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Harry a pezzi – La decostruzione

Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.

Di cosa parla Harry a pezzi?

Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Harry a pezzi?

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.

Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.

Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.

Partire dalla finzione…

Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donna che scende furiosamente da un taxi.

Ma subito la scena muta.

Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…

…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.

…e arrivare alla realtà

Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.

Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.

In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…

…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.

Rubare l’identità

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.

Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propria moglie.

Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.

Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.

Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.

Giù la maschera!

Woody Allen in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.

Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.

I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.

Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.

Impossibile scappare

Tobey McGuaire in una scena di Harry a pezzi (1997) di Woody Allen

Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.

Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.

Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…

…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.

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High School Musical – Un fenomeno generazionale

High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.

A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.

Di cosa parla High School Musical?

Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere High School Musical?

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Assolutamente sì.

A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.

Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.

Insomma, da recuperare.

Qualcosa di nuovo

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I never opened my heart
to all the possibilities

Non mi sono mai aperto a tutte le possibilità

Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.

I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.

E il loro duetto è determinante per più motivi.

I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.

Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.

Fuori dagli schemi

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Just keep ya head in the game

Devi stare concentrato sul gioco

Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.

Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.

Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.

Zac Efron in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.

In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.

Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.

Troy e Gabriella provino

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma arrivare alle audizioni non basta.

Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.

In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…

Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.

E così accade l’inaspettato.

Una villain magnetica

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

I’ve never had someone as good for me as you

Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.

Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls (2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.

Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.

Ashley Tisdale e Lucas Grabeel in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.

Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.

Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.

Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…

Lo status quo

Stick to the stuff you know

Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.

In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce, della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.

Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.

Zac Efron e Monique Coleman in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Ma la ribellione non può essere fermata.

Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.

In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.

E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.

Crescere

Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

There’s not a star in heaven
That we can’t reach

La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.

Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.

Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical (2006) di Kenny Ortega

Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.

Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.

A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.

High School Musical sequel

High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.

Ma vale la pena di vederli?

In generale, sì.

Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 2 (2007) di Kenny Ortega

High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.

La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada (2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.

Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.

Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.

Zac Efron e Vanessa Hugens in una scena di High School Musical 8 (2006) di Kenny Ortega

Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.

Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.

Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.

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Elemental – L’insostenibile leggerezza dell’inesperienza

Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.

Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.

Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Elemental?

Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…

Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:

Vale la pena di vedere Elemental?

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

In generale, sì.

Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.

Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.

Comunque, vale una visione.

La barriera all’ingresso

Ember e i genitori in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.

I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieri che cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.

In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.

Ember e il padre in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città – o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.

Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.

E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.

Creazione e distruzione

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.

Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.

In realtà Ember ha molto più da offrire

Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.

Persino con un elemento così opposto come l’acqua.

Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.

Favola e realtà

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.

Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.

Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.

Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.

Wade e Ember Elemental

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.

Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to lovers molto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.

Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.

Ember e Wade in una scena di Elemental (2023) di Peter Sohn

Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.

Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.

Ma non è tutto da buttare.

Elemental animazione

L’animazione di Elemental è impeccabile.

Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.

Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.

Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.

Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.

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Radio Days – Le voci del passato

Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.

Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.

Di cosa parla Radio Days?

Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Radio Days?

Mia Farrow in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

In generale, sì.

Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.

Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.

Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…

La radio che unisce

Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.

Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.

Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…

Una risata ci seppellirà

Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.

Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).

Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.

In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti (1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.

La drammaticità di fondo

Dianne Wiest in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.

La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.

E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.

Mia Farrow e Wallace Shawn in una scena di Radio Days (1987) di Woody Allen

Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…

…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…

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Dodgeball – Apologia dell’uomo medio

Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber, in Italia noto anche come Palle al balzo, è un classico della commedia Anni Duemila.

Al tempo fu anche un grande successo commerciale: con un budget di appena 20 milioni, ne incassò quasi 170 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dodgeball?

Peter Lafleur è proprietario di una piccola palestra vicina alla bancarotta. Ma c’è ancora una speranza per salvarla…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dodgeball?

Ben Stiller e Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Assolutamente sì.

Oltre ad essere un classico dell’inizio del Nuovo Millennio, Dodgeball è in generale una pellicola piacevole ed accessibile, che gioca molto con gli stereotipi del genere di riferimento, facendosi portatore di messaggi non scontati.

Infatti, in un’epoca in cui vivevamo immersi in una grassofobia paragonabile ad un’isteria di massa, questa piccola commedia prese una posizione intelligente e non scontata sull’argomento.

Insomma, avete tutti i buoni motivi per recuperarvela.

Uomini comuni…

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Peter è un uomo come tanti.

Dodgeball sceglie intelligentemente di non rendere il suo protagonista uno stereotipo, ma di tratteggiare un personaggio anche abbastanza tridimensionale: un leader con un gran cuore, ma con anche una variegata vita sessuale.

Peter è talmente nella norma che sembra che Vince Vaughn stia interpretando sé stesso, mancando anche di un mordente comico che mostrerà in altre commedie più scollacciate come Due single a nozze (2005).

Così anche tutti i personaggi che compongono la sua squadra sono raccontati secondo la stessa linea: figure piuttosto comuni con problemi altrettanto comuni, come la conquista della ragazza di turno o il riuscire ad arrivare a fine mese.

Non a caso la loro palestra si chiama Average Joe, che significa letteralmente Joe Medio.

…e un villain esagerato

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

I picchi di follia del film sono tutti sulle spalle di White Goodman.

In Dodgeball Ben Stiller porta in scena sostanzialmente il gemello cattivo del suo personaggio in Zoolander (2001): entrambi sono incredibilmente sopra le righe e hanno una visione del mondo limitata alla realtà opprimente in cui vivono.

Ma, a livello più sottile, White è un personaggio quasi tragico, che odia sé stesso e che trasmette questo sentimento anche ai suoi sottoposti, stressando all’inverosimile il suo corpo per cercare di raggiungere – e ribadire – un certo status.

Ben Stiller in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Ma il suo ego è talmente fragile che basta una battuta per metterlo fuori gioco, basta una sconfitta insignificante per portarlo all’autodistruzione, a fare del male a sé stesso ed essere incapace di vivere al di fuori dei due estremi: l’obesità impossibile e il bodybuilding isterico.

E questo è tanto più indicativo considerando il suo rapporto incredibilmente tossico con il cibo, soprattutto quello che fa ingrassare, di cui si priva in maniera quasi violenta, ma che rimpiange al punto da utilizzarlo per masturbarsi – con un’evidente citazione alla scena iconica di American Pie (1999).

Contro la diet culture

Vince Vaughn in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Soprattutto nel suo finale, Dodgeball si impegna a portare un messaggio positivo per nulla scontato per l’epoca.

Del tutto negativa è la rappresentazione della Globe Gym, un tempio del fitness che è lo specchio del suo stesso fondatore, basato su una concezione dell’essere in forma non solo esagerata, ma proprio dannosa e legata solo all’idea della bellezza e dello status sociale.

Lo si nota in particolare nello spot di White Goodman che apre la pellicola, che spiega come la grassezza e la bruttezza siano delle malattie genetiche, e che, di fatto, è solo colpa nostra se non ci odiamo abbastanza da fare qualcosa al riguardo.

Questa narrazione è del tutto ribaltata, tramite un parallelismo piuttosto funzionale, dallo spot della Average Joe sul finale, che rassicura sul fatto che andiamo bene così, ma che se vogliamo perdere qualche chilo e essere più in salute, possiamo venire alla sua palestra.

Evoluzione e involuzione del femminile

Ben Stiller e Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il racconto del femminile in Dodgeball merita un discorso a parte.

Di per sé Kate è una donna molto piacente, e che anche per questo vive delle situazioni drammaticamente comuni per le donne di oggi e di ieri: essere costantemente sminuita, considerata solo un pezzo di carne e mai presa seriamente per la sua posizione professionale.

Ma è anche un personaggio combattivo, che non si lascia vincere dalle squallide avances né di Peter – che mette subito al suo posto dicendo di essere specializzata in casi di molestie – né soprattutto di White – a cui risponde proprio con la violenza fisica dopo aver ricevuto attenzioni non richieste.

Christine Taylor in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Più in generale, Kate si rifiuta di essere ridotta a trofeo per i personaggi maschili, come esplicitato dalla minaccia di White

Your gym, your life and your gal are gonna be mine.

La tua palestra, la tua vita e la tua donna saranno miei.

scegliendo infatti di far parte della squadra di Average Joe non per le richieste di Peter, ma perché vuole vendicarsi del torto imperdonabile – e su più livelli – di White.

Ma non è finita qui.

La commedia scorretta

Dodgeball è indubbiamente una commedia scorretta.

E questo si traduce anche in scelte di ironia e rappresentazione che non toccano i picchi ben più problematici di altri prodotti del periodo – come l’assai criticato Amore a prima svista (2001) – ma, al contempo, che a volte risultano quasi contraddittorie.

Infatti, se da una parte troviamo una sessualizzazione del personaggio femminile principale solo nella sua prima apparizione – quando si vedono prima le gambe che lei – al contempo in più punti sembra che la regia voglia compiacere lo sguardo maschile, mettendo le classiche donnine ipersessualizzate in scena.

Vince Vaugh in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Al contempo si respinge lo stereotipo della ragazza considerata streotipicamente più mascolina – e quindi lesbica – perché capace in un ambito maschile, non riducendola a trofeo per la vittoria del protagonista sul finale, ma facendole rivendicare la sua sessualità senza vergogna.

Così il personaggio di Fran, la più classica rappresentazione della donna bruttissima, diventa l’interesse amoroso di Owen, ribaltando agilmente lo stereotipo, come poi si farà anche nell’ottimo She’s the man (2006).

E, per chiudere, troviamo la battuta proprio più scorretta dell’intera pellicola, quella legata al personaggio della ragazzina trans che, per via degli steroidi che assume per la transizione, provoca la squalifica della sua squadra e viene per questo bullizzata.

Insomma, Dodgeball è un incontro fra tendenze veramente molto diverse.

La conquista graduale

Chuck Norris in una scena di Dodgeball (2004) di Rawson Marshall Thurber

Il mio rapporto con Dodgeball è veramente peculiare.

Se infatti film come Zoolander e Bad Teacher (2010) riescono a conquistarmi fin dalla prima inquadratura, Dodgeball mi cattura scena dopo scena, battuta scorretta dopo battuta scorretta, sorpresa dopo sorpresa.

La storia è infatti piuttosto semplice e tipica – fra l’altro con una scansione anomala dei tre atti, con l’ultima parte che si mangia gran parte della sezione centrale – sulle prime parte quasi in sordina e senza mostrare subito le sue carte.

Ma quando comincia a costruire una narrazione con snodi di trama non scontati e sempre piuttosto spassosi, un villain incredibilmente iconico e uno scontro finale perfettamente orchestrato – quasi un duello western – non posso che innamorarmi.

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Crimini e misfatti – Il meta-dramma

Crimini e misfatti (1989) è una delle prime pellicole in cui Woody Allen, fra la commedia e il dramma, spazia in riflessioni esistenziali e metanarrative.

A fronte di un budget medio – 19 milioni di dollari, circa 46 oggi – fu un pesante flop al botteghino, con un incasso che fu quasi pari alle spese di produzione.

Di cosa parla Crimini e misfatti?

La pellicola segue due storie parallele e collegate in maniera piuttosto peculiare: da una parte Cliff Stern, un regista di documentari che vive di sogni, e dall’altra Judah Rosenthal, un dottore di successo ma con un oscuro segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimini e misfatti?

In generale, sì.

Per quanto sia nel complesso una visione piacevole e anche genuinamente divertente, Crimini e misfatti rappresenta un tentativo a mio parare ancora acerbo di accostare all’interno della stessa pellicola una profonda tematica esistenziale alla tipica comicità di Woody Allen.

Ne risulta una riflessione esistenziale, metanarrativa, che anticipa il più riuscito Match point (2005) e che tenta ancora una volta di mischiare il dramma con la commedia – una sperimentazione che avrà il suo picco in Melinda e Melinda (2004) – in con un prodotto non del tutto riuscito.

Il dramma invisibile

Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

In un clima festoso e apparentemente confortante, un angoscioso flashback ci svela l’oscuro segreto del protagonista.

Parte così un inseguimento alla scheggia impazzita, a quella donna così isterica e incontrollabile che potrebbe non solo distruggere la vita matrimoniale di Judah – omen, nomen – ma anche la sua credibilità sociale.

Con questa vicenda dai risvolti quasi thriller, Crimini e misfatti racconta anzitutto un dramma esistenziale legato ad un personaggio di successo e con una vita apparentemente desiderabile, in realtà con diversi scheletri nell’armadio.

Ma il peggio deve ancora arrivare.

La ricercata colpevolezza

Martin Landau e Jerry Orbach in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

L’uccisione della donna appare quasi inevitabile.

Ma è la stessa a far intraprendere al protagonista un’angosciosa riflessione sulla colpa e sulla punizione, andando anche a ripercorrere l’educazione religiosa che l’aveva convinto che ad un crimine seguisse sempre un giusto castigo.

Proprio per questa convinzione Judah – in una dinamica che per certi versi mi ha ricordato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – sembra quasi che voglia farsi scoprire, rischiando più volta di rovinare un piano dall’ideazione praticamente perfetta.

Cinema e religione

Woody Allen in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

La storia di Cliff viaggia parallela a quella di Judah.

Il collegamento più immediato è la totale simmetria fra i due drammi: come Judah tempo prima, anche il personaggio di Allen si trova invischiato in una storia amorosa e adultera che sembrerebbe risolutiva del suo insoddisfacente matrimonio.

Se questa tematica di per sé non è niente di nuovo per la produzione di questo regista, il collegamento più interessante è quello metanarrativo.

Per quanto i due personaggi non si conoscano fino alla fine, in realtà Cliff vede la storia di Judah grazie ai diversi titoli che visiona con la nipote durante la pellicola – in ordine, Il signore e la signora Smith (1941), Il fuorilegge (1942), Happy Go Lucky (1943) e L’ultimo gangster (1937).

Woody Allen e Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

Per questo l’incontro finale è fondamentale.

In un’amara riflessione, Judah racconta a Cliff il suo dramma personale nell’essere colpevole, ma non punito, andando quindi a vanificare tutte le sicurezze morali che avevano definito la sua vita fino a quel punto.

E, proprio davanti alla replica di Cliff, che cerca di ricondurre la storia a degli stilemi narrativi fittizi e cinematografici, l’altro gli ricorda che la realtà – purtroppo – funziona diversamente, e non è possibile avere sempre un finale positivo, o anche solo soddisfacente.

In questo modo, anche se indirettamente, il personaggio di Woody Allen si rende conto che le sue convinzioni per cui Halley non avrebbe mai premiato il borioso e insopportabile Lester, in realtà si sono rivelate illusorie e derivanti proprio dai film che tanto amava, distrutte davanti alla più amara realtà che ha dovuto sopportare.

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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Hannah e le sue sorelle – Una famiglia a pezzi

Hannah e le sue sorelle (1986) è una delle commedie più conosciute della produzione di Woody Allen, godendo fra l’altro di un cast piuttosto nutrito di star – o future tali – fra cui Carrie Fisher, Michael Caine e Diane West.

Fu anche uno dei più grandi successi economici della produzione di Woody Allen: con un budget di circa 6,4 milioni di dollari – circa 18 milioni ad oggi – incassò ben 40 milioni – circa 110 milioni ad oggi.

Di cosa parla Hannah e le sue sorelle?

La storia ruota intorno alle turbolente vite sentimentali di Hannah e delle sue due sorelle, April e Lee, che si intersecano in maniera piuttosto inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hannah e le sue sorelle?

Mia Farrow in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

In generale, sì.

Hannah e le sue sorelle si va ad incasellare in quel tipo di commedia della produzione di Woody Allen non particolarmente originale nelle tematiche, ma piacevole da fruire, nonché elegante e curata nella messinscena.

I suoi grandi punti di forza sono il cast di grandi attori – quell’anno, fra l’altro, ampiamente premiati agli Oscar – e l’irresistibile ironia di Woody Allen stesso, che, come tipico delle sue commedie, è il punto focale della comicità della pellicola.

Insomma, nel complesso ve la consiglio.

L’inizio di un amore

Mia Farrow e Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

L’incipit di Hannah e le sue sorelle racconta uno dei temi preferiti di Allen: un amore impossibile.

La voce fuori campo dell’ancora sconosciuto Elliot ci accompagna alla scoperta di Lee e dei suoi sentimenti segreti quanto problematici – niente di meno che per la giovane sorella della moglie.

Tutto sembra essere apparecchiato per lo svolgersi di uno struggente dramma romantico a lieto fine: entrambi sono ingabbiati in relazioni a loro dire insoddisfacenti, e sembrano invece ritrovarsi negli interessi intellettuali comuni.

Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Ma questa non è una qualunque commedia romantica.

Come aveva già sperimentato sia in Io e Annie (1977) e Manhattan (1979), Allen sceglie un taglio più amaramente realistico: per quanto Elliot si racconti di essere perdutamente innamorato di Lee e di volerla salvare da Frederick, in realtà è divorato dall’angosciante prospettiva di ferire Hannah.

E la troppa attesa preclude per sempre i rapporti.

Alla fine, Lee salva sé stessa: si lascia alle spalle la problematica relazione con Frederick – che era più un padre che un compagno – ed evita di affiancarsi nuovamente ad un uomo così distante da lei per età e per affinità.

Il ritaglio comico

Woody Allen in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

La storia dei Mickey è quella che ho più apprezzato della pellicola.

Con questo personaggio Woody Allen riesce a mantenere la comicità surreale tipica soprattutto della sua prima produzione: un incurabile ipocondriaco, tormentato da un’ansia costante e quasi grottesca.

Tramite un inaspettato crescendo drammatico, sembra veramente che i più tragici sogni del protagonista si siano avverati, e che la morte sia veramente venuta a bussargli alla porta, tanto da immaginarsi l’infausto annuncio del dottore.

Ma ancora più inaspettata – e, per questo, irresistibile – è la crisi esistenziale che lo assale, portandolo a riflettere sulla sua vita e il suo matrimonio finito, ricercando una fede in cui rifugiarsi, con un’ironia che già aveva sperimentato in Prendi i soldi e scappa (1969).

E poi c’è Holly.

Il lato debole

Mia Farrow, Barbara Hershey e Dianne Wiest in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Holly, è a mio parere, la storia più debole del terzetto.

La debolezza risiede nella difficoltà che ho trovato nell’empatizzare con il personaggio: una bisbetica insoddisfatta che insegue amori impossibili e sogni irrealizzabili, ma sembrando più un peso per le sue sorelle che altro.

Ho trovato altresì piuttosto antipatica la sua scelta di umiliare la sorella con una sceneggiatura che svelasse la fallacia del suo matrimonio, idea per fortuna messa da parte e che conduce il personaggio ad un – a mio parere – davvero improbabile lieto fine.

Proprio per il tipo di commedie con finali piuttosto amari tipici della produzione di Allen, ho trovato quasi fuori luogo come Holly e Mickey si ritrovano, arrivando nel giro di poco tempo anche a sposarsi, a fronte di un primo appuntamento divertente quanto rivelatorio della loro incompatibilità.

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Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.