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The Truman Show – Il seme della follia

The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.

Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura (1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.

Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.

Di cosa parla The Truman Show

Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Truman Show?

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Assolutamente sì.

Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.

Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.

Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.

Un punto di arrivo

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.

Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.

Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.

La morale

Ed Harris in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.

La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.

E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).

La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.

Il tono

Jim Carrey Laura Linney e in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Il tono di The Truman Show è ben calibrato.

Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.

Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.

Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?

All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.

Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn 99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.

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The mask – Il sogno di potenza

The Mask (1994) fu uno dei primi film di Jim Carrey, nonché una delle tre pellicole (insieme ad Ace ventura e Scemo & Più scemo, usciti lo stesso anno) che lo fece conoscere al grande pubblico.

Fu infatti un piccolo cult per i figli degli anni Ottanta-Novanta, e io stessa ricordo di averlo visto più e più volte, rimanendone sempre affascinata e divertita.

Non a caso fu un incredibile successo commerciale: 351 milioni di incasso contro un budget di circa 20 milioni.

Di cosa parla The Mask?

Stanley Ipkiss è un mediocre impiegato bancario, che vive di grandi sogni di successo, che però non riesce mai a realizzare. Troverà per caso una maschera che, se indossata, lo renderà un inguaribile rubacuori, capace di qualsiasi cosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.:

Vale la pena di guardare The Mask?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

In generale, sì.

Oltre ad essere uno dei film più famosi di Jim Carrey, è ancora una pellicola piacevole da guardare anche oggi, soprattutto se ci si approccia con l’idea di vedere un film di intrattenimento senza grandi pretese di originalità, ma totalmente retto sulle spalle di un giovane ma già incredibile Jim Carrey.

Quindi, se apprezzate i film comedy degli Anni Novanta, con tutte le loro esagerazioni e assurdità, e se soprattutto siete fan di Jim Carrey, guardatelo.

Perché The Mask divenne un cult?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Le motivazioni del successo di The Mask in realtà non sono difficili da immaginare.

Anzitutto il film utilizza una tecnica molto comune di scegliere un protagonista che ricalchi le caratteristiche del target di riferimento. Infatti, Stanely rappresenta il topos dell’uomo medio, intrappolato nella sua mediocrità e incapacità di realizzarsi, pur avendo grandi sogni e speranze di successo.

E The Mask rappresenta il suo sogno di potenza: avere la possibilità di fare tutto, realizzare i suoi desideri più reconditi, che sono di fatto due: imporre la sua mascolinità sugli altri uomini superiori a lui e ottenere la ragazza dei sogni.

Così infatti la maschera dà la possibilità a Stanley ad avere la meglio sul borioso e viscido direttore di banca e di conquistare una splendida ragazza come Tina.

Non sei come gli altri

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Un altro trope piuttosto comune, e che si adatta sia ai personaggi maschili che femminili, è il tu non sei come gli altri.

Per i personaggi femminili di solito è una degradazione delle altre donne, disinibite e superficiali, mentre per i personaggi maschili è una dichiarazione di superiorità rispetto agli altri uomini, più potenti del protagonista, ma di minor valore.

Così ben due donne nel film dicono al protagonista che lui è speciale, che non è come gli altri, che è anzi un uomo romantico e sensibile come ogni donna vorrebbe. E anche questo è un sogno ricorrente: pensare di avere maggiori qualità degli altri uomini che raggiungono il successo e sperare che gli altri (soprattutto le donne da conquistare) se ne accorgano e ne rimangano ammaliati.

Semplicemente Jim Carrey

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

The Mask fu un ottimo banco di prova per Jim Carrey, al tempo ancora quasi sconosciuto. Nel film infatti, al di là delle poche reazioni in CGI, fu Jim Carrey, con la sua espressività esplosiva e coinvolgente, a conquistare il pubblico.

Quando veste i panni dell’uomo medio ha un’espressività più semplice, ma comunque molto convincente, mentre quando diventa The Mask è un personaggio al limite della follia e dove Carrey riesce a dare il meglio di sé.

Non ancora, secondo me, il miglior Jim Carrey, ma comunque un ottimo punto di partenza.

I limiti del film

Jim Carrey e Cameron Diaz in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Il film, anche per la sua semplicità, ha degli ovvi limiti.

Anzitutto, l’antagonista: oltre ad essere molto stereotipato, non riesce a diventare interessante e minaccioso quando indossa la maschera. Sembra anzi un altro personaggio totalmente, un mostro ancora più stereotipato. E infatti il suo screen time in quelle vesti è per fortuna molto limitato e la sua dipartita è altrettanto rapida, anche se piuttosto spassosa.

Così anche ovviamente il personaggio femminile, che è in tutto e per tutto una donna oggetto che esiste in funzione del sogno del protagonista. Lasciando anche da parte come il taglio erotico e abbastanza patetico con cui la regia la racconta, Tina è la classica donna bella e impossibile, ma alla fine si innamora comunque di Stanley e lo aiuta anche a realizzare il suo piano.

Ovviamente, all’interno della dinamica per cui la donna vive solo per essere oggetto del desiderio maschile, tutti i personaggi maschili sono pateticamente svenevoli quando appare. Ma stiamo parlando degli Anni Novanta: altri tempi, altra mentalità. E per quello che volevano fare, è un personaggio assolutamente azzeccato.

A differenza di come si pensi, nel film Jim Carrey non dice spumeggiante, ma sfumeggiante. Infatti, in inglese dice smoking, di cui sfumeggiante è la traduzione letterale.

Però sì, spumeggiante è molto più bello.

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Doctor Strange in the multiverse of madness – Orrore e frenesia

Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) è l’ultimo film Marvel uscito la scorsa settimana nelle nostre sale. Il ritorno alla regia di Sam Raimi, conosciuto e amato per la sua trilogia di Spiderman (2002-2007) e de La casa (1981-1992). Un ritorno fra l’altro dopo quasi un decennio di assenza dalla macchina da presa: l’ultimo film da regista è stato Il grande e potente Oz (2013).

Doctor Strange in the multiverse of madness è anche il primo film horror dell’MCU e sicuramente non potevano scegliere un autore migliore per questo compito. E non è sicuramente un caso che la pellicola ha aperto questo weekend con 450 milioni di dollari di incasso.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Doctor Strange in the multiverse of madness

Doctor Strange in the multiverse of madness racconta di America Chavez, giovane ragazza con un potere davvero particolare: aprire i passaggi fra gli universi. Per questo è braccata da un terribile nemico che vuole impossessarsi delle sue abilità. La giovane ragazza chiederà quindi l’aiuto di Doctor Strage, che già aveva avuto contatti con il multiverso in Spiderman no way home (2021).

Questo, raccontato assolutamente senza spoiler.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

È davvero un film di Raimi?

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

La mano di Raimi si vede, e tanto. Le splendide dissolvenze incrociate, le inquadrature che si immergono negli occhi dei personaggi, la camera che ruota intorno alle scene, fino al taglio splendidamente horror.

Perché si, questo film ha davvero un taglio horror (ovviamente sempre horror per ragazzi, alla Raimi appunto), altro che un certo Moon Knight di mia conoscenza. Con fra l’altro scene di combattimento incredibili e ottimamente dirette, probabilmente le migliori di tutto l’MCU finora.

Vale la pena di vedere Doctor Strange in the multiverse of madness?

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness(2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Per quanto mi riguarda, assolutamente sì, anche solamente pet la regia di Raimi, diversa dal solito, ma che ben si adatta ai ritmi ed alle tematiche dell’MCU. Di fatto, un buon prodotto supereroistico con una regia di primo livello

Tuttavia, come ogni prodotto MCU, richiede delle conoscenze pregresse. Oltre ovviamente a Doctor strange (2016), anche Endgame (2019) ed Infinity war (2018). Per le serie, Wandavision è abbastanza importante per comprendere il personaggio di Wanda, Loki per il multiverso, mentre What if…? è accessorio.

Ovviamente se non siete appassionati dell’MCU non è un film che mi sento di consigliarvi, proprio per via dei collegamenti col resto della filmografia. Tuttavia, se siete fan di Raimi, forse potrebbe essere un modo per mettere un primo piede dentro la porta di questo universo.

Wanda, una villain inaspettata

Elisabeth Olsen in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Non era del tutto sicuro che Wanda fosse la vera villain principale della pellicola: la logica avrebbe voluto Mordo al suo posto, visto come si era concluso Doctor Strange. Tuttavia, non mi posso lamentare: Wanda è uno dei pochi e buoni villain che l’MCU può contare.

E lo è anche perché abbiamo la possibilità di vedere un antagonista che ha un percorso di crescita e di redenzione. Infatti alla fine Wanda, messa davanti alla realtà, capisce il suo errore e si redime, accettando la distruzione del Darkhold e di sé stessa. Tuttavia secondo me la sua storia non è finita qui, anzi non è del tutto detto che sia veramente morta. La plot armor, quando serve, viene sempre in aiuto.

Al contempo però mi è dispiaciuto che il suo personaggio sia stato un po’ appiattito sulla questione dei figli, visto che questi erano solamente l’ultimo elemento di un dramma che aveva radici più complesse e profonde: nella sua infanzia, nell’origine dei suoi poteri e nel rapporto con Visione. Ma per questo, appunto, è richiesta la visione di Wandavision.

La necessità di Wandavision

Doctor Strange in the multiverse of madness è forse il primo caso nell’MCU dove davvero la necessità di vedere le serie tv collegate è abbastanza opprimente. Infatti, come anticipato, vedere Wandavision è abbastanza essenziale per capire veramente la profondità del personaggio di Wanda, che altrimenti potrebbe apparire forzata e quasi macchiettistica.

Invece, avendo bene in mente la sua storia e soprattutto la sua storia nella serie, si riesce ad entrare profondamente a contatto col personaggio e col suo dramma personale.

Orrore e frenesia

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Doctor Strange in the multiverse of madness ha due elementi portanti: il taglio horror e la frenesia della narrazione (che non sempre va a suo vantaggio). Veniamo infatti fin da subito portati in medias res della vicenda e la trama non si prende praticamente mai un attimo di pausa, ma procede a grandi falcate e con un ritmo davvero frenetico, forse anche troppo.

Per quanto forse non sia nello stile di Raimi, non sarebbe guastato aggiungere del minutaggio, se questo avesse significato portare più elementi di introduzione e di conclusione, oltre che qualche maggiore approfondimento. Invece è una continua corsa, a tratti sfiancante.

Per il taglio horror invece niente da aggiungere: oltre a quanto già detto, splendida la citazione a The Ring (2001) quando Wanda esce dallo specchio a Kamar-Taj e da capogiro tutta la sequenza dell’insegnamento sotto al Baxter Building. Per non parlare dello splendido body horror costante. Non proprio un film per tutte le età, insomma.

America Chavez e il problema delle soluzioni fuori dal cappello

Xochitl Gomez in una scena del film Doctor Strange nel multiverso della follia (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

America Chavez è uno degli elementi più deboli della pellicola: il personaggio manca di un’introduzione interessante e che ci faccia affezionare, nonché di un arco narrativo convincente. Di fatto il suo percorso è esplorato pochissimo e la conclusione assolutamente improvvisa e poco credibile. Ho avuto davvero la sensazione di essermi saltata una serie o un film.

Il generale, America Chavez è uno degli elementi di Doctor Strange in the multiverse of madness che sono pensati più per essere funzionali alla trama che per essere veramente importanti per la stessa. Di fatto il suo personaggio serve per dare modo a Wanda di dare sfogo alla sua ossessione, come poteva esserlo qualunque elemento introdotto per l’occasione.

Allo stesso modo il Darkhold e il Libro dei Vishanti: problemi creati per essere risolti in maniera semplice e funzionale all’interno della trama. In particolare il Libro dei Vishanti sembra proprio una soluzione tirata fuori dal cappello, che poi si rivela non essere neanche l’elemento risolutivo della vicenda: un Mac Guffin da manuale.

Il fan service dosato (e come potrebbe non piacere)

Benedict Cumberbatch in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un ottimo aspetto di questo film è la mancanza di elementi di fan service troppo ingombranti. Anzitutto John Krasinski come Mr Fantastic, ruolo richiesto dal fandom e dall’attore stesso da moltissimo tempo. Poi Patrick Stewart come il Dottor Xavier, ucciso da Wanda e secondo me anche il modo in cui la Marvel dice totalmente addio agli X-men della FOX. E, infine, Captain Carter da What if…?

Insomma, un fan service ben dosato, che però potrebbe essere dannoso per la pellicola. Infatti ho sentito della vibes non del tutto positive circa il gradimento del pubblico e ho idea che potrebbe essere dovuto anche a questo elemento.

Io per prima mi aspettavo molti più camei e molto più fan service, e forse altri si aspettavano uno Spiderman No Way Home seconda parte. Ed effettivamente non ti fa saltare sulla sedia allo stesso modo. Ma forse è meglio così.

La morale Doctor Strange in the multiverse of madness

Benedict Wong in una scena del film Doctor Strange in the multiverse of madness (2022) diretto da Sam Raimi per l'MCU

Un altro elemento che ho particolarmente apprezzato di questo film è la morale: l’importanza di accontentarsi. La vita che abbiamo potrebbe non essere la migliore che potremmo mai avere, ma è quella che abbiamo e da cui dobbiamo cercare di trarre il meglio, nonostante le avversità.

Quindi Doctor Strange accetta di non essere lo Stregone Supremo e che lo sia invece Wong, inchinandosi infine davanti a lui e riconoscendo così la sua carica. Così accetta che Christine non potrà essere la sua compagna. E infine Wanda accetta che non potrà mai avere i suoi figli, perché questo significherebbe distruggere la loro vita in un altro universo e così quella di un’altra se stessa, oltre a dover uccidere America. In questo caso il peso della colpa e della vergogna la porta ad suicidarsi per il bene comune.

Ma, appunto, non è detta per forza l’ultima parola su questo personaggio.

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Sorry to bother you – Un sogno allucinato

Sorry to bother you (2018) è una commedia nera e surreale, scritta e diretta da Boots Riley, rapper e produttore cinematografico al suo esordio alla regia. Un film che si propone di denunciare in maniera divertente e pungente la realtà statunitense odierna, dello sfruttamento del lavoro e del razzismo onnipresente.

Al tempo fu un piccolo successo al botteghino: 18 milioni di dollari di incasso contro un budget di poco più di 3 milioni. E col tempo è entrato nel cuore di molti, andando ad infoltire la proposta cinematografica di genere satirico, ancora poco presente nel cinema mainstream.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Sorry to bother you

Sorry to bother you racconta la storia di Cassius, uno dei tanti giovani afroamericani in difficoltà economica, che porta avanti la sua vita fra lavori estenuanti e degradanti. Trova lavoro presso una compagnia di televendite e, su consiglio di un suo collega, comincia ad utilizzare la sua white voice, ovvero quel tono di voce che imita la parlata stereotipica dei ricchi statunitensi, per diventare un venditore di successo.

Questo lo porterà infatti a scalare i vertici dell’azienda, rivelandone i più assurdi e orribili segreti.

Perché guardare Sorry to bother you

Tessa Thompson e Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una commedia intelligente e graffiante, che fa riflettere su una problematica tutt’ora molto pressante (e non solo in USA): inseguire il sogno del successo tramite il duro e sfiancante lavoro, con l’idea che questo sia facilmente ottenibile. Così anche, dall’altra parte, lo sfruttamento disumano della classe lavoratrice, fino ad una disumanizzazione della stessa per ottenere il massimo del guadagno.

Una filosofia capitalista che quindi colpisce entrambe le parti: sia chi investe nel lavoro, totalmente accecato dal desiderio di guadagno e del produrre sempre di più e più velocemente, sia chi lavora, ossessionato dall’idea di far carriera ad ogni costo. Insomma, un film di quattro anni fa, ma con una tematica ancora molto attuale.

Sorry to bother you fa per me?

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

Sorry to bother you è una pellicola non esattamente per tutti i palati. Mi sentirei di accostarla ad altri due film molto divisivi: Don’t look up (2021) per la tematica e Scott Pilgrim vs The world (2010) per il taglio surreale. Se vi piacciono questi due prodotti, ma anche se siete vicini al cinema di Jordan Peele, in particolare Us (2018), potrebbe essere un film per voi.

Più in generale, se vi piacciono le commedie al limite del grottesco, con tematiche molto forti e attuali, guardatelo. Se rifuggite i film surreali come la peste, passate ad altro.

Use your white voice

Lakeith Stanfield in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La questione della white voice è una delle più interessanti della pellicola: non semplicemente la voce da bianco in senso stretto, ma la voce che i bianchi americani associano ad un tipo di persona di successo, il modello di self-made man a cui aspirano.

Tuttavia, il protagonista rimane comunque una persona diversa per la comunità in cui cerca di inserirsi. Emblematica in questo senso la scena della festa a casa di Steve Lift, il capo dell’azienda, quando gli chiedono di rappare, capacità steroetipicamente associata alla comunità nera. E lui canta nigga shit, conquistando il plauso del pubblico.

Ed è l’utilizzo della white voice, così divertente ma anche grottesco, tanto da ricordarmi L’occhio più azzurro (1970, Toni Morrison), che porta il protagonista al successo. E infatti, quando diventa un Power Seller, deve abbandonare quasi del tutto la sua vera voce, che lo identifica appartenente alla comunità nera, e diventare il più possibile simile allo stereotipo di una persona bianca.

Vendere, vendere, vendere

Lakeith Stanfield e Armie Hammer in una scena del film di Sorry to Bother You (2018) di Boots Riley

La WorryFree è una delle trovate più geniali del film, perfetta per rappresentare la totale alienazione del lavoratore, che non può permettersi di vivere, e, lavorando per questa azienda, non dovrà più preoccuparsene, non dovendo mai abbandonare le vesti da lavoro. Probabilmente un attacco sottile ad Amazon, ma non solo.

Il passo successivo sono gli Equisapiens, nient’altro che una riproposizione moderna del concetto di schiavismo: persone private di ogni dignità e umanità, letteralmente. Questa soluzione assolutamente disumana ottiene tuttavia il consenso popolare, indice appunto di una società annebbiata dall’idea del guadagno a tutti i costi.

Il sogno allucinato

Armie Hammer in una scena del film di Boots Riley

Il film infatti non è altro che un racconto del sogno allucinato del capitalismo: tutti possono avere successo, tutti possono diventare dei Power Caller. È lì a disposizione, è sopra i vostri occhi, a portata di mano. Tuttavia la possibilità di ottenere quella vittoria è solo apparente: come è detto esplicitamente all’interno del film, facendo il lavoro degradante della classe media, non sarà mai possibile arrivare, nonostante il racconto che se ne fa, a certi livelli di guadagno.

E anche se uno su mille riesce ad ottenere quel successo, è un successo che richiede entrare nella mentalità del capitalismo selvaggio e senza scrupoli. Quindi abbandonare a poco a poco ogni moralità, fare di tutto per arricchirsi e acquisire il successo.

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The worst person in the world – Una generazione perduta?

The worst person in the world (2021) è un film norvegese, per la regia di Joachim Trier, cineasta già attivo da molti anni e che con questo film chiude la sua Trilogia di Oslo. La pellicola è stata candidata a Miglior film internazionale agli Oscar 2022 (perdendo contro Drive my car) e al Festival di Cannes 2021 ha conquistato il premio per Miglior interpretazione femminile.

Un film che si propone di raccontare il dilemma generazione dei millenials, all’interno di una commedia romantica.

Ci è riuscito?

Di cosa parla The worst person in the world

La pellicola racconta di Julie, una ragazza di quasi trent’anni che cerca costantemente di trovare la propria strada nella vita, stressata dalla generazione più vecchia di lei per prendere una decisione e far fronte alle sue responsabilità. E, per questo, si barcamena fra due relazioni sentimentali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché The worst person in the world non funziona (secondo me)

Renate Hansen Reinsveen e Anders Danielsen Lie in una scena del film The worst person in the world (2021) uscito in italia come La persona peggiore del mondo candidato all'oscar come miglior film internazionale

Come anticipato, The worst person in the world sembrava voler raccontare un dilemma generazionale: i millennial sono una generazione di adulti trattati dalla società con gli stessi parametri di una realtà culturale ormai tramontata. Troppo giovani per essere presi sul serio, ma abbastanza adulti da prendere scelte importanti sulla propria vita.

La pellicola pare appunto voler partire da queste premesse, sviluppando la tematica attraverso il racconto delle relazioni romantiche travagliate della protagonista. In realtà, a parte qualche concetto femminista buttato lì e qualche problema generazionale non particolarmente esplorato, The worst person in the world non è altro che una commedia romantica di medio livello, che cade nel facile patetismo sul finale.

La persona peggiore del mondo?

Renate Hansen Reinsveen e Anders Danielsen Lie in una scena del film The worst person in the world (2021) uscito in italia come La persona peggiore del mondo candidato all'oscar come miglior film internazionale

Il film si propone fin dal titolo di raccontare il dramma e il conflitto della protagonista, che si sente appunto la persona peggiore del mondo per le sue scelte di vita. Il problema è che sicuramente Julie fa delle scelte che moralmente non sono del tutto condivisibili, ma sono anche le migliori per lei. E questo, che sembrava dover essere il tema principale della pellicola, non viene affrontato fino in fondo, non riuscendo di conseguenza a contestualizzare adeguatamente il titolo e la tematica.

Ho visto molto più focus, soprattutto nella parte finale, sul personaggio di Aksel, il fidanzato quarantaquattrenne con cui Julie ha un evidente conflitto generazionale. A lui viene infatti viene dedicato ampio spazio nelle ultime sequenze, in particolare con un monologo dal forte impatto emotivo. Insomma, il suo personaggio mi è sembrato decisamente più profondo ed esplorato rispetto a quello della protagonista, complice probabilmente anche il fatto che chi ha scritto e diretto la pellicola fa parte della generazione di Askel, appunto.

Vale la pena di vedere The worst person in the world?

Renate Hansen Reinsveen in una scena del film The worst person in the world (2021) uscito in italia come La persona peggiore del mondo candidato all'oscar come miglior film internazionale

Nonostante il film sia a mio parere fallace nel rendere al meglio la tematica trattata, è complessivamente un film godibile, soprattutto se apprezzate le commedie romantiche. In particolare se siete amanti della produzione europea, generalmente estranea agli stereotipi più smaccati del genere, come invece tipico del cinema statunitense.

Semplicemente, non aspettatevi un film particolarmente brillante come si propone di essere.

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Rapunzel – L’inizio inaspettato

Rapunzel (2010) è un lungometraggio animato di casa Disney, il cinquantesimo fra i suoi Classici, nonché, insieme al Re Leone (2019), il film animato più costoso della storia del cinema.

E così, con un budget di 260 milioni di dollari, incassò bene: quasi 600 milioni in tutto il mondo.

Ed è fra i miei prodotti animati preferiti in assoluto.

Di cosa parla Rapunzel?

Rapunzel è una ragazza che sta per compiere diciotto anni, passati tutti nella torre in cui è stata imprigionata da Madre Gothel, che vuole sfruttare il suo potere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena guardare Rapunzel?

Rapunzel e Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Assolutamente sì.

Rapunzel è un ottimo prodotto di animazione, che riesce facilmente ad intrattenere e a divertire.

Oltre a non avere mai dei momenti morti, presenta una narrazione incalzante, porta in scena due protagonisti con un’ottima chimica, una storia d’amore davvero coinvolgente, pur nella sua semplicità. Inoltre, una serie di personaggi secondari genuinamente divertenti e ben scritti.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Rapunzel

Rapunzel è una protagonista all’avanguardia per i tempi.

oltre ad essere, insieme a Mulan, una delle poche principesse a possedere un’arma, come Mirabel in Encanto (2021), è un personaggio intraprendente e che prende in mano la propria vita, nonostante tutti gli ostacoli che le vengono messi davanti.

Ovviamente il maggiore ostacolo è Madre Gothel e i suoi ricatti emotivi, ma anche Flynn inizialmente cerca di ingannarla e manipolarla.

Ma Rapunzel è inarrestabile.

In particolare, la protagonista della pellicola ha due punti di forza: non ha un principe e si salva da sola.

Salviamoci insieme

Non solo Rapunzel si salva da sola, ma salva anche il principe.

Una caratteristica ben poco presente per i personaggi femminili, che solitamente sono figure passive che devono essere salvate, spesso premio di una prova del personaggio maschile.

In questo caso Rapunzel decide autonomamente di intraprendere il suo viaggio e riesce, pur con qualche difficoltà, a difendersi, sia fisicamente che psicologicamente, da Flynn e infine da Madre Gothel.

Inoltre, appunto, salva Flynn in almeno due situazioni: quando stanno scappando dai gendarmi dalla taverna, quando stanno per affogare, e infine, anche se indirettamente, quando Flynn è effettivamente morto.

E l’unico momento in cui viene effettivamente salvata non è il solito salvataggio della principessa in pericolo.

Flynn

Molto spesso nella narrazione classica si portava una rappresentazione del protagonista maschile che doveva essere il sogno di ogni bambina: trovare un uomo bello e ricco da sposare, possibilmente che sapesse mettersi in gioco per salvarci la pelle.

Tuttavia le prospettive e i desideri del pubblico già dieci anni fa si erano ampliati.

Per questo Flynn Rider è stato il primo anti-principe della Disney.

A questo esperimento ne è seguita una pallida imitazione con Kristoff in Frozen, e in parte Nick in Zootropolis (2016). Quindi personaggi maschili che si affiancano le protagoniste femminili più come compagni di avventure che (solo) come interessi amorosi.

Nel caso di Flynn troviamo un personaggio assolutamente inusuale per l’epoca: viene anzitutto presentato come fondamentalmente negativo, in quanto fuorilegge, furbo e approfittatore, oltre che vanitoso (caratteristica rara nei personaggi maschili protagonisti, se non per sottosensi queer).

Nonostante tutti questi difetti, Flynn ci sta subito simpatico perché è un personaggio umano.

Uscire dallo stereotipo

Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico Disney

A differenza di Rapunzel, che è un personaggio più tipico, Flynn è un personaggio profondamente umano.

Come ci spiega lui stesso, Flynn non è rappresenta la sua reale persona, ma è una facciata che si è costruito. Anche se non è spiegato nel dettaglio, sicuramente proviene da una realtà di grave povertà, forse persino da un orfanotrofio.

Per cui rubare non era mai stato un atto di avidità, ma un modo di sopravvivere, e anche di inseguire, seppure in maniera negativa, il sogno di una vita migliore. La validità del suo sogno viene tuttavia più volte ridimensionata, anzitutto da Uncino, che gli dice Il tuo sogno fa schifo.

Compagno di vita

Rapunzel e Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Così, come nel migliore dei buddy movie, Flynn insieme a Rapunzel riesce a crescere e a migliorarsi, con un effettivo lavoro di squadra, che non sia solo unidirezionale.

Infatti Flynn non salva Rapunzel in senso stretto, ma più che altro la aiuta a compiere quell’atto finale che non riusciva a compiere lei stessa, per via lavaggio del cervello cui era stata sottoposta: tagliare definitivamente i ponti, e così il cordone ombelicale metaforico con la madre.

Oltre a questo, Rapunzel riesce a tirare fuori il meglio da lui, portandolo ad abbandonare Flynn per tornare ad Eugene, ovvero una persona che si interessa a qualcun altro oltre che a sé stesso, e che ha mire definitivamente più oneste e positive.

Ovviamente all’interno di un finale molto semplice e prevedibile, ma del tutto funzionale.

L’innamoramento

Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Un grande pregio del film è che il rapporto Flynn e Rapunzel, nonostante sia basato sui più classici e funzionali tropoi di enemy to lovers, è ben costruito.

Inizialmente entrambi, appena si scoprono, sono quantomeno colpiti. Soprattutto Flynn, che rimane sbigottito vedendola per la prima volta, anche perché in quella scena la ragazza è disegnata in maniera più adulta.

Immediatamente, sono entrambi sulla difensiva davanti all’ignoto: Rapunzel si difende disordinatamente con la padella, Flynn con i suoi stupidissimi metodi di approccio, che potrebbero funzionare con altre donne, ma non con Rapunzel.

Poi ci riprova, vedendola in difficoltà, usando trappole emotive al pari di Madre Gothel, anche se ovviamente non in maniera così diabolica.

L’ultimo inganno a cui la sottopone è quello decisivo: alla taverna, invece di arrendersi definitivamente, Rapunzel si dimostra nuovamente capace di gestire la situazione, portandola a suo vantaggio.

E così è anche la prima volta che Flynn è genuinamente interessato a lei, come si vede dal mezzo sorriso che le rivolge mentre sono nel tunnel sotto alla caverna. Da questo momento in poi comincerà a non considerarla più una ragazzina sprovveduta.

Ed è anche la prima volta in cui Rapunzel si rende conto delle sue capacità, e di non essere una buona a nulla come raccontava Madre Gothel.

Le ultime tappe

Flynn in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

La scena del falò è un altro momento decisivo.

Finalmente entrambi si svelano l’uno all’altro, in maniera in cui nessuno dei due aveva mai fatto con nessuno. A quel punto Rapunzel è già evidentemente già innamorata, ma Flynn non può concedersi questo passo: la guarda ammaliato, poi abbassa lo sguardo, genuinamente sorpreso, e si allontana con una scusa.

E in quel momento Rapunzel fa la mossa finale: dimostra di accettarlo per chi davvero è, e non per la facciata che Flynn ha dovuto usare tutta la vita. E da come lo guarda si vede che è definitivamente innamorata.

Lo stesso sguardo è negli occhi di Flynn quando in città vede Rapunzel con i capelli intrecciati di fiori. Ma, ancora una volta, davanti allo sbeffeggiamento di Maximus, cerca di allontanare quel pensiero.

L’amore fra i due è finalmente rivelato prima quando si trovano mano nella mano durante la danza nella città, e infine sulla barca, quando si dichiarano vicendevolmente, senza più imbarazzo.

Così il breve distanziamento fra i due, che per fortuna non viene eccessivamente drammatizzato ed è anzi occasione per Rapunzel di avere la sua rivalsa su Madre Gothel, viene risolto con la dichiarazione reciproca dell’amore di entrambi.

E non con un semplice ti amo, ma con una dichiarazione più profonda.

Sei il mio nuovo sogno.

Madre Gothel

Madre Gothel è villain da manuale.

un antagonista piuttosto tipizzato, ovvero quel tipo di cattivo la cui cattiveria non è particolarmente esplorata.

Tuttavia, leggendo più a fondo il suo personaggio, si scopre che non è così superficiale come potrebbe sembrare. Anzitutto, le sue motivazioni: non cattiva perché cattiva, ma perché ossessionata non tanto dalla vita eterna, ma proprio dalla bellezza.

Non a caso Madre Gothel è una donna fascinosa e magnetica, che utilizza anche questo suo potere a suo vantaggio.

Così ammalia uno dei delinquenti della taverna per sapere dove sbuca il tunnel sotterraneo, così inganna i due compari di Flynn Rider per utilizzarli a suo vantaggio.

E sempre sulla bellezza punta quando vuole sminuire Rapunzel, sia durante la canzone Mother knows best, quando le dice che è trasandata, persino grassa (a little chubby).

Ma soprattutto durante la scena del falò, quando le afferra i capelli per sbeffeggiarla e le dice Pensi che sia rimasto impressionato? ribadendo quanto la figlioccia sia strana, trasandata e per nulla attraente.

Ma, soprattutto, Madre Gothel è definita nella dicotomia luce – buio, in contrapposizione con Rapunzel.

Essere inghiottiti dall’oscurità

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Secondo un topos molto semplice, ma non per questo meno efficace, Madre Gothel è strettamente collegata al concetto di oscurità. Anzitutto per i colori del suo personaggio, molto intensi e scuri appunto, così per la maggior parte delle scene in cui compare, sempre in ombra o penombra.

Inoltre, questa dicotomia si trova nella già citata canzone Mother knows best: tutta la scena è la donna che cerca di togliere la luce alla figlioccia, sia in senso metaforico che effettivo.

Come le spegne le candele che Rapunzel cerca di accendere per fare luce, così Madre Gothel utilizza la luce a suo vantaggio, facendo vedere quello che vuole lei, e ottenebrando la mente della ragazza con paure insensate.

Un’ombra

L’ombra di Madre Gothel accompagna Rapunzel anche quando non è presente in scena.

Quando la ragazza è profondamente divisa sul da farsi, avendo paura di deludere la madre, nelle scene di spensieratezza l’ambiente è luminoso e con colori pieni, quando è invece triste e preoccupata la vediamo in ambienti nell’ombra o nella penombra.

Altrettanto importante per questo simbolismo è l’incontro del falò: la donna abbraccia Rapunzel, non per affetto ma per ingabbiarla nuovamente, la afferra per un polso e cerca di trascinarla con sé, lontano dal falò e quindi dalla luce, verso la foresta nera da cui è emersa.

E così tutta la canzone, che serve a sbeffeggiare la figlioccia e impiantare in lei il seme del dubbio, si svolge nell’ombra.

Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Ancora la tematica della luce quando Rapunzel acquisisce consapevolezza: in inglese nella canzone delle lanterne dice Now I see the light, ovvero Ora vedo la luce, in senso sia letterale, sia metaforico.

E il parallelismo è scontato è quando assume la definitiva consapevolezza della sua identità, vedendo proprio i soli simbolo della sua famiglia nella sua stanza, e quindi la luce e la verità che gli era sempre stata nascosta.

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Ma Rapunzel si fa anche tentare da una luce ingannevole: quando finalmente (e per fortuna temporaneamente) Madre Gothel la fa tornare a sé dopo averle fatto credere al tradimento di Flynn, è accanto ad una lanterna.

Ma è una lanterna di una luce fredda, verdognola, di un colore solitamente associato al veleno e all’inganno.

E si potrebbe andare avanti…

Non solo il tuo animaletto

Per quanto si sarebbe potuto desiderare un villain più profondo, che non fosse limitato alla sua cattiveria apparentemente superficiale, la spietatezza con cui Madre Gothel tratta Rapunzel è da brividi.

Non c’è mai un momento in cui dimostra qualche tipo di effettivo affetto verso la figlioccia, che considera sempre invece come uno strumento, come una risorsa per sé stessa ed il suo tornaconto.

Madre Gothel e Rapunzel in una scena del film Rapunzel (2010) L'intreccio della torre, il 50esimo classico disney

Non solo uno strumento, ma anche un animale: nella sua prima canzone, Mother knows best, Madre Gothel chiama Rapunzel proprio pet, e in più di un’occasione le tocca la testa come si fa con gli animali da compagnia appunto.

Questo gesto è ribadito nell’ultimo atto, quando Rapunzel le si ribella, prendendola violentemente per il polso e impedendole di farlo.

E finalmente torreggia su di lei.

Personaggi secondari indovinati

Un altro merito di questo film sono sicuramente i personaggi di contorno.

Anzitutto i malviventi incontrati alla taverna, che nel finale diventano fondamentali. Soprattutto per la loro canzone dove vengono presentati, non sono altro che un’estensione di Flynn: criminali ma dal cuore d’oro e con altre passioni oltre al crimine di per sé.

Tra l’altro spassosissima la loro sfilza di interessi assolutamente anacronistici per il periodo rappresentato.

Altra punta di diamante della pellicola è Maximus.

Era forse dai tempi di Mushu che non si vedeva un animale così ben raccontato ed animato, con una mimica al limite della perfezione, che lo fa sembrare prima un uomo, poi un cane (nella scena in cui incontra Rapunzel). Maximus è proprio una storia a parte.

Nota a margine per Pascal: sembra un personaggio molto secondario, e invece ha un ruolo chiave nella vicenda. Infatti, fino alla fine, Madre Gothel neanche sa che esista e Rapunzel glielo nasconde volutamente.

Pascal è infatti la voce della ragione, una figura enigmatica e silenziosa che invita subito Rapunzel ad uscire, che veglia su di lei, riuscendo ad addomesticare Maximus e accettando tacitamente la sua relazione con Flynn.

E non è un caso che è Pascal stesso che interviene per rendere definitiva la dipartita di Madre Gothel.

Rapunzel: un’altra interpretazione

Il potere di Rapunzel è luminoso e puro e, una volta tagliato, perde il suo valore.

Non sarò la prima né l’ultima a dirvi che Rapunzel può essere letto in un’altra ottica.

Il dono di Rapunzel è in realtà la sua verginità, in una visione ovviamente molto tradizionalista. Così Madre Gothel la promette ai malviventi, in maniera davvero inquietante, così dice a Rapunzel che Flynn vuole solo una cosa da lei, come se dovesse sedurla per avere un rapporto sessuale e poi abbandonarla.

Una narrazione piuttosto utilizzata e radicata profondamente nell’immaginario collettivo, anche odierno. E il fatto che si parli di Rapunzel e del suo potere legato al fiore e della preziosità della corona, l’unico interesse di Flynn secondo Madre Gothel, non fanno che confermare questa visione.

Così, quando alla fine si baciano sulla torre e l’inquadratura si allontana, senza far mai vedere che escono o altro, i più maliziosi potrebbero intendere quello come effettivamente il momento in cui portano il loro rapporto ad un altro livello.

Ma sono interpretazioni maliziose…

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Little Miss Sunshine – Vincere a tutti i costi

Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, è un piccolo cult di inizio Anni 2000.

Non a caso, a fronte di un budget risicatissimo – appena 8 milioni di dollari – sbancò i botteghini internazionali con 108 milioni di incasso, e fu candidato a tre premi Oscar, vincendone due.

Di cosa parla Little Miss Sunshine?

Una piccola famiglia della classe media affronta un viaggio improvviso per accompagnare la piccola Ollie. In questa occasione ogni personaggio svilupperà il proprio percorso, con piccoli e grandi drammi personali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Little Miss Sunshine?

Assolutamente sì.

Little Miss Sunshine divenne un cult all’epoca per tanti motivi.

Prima di tutto, è un film davvero ben scritto, che porta in scena alternativamente momenti incredibilmente divertenti, sia sequenze assai drammatiche, con sempre un’importante riflessione di fondo.

Un prodotto da recuperare assolutamente, per ridere, piangere e appassionarsi sinceramente alle storie dei personaggi, oltre che per venire vicino ad un mondo e ad una cultura che sono dominanti nel panorama internazionale, ma molto diversi dalla nostra cultura europea.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Vincere e perdere

Abigail Breslin, Toni Colette, Steve Carelle e Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

La bellezza di Little Miss Sunshine risiede soprattutto la sua capacità di raccontare una storia davvero corale, dove ogni personaggio è tridimensionale e ha un’evoluzione avvincente.

Non a caso il film si apre con una piccola carrellata di scene di presentazione di tutti i personaggi ed il loro arco narrativo.

La piccola Olive e il suo sogno, il padre e il suo corso di life coaching, il fratello e la sua sfida, il nonno e la dipendenza dalle droghe, la madre che è il suo rapporto difficile col fratello, e infine il fratello suicida.

Il tema principale, come anticipato, è la cultura della vittoria. Vincere, vincere per forza, unica cosa che conta, come ben si vede dalle prime due scene: Olive che guarda e sogna la vittoria come reginetta di bellezza e il padre che racconta come si può essere o vincitori o perdenti. E bisogna essere vincitori.

E infatti ogni personaggio riesce a vincere e a perdere la sua battaglia personale.

Olive Little Miss Sunshine

Olive è una bambina di appena sette anni, eppure è il perno dell’intera pellicola.

Vediamo molto spesso il tutto dal suo punto di vista, che riesce ad empatizzare, nonché a venire in aiuto degli altri personaggi: Frank e il suo dramma personale, così il fratello Dwayne e la sua sconfitta.

Il sogno di Olive non è realmente quello di vincere per essere bella, ma di vincere per divertirsi. Tuttavia non è, pur ingenuamente, estranea a tutte le pressioni sociali che vogliono che lei sia bella, magra e già perfetta.

Emblematica in questo senso la scena in cui il padre cerca di convincerla a non mangiare il gelato per non ingrassare, così come quelle in cui si guarda allo specchio, più di una volta, preoccupandosi di non essere abbastanza bella.

Sono bella?

Abigail Breslin in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Effettivamente Olive non è una ragazzina convenzionalmente bella: è una bambina come tante, con un aspetto nella media, che non cerca di essere niente di più bello o di diverso dalla sua età.

Ma è comunque appunto influenzata dagli stimoli esterni del mondo degli adulti, tanto che chiede al nonno se lei è effettivamente bella e se riuscirà a vincere. Tuttavia, solo delle ansie derivate esternamente, non qualcosa che nasce naturalmente da lei.

La drammatica realtà è che se Olive non avesse le influenze positive di alcuni membri della sua famiglia, in poco tempo sarebbe caduta in un disturbo alimentare, come altre ragazzine prima di lei.

Frank Little Miss Sunshine

Frank è un perdente, sia per come si sente, sia perché non riesce a vincere il suo onore e andare avanti con la propria vita.

Non riesce a lasciare da parte il più grande traguardo della propria vita, l’unica cosa con cui riesce a definirsi.

E infatti alla fine il motivo vero del suo tentato suicidio non è né un amore fallito né aver perso il lavoro, ma aver perso il suo riconoscimento, che ribadisce (anche se scherzosamente), in altri momenti della pellicola.

La vittoria di Frank è riuscire a trovare una nuova identità, a capire di essere una persona completa anche senza essere riconosciuto come vincente. E riesce a riconoscersi in un nuovo contesto e un nuovo obbiettivo: la sua famiglia.

Non a caso è il primo a correre verso l’hotel del concorso.

E, non a caso, quando vede sul giornale il suo rivale riconosciuto con il premio che lui pensa che gli sia dovuto, lo mette via con solo una smorfia di disappunto, ma, infine, di accettazione.

Dwayne Litte Miss Sunshine

Dwayne è in una crisi esistenziale estrema.

Sente di odiare profondamente la sua famiglia e porta testardamente avanti l’obbiettivo di liberarsi dalla stessa.

Ma, in realtà, c’è una persona a cui non può odiare: Olive. Non è un caso infatti che sia Dwayne sia quello che si accorge della mancanza della sorella quando questa viene dimenticata alla stazione di servizio

E così Olive è l’unica persona che riesce veramente, e senza una parola, a convincerlo a tornare dalla famiglia quando Dwayne ha la sua crisi. E infine il ragazzo, come Frank, accetta che, anche se non verrà riconosciuto come quello che vorrebbe essere dagli altri, potrà comunque fare quello che lo renderà felice.

E questo senza doversi isolare da tutti, anzi preoccupandosi sinceramente per la sorella.

Il nonno Litte Miss Sunshine

Il nonno vuole vincere la sua libertà.

La libertà di vivere come vuole, anche in modo non accettato dalla società purista americana. E continua a farlo, nonostante le conseguenze, e fino alla fine. E alla fine muore, ma felicemente.

Insieme a Sheryl, il nonno è uno degli elementi di unione e un motore dell’azione, sia da vivo che da morto. Infatti il climax finale del ballo della famiglia, una danza gioiosa di unione, è merito della sfacciataggine del nonno.

La famiglia riesce a proseguire il viaggio, nonostante il cadavere nel bagagliaio, per le riviste pornografiche che il nonno ha acquistato. E tutta la vicenda è messa in moto dallo stesso, che aiuta la nipote nel suo spettacolo.

Richard Little Miss Sunshine

Richard è l’elemento più problematico del film.

Impulsivo, ossessionato dal sogno americano di vincere o perdere.

Senza vie di mezzo.

Durante la pellicola deve tuttavia prendere delle decisioni importanti, che gli fanno mettere in discussione i suoi valori. In particolare il momento di consapevolezza avviene durante il concorso di bellezza.

Guardando quelle bambine truccate e sessualizzate all’inverosimile, capisce che non vale sempre la pena vincere sempre, che sua figlia non deve per forza gareggiare, se sono queste le condizioni.

E infine anche lui sceglie la propria famiglia, proteggendo la figlia e intervenendo per primo per aprire la danza finale, nonostante sa che così verrà definitivamente escluso ed umiliato.

Ma ormai non è più importante.

Sheryl Little Miss Sunshine

Sheryl è una donna forte, coi piedi ben piantati a terra, che cerca di unire la famiglia.

La sua vittoria, alla fine, è riuscire a riportare insieme i suoi familiari, come cerca di fare per tutta la pellicola: riprende Richard quando intimorisce Olive, cerca di aiutare Frank, cerca in tutti i modi di ricongiungersi con Dwayne quando perde la testa e, alla fine, sostiene tutti sulle sue spalle.

È davvero il collante del gruppo.

È forse il personaggio che vince di più di tutti: riesce a vedere la famiglia finalmente e davvero unita, come avrebbe voluto, e per questo chiude le danze, correndo felice verso la figlia.

Vincere da subito

Little miss sunshine

Il tema principale della pellicola è ben esplicitato dal concorso stesso, che rappresenta l’atto conclusivo nonché il punto di arrivo del climax dell’intera pellicola.

Può sembrare eccessivo ed esagerato, ma è invece tremendamente reale.

L’ultimo tassello nel mosaico della cultura della vittoria a tutti i costi degli Stati Uniti, quando fin da giovanissimi si viene messi in competizione. Vestiti da adulti, costretti a diventare degli oggetti di scena, principalmente a favore dei genitori stessi e del ritorno economico che ne può derivare.

Little miss sunshine

Ci sono state molte discussioni, soprattutto ai tempi, sulla questione dei concorsi di bellezza.

La maggiore questione è che queste occasioni rappresentavano (e rappresentano) perfettamente il sogno americano. Non seguono infatti grandi capitali per accedervi, basta essere abbastanza belli e saper fare qualcosa di interessante, soprattutto nei circuiti più bassi.

E infatti le facce delle persone del pubblico sono facce assolutamente normali e ordinarie.

L’ipocrisia

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Little Miss Sunshine mette bene in scena la sessualizzazione rasente alla pedofilia di questi concorsi, con ragazzine truccate e acconciate come modelle, eroicizzate al limite del sopportabile ed estremamente ammiccanti.

Non a caso è emblematica la faccia del padre quando vede lo spettacolo, profondamente a disagio, come ogni persona di buon senso si sentirebbe.

E così lo spettatore con lui.

E quindi l’ipocrisia sta nel fatto che, quando una bambina fa qualcosa di effettivamente erotico e apparentemente volgare, in realtà semplicemente divertendosi nella sua ingenuità dei sette anni, è assolutamente inaccettabile.

Vivere di espedienti

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Come la maggior parte della classe media statunitense e delle persone che partecipano a questo tipo di concorsi, la famiglia della pellicola è in difficoltà economica. Deve sempre vivere di espedienti e soluzioni dell’ultimo minuto per andare avanti, faticosamente, perdendo ogni energia.

Perché se ci si arrende si è, appunto, dei perdenti.

Così non possono lasciare Frank in ospedale per farsi curare adeguatamente perché non c’è l’assicurazione sanitaria adatta. Non possono prendere un aereo per andare in California, non possono permettersi un’alternativa all’auto rotta. In ogni modo devo mettersi insieme, mettersi in strada.

Il viaggio e tutti i suoi ostacoli rappresentano perfettamente come è la loro vita: un imprevisto dietro l’altro, a cui non sono sempre pronti a rispondere.

Bonus

Breaking bad, sei tu?

In Little Miss Sunshine ci sono dei collegamenti involontari alla serie Breaking bad, che esordì sui nostri schermi due anni dopo.

Anzitutto, la famiglia abita ad Albuquerque, dove si svolge anche la serie tv. Inoltre nel film appaiono per dei camei Bryan Cranston come Stan, il collega del padre e Dean Norris, come il poliziotto che li ferma in autostrada.

Rispettivamente Walter White e Hank Schrade, due dei personaggi principali della serie cult, che i fan di Breaking bad non potranno non riconoscere.

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C’mon C’mon – Una piccola storia

C’mon C’mon (2021) è l’ultimo film di Mike Mills, autore fondamentalmente sconosciuto ai più, ma che ha avuto la grande fortuna di mettersi sotto l’egida della A24 e di poter dirigere Joaquin Phoenix.

La A24 è un’ambiziosa casa di produzione statunitense, che può vantare di aver prodotto pellicole di alto valore, come tutti i film di Robert Eggers finora, fra cui quello che uscirà settimana prossima, The Northman (2022), nonché Macbeth (2021) di Joel Coen. E giusto proprio per dire due nomi di nessuna importanza.

Non a caso C’mon C’mon è un’opera a tratti sperimentale, certamente originale e con un comparto tecnico di alta qualità.

Di cosa parla C’mon C’mon

La vicenda ruota intorno a Johnny, interpretato da Joaquin Phoenix, un giornalista che gira le principali città degli Stati Uniti per intervistare giovani ragazzi sul loro futuro. Johnny riceve, dopo un anno che non si parlavano, una chiamata dalla sorella, Viv.

Questa deve partire per andare ad assistere l’ex-marito, e per questo deve lasciare a casa il figlio, Jesse. Johnny si offre quindi di stare con Jesse finché la sorella non farà ritorno. Con questa esperienza Johnny non solo riprenderà contatto con il nipote, ma ripenserà anche al suo passato e al suo rapporto con la sorella.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché vedere C’mon C’mon

Joaquin Phoenix e Gaby Hoffmann in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Diversamente da quello che si potrebbe pensare dalla sinossi, C’mon C’mon non è un film né eccessivamente drammatico né particolarmente impegnativo. È invece molto intimo e toccante, e accompagna lo spettatore passo passo in una storia piccola, neanche troppo fuori dal comune, ma che ti entra nel cuore.

La regia è degna di nota: rinchiude i personaggi, con inquadrature rese ad arte e margini ristretti, in spazi piccoli e familiari. Poi li libera in spazi ampi e ariosi, con campi lunghi e lunghissimi, che abbracciano panorami urbani immensi.

Oltre ad una recitazione molto spontanea, con un Joaquin Phoenix sempre in formissima, lascia a bocca aperta la stella nascente di Woody Norman, che interpreta Jesse, che ci regala una recitazione di altissimo livello. Inoltre nel film le interviste sono a persone reali intervistate dallo stesso Phoenix, che danno ancora un tocco di autenticità a tutta la storia.

Insomma, da non perdere.

Perché non guardare questo film

Gaby Hoffmann in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Per quanto trovi che sia un film abbastanza accessibile e apprezzabile alla maggior parte del pubblico, ci sono motivi molto validi per cui potrebbe non piacervi. Anzitutto, se vi annoiano i film del genere familiare o, ancora più specificamente, quello con i rapporti fra un adulto ed un bambino, lasciate perdere. Se preferite film movimentati, con tanti colpi di scena o momenti di impatto, non è il film che fa per voi.

Insomma, per me un film assolutamente valido, ma sta a voi.

Cosa mi è piaciuto

Joaquin Phoenix in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Joaquin Phoenix. E potremmo anche chiuderla qui.

Sono sempre stregata dalla capacità di questo attore di interpretare ruoli sempre diversi e sempre convincenti (come avevo raccontato altrove). Come era stato abilissimo ad interpretare un personaggio disturbato e violento in Joker (2019), qui riprende una recitazione più intima come in Her (2015). È uno di quegli splendidi casi in cui sembra che un attore non stia interpretando una parte: Phoenix e Norman potrebbero star costruendo un bellissimo rapporto nella vita vera per quanto mi riguarda.

E parliamo di Jesse.

Un bambino, un ruolo

Woody Norman in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Di solito odio i bambini impertinenti nei film, però in questo caso la sua presenza è assolutamente funzionale alla trama, in quanto permette di fare le domande per lo spettatore. Molto delicato rappresentare un bambino non neurotipico senza dire mai esplicitamente di quale situazione si stia parlando.

Tuttavia riesce a raccontare con grande efficacia la difficoltà e i dubbi che giustamente sorgono ai genitori o agli adulti che si trovano in certe situazioni. Ma, ancora più importante, evita di rivestire la narrazione di un patetismo tipico di questo tipo di narrazioni.

Jesse è rumoroso, iperattivo, quasi estenuante in certe scene. Woody Norman è stata davvero una sorpresa: dovrei vederlo in un’intervista per capire quanto stesse recitando e quanto fosse un comportamento spontaneo, perché la sua recitazione è talmente naturale e credibile che davvero mi veniva da pensare che si fosse trovato per caso sul set. Spero che non sia una di quelle meteore di Hollywood, ma che faccia strada.

Raccontare una storia

Joaquin Phoenix in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Il modo in cui la storia è stata raccontata mi ha davvero coinvolto: quei flashback senza audio, quelle scene che sembra di guardare dal buco della serratura, sprazzi di realtà e di passato che ci vengono mostrati poco a poco, con di sottofondo la voce narrante dei personaggi.

Mi ha davvero colpito anche l’utilizzo delle favole o del punto di vista di Jesse per raccontare il passato, anche con questioni emotivamente pesanti come la condizione del padre.

Tuttavia, non sono andata fino in fondo.

Perché C’mon C’mon non mi ha preso fino in fondo

Woody Norman in una scena del film C'mon C'mon (2021) di Mark Mills, prodotto dalla A24 dal 7 aprile al cinema

Metto le mani avanti: sono ingenuamente una grande fan di quel sottogenere dei buddy movie che costruiscono il rapporto fra un adulto e una persona più giovane, di cui il perfetto esempio è sicuramente Il Grinta (2016) dei Fratelli Coen, film che ho amato per quello e per altri motivi.

Tuttavia, visto che sono ormai avvezza ai trigger emotivi dei prodotti audiovisivi, mi sono resa conto che nelle scene in cui avrei dovuto versare copiose lacrime per il comportamento di Jesse, in particolare quando non mostra di voler vedere la madre, non ero coinvolta. Nel complesso mi sono sentita più toccata dalla esasperazione degli adulti per Jesse che per l’ingenuità e la frustrazione di Jesse stesso.

Forse è una conseguenza di voler rappresentare un bambino così tanto realistico.

Oppure sono solo io.

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Coda – Quando i buoni sentimenti non bastano

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2022 per Coda (2021)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior sceneggiatura non originale
Miglior attore per Troy Kotsur

Coda (2021) è il classico film dei buoni sentimenti, nonché remake della pellicola francese La famiglia Belièr (2014), di cui condivide la trama e le dinamiche in maniera quasi identica.

Il film è diventato un caso quando qualche giorno fa ha trionfato agli Oscar, vincendo Miglior film, Miglior sceneggiatura non originale e Miglior attore non protagonista. La polemica è nata appunto intorno ai premi conquistati, con cui ha scalzato film molto più quotati.

Parlando di questa pellicola non si può infatti lasciar da parte la questione degli Oscar: anche solo candidare un film è un riconoscimento del suo valore. Quindi le pellicole candidate non possono essere considerate come le altre, soprattutto se candidate e vincitrici di premi così importanti. Non a caso per Spencer ho scritto una critica molto più analitica rispetto al solito sulla recitazione di Kristen Stewart, proprio perché è stata candidata come Miglior Attrice protagonista.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Coda

La trama di Coda (che è una sigla per indicare la comunità dei sordomuti) racconta di Ruby, diciassettenne che fa parte della famiglia Rossi, composta appunto da persone non udenti. Lei è l’unica della famiglia ad essere invece udente, e per questo si porta sulle spalle il grande peso di aiutare i suoi familiari a gestire i propri affari ed il rapporto col mondo esterno.

Il problema sorgerà quando la ragazza deciderà di partecipare ad un concorso per entrare in una famosa scuola di canto, dovendo così però abbandonare la propria famiglia.

Vi lascio al trailer per farvi un’idea.

Perché Coda non funziona

Coda è un film che può riuscire a colpirti per un solo motivo: se ti piacciono le commedie dei buoni sentimenti e riesci ad essere quindi coinvolto nella storia. Con me non è ci è riuscito: oltre ad essere un genere che non fa per me, l’ho trovata una pellicola estremamente banale.

Il film ha infatti una trama e delle dinamiche veramente scontate e di cui puoi capire l’evoluzione dal primo minuto. Non manca davvero niente: ci sono battute scialbe sui sordomuti; ci sono non uno, ma ben due montaggi musicali per far passare il tempo; e, infine, c’è una dramma spinto inutilmente in una certa direzione.

Un film costruito a tavolino per suscitare determinate emozioni, senza portare nulla di nuovo, lasciando anzi molti fili narrativi senza soluzione.

Perché Coda non è tutto da buttare

Troy Kotsur nei panni di Frank e Marlee Matlin nei panni di Jackie in una scena del film i segni del cuore, miglior film oscar 2022

Coda è un film fatto con le migliori intenzioni: riprendere il film francese che era stato tanto criticato per non aver incluso persone non udenti e per non aver dato una rappresentazione rispettosa della comunità, e portare qualcosa che sia di valore. Tuttavia, il risultato, come accennato, è davvero deludente.

Tuttavia in generale si vede che gli attori si sono davvero impegnati nei loro ruoli: sono molto in parte, nonostante non siano, per me, prove artistiche da Oscar. In particolare Troy Kotsur, che interpreta il padre di Ruby, è un buon attore comico e in certe scene ha un’espressività veramente esplosiva.

Due parole con spoiler

Emilia Jones nei panni di Ruby in una scena del film Coda (2021) in italia uscito come i segni del cuore, miglior film oscar 2022

In generale penso sia stata una buona cosa che questo tipo di film sia stato preso in mano da una persona parte della comunità rappresentata. Ha infatti portato in scena alcuni aspetti meglio di come avrebbe potuto fare una persona senza il suo tipo di prospettiva. Ad esempio, la scena a teatro quando chiaramente i genitori non possono sentire la figlia cantare. Semplice, ma efficace.

Tuttavia, che senso ha rifare un film che già di per sé aveva una trama davvero prevedibile ed era nel complesso molto mediocre? Ribadisco, onorevole provare a portare in scena una comunità poco rappresentata, ma perché non scegliere una storia più profonda e interessante, oltre che maggiormente rappresentativa della tematica?

Oltre a questo, come anticipato, alcune linee narrative non trovano un vero scioglimento: il dramma è caricato pesantemente ed il problema raccontato è reale, ma non viene mai spiegato come venga risolto. È solo una drammaticità a favore di pubblico, non per raccontare una storia con un vero significato, ma solo per farci piangere e sospirare per la dura scelta di Ruby. Scelta di cui non vediamo mai le conseguenze: come farà la famiglia Rossi a continuare a pescare senza l’aiuto della figlia? Non lo sapremo mai.

Drammaticità spicciola

Troy Kotsur nei panni di Frank e Emilia Jones nei panni di Ruby in una scena del film Coda (2021) in italia uscito come i segni del cuore, miglior film oscar 2022

La drammaticità, come anticipato, è totalmente gratuita. C’era bisogno del dramma di Ruby che non riusciva ad andare alle prove per aiutare i suoi familiari? I telefoni non esistono più per chiamarsi quando si ha un imprevisto? Ovviamente no, altrimenti il dramma dove sarebbe. Oltre a questo, che bisogno c’era di creare questo conflitto inutile fra Ruby e il suo insegnante? Perché questo sembra totalmente incapace di capire il problema evidente della ragazza?

Io sono una grande appassionata del genere teen drama, soprattutto quello più becero primi anni 2000, quindi conosco tutte le dinamiche di questo tipo di prodotti. E per me funzionano solamente quando sono messe in scena in maniera o particolarmente trash o in qualche modo originale. Non è questo il caso.

Riflessioni sugli Oscar 2022

Ferdia Walsh-Peelo nei panni di Miles e Emilia Jones nei panni di Ruby in una scena del film Coda (2021) in italia uscito come i segni del cuore, miglior film oscar 2022

Quest’anno l’Academy ha dovuto fare una scelta: decidere se premiare un messaggio politico o un film meritevole. E non è una scelta scontata, perché dà un significato del tutto diverso su cosa sia questa premiazione. Era già successo con Green book (2018), altra commedia dei buoni sentimenti che trattava il tema del razzismo nella maniera più superficiale che possiate immaginare. Quando quell’anno c’era come candidato Vice. Credo non ci sia altro da aggiungere.

In questo caso Coda aveva come concorrenti film di altissimo valore artistico: fra gli altri, Il potere del cane e Licorice pizza. E alla fine l’Academy ha deciso che era meglio premiare il film che l’avrebbe fatta apparire meglio agli occhi del pubblico, piuttosto che dare prova di essere manifestazione cinematografica seria.

Coda meritava di vincere?

Emilia Jones nei panni di Ruby in una scena del film Coda (2021) in italia uscito come i segni del cuore, miglior film oscar 2022

No, per me Coda non meritava di vincere. Non meritava neanche di essere candidato, ma se proprio avessero voluto fare i paraculi potevano candidarlo e non farlo vincere come era successo con Black Panther (2018). Invece hanno voluto spingere l’acceleratore, premiandolo per dei meriti che non aveva: non è un buon film, ha una sceneggiatura di una banalità accecante e non ha alcun merito artistico. Unica cosa che posso vagamente accettare è la vittoria di Troy Kotsur, che è stato comunque abbastanza bravo.

I film con persone con disabilità esistono. Anche bei film. Solo magari non film statunitensi e con produzioni importanti dietro. E l’unico motivo per cui Coda ha avuto questo tipo di riscontro è perché vi recitano attori sordomuti e perché è statunitense.

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Licorice Pizza – I miei uomini terribili

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Candidature Oscar 2022 per Licorice Pizza (2021)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior regista
Miglior sceneggiatura originale

Licorice Pizza (2021) è l’ultimo film di Paul Thomas Anderson e anche probabilmente una delle pellicole più strane in cui mi sia imbattuta in tempi recenti. E infatti sono in dubbio sul fatto di averne colto il vero significato.

Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Licorice Pizza

La vicenda ruota intorno a Alana, una ragazza di 25 anni interpretata dalla cantante Alana Haim, e Gary, un quindicenne interpretato dal giovanissimo Cooper Hoffman. I due intraprendono una relazione travagliata, per l’evidente gap di età, invischiandosi in continui e strani progetti commerciali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché Licorice Pizza è un film strano

Alana Haim in una scena del film Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson in sala il 17 marzo

La trama di per sé non è complessa: stringi stringi, è esattamente quanto ho detto sopra. La stranezza sono le dinamiche fra i due personaggi: ci troviamo davanti ad un interesse romantico abbastanza disturbante, da cui Alana cerca continuamente di sottrarsi andando con uomini più grandi, che puntualmente si rivelano partner terribili.

Tuttavia Gary, nonostante la giovane età, non è da meno: è un personaggio possessivo e ossessionato dalla figura di Alana, anche a livello erotico, che non accetta il fatto che lei potrebbe non accettarlo nella sua vita. Per questo le fa continuamente pressioni emotive quando la vede con altri uomini.

Da parte sua Alana continua a buttarsi in relazioni sbagliate per i più svariati motivi. Ogni volta che un uomo sembra interessante o anche semplicemente entra nella sua vita, alla fine si rivela viscido e approfittatore. E per questo Alana torna periodicamente nelle braccia di Gary e nella sua ultima impresa finanziaria.

La definizione di relazione tossica, ma con un taglio romantico che mi ha spiazzata.

Gli adulti terribili

Bradley Cooper in una scena del film Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson in sala il 17 marzo

La scena è popolata da diverse figure di adulti, che vengono soprattutto in contatto con Alana, e che cercano appunto sistematicamente di approfittarsene. Fra questi spicca Jack Holden, interpretato da Sean Penn, e Jon Peters, interpretato da Bradley Cooper, l’allora compagno di Barba Streisand. In particolare Bradley Cooper, pur nel poco minutaggio, l’ho trovato più in parte qui che in tutto The Nightmare Alley (2021).

Anche Alana è un adulto terribile: è animosa, umilia Gary quasi quanto Gary umilia lei e, come detto, si avvicina costantemente agli uomini sbagliati e alle relazioni più tossiche, rimanendone ogni volta delusa.

Un film brillante?

Skyler Gisondo in una scena del film Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson in sala il 17 marzo

Dal punto di vista della regia e della scrittura, entrambi di Anderson, nulla da dire: una regia peculiare, una fotografia perfetta, dialoghi brillanti e ben scritti.

In particolare posso fare un plauso a questo film per aver messo al centro della scena e come oggetto del desiderio una ragazza dalla bellezza non convenzionale come Alana Haim. La quale fra l’altro, nonostante fosse il suo primo film, è stata davvero convincente.

Rimango comunque ancora spiazzata da questa pellicola, forse dovendola pacificamente accettare come un’opera con un taglio profondamente realistico, che rappresenta una storia bislacca e disturbante, ma, appunto, profondamente vera.

Licorice Pizza fa per me?

Cooper Hoffman in una scena del film Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson in sala il 17 marzo

Una interessante domanda, a cui posso rispondere in negativo: probabilmente vi innamorerete di questo film per i motivi per cui io non me ne sono innamorata.

L’atmosfera nostalgica degli Stati Uniti degli Anni Settanta, quella della fine della Guerra del Vietnam e della crisi del gas del 1973: lo sfondo di tutta la vicenda e che ha fatto innamorare molti. Così gli USA del capitalismo rampante e distruttivo, che coinvolgeva anche i giovanissimi, di una realtà televisiva ormai tramontata, quasi ridicola vista oggi.

Tutto questo troverete in Licorice Pizza. Io l’ho trovato, ma non sono riuscita a farmi travolgere.