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Peter Pan (2003) – Dalla parte di Wendy

Peter Pan (2003) di P. J. Hogan è l’adattamento più recente e pedissequo dell’opera omonima di J. M. Barrie, molto più anche del Classico Disney del 1953.

Fu purtroppo anche un flop commerciale piuttosto disastroso: a fronte di un budget di 130 milioni, ne incassò appena 122, rimanendo comunque nei cuori degli spettatori ancora oggi.

Di cosa parla Peter Pan (2003)?

Londra, inizio Novecento. La giovane Wendy si trova costretta a crescere, ma le viene offerta una via d’uscita piuttosto interessante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan (2003)?

Jeremy Sumpter in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Assolutamente sì.

Questa pellicola mi è sempre rimasta nel cuore e posso dire felicemente che mi ha accompagnato nella crescita: la vidi da bambina, da adolescente, e l’ho rivista ora da adulta, ogni volta percependola in maniera assolutamente differente.

Peter Pan è infatti una pellicola estremamente trasversale.

Per i suoi aspetti giocosi e favolistici può coinvolgere facilmente i più piccoli, può emozionare gli adolescenti che si possono rivedere nei protagonisti, ma anche gli adulti, con una riflessione sulle bellezze e le amarezze del diventare grandi…

Dalla parte di Wendy

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uno degli aspetti più vincenti della pellicola è la riscrittura del personaggio di Wendy.

Nelle opere originali – sia la pièce teatrale, sia nel romanzo derivativo – Wendy è un personaggio passivo, che viene costantemente ricondotto al ruolo della madre – per quello che voleva dire essere tale nell’epoca rappresentata.

E questo era proprio il primo ostacolo della trasposizione.

Come nella storia di P. J. Hogan Wendy più che madre dei bimbi sperduti diventava la loro balia e domestica – cucina, li mette a letto, li accudisce, Peter compreso – nel Peter Pan del 2003 si sceglie di ricondurre il ruolo della madre invece alla raccontastorie, soprattutto nel gioco dei ruoli fra lei e Peter.

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Al contempo, il dramma della crescita è principalmente sulle sue spalle.

Nel contesto storico raccontato, diventare adulta per una donna era un passaggio fondamentale quanto difficoltoso, in cui si doveva sottostare a precise aspettative ed obblighi, per mettersi sul mercato e maritarsi al più presto.

È quindi è piuttosto comprensibile che Wendy si lasci abbastanza facilmente lusingare dalle promesse di Peter – oltre ad essere totalmente ammaliata da lui fin dal primo incontro. Wendy di fatto scappa dalle responsabilità che le sono crollate addosso all’improvviso, e sceglie di rimanere per sempre bambina e felice.

Ma non è tutto oro quel che luccica…

Una crescita dolce e amara

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood, Freddie Popplewell e Harry Newell in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Wendy è totalmente rapita – in tutti i sensi – dalla vita di Peter, fatta di continue avventure in un mondo pieno di creature fantastiche e uscite da un libro delle favole – praticamente la materializzazione di tutti i suoi sogni.

Ma Wendy non può non crescere.

Da preadolescente comincia inevitabilmente a sentire quei primi pruriti, che non riesce del tutto a comprendere, ma che sa che saranno più chiari quando sarà grande. In sostanza, Peter Pan parla della maturazione sia emotiva che sessuale di Wendy – e, in parte, anche di Peter.

Una maturazione che la protagonista sente non solo come necessaria, ma anche tutto sommato più auspicabile rispetto all’eterna giovinezza di Peter. E questo nonostante sia allo stesso tempo consapevole di cosa significa essere adulti.

Mrs. Darling racconta infatti alla figlia il lato più amaro della crescita: dover mettere da parte i sogni, chiuderli in un cassetto, ma mantenerli ancora nel proprio cuore, pur con sofferenza – proprio quello a cui Peter non vuole e non può rinunciare…

Un personaggio tragicomico

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood e Ludivine Sagnier in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Peter Pan è un personaggio complesso, con diverse chiavi di lettura.

Rappresenta di fatto la giovinezza eterna, con le sue luci e le sue ombre: una perpetua spensieratezza – che gli permette di essere leggero e quindi di volare – ed avventure fantastiche, che farebbero la gioia di ogni bambino.

Ma è anche chiudere le porte alle felicità che solo un’effettiva maturazione può portare, anzitutto l’amore romantico, ben diverso dal semplice affetto dei propri genitori, e che Peter scopre proprio grazie a Wendy.

Un altro lato piuttosto drammatico – più volte affrontato nelle opere originali – è che questa eccessiva spensieratezza si accompagna anche ad una memoria fragilissima, che porta Peter a dimenticarsi continuamente delle sue stesse avventure e, potenzialmente, anche di Wendy stessa…

O a diventare come Uncino.

Il dramma di Uncino

Jason Isaacs in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uncino è un personaggio speculare e parallelo a Peter Pan.

Un adulto pieno di rabbia e malignità, che odia Peter perché rappresenta tutto quello che lui ha ormai da tempo perduto. Al contempo, si rende conto che sia lui che Peter sono privi di un elemento fondamentale, anche se per motivi diversi.

Infatti Uncino, nella sua astuzia e malizia, vuole far paura a Peter quando capisce che anche lui sta vivendo il suo stesso dramma – non essere amati. E quello che gli racconta è per certi versi quello che succede effettivamente nel finale del romanzo: Peter si dimentica di Wendy e la ritrova adulta e sposata.

E glielo racconta così abilmente perché è proprio la stessa situazione in cui si trova lui stesso, la stessa consapevolezza che ha ormai da molto tempo, e che infine lo porta ad arrendersi, a rinunciare alla sua stessa vita…

Come Wendy salvò Peter

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Quando Uncino lo minaccia di un futuro senza Wendy, senza amore e senza affetti, Peter è inevitabilmente a terra, vinto.

Per questo Wendy riesce a salvarlo, promettendogli che, anche se le loro strade si separeranno, lei continuerà comunque ad amarlo, come suo primo ed unico amore. Per questo quel bacio rappresenta il momento di passaggio per entrambi.

Wendy accetta la sua maturazione sessuale ed emotiva, capisce in quale direzione la porteranno queste nuove sensazioni che la stanno travolgendo. Al contempo Peter conosce una felicità nuova, regalata non solo dalle emozioni di questa spensierata giovinezza, ma anche da altri sentimenti finora conosciuti.

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Perché allora alla fine Peter e Wendy si separano?

Anche se Peter rimarrà per sempre un ragazzino, in qualche modo è diventato comunque un po’ più grande: ha capito meglio le sue scelte di vita, le gioie – la spensieratezza, la mancanza di responsabilità – e le amarezze – non avere l’affetto di una famiglia o l’amore di Wendy.

Ma la stessa Wendy è maturata: ha abbracciato questi nuovi e strani sentimenti, ed è pronta ad esplorarli come giovane donna. Ed è diventata anche abbastanza matura da capire le amarezze della vita di Peter, dicendo in un certo senso addio alla sua stessa infanzia.

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Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Super Mario Bros. – Il film – Bastava poco…

Super Mario Bros. – Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic è un titolo già di per sé abbastanza esplicativo.

Ma, in altri termini, è anche molto probabilmente il più grande incasso dell’anno: con un budget di 100 milioni di dollari, ne ha incassati 470 in sole due settimane.

Di cosa parla Super Mario Bros. – Il film?

Mario e Luigi sono due fratelli aspiranti idraulici, che trovano un passaggio che porta in un regno magico, ma anche pieno di insidie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super Mario Bros. – Il film?

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Dipende.

Ed è un enorme dipende.

Se siete anche minimamente appassionati dei giochi platform e dei vari titoli di Supermario, resterete molto facilmente abbagliati dalla bellezza delle animazioni e dei riferimenti inseriti all’interno della pellicola.

Se invece non avete il minimo interesse per questi temi, anzi vi danno pure un po’ fastidio questo tipo di argomenti e le trasposizioni videoludiche in genere, vi sentirete con ogni probabilità dei pesci fuor d’acqua.

Io vi ho avvisato.

Un’animazione perfetta

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Finora non avevo visto nessun titolo della Illumination.

E sono rimasta letteralmente a bocca aperta.

Gli autori di questo film sono riusciti perfettamente a riportare in scena personaggi che già da anni hanno la loro versione 3D, ma senza farne una copia carbone, ma piuttosto arricchendo il loro character design.

E così la finezza nella gestione dei particolari dei personaggi e delle ambientazioni, la potenza delle animazioni, e pure una regia piuttosto indovinata, hanno reso i personaggi e gli ambienti vivi, materiali, reali.

E non è l’unico pregio.

La gestione dei ruoli

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Era piuttosto importante sia per la robustezza della narrazione, sia per il coinvolgimento dello spettatore, gestire in maniera ottimale i ruoli di personaggi.

Soprattutto Mario e Peach.

Mario parte come un personaggio molto vicino allo spettatore, con cui è facile empatizzare: cerca di inseguire il suo sogno, nonostante sia da tutti considerato un perdente.

E per questo (ri)scopre il mondo di gioco insieme a noi, e con noi si emoziona, si stupisce di tutte le stranezze che si trovano davanti, e riesce piano piano, e in maniera assolutamente credibile, a diventare l’effettivo eroe.

Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Discorso diverso per la Principessa Peach.

Anzitutto interessante l’idea di mantenere il suo character design sostanzialmente intatto, riuscendo comunque a farla passare da figura canonicamente passiva (soprattutto nei primi giochi) ad attiva e molto presente sulla scena.

Una costruzione complessivamente intelligente, che riesce ben a contestualizzare il suo personaggio e le sue abilità senza che questo appaia forzato, e senza doverla far diventare più protagonista di quanto fosse necessario.

Parlando invece della costruzione narrativa…

Bastava così poco…

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Analizziamo la trama.

Il primo atto è complessivamente solido: conosciamo il protagonista e l’antagonista, in particolare il primo con la sua piccola avventura urbana. Poi, appena Mario conosce la Principessa Peach, vi è un momento di passaggio fondamentale in cui il protagonista deve convincerla delle sue capacità.

Ma è molto debole.

Sembra che Mario impari ad essere un eroe nel giro di una giornata, pur mantenendo una certa fallibilità essenziale per il proseguo della storia e della sua maturazione. Ma il vero problema è che Peach sceglie di portarlo con sé per motivi non proprio chiari, dal momento che anche in seguito non ha così tanta fiducia in lui.

Mario e Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Sembra più che lo scelga come compagno di viaggio per aiutarlo nel suo percorso di crescita, ma senza che ci siano delle basi effetti per il loro rapporto. Bastava così poco per rendere Mario più convincente o indicare meglio il loro legame in quanto umani…

Così anche la parte centrale in generale non è stata sfruttata a dovere: sarebbe stato molto più equilibrato inserire qualche tappa in più, magari coinvolgendo Donkey Kong. E anche quest’ultimo funziona a metà: molto ben realizzato lo scontro con Mario, meno il rapporto che dovrebbe crearsi fra i due.

Lo stesso finale si poteva gestire meglio, in particolare rendendo meglio il piano di Peach, che è forse la parte meno credibile di tutta la pellicola: non esiste una vera costruzione del suo rapporto con Bowser, ne è chiaro come riesca ad ottenere il fiore per liberarsi.

Al contrario, gli ultimi momenti della pellicola sono davvero ben gestiti.

Appunto, bastava poco per fare un prodotto veramente buono.

Rendere il videogioco in Supermario film

Portare sullo schermo un videogioco senza sembrare dozzinali non è per nulla semplice, e si sprecano gli esempi in questo senso.

Super Mario Bros. rischia diverse volte di eccedere nel citazionismo, ma nel complesso è un aspetto ben gestito, soprattutto per la ricca presenza dei personaggi sullo sfondo, delle vere chicche per i fan.

Al contempo, la scena della corsa di Mario e Luigi per andare al lavoro è semplicemente perfetta nel raccontare un gioco platform, fluida e naturale nelle dinamiche.

Per non parlare di tutta la parte di Donkey Kong, in cui ogni appassionato del genere può facilmente rivedersi.

Ci sarà un seguito del Super Mario Bros il film?

La prospettiva di un sequel è praticamente certa, soprattutto visto il riscontro incredibile che questo prodotto sta ricevendo al botteghino.

La seconda scena post-credit che introduce Yoshi è un buon punto di partenza per ampliare e rinnovare il gruppo di personaggi, oltre alla probabile introduzione di Wario, già vociferata.

Inoltre, il mondo e i personaggi sono così vari che ci sono anche delle ottime basi per creare un seguito, anche con una storia abbastanza analoga, magari scritta un po’ meglio…

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Kiki – Consegne a domicilio – Una piccola storia

Kiki – Consegne a domicilio (1989) è uno dei prodotti meno noti di Miyazaki, e anche quello che personalmente apprezzo di meno – all’interno di una produzione di opere meravigliose, beninteso.

Un prodotto che confermò l’andamento positivo delle opere di questo regista in ambito internazionale: a fronte di 6,9 milioni di dollari (800 milioni di yen), ne incassò 41,8 in tutto il mondo, al pari del precedente.

Di cosa parla Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki è una giovane strega di appena tredici anni, che si imbarca nel suo anno di formazione, pronta ad affrontare un mondo del tutto nuovo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Come anticipato, non è esattamente fra i miei preferiti della produzione di Miyazaki: fra tutti, è quello che mi sembra il meno ispirato e il meno interessante. Quasi un esercizio di stile, che conferma gli ottimi passi avanti a livello di animazione e tecnica, e al contempo muove i primi passi verso altre direzioni meno esplorate finora.

Nel complesso un prodotto piacevole, che vive più di piccoli archi narrativi che di una vera e propria storia unitaria. Fra l’altro storyline a volte pure difettose dal punto di vista della credibilità delle dinamiche rappresentate…

Insomma, se volete approcciarvi per la prima volta a Miyazaki, non cominciate da qui.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Kiki – Consegne a domicilio il pericolo è medio.

Ascoltando il doppiaggio italiano ci troviamo di fronte alle solite forzature, costruzioni sconclusionate e frasi artificiosissime: il solito, insostenibile Cannarsi. Ma, complessivamente, c’è molto di peggio.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Fin troppo semplice…

Kiki e Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Le sfide di Kiki tutto sommato si risolvono fin troppo facilmente.

Fin dall’inizio la protagonista sembra trovarsi in un ambiente ostile e sconosciuto, in cui fa fatica ad orientarsi. Ma in realtà non ci vuole molto perché riesca facilmente a trovare una sistemazione, senza dimostrare in realtà alcuna capacità e dando un aiuto abbastanza marginale alla panetteria che la ospita.

Allo stesso modo, nonostante qualche imprevisto, riesce a completare il suo lavoro e ad essere immediatamente amata da tutti, così da raggiungere facilmente il successo e la fama. Non mancano le insidie, ma sembrano più avere un sapore quasi comico che essere delle vere minacce.

Per esempio, fra tutte le difficoltà della prima consegna, il cane che le viene in aiuto è davvero fin troppo conveniente…

Coming of age?

Kiki e Tombo in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Apparentemente Kiki – Consegne a domicilio dovrebbe essere un racconto di formazione, un coming of age.

Tuttavia, è un aspetto che ho sentito veramente poco.

La protagonista viene messa davanti a diverse sfide, ma, proprio per quanto detto sopra, sembra come se ne sarebbe uscita vincitrice in ogni caso: non si vede una vera e propria maturazione del personaggio, ma più l’inizio della stessa.

Soprattutto nel finale, che dovrebbe essere il punto di arrivo, Kiki mostra semplicemente ancora una volta la sua intraprendenza e viene ancora di più amata ed ammirata da tutti: non un cambiamento sostanzialmente, ma la conferma di una situazione già esistente.

E a questo proposito…

Perché Kiki perde i poteri?

L’ultimo atto del film apre non pochi punti di domanda.

Anzitutto, perché Kiki perde i poteri?

La protagonista perde temporaneamente i suoi poteri da strega perché in un certo senso viene meno a sé stessa: sceglie di non accettare l’invito di Tombo e si mette anche in pericolo pur di finire il lavoro.

E quella che è un’apparente pausa, è invece il passaggio, la rottura fondamentale che la porta alla maturazione – almeno sulla carta. Infatti, Kiki alla fine dovrà dimostrare di sapersi impegnare in qualcosa di veramente importante.

Jiji Kiki consegne a domicilio

Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Perché Jiji non le parla più?

Apparentemente il comportamento cambiato di Jiji è dovuto alla perdita di poteri di Kiki. In realtà, anche quando la protagonista li riacquista, il gatto continua a non parlarne. E lei ne è consapevole, ma sembra accettare la nuova situazione con una ritrovata serenità.

L’interpretazione più evidente è che il mutismo di Jiji rappresenti un altro passaggio di Kiki, che abbandona un elemento che l’aveva definita nella sua infanzia, ma che adesso è cambiato: lei e il gatto continueranno a vivere insieme, ma con dinamiche differenti.

In questa pellicola Miyazaki sperimenta in nuove direzioni e consolida al contempo strade già intraprese.

Continuano le sperimentazioni sui volti giovani, portando ad una interessante differenziazione – anche solo per particolari del volto – fra i vari personaggi coinvolti:

con anche un curioso passo indietro rispetto a Il mio vicino Totoro nella rappresentazione delle bocche e dei denti: mentre nell’opera precedente erano molto marcati, in questo caso sono più naturali:

Una sperimentazione piuttosto peculiare anche nei volti anziani, con tre modelli totalmente differenti fra loro:

E si vedono anche i primi tentativi di differenziazione fra i volti più infantili – quello di Kiki – e quelli delle giovani donne – Ursula. In questa fase il volto della ragazza assomiglia di più a quelli maschili, ma personaggi come il suo saranno definitivamente differenziati in La principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2001):

Allo stesso modo, confermata la bellezza degli sfondi e degli esterni:

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Inoltre, per la prima volta Miyazaki sperimenta davvero con gli oggetti della casa e col cibo, con risultati ancora un po’ approssimativi, soprattutto se confrontati con la bellezza di Il castello errante di Howl (2004):

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2023 Biopic Commedia Drammatico Film Nuove Uscite Film

Air – Soldi, soldi, soldi

Air (2023), noto in Italia col sottotitolo di La storia del grande salto, è la nuova pellicola di Ben Affleck – che è anche interprete – con protagonista Matt Damon.

A fronte di un budget medio – fra i 70 e i 90 milioni – ha aperto abbastanza bene nel primo weekend: 30 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Air?

Sonny Vaccaro sta cercando di rilanciare la Nike nel mercato del basket: il brand fino alla metà degli Anni Ottanta era molto molto popolare nel mercato dei bianchi statunitensi appassionati di jogging, e non altrove. E quale migliore sponsor se non la giovane promessa Michael Jordan?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Air?

Matt Damon e Viola Davis in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

In generale, sì.

Air è tutto quello che potreste immaginarvi da questo tipo di prodotto: la storia di un grande successo imprenditoriale, di un fantastico boom commerciale derivato dall’intraprendenza di un uomo – il nostro eroe – che ha avuto il coraggio di scontrarsi con un ambiente ostile.

Ma è anche un prodotto con un alto livello tecnico.

La fotografia è ottima, la regia l’ho trovata molto solida e mai banale, e le interpretazioni sono di alto livello, grazie anche al proficuo sodalizio fra Ben Affleck e Matt Damon. Inoltre, product placement a parte, è una pellicola che riesce a far immergere ottimamente lo spettatore nella realtà storica raccontata.

Insomma, se avete l’occasione e vi piacciono questo tipo di film, vale una visione.

Un tuffo nel passato

Ben Affleck in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

L’immersione nel contesto storico raccontato è indovinata fin dal primo frame.

Nell’incipit ci troviamo davanti ad una carrellata di immagini che raccontano la cultura popolare del 1984 negli Stati Uniti, dai Ghostbusters a Mr. T. Niente di diverso da tanti altri prodotti analoghi, se non fosse che la fotografia è talmente tanto indovinata che, quando il film comincia effettivamente, sembra di essere ancora davanti ad un video originale dell’epoca rappresentata.

Inoltre, appare molto evidente il tipo di sforzo produttivo e di ricerca che Ben Affleck ha compiuto sulla sua pellicola, inserendo tutti i piccoli e strani comportamenti dei personaggi – come l’abitudine di Phil Knight di stare senza scarpe e calzini – oltre a descrizioni incredibilmente specifiche degli ambienti di lavoro delle compagnie concorrenti.

Vivere un sogno

Matt Damon in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

Sapere già la conclusione di una storia prima di cominciarla potrebbe essere fastidioso per molti.

Non per me.

Riesco piuttosto facilmente ad appassionarmi alle storie di successi imprenditoriali, soprattutto perché solitamente le conosco piuttosto superficialmente. E riesco ad essere davvero coinvolta quando sono ben raccontate – come nel caso di Air, appunto.

Le dinamiche sono piuttosto classiche: un uomo con un sogno e una passione, che si trova osteggiato su tutti i fronti. E quindi osa dove nessuno avrebbe osato, andando persino a scavalcare l’aggressivo agente di Michael Jordan per parlare direttamente con la madre dell’atleta.

Matt Damon in una scena di Air (2023) di Ben Affleck

Nonostante anche in questo caso è un racconto abbastanza didascalico, ho comunque apprezzato la scelta di mostre il protagonista che impara da quello che lo circonda, anche da conversazioni che riguardano solo marginalmente con la sua missione – come il fondamentale dialogo con George Raveling.

Diciamo che da questo tipo di racconti preferisco trarre il meglio del messaggio, ripulendolo di una retorica che invece non apprezzo particolarmente…

Air – La storia del grande salto

Guardando Air ho avuto una sorta di déjà-vu.

Mi sono sentita in maniera abbastanza simile alla mia recente visione di Top Gun – Maverick (2022): per quanto nel complesso il prodotto mi stesse piacendo e intrattenendo, mi sentivo veramente lontana dalla morale raccontata.

Nel caso di Air, la pellicola mette in scena una mentalità estremamente statunitense, incentrata sull’idea dell’impegnarsi fino allo sfinimento per raggiungere i propri obiettivi, correndo anche grandi rischi, il tutto per arrivare al successo e, soprattutto, al guadagno.

E infatti tutta la parte conclusiva parla quasi esclusivamente di soldi, soldi, soldi…

Michal Jordan Air Jordan 2023

Michael Jordan non si vede mai nel film.

Non è la prima volta che vedo la scelta di nascondere il personaggio di punta della storia – per esempio in Bobby (2006) e nel recente She said (2022) – e in questo caso personalmente mi ha convinto a metà.

Capisco le intenzioni: sarebbe stato sostanzialmente impossibile portare in scena un giovane Michael Jordan, un mito per diverse generazioni, preferendo invece lasciarlo sempre in ombra, raccontandolo tramite video reali.

Tuttavia, Jordan è comunque presente in numerose scene che lo coinvolgono in prima persona, dove però non parla mai, comportamento obiettivamente poco credibile e non costruito in maniera davvero ottimale…

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Alfred Hitchcock Avventura Commedia Dramma romantico Drammatico Film Giallo Spy story Thriller

Notorious – Caccia al dettaglio!

Notorious (1946) è una delle pellicole più note della produzione di Alfred Hitchcock, fra l’altro con due attori protagonisti di grande talento e richiamo: Cary Grant e Ingrid Bergman.

A fronte di un budget non esorbitante – 2 milioni di dollari, circa 30 milioni oggi – incassò molto bene: 24,5 milioni in tutto il mondo – circa 377 milioni oggi.

Di cosa parla Notorious?

Conclusosi il processo contro la spia tedesca John Huberman, la figlia Alicia viene coinvolta dal governo statunitense per una missione piuttosto particolare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Notorious?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Assolutamente sì.

Notorious è uno dei miei titoli preferiti di Hitchcock, e uno dei primi con cui mi sono avvicinata alla sua produzione. Pur non mancando di qualche ingenuità narrativa, è un’opera davvero coinvolgente e piena di tensione, costruita con una maestria registica di rara bellezza.

Inoltre, i due interpreti protagonisti di altissimo valore riescono a regalare ai loro personaggi una perfetta tridimensionalità: né buoni né veramente cattivi, ma profondamente umani, imperfetti, fallibili.

Insomma, non potete perdervelo.

Attenzione ai dettagli!

Ingrid Bergman in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Il focus della pellicola sono i dettagli.

Hitchcock in questo caso lavora su inquadrature piuttosto peculiari, che si concentrano soprattutto sui particolari della scena e sulle mani dei personaggi, che si muovono abilmente per nascondere l’oggetto dell’interesse.

In particolare la chiave.

La chiave è un elemento che ritorna costantemente nella pellicola: porte chiuse e inaccessibili, chiavi richieste, chiavi rubate, momenti di grande pericolo in cui la chiave viene passata da una mano all’altra, nascosta frettolosamente, riportata al suo posto in maniera molto ingenua…

Nel terzo atto, invece il focus è sulla tazza di caffè, con cui Alicia viene avvelenata, con degli zoom improvvisi per catturare l’attenzione dello spettatore, ma anche con inquadrature concentrate sempre sulle mani dei personaggi, mentre la tazzina viene passata di mano in mano, fino ad arrivare alla vittima…

Un amore…troppo tormentato?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Un elemento mi sta dando un discreto fastidio nella produzione di Hitchcock è la storia romantica.

In questo caso la gestione non è assolutamente malvagia, anche se, secondo me, più per la bravura degli attori che per la scrittura degli stessi, che è per certi versi abbastanza scontata: un classico avanti e indietro di una storia di enemy to lovers.

Insomma, non mi ha fatto lo stesso effetto di Io ti salverò (1945), ma…

Anche se il prodotto va naturalmente contestualizzato nel suo contesto storico, mi ha comunque leggermente infastidito come per certi versi Alicia risulti meno brillante proprio per questo amore travolgente che quasi la istupidisce…

Un fallimento credibile?

Ingrid Bergman e Cary Grant in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

I protagonisti di Notorious sono incredibilmente fallibili.

Il piano che mettono in scena è incredibilmente pericoloso e facilmente fallimentare, con tantissime trappole lungo la strada. E la bellezza del prodotto sta proprio nell’apparente arguzia dei personaggi, che però inciampano molto facilmente proprio in questi errori.

Quasi tutta la risoluzione del mistero è in mano al caso e ai puri colpi di fortuna, mentre i protagonisti devono fare e disfare le proprie macchinazioni per adeguarsi alle situazioni e ai cambiamenti improvvisi.

Infine, con una perfetta costruzione della tensione, Alicia si fa anche troppo facilmente incastrare nel piano del nuovo marito e della madre. E sembra che sia inevitabile che risulti sconfitta, intrappolata nella sua stessa casa, senza che nessuno possa aiutarla…

Il finale di Notorious

Fino a questo momento i finali dei film di Hitchcock non mi avevano convinto del tutto.

In generale, non amo molto i finali che sembrano più degli epiloghi, ovvero che vanno a chiudere delle sottotrame o fanno vedere il destino del protagonista a vicenda conclusa.

Preferisco invece i finali che magari non concludono del tutto la vicenda, ma che sono altresì davvero efficaci.

Come in questo caso.

Claude Rains in una scena di Notorious (1946) di Alfred Hitchcock

Devlin, nonostante l’evidente pericolo, va a cercare Alicia e la conduce in salvo fuori casa, trovando a metà strada un insolito accompagnatore: Alexander, che viene convinto a seguire la spia verso una salvezza desiderabile tanto dalla moglie quanto da lui.

Ma, arrivati alla macchina, Devlin lo lascia indietro.

E Alex ripercorre la scalinata da cui era venuto, buttandosi nelle braccia di quelle ombre minacciose che fanno da guardia all’ingresso della sua stessa casa…

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Animazione Animazione giapponese Avventura Commedia Dramma familiare Drammatico Fantastico Film La magia di Miyazaki

Il mio vicino Totoro – La favola di Miyazaki

Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.

A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Il mio vicino Totoro?

Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?

Assolutamente sì.

Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.

Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.

Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Il contesto fantastico…

Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.

Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.

Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.

Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.

E qui nasce il più importante contrasto.

…e il sottofondo drammatico

L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.

La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.

Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti da cronaca nera.

Il fantastico rincuorante

Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.

E sempre ridimensionato in senso positivo.

Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.

Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.

In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.

E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.

In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.

L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:

Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:

Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004):

Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:

Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki, Kiki – consegne a domicilio (1989):

Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:

Il mio vicino totoro vs la città incantata

E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:

La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:

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2023 Avventura Azione Cinema per ragazzi Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Fantasy Film

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri – Le giuste aspettative

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.

A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?

Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Chris Pine, Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Assolutamente sì.

Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.

Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.

Ed è esattamente quello che ho trovato.

Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.

Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).

Io, comunque, ve lo consiglio.

Una trama a quest

Chris Pine e Regé-Jean Page una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.

Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.

E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.

La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.

In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.

Insomma, una campagna di D&D fatta a film.

Piccoli trucchi, nessuna forzatura

Chris Pine in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.

Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.

Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.

E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.

Ma, tutto sommato, è una piccolezza.

Un’evoluzione equilibrata

Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.

Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.

Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.

E va benissimo così.

La morale

Chloe Coleman e Hugh Grant in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.

Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.

Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.

Pochi nei in un ottimo equilibrio

Daisy Headin una scena di Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.

Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.

Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.

Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.

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2022 Avventura Azione Comico Commedia Film Giallo

See how they run – Un delizioso meta-giallo

See how they run (2022) di Tom George, in Italia noto col titolo molto più blando di Omicidio nel West End, è una pellicola di genere giallo whodunit, con una spruzzata di metanarrativa che irride il genere di riferimento.

Una pellicola che purtroppo, come tanti altri film di piccola produzione in questo periodo, è stato un sonoro flop: a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 22 in tutto il mondo.

Di cosa parla See how they run?

Londra, 1953. Durante i festeggiamenti per la centesima rappresentazione teatrale di Trappola per topi, uno dei titoli minori di Agatha Christie, il regista viene assassinato nel backstage. E l’indagine sarà nelle mani di una coppia di poliziotti piuttosto improbabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere See how they run?

In generale, sì.

La pellicola è molto forte su alcuni punti, più debole su altri. I punti di forza sono sicuramente l’ambientazione e i personaggi: atmosfere molto curate, dal sapore vintage, che ricordano tanto un film di Wes Anderson e del giallo classico degli Anni Cinquanta.

Al contempo, personaggi piacevoli sul filo del macchiettistico, con due ottimi attori protagonisti: Saoirse Ronan e Sam Rockwell.

Tuttavia, See how they run non vuole essere solamente un giallo, ma in qualche modo giocare con il genere, inserendo elementi metanarrativi anche interessanti, ma che nel complesso risultano abbastanza deboli e non perfettamente congegnati.

Ma nulla che guasti veramente la piacevolezza della pellicola.

Cosa significa il titolo See how they run

Il titolo originale, See how they run, è fondamentalmente incomprensibile se non si è inglesi.

Si riferisce infatti ad un verso di una nursery rhyme, una canzoncina per bambini, Three Blind Mice:

Three blind mice. Three blind mice.
See how they run. See how they run.
They all ran after the farmer's wife,
Who cut off their tails with a carving knife.
Did you ever see such a sight in your life
As three blind mice?
Tre topolini ciechi, tre topolini ciechi
Guarda come corrono, guarda come corrono
Corrono tutti dietro alla moglie del fattore,
che gli ha tagliato la coda con un coltello
Hai mai visto niente di simile nella tua vita
Come tre topolini ciechi?

E probabilmente allude anche all’omonima pièce teatrale del 1944, una farsa dal sapore comico basata su scambi di identità ed incomprensioni.

Quindi il titolo in entrambi descrive la natura stessa della storia: un insieme di situazioni comiche e paradossali, proprio come quella di tre topolini ciechi che inseguono la donna che gli ha appena tagliato la coda.

E questo riferimento nella pellicola si intreccia perfettamente con lo spettacolo teatrale che è al centro della storia: Trappola per topi, appunto.

Atmosfere travolgenti

Le atmosfere e l’estetica della pellicola sono ottimamente congegnate

Soprattutto per le prime scene, mi hanno ricordato Grand Budapest Hotel (2014) – e sicuramente Wes Anderson è stato d’ispirazione per il film. Un’estetica davvero curata sia negli ambienti – che sembrano quasi teatrali – sia nei personaggi e nei costumi, perfettamente in linea con le atmosfere e il tono della pellicola.

Anche gli esterni sono piuttosto suggestivi: vicoli fumosi e strade nella penombra, in cui la brillantezza dei colori si scontra con le lunghe ombre che si allungano sulla scena, minacciando i personaggi e al contempo apparendo come irraggiungibili…

Un semplice buddy movie

Nelle dinamiche, See how they run riprende il taglio del buddy movie.

Una scelta che ha favorito anche l’ovvio inserimento di un personaggio femminile come protagonista, che risulta così ben contestualizzato nel contesto temporale: l’unica donna del corpo di polizia che deve farsi largo in un mondo di uomini che la sottovalutano.

In particolare, Stoppard la sottovaluta moltissimo, cerca costantemente di metterla al suo posto ed è quasi infastidito dalla sua eccessiva emozione nel condurre un caso, da cui cerca sistematicamente di escluderla.

Ma entrambi i personaggi hanno due picchi drammatici che raccontano l’evoluzione del loro rapporto: quando il detective mente alla ragazza dicendo di dover andare dal dentista – e viene scoperto – e quando Stalker lo accusa ingiustamente dell’omicidio.

Ma alla fine è la stessa ragazza a salvare il burbero detective.

Don’t jump to conclusions!

L’elemento metanarrativo che meglio funziona è quello del don’t jump to conclusions!

Questo è infatti l’ammonimento che Stoppard fa alla giovane poliziotta, ma in realtà anche allo spettatore: non saltiamo subito alle conclusioni! Infatti è molto tipico di questo tipo di gialli whodunit essere articolati in un susseguirsi di interviste dei sospettati.

E, per ognuno di loro, il flashback mostrato racconta la loro totale colpevolezza, ricalcata in questo caso proprio dall’irruenza di Stalker. Ma siamo appunto anche noi spettatori a saltare subito a queste conclusioni.

E infatti il film riesce comunque a prenderci bonariamente in giro: l’accusa a Stoppard è davvero credibile!

Una metanarrativa debole

Purtroppo la pellicola, volendo così entusiasticamente giocare con il genere, finisce a perdersi in se stessa.

Funziona molto meglio quando questo elemento è sottile – come abbiamo appena visto – molto meno quando la conclusione del film è stata già praticamente raccontata nella prima parte della pellicola, ovvero tramite la sceneggiatura che Leo Köpernick voleva mettere in scena.

E vederla avvenire esattamente come era stata descritta, poteva apparire sulla carta come un’idea brillante e la conclusione più metanarrativamente interessante per la pellicola stessa, ma in realtà mi è parsa solo piuttosto goffa e semplicistica.

Tuttavia, è l’unico vero difetto che mi sento di segnalare.