i due è finalmente rivelato prima quando si trovano mano nella mano durante la danza nella città, e infine sulla barca, quando si dichiarano vicendevolmente, senza più imbarazzo.
Così il breve distanziamento fra i due, che per fortuna non viene eccessivamente drammatizzato ed è anzi occasione per Rapunzel di avere la sua rivalsa su Madre Gothel, viene risolto con la dichiarazione reciproca dell’amore di entrambi.
E non con un semplice ti amo, ma con una dichiarazione più profonda.
Madre Gothel
Madre Gothel è villain da manuale.
un antagonista piuttosto tipizzato, ovvero quel tipo di cattivo la cui cattiveria non è particolarmente esplorata.
Tuttavia, leggendo più a fondo il suo personaggio, si scopre che non è così superficiale come potrebbe sembrare. Anzitutto, le sue motivazioni: non cattiva perché cattiva, ma perché ossessionata non tanto dalla vita eterna, ma proprio dalla bellezza.
Non a caso Madre Gothel è una donna fascinosa e magnetica, che utilizza anche questo suo potere a suo vantaggio.
Così ammalia uno dei delinquenti della taverna per sapere dove sbuca il tunnel sotterraneo, così inganna i due compari di Flynn Rider per utilizzarli a suo vantaggio.
E sempre sulla bellezza punta quando vuole sminuire Rapunzel, sia durante la canzone Mother knows best, quando le dice che è trasandata, persino grassa (a little chubby).
Ma soprattutto durante la scena del falò, quando le afferra i capelli per sbeffeggiarla e le dice Pensi che sia rimasto impressionato? ribadendo quanto la figlioccia sia strana, trasandata e per nulla attraente.
Ma, soprattutto, Madre Gothel è definita nella dicotomia luce – buio, in contrapposizione con Rapunzel.
Essere inghiottiti dall’oscurità
Secondo un topos molto semplice, ma non per questo meno efficace, Madre Gothel è strettamente collegata al concetto di oscurità. Anzitutto per i colori del suo personaggio, molto intensi e scuri appunto, così per la maggior parte delle scene in cui compare, sempre in ombra o penombra.
Inoltre, questa dicotomia si trova nella già citata canzone Mother knows best: tutta la scena è la donna che cerca di togliere la luce alla figlioccia, sia in senso metaforico che effettivo.
Come le spegne le candele che Rapunzel cerca di accendere per fare luce, così Madre Gothel utilizza la luce a suo vantaggio, facendo vedere quello che vuole lei, e ottenebrando la mente della ragazza con paure insensate.
Un’ombra
L’ombra di Madre Gothel accompagna Rapunzel anche quando non è presente in scena.
Quando la ragazza è profondamente divisa sul da farsi, avendo paura di deludere la madre, nelle scene di spensieratezza l’ambiente è luminoso e con colori pieni, quando è invece triste e preoccupata la vediamo in ambienti nell’ombra o nella penombra.
Altrettanto importante per questo simbolismo è l’incontro del falò: la donna abbraccia Rapunzel, non per affetto ma per ingabbiarla nuovamente, la afferra per un polso e cerca di trascinarla con sé, lontano dal falò e quindi dalla luce, verso la foresta nera da cui è emersa.
E così tutta la canzone, che serve a sbeffeggiare la figlioccia e impiantare in lei il seme del dubbio, si svolge nell’ombra.
Ancora la tematica della luce quandoRapunzel acquisisce consapevolezza: in inglese nella canzone delle lanterne dice Now I see the light, ovvero Ora vedo la luce, in senso sia letterale, sia metaforico.
E il parallelismo è scontato è quando assume la definitiva consapevolezza della sua identità, vedendo proprio i soli simbolo della sua famiglia nella sua stanza, e quindi la luce e la verità che gli era sempre stata nascosta.
Ma Rapunzel si fa anche tentare da una luce ingannevole: quando finalmente (e per fortuna temporaneamente) Madre Gothel la fa tornare a sé dopo averle fatto credere al tradimento di Flynn, è accanto ad una lanterna.
Ma è una lanterna di una luce fredda, verdognola, di un colore solitamente associato al veleno e all’inganno.
E si potrebbe andare avanti…
Non solo il tuo animaletto
Per quanto si sarebbe potuto desiderare un villain più profondo, che non fosse limitato alla sua cattiveria apparentemente superficiale, la spietatezza con cui Madre Gothel tratta Rapunzel è da brividi.
Non c’è mai un momento in cui dimostra qualche tipo di effettivo affetto verso la figlioccia, che considera sempre invece come uno strumento, come una risorsa per sé stessa ed il suo tornaconto.
Non solo uno strumento, ma anche un animale: nella sua prima canzone, Mother knows best, Madre Gothel chiama Rapunzel proprio pet, e in più di un’occasione le tocca la testa come si fa con gli animali da compagnia appunto.
Questo gesto è ribadito nell’ultimo atto, quando Rapunzel le si ribella, prendendola violentemente per il polso e impedendole di farlo.
E finalmente torreggia su di lei.
Personaggi secondari indovinati
Un altro merito di questo film sono sicuramente i personaggi di contorno.
Anzitutto i malviventi incontrati alla taverna, che nel finale diventano fondamentali. Soprattutto per la loro canzone dove vengono presentati, non sono altro che un’estensione di Flynn: criminali ma dal cuore d’oro e con altre passioni oltre al crimine di per sé.
Tra l’altro spassosissima la loro sfilza di interessi assolutamente anacronistici per il periodo rappresentato.
Altra punta di diamante della pellicola è Maximus.
Era forse dai tempi di Mushu che non si vedeva un animale così ben raccontato ed animato, con una mimica al limite della perfezione, che lo fa sembrare prima un uomo, poi un cane (nella scena in cui incontra Rapunzel). Maximus è proprio una storia a parte.
Nota a margine per Pascal: sembra un personaggio molto secondario, e invece ha un ruolo chiave nella vicenda. Infatti, fino alla fine, Madre Gothel neanche sa che esista e Rapunzel glielo nasconde volutamente.
Pascal è infatti la voce della ragione, una figura enigmatica e silenziosa che invita subito Rapunzel ad uscire, che veglia su di lei, riuscendo ad addomesticare Maximus e accettando tacitamente la sua relazione con Flynn.
E non è un caso che è Pascal stesso che interviene per rendere definitiva la dipartita di Madre Gothel.
Rapunzel: un’altra interpretazione
Il potere di Rapunzel è luminoso e puro e, una volta tagliato, perde il suo valore.
Non sarò la prima né l’ultima a dirvi che Rapunzel può essere letto in un’altra ottica.
Il dono di Rapunzel è in realtà la sua verginità, in una visione ovviamente molto tradizionalista. Così Madre Gothel la promette ai malviventi, in maniera davvero inquietante, così dice a Rapunzel che Flynn vuole solo una cosa da lei, come se dovesse sedurla per avere un rapporto sessuale e poi abbandonarla.
Una narrazione piuttosto utilizzata e radicata profondamente nell’immaginario collettivo, anche odierno. E il fatto che si parli di Rapunzel e del suo potere legato al fiore e della preziosità della corona, l’unico interesse di Flynn secondo Madre Gothel, non fanno che confermare questa visione.
Così, quando alla fine si baciano sulla torre e l’inquadratura si allontana, senza far mai vedere che escono o altro, i più maliziosi potrebbero intendere quello come effettivamente il momento in cui portano il loro rapporto ad un altro livello.