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Il gigante di ferro – Ubriachi di guerra fredda

Il gigante di ferro (1999) di Brad Bird è un lungometraggio animato che ebbe una storia particolare, analoga a quella di un altro piccolo cult Anni Novanta, ovvero In viaggio con Pippo (1995).

La pellicola fu infatti un flop disastroso (30 milioni di incasso contro 50 di budget), ma venne ampiamente rivalutato col tempo, divenendo un piccolo cult per la generazione dei millennial.

Di cosa parla Il gigante di ferro?

1957, Rockwell, Montana. Piena guerra fredda. Hogarth è un ragazzino fantasioso che si ritrova per caso ad imbattersi con un enorme gigante di ferro, dalla provenienza sconosciuta.

Ma Hogarth non è l’unico ad essere interessato…

Perché Il gigante di ferro è un cult?

Come anticipato, Il gigante di ferro fu un caso simile a In viaggio con Pippo: come era normale per il periodo, i lungometraggi animati erano pensati per un pubblico infantile.

E così venivano a loro indirizzati anche tramite la campagna marketing.

Tuttavia, Il gigante di ferro non è un film propriamente per bambini: vi è un ampio (e ottimo) utilizzo della comicità per stemperare la tensione di certe scene. Tuttavia, a conti fatti, nella pellicola ci sono non poche scene di violenza, si parla di morte, di morale, e di armi. A questo riguardo, la condanna schietta all’utilizzo delle armi potrebbe essere anche stato un motivo che allontanò il pubblico statunitense.

Al contrario col tempo il prodotto venne riscoperto proprio per la sua profondità dei personaggi e della trama, che affronta appunto diverse tematiche di grande importanza. Oltre a questo, il film presenta personaggi davvero irresistibili, e, a differenza di altri film di questo tipo come anche E.T., il gigante è molto più umano e lo spettatore riesce ad empatizzare più facilmente con lui.

Il gigante di ferro può fare per me?

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Assolutamente sì.

Il gigante di ferro è un ottimo prodotto di animazione, sia per la scrittura sia per l’animazione. Per me, che sono patita delle dinamiche di film per ragazzi di fantascienza, è stato un amore confermato anche dopo tanti anni che non lo vedevo.

Per questo se appunto apprezzate prodotti come E.T. (1982) e I Goonies (1985), o anche recuperi nostalgici come Stranger Things, molto probabilmente vi piacerà. Ovviamente se siete allergici a quelle dinamiche, non dico di non vederlo perché la pellicola non si appiattisce sulle stesse, ma potrebbe non entusiasmarvi.

I am not a gun

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Splendida e inaspettata è la storia del gigante.

In realtà la sua backstory non viene raccontata in maniera approfondita: possiamo intuire che proviene da un pianeta alieno, che era parte di una produzione in serie di armi per una guerra che probabilmente è stata del tutto distruttiva.

Una macchina così intelligente che in poco tempo è capace di imparare una nuova lingua e assorbire concetti di grande profondità. E così arriva ad interrogarsi sulla sua natura e, alla fine, a sacrificarsi per salvare la comunità.

La sua morale è racchiusa in concetti semplici, come I am not a gun (non sono un’arma) e sul personaggio di Superman, figura di assoluta bontà (almeno negli Anni Cinquanta). Concetti semplici appunto, ma di grande effetto.

Il taglio narrativo

Kent Mansley,  Dean McCoppin, Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Un aspetto che sinceramente non mi ricordavo e che mi ha davvero colpito è stato il taglio narrativo estremamente realistico. Si percepisce davvero il momento storico e il tipo di mentalità che lo dominava.

E non solo il villain, che ne è fondamentalmente ossessionato, ma anche i compagni di scuola di Hogarth pensano e parlano secondo il pensiero popolare, anche in maniera violenta per la loro età. Ma niente di strano per gli Stati Uniti della Guerra Fredda (e anche odierni, in realtà).

Oltre a questo, tutto il discorso sulle armi e sulla violenza è piuttosto forte ed incisivo, andando a criticare pesantemente l’utilizzo delle stesse, senza grandi possibilità di eccezioni.

Personaggi mai banali

Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

I personaggi de Il gigante di ferro sono tutti ben scritti e ispirano naturale simpatia.

Anzitutto Hogarth, un bambino molto fantasioso e che si entusiasma molto facilmente, ma anche un bambino capace di tenere testa ad un adulto molto più potente di lui. Ed è sempre lo stesso che, con tutta la sua semplicità, trasmette i giusti valori al gigante, portandolo verso una felice risoluzione.

Ma assolutamente irresistibile è Dean, artista sognatore che crea arte dai rottami. Questo personaggio aveva l’arduo compito di riempire un vuoto nel centro del film. E ci riesce in maniera molto simpatica, quando scopre che anche il gigante può creare delle opere d’arte per lui.

E poi c’è il villain.

Sempre un ottimo villain

Il regista e sceneggiatore di questo film è Brad Bird, lo stesso che pochi anni dopo diresse per la Pixar Gli Incredibili (2004), un altro di quei film che porto davvero nel cuore. E infatti Kent Mansley, il villain de Il gigante di ferro, presenta non poche somiglianze con Sindrome de Gli Incredibili.

A parte la scelta estetica simile (capelli rossi e inquietanti occhi azzurri), anche il carattere è analogo: sono entrambi guidati da un’ossessione e si sentono entrambi capaci e potenti più degli altri.

In particolare Kent Mansley è quello più ubriaco della guerra fredda: completamente ossessionato dalla minaccia russa, in questo caso rappresentata dal gigante, che deve essere eliminata a qualunque costo.

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Candleshoe – La mia infanzia

Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.

Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.

Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.

Di cosa parla Candleshoe?

Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…

Candleshoe può fare per me?

Jodie Foster e Leo McKern in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.

Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.

Una protagonista diversa?

Jodie Foster in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.

Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.

Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.

E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.

La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia

David Niven in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.

Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.

Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.

Harry e Clara: che sagome!

Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.

Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.

In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.

Lode al budino di riso

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.

In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.

Quindi, lode al budino di riso!

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Captain Fantastic – Uno splendido errore

Captain Fantastic (2016) di Matt Ross è la deliziosa storia di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere al di fuori della società consumistica americana.

Una piccola produzione di appena 5 milioni di dollari, che però portò ad un buon incasso: 22 milioni di dollari ricevette diversi riconoscimenti a livello internazionale.

Di cosa parla Captain Fantastic?

Come anticipato, Captain Fantastic parla di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere nei boschi ed educarsi autonomamente, tramite letture impegnate e un modo di ragionare atipico. Tuttavia, un evento improvviso li costringerà ad intraprendere un viaggio che cambierà la loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Captain Fantastic?

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

Assolutamente sì.

È difficile per me dare un’opinione oggettiva: Captain Fantastic è uno dei miei film preferiti. In generale secondo me per apprezzare questo film è praticamente necessario appassionarsi ed affezionarsi ai suoi personaggi, che sono bellissimi quanto imperfetti.

Infatti, se siete totalmente allergici a certi tipi di discorsi più hipster che criticano aspramente la nostra società (soprattutto quella statunitense), potreste odiarlo e arrivare a parteggiare per i villain del film.

Al contrario, se vi piacciono i film del genere road movie con drammi familiari, pur in un contesto generalmente molto leggero, guardatelo: potreste davvero innamorarvi.

Una famiglia particolare

La bellezza di Captain Fantastic è la particolarità della famiglia raccontata, dove ogni membro riesce ad avere la sua parte nella storia.

Nonostante le evidenti ribellioni e ingenuità di alcuni dei personaggi, sono davvero riuscita ad appassionarmi alla loro storia ed a commuovermi per il tipo di attaccamento che dimostrano l’un l’altro.

Così Ben, il padre, è duro ma amorevole verso i propri figli, insegna loro valori profondi e fondamentali, come la sincerità, la schiettezza e la capacità di ragionare con la propria testa. Un padre comunque fallibile, che alla fine deve ammettere i propri limiti e trovare una situazione di compromesso.

Al contempo sono i figli stessi ad insegnargli qualcosa, fermandolo quando si slancia verso decisioni problematiche, come andare a tutti i costi al funerale della moglie o abbandonare del tutto il suo progetto e lasciare la famiglia dai nonni. Un percorso che i personaggi fanno insieme, migliorandosi lungo la strada.

Una scelta sofferta

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

La scelta di vita di Ben e della sua famiglia è un interessante spunto di riflessione. Effettivamente le idee portate avanti non sono di fatto sbagliate, ma del tutto idealizzate, arrivando sostanzialmente a negare le dinamiche sociali odierne.

Alla fine Ben decide di trovare una soluzione di compromesso per i suoi figli, dargli una casa e mandarli a scuola, non tanto perché rinunci alla bontà delle sue idee, ma perché si rende conto che altrimenti non può proteggerli ed effettivamente prepararli al mondo esterno ed alle sue insidie.

In conclusione, sono tutti riusciti ad arricchirsi con questa esperienza: riescono comunque a vivere a loro modo, ma confrontandosi direttamente con il mondo esterno, e avendo tutti gli strumenti per giudicarlo.

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Lightyear – Verso la metanarratività…e molto oltre!

Lightyear (2022) è l’ultimo film della Pixar uscito la scorsa settimana, il primo uscito in sala dopo quasi due anni. Ed il motivo è facile da capire: questa pellicola non è un film Pixar come lo intendiamo comunemente, ovvero un percorso di crescita e maturazione con un risvolto profondo. Si parla più che altro di una space opera, un film avventuroso in senso classico, che comunque gode di una robusta morale.

Tuttavia, per ora non sembra una scommessa vincente: la pellicola è infatti più o meno stroncata da gran parte della critica e ha aperto miseramente (appena 84 milioni la prima settimana), rischiando già il flop commerciale. E la causa potrebbe essere che in primis molti si aspettavano un film molto più collegato a Toy Story (cosa che non è) e forse che era un film meno spendibile per il grande pubblico, soprattutto infantile, di quanto si pensasse.

Di cosa parla Lightyear?

Buzz Lighyear è uno space ranger che si trova naufragato con la sua squadra in un pianeta sconosciuto e minaccioso. Dovrà quindi tentare di riparare la navicella per ritornare a casa, con molti tentativi che non andranno come si aspettava…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lighyear?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

In generale, Lightyear è un film che mi sento di consigliare, a patto di approcciarsi alla visione con la giusta mentalità. Infatti, come anticipato, il film c’entra veramente poco con Toy Story e le sue dinamiche. Ma non è per forza un difetto: dopo quel maledetto Toy Story 4 (2019), è anche ora di lasciare intatta la magia del brand.

Io, pur da grande purista della Pixar, sono andata in sala con grande tranquillità, con la consapevolezza che non sarebbe stato un film Pixar in senso stretto. E così sono riuscita a godermi un film sicuramente non perfetto, ma che riesce ad intrattenere ed a riallacciarsi (seppur debolmente) alle tematiche tanto care alla casa di produzione.

Quindi, se vi piacciono le avventure spaziali, che giocano con il genere del buddy movie, e se in generale vi piace Star Wars, è molto probabile che Lightyear vi piacerà. L’importante, appunto, è andarci con le giuste aspettative. Insomma, dimenticatevi Toy Story.

Distaccarsi da Toy Story: buona idea o commercialata?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Come anticipato, è Lighyear non è strettamente legato a Toy Story. I riferimenti sono infatti abbastanza sporadici: a parte dire che il film sia quello visto da Andy nel 1995 (di cui parleremo), il film si limita ad inserire qualche citazione e dinamica famosa della saga. Per il resto, prende tutta un’altra strada.

La pellicola sembra più decostruire il personaggio di Buzz, i suoi atteggiamenti abbastanza ridicoli di voler fare sempre rapporto e la sua ossessione di portare a termine la missione. Per il resto, la maggior parte dei personaggi sono totalmente nuovi o, nel caso di Zurg, rivisitati.

E, per me, non è stata una cattiva idea. Infatti, come ci insegnano eventi recenti di Star Wars, andare a rimettere le mani sul canone e portare collegamenti mal pensati, solitamente non è una buona idea. Invece andare a sfruttare un personaggio molto amato come Buzz ed ampliare l’universo di Toy Story, senza intaccare il canone, è stata un’idea decisamente migliore.

Detto questo, si tratta sicuramente di un film prodotto con l’intento di far conoscere il personaggio ad un pubblico infantile e vendere molti giocattoli. Con una situazione che fra l’altro supera il concetto di metanarratività in maniera quasi agghiacciante.

Buzz Lighyear: un personaggio coerente?

Lighyear e Sox in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Il personaggio di Buzz è stato fortemente criticato, soprattutto negli Stati Uniti, per via del suo doppiatore, Chris Evans, famoso soprattutto per aver interpretato Captain America nell’MCU. La critica ha sembrato rimpiangere la voce storica di Tim Allen, non considerando Evans per nulla all’altezza.

A me personalmente il doppiaggio di Buzz ha assolutamente convinto e non ho mai trovato straniante il cambio di doppiatore. Oltre a questo, secondo me il personaggio è scritto ottimamente, ampliando il suo carattere e la sua storia in maniera assolutamente coerente con il canone.

Troviamo infatti un Buzz sempre concentrato sulla missione, fino all’ultimo intestardito all’idea di portarla a termine, quasi ridicolo nei suoi atteggiamenti. Proprio il Buzz che vedevamo in Toy Story, soprattutto nel primo film.

Zurg: un cattivo a metà

Zurg in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Ho generalmente apprezzato il personaggio di Zurg: è coerente con quello di Toy Story ed è stato un bel colpo di scena. Il punto di partenza della morale più adulta del film, che però pecca in un elemento fondamentale: il minutaggio.

Al personaggio di Zurg non viene evidentemente dato il tempo di respirare: viene introdotto, viene spiegata la sua storia, ma nel giro di pochissimo tempo Buzz gli si rivolta contro. E da quel momento diventa semplicemente il personaggio di Zurg di Toy Story, ovvero un cattivo molto tipico e stereotipato. E con un minutaggio risicato.

Lightyear e una trama imperfetta

Complessivamente parlando, la trama di Lightyear mi è piaciuta: ben strutturata, con alcuni momenti abbastanza prevedibili, ma comunque toccanti. Per esempio, mi aspettavo assolutamente che Alisha morisse, ma lo stesso, vedendo Buzz che entra nell’ufficio vuoto, mi si è stretto il cuore.

Nonostante la trama riesca a ben posizionare le pedine in gioco, tende ad incartarsi nella parte centrale. Infatti i protagonisti vengono continuamente messi davanti a continui ostacoli, in maniera quasi estenuante.

Anche se non penso che fosse quello l’intento, questa dinamica dà taglio di verosimiglianza alla vicenda. Infatti, a differenza della finzione cinematografica, è molto più credibile che in una situazione reale i personaggi si sarebbero trovati davanti a una marea di imprevisti.

La doppia morale

Lighyear in una scena di Lightyear (2022) nuovo film Disney Pixar

Dal punto di vista della morale, il film si struttura su due livelli: la morale per il pubblico di bambini e la morale per il pubblico di adulti. Molto Pixar, senza dubbio.

La morale per i bambini, drammaticamente didascalica, riguarda l’importanza di non isolarsi e intestardirsi sulle proprie idee, ma cercare di lavorare di squadra. Infatti Buzz è per la maggior parte restio a lavorare con gli altri personaggi, sottovalutandoli, ma alla fine capisce il loro valore, proprio come Alisha aveva fatto con lui.

La morale adulta riguarda invece il non inseguire un sogno impossibile e non sapersi godere la propria vita per quello che è, con i suoi alti e bassi. Una morale davvero bella e toccante, con una messa in scene molto convincitene. Peccato che sia la stessa morale di Up (2009).

Una comicità non sempre vincente

Lightyear è un film che sembra volerti far continuamente ridere, buttando lì battute pensate probabilmente più che altro per un pubblico infantile. Soprattutto all’inizio, ho trovato quasi fastidiosa questa continua insistenza. Tuttavia, all’interno della pellicola ci sono diversi momenti in cui ho riso sinceramente.

La maggior parte, ovviamente, sono collegati a Sox, un personaggio su cui non contavo per nulla, ma che invece è stato fra i miei preferiti dell’intero film.

Lightyear è il film che ha guardato Andy?

Volevo aggiungere questa piccola coda alla fine della recensione, perché penso di non essere l’unica ad essersi fatta questa domanda. All’inizio del film viene detto esplicitamente che Lightyear è il film che vide Andy nel 1995 e che lo fece innamorare del personaggio.

Ovviamente, questo non è possibile. Il film di Lightyear nel 1995 non sarebbe mai stato un film dove il protagonista viene messo così tanto in discussione, con una morale del genere, con un cast così inclusivo.

Sarebbe stato al contrario un film alla Terminator, ma nello spazio, pieno di violenza edulcorata e un trash che solamente gli Anni Novanta possono regalarci.

Ma, ovviamente, qui parliamo di sospensione dell’incredulità totale. E va bene così.

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Yes Man – Vuoi cambiare la tua vita?

Yes Man (2008), per la regia di Peyton Reed, fu uno degli ultimi film da star di Jim Carrey, dopo gli splendidi successi, sia in ambito drammatico che comico, di film come Ace Ventura (1994) e Eternal sunshine of the spotless mind (2004).

Il film fu comunque un discreto successo al botteghino (223 milioni di dollari contro 70 di budget), ricevendo recensioni miste dalla critica e dal pubblico.

Insomma, non esattamente il film più iconico di questo straordinario attore.

Un Jim Carrey che mi sembra arrivato ad un punto della sua carriera dove aveva già sperimentato moltissimo coi generi, e che in questo film cerca di dare sempre il meglio di sé, non sempre riuscendoci.

Insomma, quasi il suo canto del cigno.

Di cosa parla Yes Man?

Carl lavora per una banca e, dopo il fallimento del suo matrimonio, è diventato un uomo chiuso in sé stesso, che trascura i suoi amici e le sue relazioni. Per un particolare incontro deciderà di partecipare ad un programma che impone di dire sì a tutte le proposte che gli arrivano, indipendentemente da cosa si tratta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Yes Man?

Jim Carrey, John Michael Higgins e Terence Stamp in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Sì e no.

Personalmente Yes Man non sarebbe il primo film che consiglierei nella lunga carriera di Carrey.

Indubbiamente un film dove si è cercato di prendere una via diversa: una classica commedia del periodo, ma che cerca di prendere una strada più profonda e matura. Non riuscendoci sempre del tutto.

In questo film ho visto un Carrey che, all’apice della sua carriera, cerca di rendere organica la recitazione comica e drammatica, con risultati altalenanti. In generale, non è un film che mi sento di sconsigliare.

Tuttavia, davanti alla scelta di commedie più valide, quantomeno a livello intrattenitivo, come Una settimana da Dio (2003) e The Mask (1994), non sarebbe appunto la mia prima scelta. Ma, se volete avere un panorama completo della carriera di Carrey, non potete sicuramente perdervelo.

La parabola dell’uomo triste

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Mi ha da subito colpito la tristezza del personaggio di Carl: anche la recitazione di Carrey trasmette un grande senso di tristezza e rassegnazione, di persona delusa dalla vita che vuole saperne nulla delle opportunità che gli vengono offerte.

Da subito pensavo che ci sarebbe stato un elemento magico alla Una settimana da Dio, invece Yes Man racconta la parabola di un uomo che ha perso ogni fiducia nel mondo e che deve cercare di rimettersi da solo in carreggiata e saper rischiare.

Per quanto ovviamente sia tutto portato all’estremo, ho preferito che si raccontasse un impegno e una maturazione che il protagonista fa per sé stesso, non obbligato o avvantaggiato da una forza esterna e irrazionale.

Ovviamente la soluzione finale per cui il protagonista si era auto suggestionato dall’idea di terribili conseguenze è piuttosto abusata, ma nel complesso è apprezzabile.

La recitazione altalenante

Jim Carrey e Zooey Deschanel in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Paradossalmente, la recitazione della giovane Zooey Deschanel l’ho trovata più convincente di quella di Jim Carrey. Il problema di Carrey in questo film è il non riuscire a dosare la recitazione comica per fare in modo che sia coerente con quella drammatica.

Se appunto all’inizio cominciamo con un Carrey che è un uomo triste e incattivito, con la scelta della nuova vita esplode in una recitazione che per certi tratti si avvicina a quella folle di Ace Ventura, passando eccessivamente da un estremo all’altro.

Molto lontano, per me, dalle capacità che aveva dimostrato appena cinque anni prima in Una settimana da Dio.

Al contrario Zooey Deschanel, nella sua semplicità, è la scelta di casting perfetta: è una ragazza davvero adorabile e innocua, con una recitazione quasi infantile, ma che la rende la controparte perfetta a Carl.

Cadere negli eccessi

Jim Carrey in una scena di Yes Man (2008) per la regia di Peyton Reed

Un grave problema del film, per fortuna limitato, è quello di voler scadere nella comicità veramente spicciola in alcune sequenze.

Questo aspetto è particolarmente fastidioso all’interno di una commedia che, come detto, cerca di dare un minimo di profondità in più alla vicenda. Insomma, le stesse dinamiche in un film come The Mask non mi avrebbe dato così fastidio.

Mi riferisco particolarmente alla scena del rapporto con l’anziana vicina di casa di Carl, davvero di cattivo gusto, e alla presunta punchline finale del film, dove tutti i partecipanti al congresso di Yes Man hanno rinunciato ai propri vestiti, che ho trovato trovata veramente poco vincente e coerente col tono del film.

Come nella maggior parte dei film di Jim Carrey, sono presenti attori presenti in praticamente tutte le commedie del periodo o diventati famosi in altri prodotti.

Anzitutto ovviamente Zooey Deschanel, che divenne famosa per la serie New Girl a partire dal 2011, e Bradley Cooper, che dopo aver bivacchiato in diversi prodotti di questo tipo, raggiunse una prima notorietà con Una notte da leoni (2009).

Altri piccoli cameo: Terence Stamp, qui il capo degli Yes Man, è nella seconda stagione di His Dark Materials; Rhys Darby, il bizzarro Norman, è l’NPC che accompagna i personaggi all’inizio del gioco in Jumanji (2017).

Luis Guzmán, l’uomo che Carl salva dal suicidio, è il poliziotto messicano in Come ti spaccio la famiglia (2013); infine John Michael Higgins è un caratterista presente in diversi film di questo tipo, fra cui Bad Teacher (2010).

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In viaggio con Pippo – Il mio terribile papà

In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.

Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.

Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.

Di cosa parla In viaggio con Pippo

Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?

Assolutamente sì.

Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.

La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.

Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.

Un rapporto difficile

Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che racconta il tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.

Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.

Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.

Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.

Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.

Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.

Un film imperfetto

Pippo e Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.

Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.

Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.

Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.

Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.

Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.

Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.

Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.

Perché In viaggio con Pippo divenne un cult

Big Foot in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?

La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.

Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.

Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.

Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.

Perché fu un disastro al botteghino?

Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.

Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).

Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.

Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.

Una seconda possibilità

Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.

In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.

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Ace Ventura – A briglia sciolta

Ace Ventura – L’acchiappanimali (1994) per la regia di Tom Shadyac fu, insieme a The Mask (1994), una delle prime pellicole che fecero conoscere Jim Carrey al grande pubblico.

Lo stesso attore tornò sotto alla guida del regista anche per Bugiardo Bugiardo (1997) e Una settimana da Dio (2003).

Il film fu un discreto successo al botteghino: con circa 15 milioni di budget, ne incassò 72 a livello internazionale, portando ad un sequel, Ace Ventura Missione Africa (1995) che ne incassò anche di più: 108 milioni di dollari contro un budget di 30.

Si tentò anche un rilancio del brand nel 2009, senza coinvolgere Carrey, con Ace Ventura 3, che fu però stroncato da pubblico e critica.

Di cosa parla Ace ventura – L’acchiappanimali

Ace Ventura è un pet detective, ovvero un detective specializzato nella ricerca e nel salvataggio di animali scomparsi o rapiti. Verrà coinvolto nel turbolento caso di rapimento di Snowflake, la mascotte dalla squadra di football dei Dolphins, alla vigilia del Super Bowl.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ace Ventura?

Jim Carrey in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

In generale, sì.

Altri tempi, altra recitazione: a differenza di The Mask, nel quale la prova attoriale di Carrey è più contenuta, almeno per le scene in cui non indossa la maschera, in Ace ventura l’attore è lasciato totalmente a briglia sciolta, nelle mani di un regista assolutamente innamorato della sua espressività scoppiettante.

Per questo Ace Ventura è un film irrinunciabile se si apprezza Jim Carrey: non vedrete mai l’attore così tanto libero di recitare e di esprimere tutte le sue capacità comiche, anche al limite del grottesco. La storia nel complesso è ben strutturata e intrattiene facilmente, grazie anche alla sua semplicità, con dei colpi di scena ben costruiti.

Personalmente ho trovato questo film meno divertente di Una settimana da Dio, con una comicità un po’ più piatta, pur cercando di spingerla al limite dell’assurdo, ma non riuscendo a strapparmi quasi mai una risata.

Innamorarsi di un attore

Jim Carrey in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

Come anticipato, Tom Shadyac fu uno dei primi registi ad innamorarsi profondamente di Jim Carrey, scegliendolo anche negli anni successivi come protagonista di altri suoi film.

La recitazione di Jim Carrey in questa pellicola o la ami o la odi. È infatti praticamente impossibile trovare un’inquadratura in cui l’attore protagonista non abbia un’espressione assolutamente bizzarra e fuori di testa.

Dà davvero il meglio (o il peggio) di sé nella scena del manicomio, dove deve volutamente essere pazzo. In realtà il suo atteggiamento non cambia molto rispetto al resto della pellicola, tanto che mi piace pensare che le reazioni sbigottite e sconvolte dei personaggi che gli stanno intorno siano quelle genuine degli attori sul set.

Io, personalmente, l’ho piuttosto apprezzata.

Polemiche insensate

Jim Carrey e Sean Young in una scena di Ace Ventura - L'acchiappanimali (1994) di Tom Shadyac

Questo film è stato bersagliato, soprattutto in tempi recenti, da diverse polemiche riguardo alla rappresentazione delle persone trans.

In effetti la pellicola da questo punto di vista è assolutamente offensiva, già solamente per il fatto che Ace Ventura a più riprese non accetta l’identità di Lois, ribadendo più volte che in realtà sia un uomo.

Tuttavia, additare questo film di transfobia è controproducente: se la pellicola si permette di fare questo tipo di comicità, anche piuttosto spinta, è perché questa negli Anni Novanta era fondamentalmente la norma.

E, a meno che non ce la vogliamo prendere con il periodo tutto, è ben più utile riflettere su come quella scena di assoluta umiliazione di una persona trans sia specchio di una società (si spera) diversa da quella odierna.

All’interno del film sono presenti due attori diventati famosi successivamente per due serie tv di grande successo.

Anzitutto Courteney Cox, nel film Melissa, che divenne famosa a solo un anno dopo per essere una dei protagonisti della serie cult degli Anni Novanta, Friends, dove interpreta Monica.

Poi l’indimenticabile Mark Margolis, in Ace Ventura il proprietario di casa del protagonista, oggi famoso per la sua incredibile performance come Hector Salamanca prima in Breaking Bad poi in Better Call Saul.

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L’incredibile storia dell’Isola delle Rose – La grande rivincita

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose (2020) è un film diretto da Sydney Sibilia, conosciuto principalmente per la trilogia di Smetto quando voglio.

Uno dei pochi ottimi registi italiani che cerca di distaccarsi dai soliti e ridondanti generi del panorama cinematografico nostrano.

Il film uscì alla fine del 2020 direttamente su Netflix.

Di cosa parla L’incredibile storia dell’Isola delle Rose

Bologna, 1968. Giorgio Rosa è un giovane ingegnere appena diplomato, con grandi sogni (non sempre vincenti) di creare qualcosa di suo, per smarcarsi dalla pesante eredità della generazione precedente.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale pena di vedere L’incredibile storia dell’Isola delle Rose?

Assolutamente sì.

L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è una deliziosa commedia, con un cast internazionale di primissimo livello, che mi sentirei di consigliare praticamente a tutti.

In particolare, di grande valore l’interpretazione di Elio Germano, che ancora una volta si conferma un attore non solo di grande talento, ma dalle capacità davvero multiformi, capace di immedesimarsi in ogni tipo di personaggio.

Insomma, assolutamente imperdibile.

Una storia ancora attuale

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

L’importante è salvare il mondo…o almeno provarci.

Sydney Sibilia sceglie nuovamente di puntare sul racconto di una generazione perduta, una generazione che deve ancora vivere all’ombra della precedente, che cerca di incasellarla precisi schemi sociali.

Nel 1968 come oggi.

Infatti, il film parla soprattutto alla generazione dei millennial, che ancora oggi si affaccia al mondo del lavoro e sente il peso dei propri genitori, nati e cresciuti in un mondo diverso, quando era più scontato seguire un preciso percorso di vita.

E invece per la nuova e la nuovissima generazione non basta più. Dobbiamo reinventarci: Giorgio Rosa quarant’anni fa con la sua isola, tanti giovani e giovanissimi oggi che creano il loro brand da zero.

Così Sydney Sibilla è un regista che ha cominciato con gli spot pubblicitari e in appena tre anni è riuscito ad imporsi con un film nuovo e fresco come Smetto quando voglio (2014), smarcandosi dai soliti canoni del cinema italiano.

Lui, insieme a Matteo Rovere (regista de Il primo re e anche produttore del film di Sibilia), sono le poche giovani voci che si sono ribellate ad un cinema mainstream ridondante e saturo, portando finalmente qualcosa di nuovo e di più ampio respiro.

Scegli una storia, scrivila bene

Matilda De Angelis e Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Al tempo sentii alcune critiche per il fatto che il film avesse poca attinenza con le vicende storiche raccontate.

In generale, bisogna avere coscienza del prodotto: la pellicola non ha l’intenzione di essere fedele alla storia originale, ma di prenderla come spunto per il già accennato racconto tanto caro al regista.

Facendolo molto bene, fra l’altro.

Infatti, il tema di fondo non è esplicito, ma ben raccontato nei vari momenti chiave.

Inizialmente Giorgio viene raccomandato dal padre per un lavoro che è assolutamente evidente che sia svilente per le sue capacità e la sua inventiva. Così anche Gabriella sembra inizialmente contraria a volersi sistemare con Carlo, che la rincorre per un matrimonio, ma per lungo tempo durante il film accetta di sottostare a quello che la società si aspetta da lei.

Ma infine anche lei decide di abbandonare questa idea e abbracciare invece la ribellione di Giorgio.

Parallelamente il mondo adulto è raccontato con una sferzante ironia: i politici, che si sentono tanto potenti e importanti per aver fondato l’Italia del dopoguerra, si dimostrano in realtà interessati principalmente al proprio tornaconto, corrotti con il Vaticano e che si accaniscono sul progetto di Giorgio semplicemente per dimostrare il proprio potere.

Ma non vincono veramente: hanno ucciso un progetto, ma non possono distruggere un ideale.

Il multiforme Elio Germano

Elio Germano in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Elio Germano è la punta di diamante di questo film.

Un attore estremamente eclettico, che riesce a portare in scena personaggi sempre diversissimi fra loro: dal rozzo romano in Favolacce (2020) al suo Leopardi in Il giovane favoloso (2014), fino al giovane sognatore in questa pellicola.

Il suo personaggio non è del tutto positivo: lo seguiamo con entusiasmo nel suo assurdo progetto, perché ne apprezziamo il coraggio e la follia. Tuttavia, Giorgio è molto fallibile e poco coi piedi per terra: si fa multare due volte, non è capace di relazionarsi con il mondo e si ribella incondizionatamente al potere costituito.

E viene più volte minacciato e disprezzato dagli adulti, prima dal padre, riuscendo infine ad ottenere la sua approvazione, poi sfidato direttamente dal Governo Italiano. Ma non si perde mai d’animo, fino all’ultimo.

Un cast internazionale

Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti in una scena del film L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (2020) Film Netflix di Sidney Sibilla

Come anticipato, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose può godere di un ottimo cast internazionale.

Anzitutto la coppia di ministri del Governo allora in carica, interpretati da due dei migliori attori italiani al momento: Fabrizio Bentivoglio è il Ministro Franco Restivo, che decide in ultimo di attaccare l’Isola delle Rose.

E l’irriconoscibile Luca Zingaretti, l’iconico Commissario Montalbano, è il Presidente del Consiglio Leone. Una coppia irresistibile, comica ai limiti del grottesco, con una recitazione sempre splendida e credibilissima.

Due altri ottimi attori internazionali: François Cluzet, attore francese noto soprattutto per Quasi amici (2011) è il Presidente del Consiglio d’Europa Jean Baptiste Toma, che tifa per Giorgio Rosa fino alla fine.

Così l’attore tedesco Tom Wlaschiha, che ha recitato in Game of Thrones nei panni di Jaqen H’ghar, membro degli Uomini senza volto che addestra Arya nella settima stagione, ma anche Enzo nella quarta stagione di Stranger Things.

Attore quindi capace di recitare in inglese, tedesco, italiano e russo: niente di meno.

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Una settimana da Dio – La mia versione migliore?

Una settimana da Dio (2003) è un film diretto da Tom Shadyac, regista che aveva già lavorato con Jim Carrey per Ace Ventura (1994).

Una pellicola che, dopo quasi 10 anni dal lancio al grande pubblico dell’attore, confermò le sue capacità recitative, ancora più di The Truman Show (1998).

Il film fu un buon successo di pubblico (484 milioni di dollari contro 80 di budget) e, non a caso pochi anni dopo si tentò di produrre un seguito, Un’impresa da Dio (2007), con protagonista Steve Carell, che però fu un disastro commerciale (174 milioni di incasso contro un budget di 175).

Di cosa parla Una settimana da Dio

Bruce, interpretato da Jim Carrey, è un giornalista televisivo per Channel 7 e che ambisce a diventare il conduttore del telegiornale, scontrandosi contro il rivale, Evan. Quando la sua vita sembra andare a scatafascio, un incontro inaspettato, con niente di meno che Dio in persona, gli sconvolgerà la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Una settimana da Dio fa per me?

Jim Carrey in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Una settimana da Dio si inserisce nel trend delle commedie dei primi Anni 2000, con tutto quello che ne consegue.

Quindi battute anche di cattivo gusto e quel fetish parecchio strano che avevamo per la pipì e alle scoregge, che a quanto pare facevano molto ridere. Tuttavia, un umorismo in questo senso ben dosato, senza mai cadere negli eccessi, pur geniali, di prodotti ben più esagerati come Dodgeball (2004).

In generale, è un film che mi sento di consigliare se vi piacciono le commedie e soprattutto se volete vedere un Jim Carrey al massimo della forma, nel periodo d’ora della sua carriera.

In questo film infatti, a differenza di un The Mask (1994), Carrey riesce a calibrare perfettamente le sue capacità comiche nelle espressioni, nella voce e, soprattutto, nella recitazione corporea.

Nel complesso è una pellicola assolutamente godibile e che vi consiglio se volete vedere un prodotto che, anche 20 anni dopo, è ancora stato in grado di farmi ridere genuinamente.

Scegli una storia, sceglila bene

Jim Carrey in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Come scheletro narrativo Una settimana da Dio è sostanzialmente assimilabile a The Mask: una commedia che racconta il sogno di potenza di un uomo medio.

Tuttavia, in questo caso la morale è (o dovrebbe essere) più profonda: non semplicemente un protagonista che deve capire le sue potenzialità, ma un personaggio sostanzialmente negativo che deve migliorare sé stesso.

Infatti, Bruce è un uomo ambizioso, invidioso e iracondo, cui viene messo in mano un potere straordinario, che però utilizza solamente per il suo tornaconto. E alla fine Dio lo metterà davanti alla consapevolezza di non aver mai fatto nulla di buono con i suoi poteri, come invece avrebbe dovuto.

E, a questo punto, secondo me il film si perde.

Una conclusione?

Jim Carrey e Morgan Freeman in una scena di Una settimana da Dio (2003) diretto da Tom Shadyac, già regista di Ace Ventura

Teoricamente questa esperienza dovrebbe portare Bruce alla consapevolezza dei suoi difetti, a ridimensionarsi e a capire che può ottenere una vita felice e soddisfacente anche accontentandosi di quello che ha. Tuttavia, questa consapevolezza non è messa in scena in maniera ottimale.

Infatti, nonostante ci siano una serie di indizi di come le azioni di Bruce causino importanti conseguenze, lo stesso sembra non accorgersene.

Il momento di consapevolezza dovrebbe arrivare prima con il discorso di Dio stesso, quando gli spiega che i miracoli sono quelli che compiono le persone tutti i giorni, e non tanto i piccoli trucchi di magia che ha fatto Bruce fino a quel momento.

E, teoricamente, da quel punto in poi il protagonista dovrebbe comportarsi in maniera migliore. Tuttavia, questo cambio di comportamento è troppo veloce e improvviso, oltre ad avere un minutaggio abbastanza ridotto.

Quindi a mio parere Una settimana da Dio è una commedia complessivamente buona e davvero divertente, che però si perde nell’ultimo atto, andando ad incartarsi nel classico finale consolatorio che troviamo nella maggior parte dei prodotti di quel periodo…