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Io e Annie – Una lettera amara

Io e Annie (1977) di Woody Allen rappresentò il momento in cui artisticamente il regista divenne quello che conosciamo oggi, autore di commedie con un’ironia frizzante ma anche amara, e trame sempre più consolidate.

Questa pellicola si potrebbe definire superficialmente una commedia romantica, ma in realtà è molto più di quello. È una lettera d’amore molto amara a un amore appena sbocciato.

E che non durò per molto.

Il film fu anche il primo incasso sostanzioso della carriera di Allen: davanti ad un budget di 4 milioni, incassò ben 38,3 milioni di dollari.

Di cosa parla Io e Annie?

Alvy e Annie si sono appena lasciati, e si ripercorre, con diverse intersezioni e flashback, la nascita e la fine del loro amore.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Io e Annie?

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Assolutamente sì.

Io e Annie è una di quelle pellicole che personalmente non mi ha preso del tutto sulle prime, ma che poi mi ha fatto quasi involontariamente affezionare ai protagonisti e alla loro relazione, così difettosa e al contempo davvero divertente.

Non fatevi frenare dall’idea che sia una commedia romantica, perché non utilizza neanche una delle dinamiche tipiche del genere. Vuole anzi in tutto e per tutto essere un racconto credibile e sentito, una storia vera in cui è facile riconoscersi.

Un film da vedere quasi come prologo prima di arrivare a Manhattan

Raccontare una storia

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Scelta curiosa, ma anche intelligente, quella di cominciare la storia con la sua fine, raccontando già da subito di come la relazione si sia conclusa.

E poi partire con un racconto davvero tenero e appassionante di come la relazione è sbocciata nella maniera più ingenua possibile, per poi mostrare tutti i momenti di rottura e di difficoltà nel farla funzionare.

E anche con tante contraddizioni che li portano ad allontanarsi temporaneamente, per fortuna evitando quella classica dinamica per cui la donna amata appaia perfetta a discapito delle altre donne imperfette.

Infatti, il riavvicinamento avviene per colpa di Annie, che cerca una qualsiasi scusa per riallacciare i rapporti e portare all’ultimo periodo insieme.

Un finale dolce e amaro

Woody Allen in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

La bellezza di Io e Annie è anche e soprattutto il finale, in cui ammetto che mi sono sinceramente commossa, nonostante me lo aspettassi. Forse non tanto perché tutto sommato mi ero affezionata alla coppia protagonista, ma perché è un boccone amaro e malinconico.

Non vi è la volontà di raccontare un finale consolatorio o speranzoso, ma di due persone che semplicemente decidono di non far più parte della vita dell’altro. Con una carrellata finale dei momenti più significativi della loro storia, che fa scendere l’inevitabile lacrima sul finale…

La maturazione artistica di Diane Keaton

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Io e Annie (1975) du Woody Allen

Ammetto che non ho mai seguito più di tanto la carriera di Diane Keaton, ma questo è il secondo film in cui mi ha davvero sorpreso.

Se in Il dormiglione (1973) era principalmente esuberante, anche se piacevolissima, in Io e Annie mostra di essere un’attrice già in parte arrivata, con una recitazione ben calibrata e dosata.

Il suo personaggio non è infatti per nulla semplice e scontato, ma definito da più tratti: la sua ingenuità all’inizio, la sfrontatezza con cui guida, il suo rapporto col sesso…e si potrebbe andare avanti. In questa pellicola Keaton si è veramente sbizzarrita, ma senza mai andare all’eccesso sul lato comico.

I camei che non ti aspetti

In questa pellicola ci sono due camei davvero inaspettati, proprio come era stato per Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971)

Il fratello di Annie è interpretato da niente poco di meno dell’immenso Christopher Walken, al tempo appena trentenne, a pochi anni di distanza dalla vittoria agli Oscar per Il cacciatore (1979). In questo caso la sua gag piuttosto dark, per quanto sia breve, l’ho piuttosto apprezzata e mi ha strappato una sincera risata.

Molto più rapido il cameo di Jeff Goldblum, che appare in una piccolissima scena in cui risponde al telefono. Goldblum al tempo era anche più giovane: appena vent’anni sulle spalle e da pochi anni attivo sulle scene, ancora lontano dal grande successo di Jurassic Park (1996).

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Il dormiglione – La distopia comica

Il dormiglione (1973) è uno dei primi film di Woody Allen, il primo in cui cercò di portare un’opera più strutturata rispetto ai film precedenti.

Fu anche la pellicola che inaugurò il duraturo sodalizio artistico (e amoroso) fra il regista e Diane Keaton, che sarà protagonista di molti altri progetti, fra cui Io e Annie (1977) e Manhattan (1979).

Questo film fu anche la conferma positiva del riscontro di pubblico di Allen: a fronte di un budget di 2 milioni, incassò 18,3 milioni di dollari, proprio come il precedente Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972).

Di cosa parla Il dormiglione?

Miles Monroe si sveglia a 200 anni di distanza in un mondo totalmente cambiato, e vive la sua nuova vita fra i tentativi di ambientarsi in questa realtà alienante e la volontà di partecipare alla ribellione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dormiglione?

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

In generale, sì.

Il dormiglione è un film dal sapore distopico, ma fondamentalmente è un prodotto umoristico, con pesanti influenze del cinema muto.

Anche se la trama si presterebbe, non ci si deve tanto aspettare un film di avventura o con tinte drammatiche, ma in tutto e per tutto un’avventura comica, per certi versi simile a Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971).

Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, è un film molto simpatico e piacevole, soprattutto se ci si aspetta un tipo di comicità tipica del primo Allen, che ben si adatta al contesto fantascientifico e futuristico.

Una comicità ancora limitata

Woody Allen in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Personalmente non apprezzo in toto la comicità della prima produzione di Woody Allen.

Mi intrattiene quando ha dei toni più surreali come in Prendi i soldi e scappa (1969), meno quando è più semplice e che mima appunto la comicità dei film muti, come il già citato in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere).

Queste piccole inserzioni ispirate proprio a quel genere di film le ho trovate leggermente ridondanti alla lunga, anche se non per questo non apprezzabili e sicuramente ben realizzate. D’altronde sono lo strumento principale con cui Allen cerca di sdrammatizzare i toni in questa pellicola, che potrebbe averne di molto più drammatici.

Devo però ammettere che ho riso di gusto sul finale quando Miles prova a sparare al naso del dittatore.

Un’esplosiva Diane Keaton

Diane Keaton in una scena di Il dormiglione (1973) di Woody Allen

Come detto, questo fu il primo film del sodalizio fra Allen e Keaton. Ed è incredibile vedere due attori che sono sulla stessa lunghezza d’onda: straordinariamente espressioni, sperimentali, senza freni.

Come mi ero abituata all’esplosività del regista come attore, Diane Keaton mi ha piacevolmente sorpreso.

Anche se forse era ancora un in parte attorialmente acerba (fino a quel momento la sua interpretazione più importante era nella saga de Il Padrino), riesce perfettamente a destreggiarsi nei vari aspetti del suo personaggio.

Insomma, un ottimo inizio.

Una fantascienza minimale

La fantascienza di questo film è ancora lontana da quella più creativa e piena di prodotti successivi, come in parte Star Wars (1977) e poi di cult come Alien (1979) e Blade runner (1982).

Al contrario troviamo un’estetica meno fantasiosa e meno alienante, che non vuole raccontare un mondo tanto diverso da quello presente dello spettatore, aggiungendo solo degli elementi paradossali con un preciso effetto comico.

In generale la pellicola si diverte ad esplorare questo nuovo mondo e le sue bizzarrie, prendendosi ampio tempo anche a discapito della trama.

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Bullet train – Perché gli action movie sono noiosi?

Bullet train (2022) di David Leitch è un action movie uscito recentemente in sala. O, meglio, uno dei migliori action movie che potreste vedere negli ultimi tempi. Non è un caso che alla regia ci sia l’autore di due dei migliori film d’azione degli ultimi anni: John Wick (2014) e Atomica Bionda (2017). E, per non farsi mancare nulla, è stato anche regista di Deadpool 2 (2018).

E si vede.

Ad oggi ha incassato 213 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90: rientrati pienamente nel budget, anche se meritava di più.

Di cosa parla Bullet train?

La trama ruota intorno a diversi personaggi, accomunati dall’essere invischiati con i peggiori boss del crimine al mondo. Fra colpi di scena e voltafaccia, come sempre nulla è come sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché guardare Bullet train?

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Bullet train è un film da vedere per vari motivi, anzitutto per il fatto che prende i maggiori problemi degli action movie e li supera egregiamente. Quindi ve lo consiglio particolarmente se non vi piace particolarmente il genere.

La pellicola è incredibilmente divertente e intrattenente, costruendo anche un piccolo ma avvincente mistero che serpeggia per tutta la sua durata. Una bella sorpresa, per un autore di valore, che vale assolutamente la pena di recuperare.

Perchè gli action movie sono noiosi

Non me ne vogliano gli appassionati del genere: se non vi piace semplicemente (e anche giustamente) vedere la gente menarsi con grandi frasi ad effetto, è facile che vedendo molti action movie, soprattutto quelli poco ispirati, vi annoierete a morte.

Un film come The Gray Man, per capirci.

I due più importanti problemi degli action movie puri sono la mancanza di originalità (e chiarezza) nelle scene di azione e il prendersi incredibilmente sul serio.

E Bullet train supera entrambi questi problemi.

Anzitutto, come ci si potrebbe facilmente aspettare da questo regista, le scene di azione non solo sono piuttosto originali, ma spesso anche divertenti e, soprattutto, dirette con una regia dinamica, frizzante e chiarissima.

Inoltre, il film scherza spesso con se stesso e con gli stereotipi del genere a cui appartiene, non prendendosi mai veramente sul serio, ma riuscendo ad ironizzare su tutto, alleggerendo la situazione nei momenti giusti.

Mettere insieme i pezzi

Aaron Taylor-Johnson e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Una colonna portante di Bullet train, nonché uno degli aspetti che gli impedisce di essere un pallido film action, è la sua componente mistery. Un elemento che non è affrontato dai personaggi come se dovessero effettivamente investigare la questione, andando anzi a tentoni e mettendo insieme i pezzi quasi casualmente.

Infatti chi deve mettere insieme gli indizi, anche prima dei personaggi stessi, è lo spettatore stesso, cui viene fornita una pista visiva inequivocabile. Così come il figlio di Morte Bianca è morto piangendo sangue, così anche tutti gli invitati al matrimonio di Wolf muoiono nella stessa maniera.

E qui il film dà la prima finta soluzione: il cameriere che urta Wolf al matrimonio e che di fatto gli impedisce di bere il vino è Ladybug. Ma, differentemente da quello che si pensa, non l’ha fatto appositamente. E, soprattutto, il veleno non era nel vino che Wolf non ha bevuto, ma nella torta che Hornet aveva preparato.

Tutti i pezzi vanno al loro posto quando si racconta la fuga del serpente e poi l’introduzione di Honert, che chiude il cerchio.

Creare un universo di ironia

Brad Pitt in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Quando si scrive un film comico, o quando comunque si vuole inserire una linea comica all’interno di un prodotto, la strategia migliore è quella di farlo affezionare alla comicità del film.

Nel caso di Bullet train con pochi tocchi e scelte indovinate si è riuscito a creare un universo di ironia perfettamente funzionante.

Già l’immagine di Lemon, un uomo adulto che giudica le persone tramite un cartone per bambini, anche portandosi dietro gli stickers della serie, è esilarante. Ma questo elemento viene ancora più intelligentemente sviluppato in due direzioni.

Da una parte le battute comiche, che incredibilmente non smettono mai di far ridere. Dall’altra, con un effetto anche drammatico e funzionale alla storia: sul treno sono tutti dei Diesel, perché bluffano.

E ha anche una funzione nella trama: Lemon lascia lo sticker di Diesel su Prince per far capire all’amico che non è una persona di cui fidarsi. E, nel piccolo monologo dopo la sua morte, gli dice che lui era come Thomas.

Personaggi mai banali

Brad Pitt e Brian Tyree Henry in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

Complessivamente i personaggi del film sono tutti a loro modo interessanti, mai banali e con la loro unicità. Infatti, a differenza di altri film di questo genere in cui i personaggi sono solo figurine sullo sfondo, ognuno ha i suoi tratti caratteristici. Tangerine è iroso e impulsivo, Lemon è un uomo semplice ma anche spietato, LadyBug è la linea comica ed un uomo ossessionato dalla sua crescita personale.

E così via.

La sceneggiatura riesce insomma a mettere in scena un piccolo universo di personaggi che riescono perfettamente ad incastrarsi fra loro in maniera mai banale e scontata, ma in continuo cambiamento e in maniera sempre interessante.

Con splendide eccezioni…

I pochi difetti?

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

I pochi difetti del film si concentrano tutti intorno ai momenti in cui si prende sul serio. In particolare, riguardo ai personaggi di Morte Bianca e The Prince. La figlia di Morte Bianca non è di per sé un personaggio poco interessante, ma alla lunga l’ho trovata leggermente ridondante nei suoi comportamenti. E ha una fine non soddisfacente, ma distrutta dall’elemento comico: per quanto abbia riso quando Lemon la investe per vendicarsi della morte del fratello, mi aspettavo una conclusione più interessante.

Ancora meno convincente ho trovato Morte Bianca, che è un personaggio fortemente costruito all’interno del film, arrivando ad un reveal finale che ho trovato complessivamente poco soddisfacente. Il suo personaggio mi è parso troppo stereotipato e poco tridimensionale per l’importanza che gli era stata data nel film.

Insomma, tutti i momenti in cui il film è troppo attaccato al suo genere mi è piaciuto di meno.

Pochi tocchi di David Leitch

Zazie Beetz in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

In questo film troviamo diversi elementi quasi tipici di questo regista: eredita anzitutto da Deadpool 2 il cameo di Ryan Reynolds, nonchè l’attrice di Hornet, Zazie Beetz, che in Deadpool 2 intepretava Domino, la ragazza fortunata.

Dallo stesso film conferma il suo gusto nell’inserire cameo di attori famosi: come nel cinecomic aveva messo Tom Cruise, qui vediamo anche Channing Tatum e il già citato Ryan Reynolds.

Ovviamente poi conferma la sua capacità di raccontare scene d’azione in maniera appassionante e mai banale, fra l’altro ancora con la splendida scelta di sparatoria dalle macchine come in John Wick.

Cosa succede in Bullet train?

Se non siete sicuri di aver compreso tutta la trama di Bullet Train, ecco una spiegazione per voi.

La trama prende le mosse dal piano di Morte Bianca, che ha portato a bordo del treno le diverse persone che considerava come colpevoli della morte della moglie. Anzitutto Lemon e Tangerine, che dovevano salvare il figlio, che sono gli stessi autori della strage in Bolivia degli uomini del boss, che ha dovuto andare a gestire la situazione e quindi non essere sulla macchina in cui c’era la moglie.

Al contempo la moglie è morta perchè l’unico chirurgo che doveva salvarla era stato avvelenato da Hornet, che quindi Morte Bianca ha ingaggiato per uccidere il figlio, promettendogli i soldi della cauzione per il rapimento dello stesso. E l’omicidio del figlio era voluto perchè la sua ulteriore bravata era stato il motivo per cui la moglie era sulla macchina in cui poi è stato uccisa. Infine LadyBug era sul treno al posto di Carver, che era l’autore della morte della donna.

Joey King in una scena di Bullet train (2022) di David Leitch

The Prince non fa parte del piano di Morte Bianca, ma aveva un piano tutto suo: ha attirato il figlio di Yuichi sul tetto di un centro commerciale per spingerlo giù e poi rivelare al padre che era stata lei a mandarlo in ospedale, riuscendo così ad attirarlo sul treno.

Infatti Yuichi gli serve per uccidere Morte Bianca: l’uomo avrebbe dovuto cercare di uccidere il boss, con un tentativo che sarebbe ovviamente andato a vuoto come tutti i precedenti, e a quel punto Morte Bianca l’avrebbe ucciso, come sua abitudine, tramite la stessa arma dell’attentato. E quell’arma conteneva un meccanismo per cui, premendo il grilletto, scoppiava in faccia al malcapitato.

La valigetta con il meccanismo analogo serviva come piano di riserva per lo stesso fine.

Il bullet train esiste veramente?

Sì, il bullet train esiste veramente.

Inoltre, come viene mostrato nel film, in Giappone vi è una rete di treni ad alta velocità che collega le maggiori città. La velocità si aggira sui 320 km/h: per fare un paragone, un nostro Frecciarossa può raggiungere i 400 km/h.

Però no, in cinquant’anni di servizio, non vi è stato un solo incidente a bordo di questi treni.

E alla fine arriva Sandra Bullock a rovinarmi il film. E vabbè.

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Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) – La guida che mancava

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) è uno dei primi film di Woody Allen, forse fra i più sperimentali di inizio carriera.

Anche in questo caso Allen continuò a lavorare con un budget piuttosto ridotto (appena 2 milioni), riuscendo comunque ad incassare abbastanza bene: 18 milioni di dollari.

Di cosa parla Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)?

Il film è una collezioni di episodi che si propongono di rispondere a domande piuttosto bollenti, come Perché alcune donne non riescono a raggiungere l’orgasmo? oppure Cosa significa sodomia? Le risposte (?) vengono date con delle storielle umoristiche dal sapore molto surreale.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere)?

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) è uno dei film più sperimentali e divertenti del primo Allen, dove lo stesso si accinge in diversi personaggi, anche fuori della sua comfort zone.

Tuttavia qui è dovuto un trigger alert: in un episodio recita in italiano, nella maniera in cui vi potete immaginare uno statunitense recitare in italiano (non terrificante come House of Gucci, ma non meno fastidioso).

Tuttavia, pure questo fa parte di un episodio molto simpatico, in cui il regista sperimenta con un personaggio inedito. In generale, pur con una partenza un po’ più debole, è una pellicola che vale assolutamente la pena di guardare, in particolare se vi piacciono i film più surreali della sua produzione.

Rispondere e non rispondere

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Uno degli aspetti che ho maggiormente apprezzato di questa pellicola è che le domande proposte non sono altro che uno spunto per creare delle piacevoli storielle, e non vi è la volontà di rispondere davvero.

In particolare, ci sono degli episodi che quasi non sembrano raccontare l’argomento della domanda.

Per esempio l’episodio che dovrebbe rispondere alla domanda I travestiti sono omosessuali? in realtà è una piccola sequenza basata su una sorta di commedia degli equivoci, che si risolve anche felicemente, ma che non affronta di fatto questo tema.

Ma, appunto, l’effetto comico sta anche in questo.

Un inedito Gene Wilder

Gene Wilder in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

Questo film dovrebbe essere preso come caso studio per raccontare la bravura di Gene Wilder come attore. In questa fase era ancora all’inizio della sua carriera, a solo un anno di distanza da La fabbrica di cioccolato (1971) e poco prima del suo ruolo iconico in Frankenstein Junior (1974).

Nell’episodio in cui è protagonista ruba totalmente la scena, lavorando in maniera splendida sulle espressioni e microespressioni, riuscendo a rappresentare in maniera incredibilmente credibile il suo innamoramento con la pecora.

Non a caso, è fra le parti più memorabili del film.

Is this Esplorando il corpo umano?

Woody Allen in una scena di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) (1972) di Woody Allen

L’episodio più incredibile della pellicola è quello di chiusura, ovvero Cosa succede durante l’orgasmo?

Una piccola parentesi che sembra davvero un live action di Esplorando il corpo umano, con il sistema corporeo che sembra veramente un’azienda, con tutti i suoi reparti che lavorano insieme.

Un episodio anche molto materiale, quasi disgustoso, ad esempio quando mostra l’apparato digerente che cerca di smaltire il cibo ingerito. Ma assolutamente irresistibile in tutte le sue parti, sia quando si mostra materialmente come viene fatta un’erezione, sia quando la lingua che viene preparata per uscire.

Essere provocatori paga?

Pur essendo il film che (fino a quel momento) incassò di più per la sua produzione (anche se i grandi incassi arriveranno alla fine degli Anni Settanta), per i temi trattati subì ovviamente diverse censure.

In effetti Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso* (*ma non avete mai osato chiedere) è piuttosto provocatore e molto esplicito per alcune tematiche, anche alcuni temi tabù come la zoofilia, i kinky e addirittura le gang bang.

In particolare, in Irlanda venne totalmente censurato, per poi essere distribuito alcuni anni dopo con dei tagli, in particolare per la parte dell’episodio della pecora e la scena dell’uomo che fa sesso con una pagnotta enorme.

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Il capo perfetto – Essere l’eroe della storia

Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa è una commedia amara uscita lo scorso anno e che ha avuto un discreto riscontro anche in Italia. Io inizialmente mi sentivo poco attirata da questa pellicola, perchè avevo paura che fosse la classica commedia dei buoni sentimenti. Mi aspettavo infatti una storia riguardo al capo di una piccola azienda che avrebbe dovuto gestire drammaticamente le disgrazie dei suoi dipendenti, con magari un finale consolatorio.

Non avrei potuto sbagliarmi di più.

Il budget non è noto, ma, nonostante la presenza di una star come Javier Bardem, probabilmente sarà stato molto risicato. E ha avuto anche un incasso piuttosto ridotto, di appena 7 milioni.

Di cosa parla Il capo perfetto?

Julio Blanco è a capo dell’azienda di bilance ereditata dal padre. Nonostante all’esterno sembri una persona specchiata, che tiene ai suoi dipendenti come se fossero i suoi figli, in realtà rivela subito la sua natura subdola e meschina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè Il capo perfetto è un film da recuperare

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il capo perfetto è una commedia assolutamente irresistibile, il cui l’umorismo si basa proprio su come lo spettatore oscilla fra l’essere coinvolto dalle terribili azioni del protagonista, quanto spinto dalla volontà di vederlo punito per le stesse. La comicità è tanto più incalzante quanto più le sue azioni si spingono al limite (e oltre).

Un’ottima pellicola che ha l’ardore di portare in scena un protagonista assolutamente negativo, senza banalizzarlo, anzi creando una sensazione di tridimensionalità per nulla scontata in un prodotto del genere.

Un film da recuperare, senza dubbio.

E da recuperare in lingua originale, possibilmente.

Javier Bardem: che sorpresa!

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Ammetto di non aver seguito tanto da vicino la carriera di questo attore, apprezzandone comunque di volta in volta le sue interpretazioni. Ma sicuramente non l’avevo mai visto recitare nella sua lingua madre e sopratutto in un ruolo comico-grottesco come in questo caso.

E sono rimasta stregata.

Barden riesce a portare in scena un personaggio incredibile, molto più profondo e interessante di quanto potrebbe sembrare sulle prime, sulla scorta di un’incredibile capacità espressiva che si adatta alle diverse situazioni e scene, oltre che i ruoli che interpreta.

Un personaggio che ti viene da respingere ma che al contempo anche ti appassiona sinceramente, non riuscendo a tifare per lui perchè è troppo respingente e freddo, ma al contempo l’eccesso della sua meschinità è tremendamente appassionante.

Essere gli eroi della nostra storia

Javier Bardem in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il film lavora su un interessante concetto psicologico, ovvero quello per cui ci sentiamo i protagonisti della nostra storia, nonchè gli eroi. Raramente nella nostra vita riusciremo ad ammettere effettivamente di essere in torto e di non aver avuto delle buone ragioni o delle motivazioni circostanziali che ci hanno spinto a determinate azioni.

Così ci sentiamo sempre i buoni della situazione.

Anche in questo caso, in un toccante monologo verso il finale, Blanco ammette candidamente e anche in maniera piuttosto sconsolata che si comporta così perchè effettivamente spinto a proteggere la sua azienda, in tutti i modi possibili.

Anche se questo significa ricadere nei più classici vizi del capo: mancanza di empatia, nepotismo, avances inappropriate verso i dipendenti, oltre che allo sfruttamento di una potente rete di conoscenze politiche.

Il significato del finale

Almudena Amor in una scena di Il capo perfetto (2021) di Fernando León de Aranoa

Il finale ha una drammaticità inaspettata, ben raccontata dall’incontro con la Commissione come una scena estremamente luminosa e patinata. Ma noi, dopo aver vissuto una settimana nell’azienda, sappiamo cosa nasconde questa apparente scena idilliaca.

Di fatto, quella di Blanco è stata una gara di meschinità, in cui è dovuto sottomettersi ad una persona anche più meschina di lui, ovvero Lilliana, che si vendica nei suoi confronti per ottenere quello che vuole. Ma, visto il comportamento terrificante di Blanco nei suoi riguardi, non possiamo che essere un pochino dalla sua parte…

Il capo perfetto

Allo stesso modo il licenziamento di Miralles non arriva pacificamente nè racconta un tipo di maturazione di fatto dovuta del personaggio. Semplicemente Blanco vuole infine liberarsi di un personaggio che sta portando danno alla sua azienda, e che infine rivela tutta la falsità del loro rapporto: non sono mai stati veramente amici, ma Miralles è sempre stato un suo sottoposto.

E anche in questo caso Blanco lo vince con la sua meschinità e furbizia, che l’altro evidentemente non possiede.

Ma il finale veramente amaro è quello con Fortuna, il padre di Salva, il ragazzo che muore proprio per colpa di Blanco. La situazione che si crea è l’esempio massimo della pochezza d’animo del protagonista: con il suo tentativo di uccidere il suo ex dipendente fastidioso, fa perdere la vita ad un ragazzo già invischiato in traffici poco puliti. Lo stesso che aveva promesso di riportare sulla giusta vita.

E persino a quel punto non può non commuoversi, sentendo, forse per la prima volta, il peso delle sue scelte.

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Harry ti presento Sally – L’incubo delle relazioni

Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner è un cult del genere rom-com. Divenne un modello sopratutto per il sottogenere dell’enemy to lovers, ovvero le storie romantiche incentrate su due personaggi che passano da una condizione di antagonismo ad una di amore.

Un cult non per caso: pur non incassando moltissimo, per un film del genere portarsi a casa 93 milioni contro un budget di 16 fu indubbiamente un grande successo commerciale.

Ma perché Harry ti presento Sally è diventato un cult?

Di cosa parla Harry ti presento Sally?

La vicenda si dipana nell’arco di dieci anni (o più) da quando Sally e Harry si incontrano per un viaggio e poi si perdono e si rincontrano negli anni successivi. E da un rapporto cominciato non con i migliori presagi, nascerà qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Harry ti presento Sally può fare per me?

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

I motivi per cui questo film è diventato un cult non sono da ricercare nei suoi meriti artistici, ma nel fatto che è indubbiamente una commedia romantica per nulla banale. Indubbiamente alcune dinamiche le avrete già viste in commedie recenti, ma con ogni probabilità le stesse prendono le mosse proprio da qui.

Ma tanto più questa pellicola può essere piacevole anche per chi (come me) non ama questo genere cinematografico.

Infatti, non andandosi ad arenare su dinamiche semplici e prevedibili, ma raccontando una storia di più ampio respiro con anche tematiche non scontate, è un film che può dare più soddisfazioni di quanto si potrebbe pensare.

Perché Harry ti presento Sally è un cult?

Banalmente, Harry ti presento Sally è diventato un cult perché non è banale.

In particolare, due elementi sono stati vincenti in questo senso: raccontare le reazioni in maniera autentica e non buttarsi via con l’instant love.

Gran parte del film, ancora prima di arrivare alla stessa relazione fra i protagonisti, è dedicata all’incubo delle relazioni, a questo inseguire la necessità di essere accoppiati, pena mancare il match perfetto. Ed è una sensazione in cui, oggi come al tempo, molti spettatori si possono ritrovare.

Così anche la mancanza dell’instant love, ovvero quella modalità narrativa tipica delle rom-com, soprattutto di scarso livello, in cui i due protagonisti si innamorano istantaneamente.

Ovviamente nella vita reale sono cose che possono anche succedere, ma quando vediamo un film vogliamo una storia interessante e strutturata, che ci appassioni. Oltre a questo, ovviamente, la pellicola è diventata un modello nel genere nelle sue dinamiche, particolarmente l’appassionante dichiarazione d’amore finale.

L’incubo delle relazioni

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Harry ti presento Sally ha la capacità di raccontare in maniera interessante il mondo delle relazioni sentimentali.

Infatti, i personaggi sono costantemente frustrati dall’idea di doversi trovare un compagno, di doversi sistemare.

E al più presto possibile.

Perché, se non ci si accalappia il compagno subito, questo andrà a qualcun altro. E noi rimarremo per sempre soli. Un modo molto meccanico, ma di fatto anche credibile, di raccontare queste dinamiche, come una giostra da cui si continua a scendere e salire.

L’unico elemento in cui si perde, ma è anche motivo del suo fascino, è l’idea che Harry e Sally siano fatti per stare insieme, e che quindi dopo più di dieci anni riusciranno a raggiungere una relazione soddisfacente solamente se si metteranno insieme.

Ma, appunto, mancando questo elemento, la storia amorosa non avrebbe funzionato.

Un enemy to lovers mai banale

Billy Crystal in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Il sottogenere dell’enemy to lovers è intrigante quanto facilmente banalizzabile.

Lo vediamo in molti prodotti di scarso valore come il recente Bridgerton, e spesso i protagonisti si perdono in relazioni sciocche e adolescenziali, in cui l’antagonismo nasce non da basi concrete, ma da motivi fumosi e poco credibili.

Al contrario questa dinamica in Harry ti presento Sally viene costruita fin dall’inizio e con grande abilità: Harry e Sally sono due personaggi diversi e in contrasto, ma per motivi mai banali.

Infatti Harry è un uomo, soprattutto all’inizio, piuttosto sgradevole, totalmente mancante di una maturità emotiva, anzi che sente di sapere tutto sulle relazioni e sulle sue dinamiche.

Sally è la sua giusta controparte: un personaggio che si sente comunque oppresso dalle dinamiche relazionali, ma non si lascia mai ingoiare dalle stesse. Quindi, anche dopo molti anni di relazione, lascia il suo fidanzato, si approccia sessualmente ad Harry con grande genuinità ed ha soprattutto l’energia per tenergli testardamente testa.

E non può infine accettarlo, se non quando lui gli dimostra di essere emotivamente maturato.

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Il dittatore dello stato libero di Bananas – Un passo indietro?

Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971) è uno dei primi film di Woody Allen, immediatamente successiva alla prima pellicola di questa rubrica, Prendi i soldi e scappa (1969).

Con un titolo tanto più ingannevole e, di fatto, spoileroso, la pellicola è forse ancora più sperimentale della precedente.

Ma forse non nella direzione giusta…

Anche in questo caso una produzione fatta con pochissimo: appena 2 milioni di budget, che però non portarono ad un come il precedente, ma ad incasso di quasi 12 milioni.

Di cosa parla Il dittatore dello stato libero di Bananas?

Fielding, interpretato dallo stesso Woody Allen, è un mediocre impiegato che, deluso dall’amore, parte per il paese sudamericano Bananas, rimanendo involontariamente coinvolto nelle sue macchinazioni politiche…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il dittatore dello stato libero di Bananas?

Woody Allen in Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971) di Woody Allen

In generale, sì.

Personalmente considero questa pellicola come una delle più deboli della prima produzione di Allen. Come dinamiche è abbastanza vicino al precedente Prendi i soldi e scappa, ma in questo caso premendo l’acceleratore sui tasti comici sbagliati.

In generale rimane comunque un film da recuperare per esplorare le prime sperimentazioni del regista in ambito cinematografico e soprattutto comico. In questo caso Allen è scatenato, tanto che mi ha ricordato – con le dovute differenze) – Jim Carrey in Ace Ventura (1998).

Una comicità diversa

Come attore, siamo abituati a vedere un Woody Allen interpretare personaggi timidi e ingenui, spesso considerati (non del tutto a torto) dei totali idioti. Tuttavia in questo caso il regista sperimenta in un’altra direzione, giocando con un tipo di comicità molto slapstick e di chiara ispirazione al cinema muto.

E questo personalmente è stato un elemento che non mi ha del tutto entusiasmato della pellicola. Personalmente preferisco l’umorismo più surreale di altri prodotti, che in questo caso indubbiamente non manca, ma che è in parte guastato da questa scelta di una comicità più spicciola e, per me, molto meno divertente.

Affogati nelle gag

Il dittatore dello stato libero delle Bananas (1971) di Woody Allen

Il problema principale della pellicola è avere una storia poco solida, costruita principalmente su gag comiche, che non appaiono come intermezzi alla storia, ma come un elemento portante, appunto.

E personalmente vedere momenti comici anche interessanti e geniali, come tutta la sequenza iniziale, davanti a gag di base livello come quella in cui il protagonista guarda in camera con sguardo furbetto quando scopre di avere l’occasione di succhiare il veleno del morso di un serpente dal seno di una sua compagna.

E le gag si susseguono interminabili senza che la trama prenda effettivamente uno slancio significativo, neanche alla fine.

Due camei che non ti aspetti

Il dittatore dello stato libero di Bananas è uno di quei film che vengono citati quando si raccontano primi camei degli attori in film improbabili.

In questo caso, Sylvester Stallone.

Personaggio estremamente secondario, protagonista di una gag in cui rappresenta uno dei due bulli che importunano le persone nella metropolitana. E con nessuna battuta. Ben prima del successo dei suoi ruoli iconici, insomma.

La seconda apparizione simpatica da notare è quella di Louise Lasser, la seconda moglie di Woody Allen, che qui interpreta Nancy. E di cui riconoscerete il volto per averla già vista in Prendi i soldi e scappa come la ragazza che viene intervistata verso la fine dopo l’arresto del protagonista.

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Prendi i soldi e scappa – L’arte del paradosso

Prendi i soldi e scappa (1969) è una delle prime pellicole di Woody Allen, in un periodo in cui sperimentava ampiamente con il surreale e con quel tipo di comicità che è diventata la sua firma.

L’ho scelto come prima tappa per la mia (ri)scoperta di questo regista perché è stato forse il primo film che ho visto della sua cinematografia e fra i primi film che mi hanno fatto innamorare del cinema.

Una pellicola prodotta veramente con niente: appena 1.53 milioni di dollari (circa 12 milioni oggi), con un incasso di 2,9.

Di cosa parla Prendi i soldi e scappa?

Nella forma del mockumentary, il film racconta la storia di Virgil, timido ragazzo cresciuto nella criminalità e il degrado e che non è mai riuscito a trovare il suo posto nel mondo. Per colpa di una serie di improbabili situazioni, diventerà uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prendi i soldi e scappa?

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Prendi i soldi e scappa è un film abbastanza particolare, proprio per i suoi due elementi portanti: la forma del finto documentario e la comicità assolutamente surreale, che gioca in maniera intelligente con lo slapstick.

In generale è un film che vi consiglierei di guardare un po’ a prescindere, anche per vedere le prime mosse che Allen muoveva all’inizio della sua produzione. Tuttavia, se questi elementi di cui sopra non sono nelle vostre corde, potrebbe non essere così godibile.

Il mockumentary before it was cool

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Prima Allen il cinema aveva sperimentato con il genere mockumentary, a partire dal classico della cinematografia, Quarto potere (1941). La particolarità di Prendi i soldi e scappa è utilizzare questo taglio narrativo in maniera comica.

E l’effetto comico nasce anzitutto dalla voce della voce fuori campo che racconta la maggior parte degli avvenimenti, con il classico tono del documentario più agèe, rimanendo del tutto seria ed imponente anche quando racconta qualcosa di evidentemente comico.

Fra le scelte più esilaranti, le mie preferite sono sicuramente i genitori di Virgil, che viene raccontato con estrema serietà che si coprono il viso per la vergogna del figlio, e quando si riferisce il commento speranzoso del protagonista riguardo alla sua condanna a 800 anni galera:

At the trial, he tells his lawyer confidently that with good behavior, he can cut the sentence in half.

Al processo, ha detto al suo avvocato in confidenza che, grazie alla buona condotta, può dimezza la sua pena.

Esilarante.

L’arte del paradosso

Woody Allen in una scena di Prendi i soldi e scappa (1969) di Woody Allen

Come detto, la colonna portante del film è la comicità paradossale: oltre all’utilizzo comico del documentario, Allen si dimostrò fin da subito capace di ridere di sé stesso. Il regista, spesso protagonista delle sue pellicole, ha infatti un aspetto ormai iconico e innocuo, che nel contesto del film appare davvero ai limiti del paradosso.

Ovviamente la narrazione è estremizzata, raccontando Virgil proprio come un idiota, che diventa uno dei criminali più ricercati degli Stati Uniti nonostante abbia partecipato a crimini uno più improbabile dell’altro.

Tematica su cui Allena tornerà, seppur in maniera diversa, in altre pellicole successive dal taglio anche più drammatico, come Criminali da strapazzo (2000)

La comicità mai scadente

La comicità della pellicola è a tratti fantozziana, ma, a differenza di questa, non scade mai nello slapstick puro e, di fatto, prevedibile. Al contrario lavora sempre sull’effetto sorpresa, sia nei momenti comici più elaborati, sia in quelli di comicità più semplice.

Ad esempio, all’inizio è esilarante l’assurdità della situazione per cui Virgil suona nella banda cittadina, ma non può di fatto farlo perché per suonare il violoncello ha bisogno di stare seduto.

O ancora il climax comico dell’arresto alla fine, quando l’amico che sta rapinando gli prende gentilmente la pistola di mano e gli dice di essere un poliziotto.

Un tipo di comicità più semplice, ma mai scadente, è quella per esempio della scena in cui in prigione il protagonista cerca di piegare la camicia col macchinario apposito, ma questa gli si rivolta contro.

Insomma, una comicità che non sbaglia un colpo.

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Bad Teacher – La rivincita della cool girl

Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan è una commedia spassosa e irriverente con protagonista Cameron Diaz.

Non un grande film, ma un film che porto veramente nel cuore.

Con un budget veramente ridotto (appena 20 milioni), si portò a casa la bellezza di 216 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Bad Teacher?

Elisabeth è la classica maestra che si approfitta della sua posizione a discapito dei propri studenti. La sua vita viene scombussolata quando non riesce a combinare un matrimonio vantaggioso che l’avrebbe sistemata a vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bad Teacher?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Dipende.

Bad Teacher è un’ottima commedia che prende le mosse dai prodotti comici tipici dei primi Anni Duemila, come l’indimenticabile Dodgeball (2004). Tuttavia porta anche un racconto più originale e maturo, senza mai sfociare nel cattivo gusto.

Ve lo consiglio principalmente se vi piacciono questo tipo di commedie e se soprattutto amate Cameron Diaz come attrice comica, in questo ruolo in forma smagliante, circondata da altri attori comici di grande valore come Jason Segel e Eric Stonestreet.

Perché siamo dalla parte di Elisabeth…

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Bad Teacher porta in scena una protagonista affatto positiva, anzi: viene subito presentata nelle sue contraddizioni, di come lavori in una scuola per tutti i motivi sbagliati (per sua stessa ammissione) e non abbia in realtà alcuna voglia di insegnare, né di avere alcun tipo di relazione con i propri alunni, di cui non conosce neanche il nome.

Alla prima occasione si approfitta di un matrimonio di convenienza, che però va gambe all’aria e la riporta forzatamente dietro la cattedra. L’unico movente che infine la spinge ad insegnare veramente ai suoi alunni è il puro e semplice profitto.

Allora perché siamo dalla sua parte?

Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Proprio per il suo comportamento eccessivo Elisabeth è un personaggio irresistibile, e al contempo è anche molto umano: una donna estremamente attraente e desiderabile, che ha basato tutta la sua vita solamente su questo, anche andando a banalizzarsi. In realtà è un personaggio con grandi capacità (e volontà) di aiutare gli altri.

E infatti nel finale assume il ruolo che avrebbe sempre dovuto avere: consulente scolastico, una sorta di psicologo della scuola. Non a caso in diversi momenti del film, pur nel suo modo particolare, si è spesa nell’aiutare gli altri (la collega Lynn, il suo alunno Garret…), con consigli concreti ed effettivamente utili.

…e non di Amy

Lucy Punch in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Per quanto Amy sia apparentemente il personaggio positivo, o almeno quello che vive nella legalità, è decisamente quello più negativo di tutti.

Sicuramente è una maestra che si impegna nel suo lavoro, che cerca anzi modi creativi per incoraggiare i propri studenti a studiare. Tuttavia è del tutto evidente che anche lei, seppur per motivi diversi da Elisabeth, non insegna per il piacere di insegnare.

Infatti proprio per la questione del concorso verso la fine del film, è chiaro che Amy si impegni così tanto nel suo lavoro solo per avere un riconoscimento sociale, e convincere di fatto sé stessa di essere la migliore.

Quindi capiamo anche la sua frustrazione nell’essere scalzata da una mediocre come Elisabeth.

Accontentarsi di uomini mediocri

Justin Timberlake in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

Il grande difetto di Elisabeth, che è al centro della sua maturazione nel film, è la sua incapacità di valorizzarsi, e per questo di cercare relazioni solamente con uomini mediocri.

Questo è il paradosso della cool girl, della ragazza popolare troppo cresciuta: l’incapacità di andare oltre le dinamiche adolescenziali e cercare relazioni appaganti, preferendo rincorrere la fama e i soldi.

Proprio mentre parla con Garret, Elisabeth si rende conto di star usando la stessa superficialità di Chase, andando a scegliere gli uomini che hanno un valore sociale più che un valore relazionale. Quindi nel caso della giovane Chase, il ragazzo più popolare, nel caso di Elisabeth, l’uomo più ricco.

Justin Timberlake e Cameron Diaz in una scena di Bad Teacher (2010) di Jake Kasdan

E infatti, il suo futuro marito all’inizio si rivela fin da subito una drama queen, fra l’altro incapace di gestire la propria relazione senza l’ingombrante figura materna. E Scott ancora di più è un uomo che oggettifica le donne solo per il loro aspetto, è un razzista e un conservatore, oltre che incapace di avere delle relazioni sane.

Questo è l’altro grande passo avanti che Elisabeth compie nella pellicola: scegliere di avere una relazione con un uomo che non è né bellissimo né ricco, ma che è con cui è davvero affine e che è capace di darle una relazione soddisfacente.

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Jungle Cruise – Tutto nacque da una giostra…

Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra è un classico blockbuster estivo. Uscì in quella strana estate del 2021, quando distribuire le pellicole in sala era ancora un terno al lotto.

Nonostante la presenza di due star come The Rock e Emily Blunt, nonostante tutti gli elementi che lo rendono una piacevole avventura per ragazzi, non fu un buon successo commerciale. Infatti, a fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ne incassò appena 220.

Tuttavia, per il momento storico fu considerato soddisfacente, tanto che è stato ordinato un sequel.

Di cosa parla Jungle Cruise?

Londra, 1916. La Dottoressa Lily è una giovane e intraprendente avventuriera che vuole mettersi sulle tracce delle leggendarie Lacrime della Luna, che permetterebbero di guarire ogni malattia. La sua avventura viene ostacolata da un misterioso principe europeo, che vuole fare di tutto per mettere le mani su quel tesoro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Jungle cruise?

The Rock in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Jungle cruise è un film senza molte pretese, ma che comunque si impegna a dare tutto il tempo ai personaggi per respirare e farsi conoscere dal pubblico. Per certi versi anche troppo, vista la durata atipica per un prodotto di questo genere (più di due ore!).

Tuttavia, è anche una pellicola divertente e che intrattiene facilmente, con una regia frizzante e coinvolgente. Lo consiglio per una visione rilassata, sopratutto se siete appassionati dei film di avventura per ragazzi di questo tipo.

Che cos’è la Jungle cruise?

Come anticipato, questo film è tratto dalla giostra omonima di Disneyland.

Non è la prima volta che Disney fa un’operazione del genere: la stessa cosa era successa anche con la saga di Pirati dei Caraibi. E in questo caso l’ispirazione primaria si vede molto bene all’interno del film: una delle scene principali riguarda proprio un gruppo di turisti che viene portato su un battello attraverso la giungla, con tanti effetti speciali per intrattenere il pubblico.

E infatti, provando la giostra di ispirazione, potrete vivere praticamente quello che vedete nel film.

Perché Lily è un buon personaggio…

Emily Blunt in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Alla prima visione ero rimasta poco convinta dalla gestione dei personaggi di Lily e di MacGregor. Se per il fratello ho ancora qualche riserva, per lei mi sono effettivamente ricreduta.

Il suo personaggio è indubbiamente costruito a tavolino: è una ragazza giovane e avventurosa, che non si lascia fermare da niente, neanche da un mondo di uomini che cercano di bloccarla e sminuirla. Oltre a questo, è anche animalista e non può assolutamente sopportare il maltrattamento di animali.

Un personaggio che appare forzato per come è messo in scena, sopratutto per il contesto storico, ma che è anche giusto per il tipo di target. Mi immagino quanto facilmente una bambina o ragazzina riesca ad immedesimarsi in questa protagonista le cui dinamiche, con le dovute differenze, può ritrovarle anche nella sua vita quotidiana.

…ma MacGregor forse no.

The Rock e Jack Whitehall in una scena di Jungle Cruise (2021) di Jaume Collet-Serra

Il personaggio di MacGregor è stato costruito con lo stesso concetto, ma in questo caso forse ricadendo in uno stereotipo troppo pesante per essere gestito con così tanta leggerezza.

Anche se non viene detto esplicitamente, il suo dialogo con Frank suggerisce abbastanza chiaramente che MacGregor è un uomo omosessuale che vive in una società ostile, e che solo la sorella lo supporta. E per questo viene associato ad una serie di stereotipi, come la sua passione per il vestirsi bene e in generale la vita raffinata.

Tuttavia, anche questo può essere un personaggio in cui un bambino si può rivedere: magari un giovane spettatore con le stesse difficoltà del personaggio, che non riesce ad imporsi e a rispettare le richieste che la società che lo circonda. E che alla fine, in diversi momenti prende coraggio e interviene nell’azione.

Quindi, non del tutto da buttare, ma avrei preferito che fosse meno stereotipato.

Un film animato?

La regia del film come detto è piuttosto frizzante, tanto da portare una messa in scena che sembra nè più nè meno quella di un lungometraggio animato. E per questo funziona perfettamente.

Lo conferma il character design dei personaggi: Mr Nilo e il Principe sono incredibilmente esagerati nell’aspetto e nei comportamenti, al limite della macchietta. Ma in questo caso delle macchiette simpatiche e che funzionano, con degli attori eclettici e di altissimo livello.

Non a caso Paul Giamatti è uno dei miei caratteristi preferiti, a partire dal suo personaggio in Una notte da leoni 2 (2011)

E Jessie Plemons conferma ancora il suo eclettismo, passando da un film di questo tipo a ruoli incredibilmente complessi come in I’m Thinking of Ending Things (2020). E la morte del suo personaggio, schiacciato comicamente come la Strega dell’Ovest da un masso enorme, non fa che confermare la vena comica e cartoonesca della pellicola.