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Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.

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American Fiction – Il n**** artificiale

American Fiction (2023) di Cord Jefferson è un’opera profondamente provocatoria e satirica, che riflette sull’immagine degli afroamericani negli Stati Uniti contemporanei.

A fronte di un budget di 10 milioni di dollari, ha incassato 23 milioni in tutto il mondonon malissimo, considerato che, per esempio in Italia, è stato distribuito direttamente in streaming.

Di cosa parla American Fiction?

Thelonious Ellison, detto Monk, è uno scrittore afroamericano che non vuole essere ridotto alla sua etnia. Ma uno scherzo finito male gli farà cambiare prospettiva…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere American Fiction?

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Assolutamente sì.

American Fiction è una delle pellicole satiriche che riesce a riflettere con grande lucidità sul nuovo panorama statunitense dell’inclusione, con tutte le sue pesanti contraddizioni e ipocrisie.

Un film da leggere su più livelli, che intavola un dialogo continuo e sottilmente metanarrativo con lo spettatore, a cui richiede una visione più profonda dell’immediato impatto che si potrebbe avere ad una prima visione…

Outsider

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Monk è un outsider.

Anche la sua appartenenza etnica, il protagonista apre la pellicola con una forte provocazione, basata su una delle parole più impronunciabili ad oggi nella cultura statunitense: la cosiddetta n-word.

Già così Monk – e il film stesso – rivela l’incoerenza di fondo degli Stati Uniti contemporanei: un mondo – molto ironicamente – bianco e nero, in cui i bianchi dettano legge anche su come gli afrodiscendenti dovrebbero raccontarsi.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma Monk non ci sta.

Non volendo essere ridotto a semplice simbolo, non volendo scrivere solo per accontentare l’ignorante pubblico mainstream, il protagonista non vuole essere altro che sé stesso: uno scrittore, un intellettuale – e basta.

Ma, nonostante i suoi tentativi, la situazione è fuori dal suo controllo: nella libreria è vincolato ad essere uno dei tanti rappresentanti della cultura nera, ghettizzato in uno scaffale che vuole solo all’apparenza essere inclusivo.

Ma allora qual è l’alternativa?

Vittoria

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

La proposta vincente è quella di Sintara.

Un libro che – almeno all’apparenza – avalla tutti gli stereotipi peggiori della comunità nera, infarcendo la narrazione e i dialoghi di slang, di un inglese incredibilmente sgrammaticato, e di situazioni al limite del parodistico.

Eppure, è proprio il prodotto che i lettori sembrano desiderare: immobile davanti ad un pubblico estremamente coinvolto in questa narrazione che fino a prima aborriva, Monk capisce in quel momento qual è l’unica strada per il successo.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Eppure, tutto parte come uno scherzo.

Con dinamiche simili all’indimenticabile puntata di South Park The Tale of Scrotie McBoogerballs (14×02), Monk si avventura nella sua versione del romanzo di Sintara, in questo caso però con volontà esplicitamente provocatorie.

E invece proprio da questo romanzo parte al contempo la decostruzione e l’imprevedibile successo del protagonista, costretto a presentarsi in una versione sempre più improbabile del misterioso autore di un bestseller così deliziosamente provocatorio…

Banalizzarsi

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Ma perché Monk accetta questa nuova identità?

Parallelamente alla provocazione, American Fiction inserisce un importante elemento di realismo: il protagonista è incastrato in una situazione familiare piuttosto spinosa, fra l’infermità mentale della madre e l’imprevedibilità del fratello.

Così, schiacciato ancora una volta da quella società che lo mette sotto i riflettori solo quando si banalizza, Monk accetta a malincuore questa nuova situazione per ottenere abbastanza soldi per permettere alla genitrice di avere una vita dignitosa.

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Proprio in questa scelta, American Fiction inserisce un ulteriore livello di lettura.

Arrivando al finale, lo spettatore potrebbe rimanere con un certo senso di vuoto, come se la pellicola non si fosse spinta abbastanza in là nella sua provocazione, rimanendo fin troppo ancorata al livello del realismo.

E, invece, sta proprio qui il punto: la storia raccontata è anche troppo realistica e attuale, e non ha bisogno di nessuna esagerazione, nessun grande colpo di scena come quelle immaginate nel finale ad uso e consumo del pubblico.

E, infatti, la drammaticità di fondo è già abbastanza dolorosa.

Indistinguibili

Jeffrey Wright in una scena di American Fiction (2023) di Cord Jefferson

Il romanzo di Sintara non è banale…

…e, soprattutto, non è stato scritto per i bianchi.

L’autrice si pone come una novella Toni Morrison per raccontare una parte della realtà afroamericana ancora oggi purtroppo molto presente e che merita di essere mostrata: gli emarginati, il ghetto, la specificità linguistica quasi comica…

Ed è quindi solo un problema dei lettori più ignoranti se non sono in grado di comprendere la differenza fondamentale fra un’opera unicamente provocatoria come Fuck e uno spaccato ben più studiato come We’s Lives in Da Ghetto.

Ma è forse proprio per colpa di romanzi come questo che la comunità afroamericana viene ridotta a pochi, facili e vendibili stereotipi, per decenni parodiati, e oggi riportati in auge come racconto reale e vibrante di una fetta importante del Paese.

E così il racconto di Sintara è solo una rappresentazione molto divertente della quotidianità del ghetto, così Fuck è la graffiante storia di un criminale, e Monk può solo guardare impotente un attore che indossa una delle poche vesti accettabili per un afroamericano nell’immaginario comune:

lo schiavo.

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Lilli e il vagabondo – I terribili cani borghesi

Lilli e il vagabondo (1955) di registi vari è il quindicesimo Classico Disney e il primo uscito sotto la Buena Vista Distribution.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu il più grande incasso per la Disney dai tempi di Biancaneve e i sette nani (1937), con 6.5 milioni di dollari al botteghino.

Di cosa parla Lilli e il vagabondo?

Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?

In generale, sì.

Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche –  di cui una piuttosto inquietante…

I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.

Lilli e il vagabondo Produzione

La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.

Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…

…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.

L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.

Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.

Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.

Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.

Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.

Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.

Quadretto

La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.

L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...

Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.

Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.

E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…

…ma è davvero così?

Seme

Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.

La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.

E l’alternativa è proprio Lilli.

Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.

Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.

Ma è una calma apparente…

Intruso

Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.

La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.

Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.

Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.

Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.

Borghese

Il finale mi convince a tratti.

Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.

Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.

E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.

Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.

Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.

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Scott Pilgrim vs The World – La trasposizione perfetta

Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright è la trasposizione dell’omonimo fumetto di Bryan Lee O’Malley (2004 – 2010).

Nonostante negli anni sia diventato un piccolo cult, al tempo fu un flop commerciale: con un budget di 85 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Se non sapete niente di Scott Pilgrim vs The World continuate a leggere.

Se siete invece i massimi esperti sul tema, cliccate qui.

Guida alla visione Scott Pilgrim vs The World

Piccola guida alla visione se non vi siete mai approcciati al mondo di Scott Pilgrim vs The World.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

La trasposizione cinematografica non poteva essere messa in mani migliori.

Edward Wright al tempo era fresco dei primi due film della Trilogia del cornetto, in cui dimostrò di essere capace di portare in scena una regia dinamica ed originale, che calzava a pennello per il fumetto di O’Malley.

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E la trasposizione era tanto più difficile non solo per la lunghezza del fumetto, ma soprattutto per la natura piuttosto anomala dello stesso.

E invece il risultato fu semplicemente grandioso, con un utilizzo degli effetti speciali e una messinscena sempre vincente e che non è invecchiata di un minuto, nonostante siano colmo di scene piuttosto stravaganti e chiassose.

A cura di @lav3nd3r_boy

Scott Pilgrim è uno dei più famosi esempi di opere a metà strada tra l’immaginario occidentale ed orientale.

L’autore, Brian Lee O’ Malley, fa parte di quella generazione cresciuta sia con Batman che Dragon Ball – e questo si rispecchia nel suo modo di raccontare: non sto parlando solo della scelta di qualche inquadratura o l’aspetto super deformed dei personaggi…

…ma della capacità di mischiare scene di vita quotidiana a combattimenti sopra le righe, caratteristica tipica di diversi manga di successo anche piuttosto recenti, come ad esempio lo splatter-pulp Chainsaw Man (2022).

Passano gli anni, ma il viaggio di Scott e Ramona resta comunque un’opera che non invecchia facilmente.

E questo grazie alla sua capacità di fotografare in maniera del tutto personale quel momento di passaggio tra la fine dell’università e l’inizio della vita lavorativa, tramite la narrazione di tanti piccoli aneddoti in cui ognuno si può riconoscere.

La serie tv Scott Pilgrim Takes Off non è assolutamente quello che sembra.

La produzione Netflix è stata pubblicizzata come una riproposizione in chiave animata del fumetto, quando in realtà è uno spin-off che presenta un forte legame col film del 2010 – il cast vocale è identico – e che si basa su una sorta di what if…

Ne risulta così una serie che offre molto più spazio al personaggio di Ramona, un po’ sacrificato nel basso minutaggio della trasposizione cinematografica, e che ci regala un nuovo spunto di riflessione sulla relazione con Scott.

Insomma, da vedere, ma per ultima.

Doppio

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Michael Cera è semplicemente perfetto per la parte.

Eppure l’attore non fece altro che riportare in scena il ruolo che lo rese famoso pochi anni prima – Bleeker in Juno (2007) – riuscendo però ad essere comunque incredibilmente convincente per uno Scott cinematografico che rischiava moltissimo di essere banalizzato.

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

E invece Wright riuscì a condensare in appena novanta minuti di pellicola il dramma di un personaggio fumettistico lungo sei albi, grazie anche ad una regia particolarmente indovinata che contribuisce al senso di spaesamento del protagonista.

E infatti il taglio registico è il vero punto di forza del film.

Frenetico

Michael Cera, Mary Elizabeth Winstead e Ellen Wong in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Scott Pilgrim vs The World non è semplicemente un fumetto.

Oltre alle contaminazioni videoludiche – parte essenziale del tessuto narrativo – che si trovano per esempio nei piccoli tag che accompagnano ogni personaggio, la graphic novel è caratterizzata da un ritmo forsennato, in cui si passa violentemente e improvvisamente da una vignetta ad un’altra.

E dopo aver già dimostrato in due occasioni – sia in Shaun of the dead (2004) sia in Hot Fuzz (2007) – quanto fosse un maestro di una regia incalzante ma sempre chiarissima nella messinscena, Edward Wright era la scelta più naturale per questa insidiosa trasposizione.

In particolare, in questo caso l’autore della Trilogia del cornetto sperimenta con dei trucchi registici per dare una sorta di continuità fittizia alla narrazione, con un proto-piano-sequenza in cui i personaggi attraversano la scena e sbucano nella successiva.

E non è neanche l’elemento più vincente.

Prova

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

È estremamente raro per un’opera cinematografica riuscire a sopportare la prova del tempo quando imbottita di effetti speciali.

E se solitamente si citano capolavoro dell’effettistica come The Thing (1982), Scott Pilgrim vs the World può essere annoverata fra i migliori utilizzi di CGI del nuovo millennio: sarà per come gli effetti siano perfettamente assimilati alla scena, sarà perché sono non sono mai effettivamente eccessivi

Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

…in ogni caso la resa è semplicemente magnifica e mai fuori luogo, e rende con una precisione e una credibilità sorprendente intere vignette ma senza sembrare mai pedante, anzi facendo non poche scelte narrative per condensare una storia così ampia in un minutaggio così ridotto.

E questo accade in particolare per tre personaggi.

Diverso

Mary Elizabeth Winstead in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Una delle figure più sacrificate è sicuramente Ramona.

Non avendo a disposizione abbastanza tempo per raccontarsi, spesso la Ramona Flowers cinematografica viene fraintesa come il più classico esempio di pixie girl, ovvero di personaggio femminile che vive unicamente in funzione dell’evoluzione del protagonista maschile.

Mary Elizabeth Winstead e Michael Cera in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

In realtà, Ramona va ben oltre quel ruolo: la graphic novel si prende diverse pagine per raccontarne il complesso dramma, il suo essere dipendente dal suo complesso passato che sembra definirla, nonostante spesso si trattasse di relazioni di brevissima durata e di poca importanza.

Wright tratteggia una Ramona Power il più possibile sfaccettata, riuscendo quantomeno ad definirne i contorni: il personaggio passa dall’essere la ragazza misteriosa e desiderabile, alla figura tormentata dal suo passato, per arrivare alla medesima conclusione della controparte fumettistica.

E forse era impossibile pretendere di più…

Ruoli

Brie Larson in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Ma il personaggio che più di tutti viene ridotto a mero ruolo è Envy.

Nel fumetto si trova un’abile costruzione emotiva che racconta più ampiamente il suo passato e il come è arrivata ad essere cattiva, portando il lettore a detestare il suo personaggio, per poi sferrare la zampata finale che invece rimette in discussione tutta la sua personalità.

Nel film invece il suo dramma è appena accennato, e si mette in scena la sua parte invece più negativa e da femme fatale, raccontandola come un nuovo ostacolo nella relazione fra Ramona e Scott, ma andando ben poco oltre a quello, anzi facendola facilmente scomparire di scena.

Jason Schwartzman in una scena di Scott Pilgrim vs The World (2010) di Edward Wright

Gideon invece è un discorso a parte.

Wright ha cercato di ammorbidire un personaggio che nel fumetto era più una presenza, un’ombra costantemente in agguato nella vita di Scott, ma che appariva effettivamente solo nel finale in cui rivelava il suo piano – ben più complesso e ben più crudele rispetto al film.

La pellicola invece fa il verso al fumetto – in cui Scott pensava che Gideon fosse un produttore discografico – e lo si collega strettamente a tutta la vita del protagonista, in modo che la sua sconfitta non liberi solamente Ramona, ma anche i suoi amici.

Una riscrittura forse azzardata, ma che funziona.

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Dumbo – La favola triste

Dumbo (1941) di Ben Sharpsteen è il quarto classico Disney, distribuito per recuperare le perdite di Fantasia (1940).

In effetti, a fronte di un budget molto ridotto – meno di un milione di dollari – incassò 1,3 milioni.

Di cosa parla Dumbo?

Il nuovo arrivato del circo, il piccolo Dumbo, viene discriminato e maltrattato per le sue grandi orecchie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dumbo?

Dumbo e il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Assolutamente sì.

Anche per la durata veramente ridotta – poco più di un’ora – Dumbo è una visione piacevolissima, nonostante la storia davvero straziante in più momenti, che cerca però di smorzare la tragedia sul finale, inserendo degli intermezzi comici – o presunti tali.

Anche se fu concepito come un prodotto dal basso budget, Walt Disney non smise ancora di sorprendere con la sua animazione splendida pur nella sua semplicità, continuando sulla strada vincente di animare personaggi animali in maniera credibile e mai forzata.

Insomma, da non perdere.

Dumbo tecnica animazione

Dumbo nacque come un Roll-A-Book.

Questo prototipo di giocattolo conteneva otto disegni e poche righe di narrazione, con Dumbo accompagnato da un pettirosso piuttosto che dal topolino Timoteo, e fu portato all’attenzione di Walt Disney nel 1939.

Il progetto fu subito accolto con entusiasmo da Disney, anche se inizialmente intese il progetto come un cortometraggio: la sua natura cambiò non solo quando si capì la necessità di una maggiore lunghezza per riuscire ad adattare la storia…

…ma soprattutto per venire incontro alle perdite finanziarie di Fantasia, il cui insuccesso fu dovuto anche all’impossibilità di distribuirlo in Europa per via dell’inedita situazione bellica.

Infatti Dumbo fu un progetto low-budget: si può ben notare dalla semplicità del design dei personaggi, dagli sfondi poco dettagliati, e da un certo numero di momenti riciclati dell’animazione interna al film.

Inoltre, insieme a Biancaneve (1937), è l’unico Classico Disney con gli sfondi creati con gli acquarelli.

Anche se fu nel complesso un successo, ci furono diversi problemi nella produzione e nella distribuzione.

Anzitutto, il 29 Maggio 1941, dopo che una prima animazione approssimativa del film era stata compiuta, diversi animatori appartenenti al sindacato Screen Cartoonists Guild cominciarono uno sciopero che si concluse solo dopo cinque settimane.

Inoltre la RKO fu inizialmente molto reticente nel distribuire il film nella sua lunghezza di soli 64 minuti, chiedendo inutilmente a Disney di allungarlo o distribuirlo come cortometraggio, dovendo poi cedere e portarlo in sala nella forma proposta.

Umano

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Uno dei grandi pregi di Dumbo è la gestione dei personaggi animali.

Altre produzioni molto meno ispirate avrebbero reso gli elefanti umani in tutto per tutto, facendoli camminare su due zampe e facendogli utilizzare le altre due come normali braccia, magari anche vestendoli di abiti borghesi.

Al contrario, nel quarto Classico Disney si punta moltissimo nell’animare la parte più attiva dei pachidermi: la loro proboscide, che diventa di fatto un braccio che in maniera del tutto credibile interagisce con l’ambiente circostante, afferrando, indicando e persino aggredendo.

Dumbo e la signora Jumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Tuttavia, le dinamiche sociali sono strettamente umane.

Fin dall’inizio si svela tutta la cattiveria del gruppo delle elefantesse, che prima umiliano la Signora Jumbo già solo per il fatto di essere incinta – con un sottosenso piuttosto impegnativo – e a cui basta un elemento fuori posto – le grosse orecchie – per cominciare a bullizzare il nuovo venuto.

Piuttosto audace per una produzione di questo tipo raccontare un lato ben meno felice della realtà circense, in cui gli animali non solo erano sfruttati, ma anche lasciati liberi nelle mani degli avventori, per poi essere puniti quando solo cercavano di difendersi.

E dare il via alla scena più triste di tutte…

Solo

Il topolino Timoteo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Una volta poste le basi di una situazione ostile e immobile, viene introdotto il motore della vicenda.

Ovvero, il topolino Timoteo.

Si tratta del secondo piccolo aiutante che appare in un Classico di casa Disney, dopo l’ottima sperimentazione con il Grillo Parlante in Pinocchio (1940) e che anche in questo caso diventa elemento fondamentale per la storia, che guida il protagonista nella sua evoluzione.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

È infatti opera di Timoteo lo spettacolo con protagonista Dumbo, e sempre Timoteo lo incoraggia costantemente, anche quando viene umiliato e ridotto a pagliaccio, in una condizione di evidente inferiorità, per cui neanche viene considerato un vero elefante.

Ed è a questo punto che si trova la parte più iconica e altresì più enigmatica del film.

Intermezzo

Cosa rappresenta la scena degli Elefanti Rosa?

Secondo alcuni, è un semplice virtuosismo artistico in una pellicola, che per il resto non brilla particolarmente per l’innovazione, per altri una palese introduzione dell’elemento degli stupefacenti in un prodotto per bambini – niente di strano dopo il ben più problematico Pinocchio.

Quello che è indubbio è che ci troviamo davanti all’ennesima dimostrazione della maestria animata della Disney delle origini, capace di impreziosire una storia così in piccolo con una sequenza rimasta indelebile nell’immaginario di diverse generazioni di bambini.

Tanto più che la sequenza sfoggia una tecnica che sembra un retaggio di Fantasia stessa, con un sublime incontro fra musica e animazione, quasi dialogando con lo stesso pubblico di bambini, probabilmente attonito davanti a questa strana parata di inquietanti elefanti rosa.

Scioglimento

I corvi in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Nonostante la breve lunghezza, Dumbo mostra una struttura narrativa piuttosto solida.

Dopo una robusta introduzione, i primi passi del protagonista nella sua salita e caduta precipitosa, viene lasciato adeguato spazio per sciogliere la vicenda in maniera convincente e con non pochi inciampi dello stesso protagonista lungo la strada.

L’unico labile collegamento della parte degli Elefanti Rosa è che rende possibile a Timoteo di iniziare a sospettare le doti incredibili di Dumbo – il saper volare – con il piacevole inserimento dei corvi, che sembrano un po’ fare eco ai pensieri dello spettatore.

Il topolino Timoteo e Dumbo in una scena di Dumbo (1942) di Ben Sharpsteen

Inoltre, la canzoncina Giammai gli elefanti volar costruisce un simpatico climax verso la conclusione, con anche l’inserimento di una apparentemente innocua bugia bianca, che però sembra quasi rivoltarsi contro Timoteo proprio nel momento più sbagliato…

…ma che invece porta ad un finale completo e soddisfacente.

Ritroviamo le elefantesse che, dopo essere state punite per la loro cattiveria, sono felici sul treno del circo, con in coda la Signora Jumbo finalmente riabilitata e libera dalla prigionia, mentre guardia orgogliosa il suo bambino, diventato ormai la nuova star del circo.

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Avventura Azione Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Edward Wright Film Racconto di formazione

Baby Driver – Una sgommata al ribasso

Baby Driver (2017) di Edward Wright rappresenta finora il più grande successo commerciale del regista.

Infatti, a fronte di un budget di 34 milioni di dollari, ne incassò 226 in tutto il mondo.

Di cosa parla Baby Driver?

Baby è un ragazzo con una dote incredibile: essere capace di destreggiarsi per le strade di Atlanta come un maestro della fuga.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Baby Driver?

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

In generale, sì.

Per quanto sia un prodotto che apprezzo veramente poco, Baby Driver nel complesso è un discreto film di intrattenimento, con una sceneggiatura molto abbozzata, ma complessivamente non peggiore di molte altre pellicole del genere di riferimento.

Personalmente a me dispiace vedere il grande successo di questo lungometraggio, quando lo stesso – per regia, e, soprattutto, per scrittura – è il film più debole della filmografia di Wright, che per fortuna si è ripreso col successivo progetto, Last night in Soho (2021).

Ma se questo film vi farà avvicinare alla sua produzione, sarò solo che contenta.

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Per quanto l’idea centrale della pellicola – la musica diegetica che dà il ritmo alla scena – sia apparentemente molto creativa…

…personalmente non mi ha particolarmente soddisfatto.

Purtroppo, mettendo Baby Driver a confronto con il resto della produzione di Wright, il risultato mi sembra veramente debole: le sequenze in cui il protagonista si muove a ritmo di musica, con elementi della scena che richiamano la canzone che sta ascoltando…

Ansel Elgort in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

…comparate anche solo alla scena di Don’t stop me know di Shaun of the dead essere (2004), mi sembrano più il lavoro di un regista che sta cercando di imitare lo stile dell’autore della Trilogia del cornetto più che di Wright stesso.

E se l’aspetto idealmente più interessante della pellicola non mi ha convinto…

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Baby non lo è solo di nome.

Wright cerca di tratteggiare un protagonista estremamente positivo – anche troppo: il personaggio di Ansel Elgort sembra costruito a tavolino per intercettare il gusto del pubblico di riferimento di ragazzini – e pure riuscendoci, visti gli incassi.

Questo aspetto tuttavia si traduce in una totale mancanza di evoluzione del protagonista, che semplicemente viene coinvolto in un’organizzazione criminale contro la sua volontà, senza mettere in mai in dubbio la propria moralità, anzi.

E questa infantilizzazione è particolarmente esplicata dal costante contrasto con i personaggi negativi – che meritano un discorso a parte – e le loro azioni cattivissime, che costringono il protagonista a mettersi costantemente davanti ad immagini di morte e di violenza.

Così anche il vestiario è indicativo: colori candidi e desaturati, che ne definiscono l’aspetto ed il carattere genuino e illibato, fortemente contrastante con i costumi invece chiassosi, volgari e al limite dello stereotipato degli antagonisti.

Ma parliamo di loro.

Ansel Elgort e Jon Hamm in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Gli antagonisti di Baby Driver sono tagliati con l’accetta.

Vengono raccontati come i più classici gangster ora con un passato problematico e oscuro, con la bocca piena di parolacce, ora con l’atteggiamento da gradassi, distruttivo e spaccone, motore dell’involuzione della vicenda stessa.

Insomma, un gruppo di villain che appaiono quasi ridicoli nel loro eccesso, mai veramente raccontato in maniera comica, anzi prendendosi drammaticamente sul serio, con dialoghi e battute frutto di una scrittura estremamente stereotipata e facilona.

Ansel Elgort e Kevin Spacey in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Ma la parte peggiore è Doc.

Il personaggio di Kevin Spacey dovrebbe essere un proto-Padrino, che si distingue nettamente dal resto dei criminali per un’intelligenza indubbiamente superiore, ma non mancando della stessa spietatezza che lo porta a minacciare Baby.

Tuttavia, questo elemento si perde in una totale incoerenza sul finale, quando invece Doc, senza nessun motivo – se non la a quanto pare inevitabile tenerezza della giovane coppia – diventa alleato del protagonista.

Ovviamente, mancando di qualunque evoluzione in questo senso.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

Inizialmente pensavo di non sopportare né il personaggio di Debora né la sua relazione con Baby per il carattere completamente inconsistente del suo personaggio, protagonista di una storia d’amore nata sostanzialmente dal nulla e diventata strappalacrime nel giro di poche scene.

Mi sbagliavo.

Ansel Elgort e Lily James in una scena di Baby Driver (2017) di Edward Wright

L’elemento veramente più grave di Debra è proprio come apparentemente dovrebbe rappresentare l’alternativa morale di Baby, un sogno irrealizzabile che lo porta infine a prendersi le sue responsabilità e consegnarsi alla polizia.

Al contrario, Lily James è semplicemente l’interesse amoroso del protagonista che doveva essere inserito nella storia da contratto, ma che diventa semplicemente un’ulteriore sottolineatura dell’intoccabile bontà del personaggio.

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The World’s End – Stanchezza

The World’s End (2013) di Edward Wright è il terzo e conclusivo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto, dopo Shaun of the dead (2004) e Hot Fuzz (2007).

A fronte di un budget di più del doppio rispetto al precedente – 20 milioni di dollari – fu un mezzo disastro commerciale, con 46 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla The World’s End?

Gary King è un bambino troppo cresciuto che rimane ancora ancorato alle dinamiche della sua adolescenza, mentre tutti gli altri sono andati avanti senza di lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The World’s End?

Dipende.

A differenza dei suoi predecessori, The World’s End manca della brillantezza umoristica e narrativa tipica di Wright, che ebbe la sua ultima dimostrazione in Scott Pilgrim vs. the World (2010), per poi rivolgersi a pellicole più drammatiche.

Nella conclusione della trilogia troviamo un umorismo molto più caciarone, basato su dinamiche che alla lunga appaiono quasi ripetitive, e con una morale che mi ha davvero poco convinto.

Insomma, se volete concludere la trilogia, dategli una chance, ma non aspettatevi molto.

Indietro

Gary King è rimasto indietro.

Tutto il racconto introduttivo, che cerca debolmente di ricordare quello del precedente film, mostra un sogno meraviglioso della fine dell’adolescenza, il punto di arrivo di una storia di successi, che però è risultata infine monca.

Uno smacco nella memoria del protagonista, che tenta disperatamente e furbescamente di risolvere, andando a raccattare un improbabile gruppo di amici d’infanzia ormai cresciuti e con molte responsabilità sulle spalle.

Da qui parte un inevitabile e – almeno idealmente – comico contrasto.

Ma quanto può durare?

Statico

La linea comica principale della pellicola è debole.

O, almeno, lo è considerando i precedenti.

Anche gli altri due capitoli si basavano sul contrasto fra il protagonista e il mondo che lo circondava, ma erano anzitutto caratterizzati da una verve umoristica molto più originale e brillante…

…e, soprattutto, non si trattava di un contrasto statico: come in Shaun of the dead il protagonista passava dall’essere un personaggio passivo ad uno attivo e risolutore, allo stesso modo in Hot Fuzz Nicholas Angel trovava infine una nuova identità.

E in The World’s End?

Nel terzo capitolo Gary King è costantemente portato al centro della scena come elemento comico in maniera quasi esasperante, con i suoi comprimari che lo detestano apertamente e che criticano ogni suo atteggiamento.

E, in aggiunta, King non cambia mai – ed è una grande mancanza: se fino adesso Wright ci aveva abituato ad evoluzioni graduali ed organiche, in questo caso l’apice del personaggio è nella sua rivelazione finale, che però non determina un cambiamento.

Anzi…

Inverso

Il mondo si adegua a Gary King.

E vive una sorta di involuzione.

Gli alieni conquistatori cercano di imporre sulla Terra un miglioramento consistente, così che la stessa possa diventare un pianeta papabile per far parte di un’organizzazione intergalattica, e non rimanere l’anello debole della catena.

Una presenza significativa per l’umanità, che ha potuto ispirarsi a questa cosiddetta Rete per progredire nel suo avanzamento tecnologico, pur dovendo inconsapevolmente sacrificare molte persone in funzione di robot.

E qui si trova l’altra debolezza della pellicola.

Per quanto le morali del resto della trilogia fossero fondamentale piccole e intime, nondimeno erano di valore.

Nel caso di The World’s End invece assistiamo ad una risoluzione abbastanza discutibile, in cui Gary King sembra disposto a sacrificare secoli di avanzamento tecnologico in funzione di un proprio capriccio personale.

Infatti, infine il protagonista sembra l’unico ad aver guadagnato dal nuovo status delle cose, diventando il leader di un gruppo di Vuoti, andando così a realizzare il suo sogno adolescenziale di gloria e di riconoscimento sociale.

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Hot Fuzz – L’omicidio quotidiano

Hot Fuzz (2007) è il secondo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright, in questo caso parodia del genere action poliziesco.

A fronte di un budget di appena 8 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 80 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Hot Fuzz?

Nicholas Angel è il miglior poliziotto di Londra. E, proprio per questo, viene trasferito ad una apparentemente monotona cittadina di campagna…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hot Fuzz?

Assolutamente sì.

Personalmente apprezzo Hot Fuzz anche di più dello già splendido Shaun of the dead (2004): pur nel suo surrealismo, questo secondo capitolo racconta delle dinamiche grottescamente reali e proprie di comunità grette e chiuse in sé stesse.

Particolarmente brillante riportare in scena gli stessi attori, ma con dei ruoli diversi, in particolare un Simon Pegg in massima forma, che segue un percorso del tutto opposto rispetto al suo precedente personaggio, dimostrando la sua grande versatilità attoriale.

Insomma, da non perdere.

Inverso 

Angel sulle prime appare artificioso e irreale.

Ma è del tutto voluto.

Wright prende le mosse dai più classici incipit del cinema del genere che parodizza – l’action e il poliziesco – raccontando fin da subito un personaggio che appare invincibile, il potenziale protagonista di un’avventura adrenalinica…

…in realtà accogliendoci con un aggancio piuttosto frenetico che ci accompagna al cambio di scenario forzato, con una splendida sequenza dal sapore agrodolce, in cui tutti sembrano essersi coalizzati contro il nostro sfortunato protagonista.

In questo senso, Simon Pegg prende un percorso inverso rispetto a Dawn of the dead.

Infatti, se nel precedente capitolo il protagonista era immobile al punto che gli altri personaggi cercavano di spronarlo a smuoversi, in questo caso si tratta invece di un personaggio fin troppo attivo – e che, per questo, viene castigato.

Contrasto

Angel viene forzato in una realtà ostile e aliena.

Infatti è impossibile per un personaggio così scaltro e costantemente all’erta come il protagonista, con un senso di giustizia e dell’ordine ferreo ed imprescindibile, integrarsi in un contesto basato sul piegare le regole al fine della conservazione della comunità.

Non a caso, basta una serata al pub di paese per portare dietro le sbarre metà della gioventù locale, azione del tutto inutile in una situazione politica talmente precaria che basta una notte perché tutto lo sforzo venga vanificato…

Ma il contrasto sta anche nella stessa identità di Angel.

Il suo personaggio sembra veramente uscito dall’action più becero, ma è anche come se fosse stato prosciugato di tutto il possibile divertimento e fascino che deriverebbe dal genere, risultando in un uomo definito solo dalle regole e dalla rigida disciplina.

Non a caso, un primo punto di arrivo della sua evoluzione è l’accettare di aprirsi all’esperienza dell’avventura più esageratamente adrenalinica, con la visione di due classici del genere: Bad Boys II (2003) e Point Break (1991).

Per questo, la crescita dei due protagonisti è reciproca.

Superficie

Il mantenimento dell’ordine cittadino è basato totalmente sull’apparenza.

E Danny ne è la principale vittima.

La sua storia familiare racconta proprio come questo ragazzino orfano di madre sia rimasto sotto il rigido controllo paterno, forte del lutto incolmabile appena subito, per poi farsi totalmente abbindolare dalla narrazione di cui Frank Butterman è il principale artefice.

Per questo, Angel è la sua guida.

Seguendo il suo mantra di ferro per cui sta sempre succedendo qualcosa, il protagonista porta l’attenzione su dei comportamenti apparentemente innocui, ma che in realtà, come si scoprirà nel finale, nascondono molto di più.

Una rigidezza che deve ancora di più scontrarsi con l’ottusità della polizia e della comunità in generale, che sembra incapace di comprendere – ma anche solo di notare – quello che sta sostanzialmente accadendo sotto i loro occhi.

Ma anche Angel pecca di superficialità.

Ovvio

La soluzione al mistero sembra già scritta.

Ogni indizio punta sull’ambigua figura di Simon Skinner, che fin dalla sua prima apparizione sembra raccontarsi come il principale artefice della lunga serie di incidenti che avvengono nella città.

E la motivazione non potrebbe che essere che la più classica trama politica, in cui un importante membro della comunità trama alle spalle della stessa per potersi arricchire, operando delle eliminazioni sistematiche senza aver paura di essere scoperto.

Ma è troppo ovvio.

Wright raccoglie la più classica dinamica del genere – il colpevole più ovvio non è mai il vero colpevole – e la riscrive in una soluzione del mistero surreale e parossistica, che però racconta al contempo anche una realtà più credibile di quanto si potrebbe pensare.

Di fatto la setta segreta che tira le fila della città nell’ombra non è altro che l’esasperazione di una tendenza molto tipica delle realtà provinciali di dimostrarsi incredibilmente gelose e insofferenti per ogni elemento estraneo che possa turbare il quieto vivere.

E questa risoluzione non può richiedere che un eroe.

Eroe

Per risolvere la situazione, Angel non può solo essere un poliziotto.

Deve diventare un eroe.

E questa trasformazione avviene proprio grazie a Danny, che costantemente lo forza per far coincidere la sua idea di lavoro di poliziotto con l’immaginario del tipo di film che Hot Fuzz stesso parodizza…

finché non convince anche Angel a farne parte.

Un cambiamento fondamentale che avviene proprio quando finalmente il protagonista sceglie non solo di aprirsi con Danny, ma anche di lasciarsi guidare verso una visione del mondo e della loro professione più avvincente e meno rigida.

In questo modo, Angel può riscoprirsi l’eroe della storia, che salva la città in maniera piuttosto rocambolesca, rispondendo ad una violenza davvero al limite dell’assurdo con un eroismo ancora più esagerato.

Cosa ci insegna Hot Fuzz?

La morale di Hot Fuzz è sottile quanto gratificante.

Nel finale Angel decide di rimanere a Gloucestershire proprio perché capisce che la bellezza del suo lavoro se la può creare lui stesso, vivendo ogni giorno come una piccola avventura piena di sorprese.

Ad un livello più generale, Wright ci invita a riscoprire la bellezza di quella quotidianità che ci sembra così monotona, proprio con l’idea che anche da poco possano nascere storie incredibili…

…proprio come da poco budget possono nascere piccoli cult indimenticabili.

Hot Fuzz ketchup

Nella gestione della violenza si racchiude la poetica stessa di Hot Fuzz.

Nonostante si tratti di una commedia, il film non si risparmia di mostrare diversi momenti apertamente splatter di cui i più eclatanti sono sicuramente la morte di Tim Messenger e il dolorosissimo incidente di Skinner.

Allo stesso modo, Wright si diverte moltissimo a giocare sulla finzione.

Oltre alla apparentemente cruentissima scena in cui Danny si infilza l’occhio, indimenticabile la scena in cui Cartwright vuole vendicare la morte del compagno quando questo è solo coperto di salsa al pomodoro.

Splendide gag che raccontano la sublime ironia del film, che riesce a stupire nella sua combinazione fra la violenza più scioccante e l’ironia più surreale.

Hot Fuzz Zombie

Hot Fuzz racchiude dei simpaticissimi rimandi al precedente Shaun of the dead.

Anzitutto, quando Angel cerca di spiegare a Danny come qualcosa sta sempre succedendo intorno a loro, fa il verso alla scena del pub nel precedente film in cui gli stessi attori fantasticano sulle vere identità degli avventori.

Allo stesso modo, Nick Frost prende il posto di Simon Pegg nella scena delle staccionate.

Se infatti nel primo film Shaun millantava di saper saltare perfettamente di giardino in giardino, ma alla fine cadeva al primo ostacolo, in questo caso tocca a Danny distruggere l’eroismo del momento.

Infine, piccoli riferimenti agli zombie si vedono nei vari scambi fra Skinner e Angel all’interno del supermercato, in cui il protagonista addita i sottomessi del direttore e questi si comportano in maniera molto simile a degli zombie senza cervello…

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Shaun of the Dead – Un mostruoso immobilismo

Shaun of the Dead (2004), noto in Italia col nome di La notte dei morti dementi, è il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del cornetto di Edward Wright.

A fronte di un budget molto contenuto – 6 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo al botteghino, con 30 milioni di incasso.

Di cosa parla Shaun of the dead?

Shaun è un quasi trentenne che sembra essersi intrappolato in una vita ripetitiva da cui non riesce ad uscire. Ma qualcosa cambierà per sempre il suo modo di pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shaun of the Dead?

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Assolutamente sì.

Shaun of the dead è un’elegantissima parodia del cult di George Romero, Dawn of the dead (1978), riuscendo a riscrivere la satira del maestro dell’orrore ad un livello più piccolo, in un intimo e umoristico coming of age.

E, uscendo in un periodo in cui spadroneggiava lo spoof movie di scarsissimo valore alla Scary Movie, Edward Wright riuscì ad imporsi con il primo capitolo di un piccolo cult cinematografico che riuscì a rimanere nel tempo.

Insomma, è ora di cominciare la Trilogia del Cornetto!

Immobile

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è immobile.

La prima scena racconta come Shaun si trovi in uno stallo, in cui tutti i personaggi sembrano incastrati: nonostante il protagonista abbia una relazione pluriennale con Liz, nonostante sia ormai già un adulto con una vita autonoma…

…comunque la sua esistenza ruota attorno a poche, stringenti abitudini, in cui sembra essersi auto-confinato senza possibilità di uscita, al punto da non essere neanche capace di portare il suo fidanzamento al livello successivo – o anche solo a liberarsi dell’ingombrante presenza di Ed.

Ma anche il resto del mondo è immobile.

gli zombie in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Una rapida carrellata ci mostra un ventaglio di situazioni piuttosto comuni – il supermercato, l’attesa dell’autobus… – i cui protagonisti sembrano intrappolati in una routine rigida e ripetitiva, di cui non sembrano neanche consapevoli.

Un accenno che fa il verso in maniera piuttosto intelligente a Dawn of the dead, in cui gli zombie rappresentano proprio la spersonalizzazione di una società votata solo al consumismo, che si rifugia in dei non luoghi apparentemente accoglienti e confortevoli.

Proprio come il Winchester.

Indifferente

Bill Nighy in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Il protagonista è anche indifferente.

Nonostante intorno a lui diverse situazioni già raccontino la tragedia che sta per avverarsi, per la maggior parte del tempo – proprio come sarà per il protagonista di Scott Pilgrim vs The World (2010) – Shaun è totalmente ignaro…

…oppure, anche quando minimamente se ne accorge, si lascia facilmente distrarre da un nuovo stimolo, dall’apparizione di un nuovo personaggio, non riuscendo realmente a star concentrato sul momento, o a capire verso cosa veramente dovrebbe orientare le sue attenzioni.

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Infatti, sono gli stessi personaggi che devono continuamente ricordargli quello che deve fare, nonostante per il protagonista siano molto spesso, per l’appunto, degli impegni di nessuna importanza.

Ma la mancanza di uno di questi – l’appuntamento con Liz – si risolve in effetti nel primo vero cambiamento della vita del protagonista – la rottura – proprio quando Shaun dimostra, ancora una volta, di non sapersi adattare alle nuove situazioni.

Regressione

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Ma la rottura non porta ad un miglioramento.

Al contrario, sfocia in un’ulteriore regressione.

Shaun si fa coinvolgere ancora di più da Ed nella sua stasi di immobilismo e gioventù senza limiti, e, nonostante i suoi timidi tentativi di rimettersi in piedi – banalmente, scriverlo sulla lavagnetta del frigo – sembra che poco nella pratica si concretizzi.

Tanto più che, il giorno dopo, Shaun è ancora una volta del tutto inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno, nella sua ingenua passeggiata verso il supermercato, con gli zombie che hanno già invaso le strade…

Simon Pegg in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Eppure, è proprio questa l’occasione per cambiare.

Shaun e Ed ignorano deliberatamente gli ammonimenti del governo di rimanere chiusi in casa, e scelgono invece prima di combattere direttamente gli zombie – anche con un piglio molto giocoso e ironico – e quindi di mettersi, per la prima volta, in prima linea.

Eppure, anche in questa occasione sembra che Shaun percorra sempre i soliti pattern: il suo piano, per quanto intraprendente, prevede di ritornare in luoghi noti e familiari, rimettere idealmente e facilmente insieme la propria vita come se nulla fosse cambiato...

Ma ormai non è più possibile.

Scoperta

L’ultimo atto è il momento della scoperta.

Come Shaun programmava di salvare e, in qualche modo, di riappropriarsi di un amore materno univoco, si trova invece ancora una volta l’ingombrante presenza del patrigno, nonostante in questo caso ci sia un motivo effettivo per volersene liberare…

E invece questa è proprio l’occasione in cui Phil confessa al figliastro quei sentimenti che da soli riescono a risolvere il loro rapporto burrascoso, in cui l’uomo voleva solamente il bene di Shaun, che lo accetta come effettiva figura paterna solo quando ormai è troppo tardi.

Ma è anche l’atto in cui Shaun si riscopre.

Simon Pegg e Nick Frost in una scena di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

Se all’inizio era solo un personaggio incolore incapace di fare anche il minimo passo avanti nella sua vita, con il progredire della storia Shaun diventa sempre più abile nel gestire una situazione di estremo pericolo, prima riuscendo a sconfiggere fisicamente gli zombie…

…poi diventando autore della messinscena per integrarsi all’interno della nuova comunità di zombie senza farsi scoprire – ricordando alla lontana il finale di Terrore dallo spazio profondo (1978) – per riuscire così effettivamente a raggiungere l’ambito pub.

Ed è proprio qui che tutto va contro ai piani originali.

Cambiamento

Nonostante niente vada come sperato, Shaun al Winchester si riscopre ancora di più un leader, capace, nonostante i diversi tentativi di David di screditarlo, come l’unico capace effettivamente di portare il gruppo al sicuro e di allontanare il pericolo.

E, anche quando il piano non va ancora una volta come sperato, ormai è tutto diverso: se lo Shaun di un tempo avrebbe gestito in maniera ancora peggiore la situazione, lo Shaun del presente è l’unico che riesce a non farsi mordere.

Simon Pegg e Nick Frost nel finale di Shaun of the dead (2004) o L'alba dei  morti dementi, primo capitolo della Trilogia del Cornetto di Edward Wright

E infine, cosa è cambiato?

Una breve ellissi temporale racconta come il mondo non sia finito con la presunta apocalisse zombie, ma che invece gli stessi siano diventati un oggetto di intrattenimento perfettamente integrato nel mondo umano.

E così anche Shaun ha trovato finalmente il suo equilibrio: non un cambio radicale, ma una vita tranquilla e un po’ più variegata con Liz, mantenendo comunque viva l’amicizia con Ed, ora confinato al giardino nella sua nuova versione zombie.

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The Fabelmans – La magia del cinema povero

The Fabelmans (2022) è l’ultima opera di Spielberg, e quella più personale della sua produzione.

Più che un film, un commosso e sentito omaggio alla sua famiglia.

Purtroppo, a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 45…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Fabelmans (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale
Miglior attore non protagonista a Judd Hirsch
Migliore attrice non protagonista a Michelle Williams
Migliore colonna sonora
Migliore
scenografia

Di cosa parla The Fabelmans?

Un giovanissimo Sammy viene portato per la prima volta al cinema. Un’esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fabelmans?

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prima di vedere The Fabelmans, avevo dei grossi dubbi, dal momento che fa parte di un genere – quello del biopic – molto standardizzato nelle tematiche e nelle dinamiche, che gioca spesso su trigger emotivi facili e scontati, e che per questo non apprezzo particolarmente.

Non è il caso di The Fabelmans.

Vedendo questa pellicola si ha la costante sensazione di trovarsi davanti al racconto di una storia vera, che non cerca di farti piangere o emozionare per forza, ma piuttosto di coinvolgerti e intrattenerti attraverso dinamiche piacevoli, divertenti e genuine.

E con la splendida mano autoriale di Spielberg.

Una storia vera…

Paul Dano e Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Ovviamente non potremo mai sapere quanto Spielberg abbia inventato e quanto ci sia di vero in The Fabelmans.

Ma, se si è inventato tutto, ci ha ingannati perfettamente.

La pellicola è quasi una raccolta di aneddoti, senza focus così forte sull’aspirazione del protagonista di diventare un regista, né foreshadowing volti a celebrare il suo genio. Al contrario, un racconto vero e sentito della nascita della sua passione, ma all’interno di una storia più ampia e sentita su una famiglia imperfetta.

Per tutta la durata non sapevo cosa aspettarmi, perché non c’era niente di veramente scontato.

…per un cinema vero

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Nonostante appunto non sia del tutto il punto centrale della pellicola, il racconto dello sbocciare della passione del cinema per il protagonista è la parte più affascinante della storia.

Spielberg è riuscito a mostrarci, attraverso dinamiche credibili e interessanti, come riusciva a girare piccoli film muti, facendo leva sulla sua incredibile creatività e ingegnosità per creare degli effetti speciali caserecci, ma di grande effetto.

E mostrando già la sua capacità nel dirigere gli attori e l’occhio registico che stava sviluppando per i particolari da mettere in risalto, riuscendo a dare tridimensionalità e profondità alle scene e alle storie che portava in scena.

Fra l’altro con una perfetta corrispondenza fra la tecnica mostrata nei film amatoriali, e quella che caratterizza il film stesso.

Raccontarsi

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Raccontare sé stessi non è mai facile.

Tanto più quando sei uno dei più grandi maestri del cinema.

Tuttavia, mai nella pellicola ho sentito che Spielberg volesse in qualche modo autocelebrarsi. Al contrario, mi è sembrato che volesse mettere in scena proprio lo sbocciare della sua passione e di come effettivamente avesse cominciato a guardare il mondo con l’occhio della macchina da presa.

Davanti a questo ottimo risultato, non posso che fare un paragone con un’altra opera di taglio autobiografico di recente produzione: Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu. Per quanto mi renda conto che si tratta di due film molto diversi, in entrambi il regista si propone di mettere in scena la sua vita e la sua arte.

E, come Iñárritu si è decisamente troppo sbilanciato in una fragile – e pomposa – celebrazione della sua opera, Spielberg ha meglio raccontato la sua passione, lasciando al pubblico il giudizio.

A dimostrazione proprio di come raccontarsi in maniera genuina e senza stare sulla difensiva era non solo fattibile, ma auspicabile…

Una madre (troppo vera)

Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Come fondamentalmente tutto il film è assolutamente godibile, ho trovato leggermente più pesanti le sequenze dedicate a Mitzi, la madre del protagonista. Più che altro perché la stessa, ad uno spettatore esterno, appare un personaggio molto egoista e di fatto negativo, e non così facilmente perdonabile.

Al contrario, Sam – e di conseguenza il regista – la perdona totalmente.

Sicuramente un indizio del sentimento profondo e sincero di Spielberg verso la madre – fra l’altro venuta a mancare qualche anno fa. Tuttavia, una rappresentazione che ho trovato poco credibile e interessante, con uno scioglimento quasi troppo semplicistico.

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Paul Dano, Michelle Williams e Mateo Zoryon Francis-DeFord in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

The Fabelmans presenta diversi elementi di ironia che scherzano anche su tematiche non facilissime da gestire: la morte e l’ebraismo.

Si ironizza facilmente e in maniera molto genuina sulla morte della nonna a metà film, e altrettanto sulle tradizioni ebraiche e le loro stranezze – che appaiono tali a chi non ne fa parte. Sulla stessa linea, appaiono quasi grotteschi – ma molto credibili – i comportamenti dei compagni di scuola di Sam verso la sua religione, l’assurda relazione con Monica, l’esilarante personaggio del prozio Boris…

Oltre a questo, assolutamente indovinata la scena su del colloquio con John Ford, con una simpatica trovata metanarrativa a chiusura della pellicola.