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Il gatto con gli stivali 2 – La rinascita?

Il gatto con gli stivali 2 – L’ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford è stata una grande sorpresa fra la fine del 2022 e l’inizio del 2023: un sequel arrivato a più di dieci anni di distanza dal primo – mediocre e dimenticabile – capitolo.

Infatti, aprendo con un incasso non molto promettente – appena 20 milioni negli Stati Uniti – il film ha cominciato la sua scalata verso il successo proprio grazie all’ottimo passaparola, che l’ha fatto arrivare ad incassare 470 milioni di dollari in tutto il mondo, a fronte di un budget di 90.

Ed è un caso più interessante di quanto si potrebbe pensare…

Di cosa parla Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali è un eroe amato da tutti, con una vita spericolata e senza freni. Ma un incontro inaspettato gli farà cambiare drasticamente idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vi vedere Il gatto con gli stivali 2?

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Assolutamente sì.

Non avevo inizialmente alcun interesse per questa pellicola – né d’altronde per il primo capitolo, che non avevo mai visto. Mi sembrava il solito strascico senza senso di una saga – quella di Shrek – che boccheggiava già con il terzo film della storyline principale.

E per fortuna il passaparola mi ha salvato.

Il passaparola positivo è stato infatti la salvezza di questo prodotto, che inizialmente sembrava destinato al collasso economico – come la maggior parte dei film d’animazione di questo periodo. E ha portato anche me alla visione.

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il gatto con gli stivali 2 è un’ottima pellicola d’animazione, che dopo tanti anni riporta la Dreamworks verso quel taglio narrativo che l’aveva resa così diversa dai prodotti della concorrenza.

A questo si aggiunge una tecnica d’animazione che mischia la grafica 3D con quella 2D, ottimamente realizzata, che ricorda molto la bellezza di altri ottimi prodotti come la serie Arcane (2021 – …) e Spiderman into the spiderverse (2018).

Insomma, se non l’avete ancora fatto, recuperatelo assolutamente.

Ma passiamo alla domanda fondamentale…

Per vedere Il gatto con gli stivali 2 devo vedere Il gatto con gli stivali del 2011?

Questa sezione è dovuta perché non voglio che voi facciate il mio stesso errore.

Visto il mio totale disinteresse per il primo capitolo – e il mio totale disprezzo per le ultime morenti fasi della saga di Shreksono passata direttamente al sequel. Poi, per completezza, ho deciso di vedere anche il primo capitolo.

E ho sbagliato.

Non solo il dislivello fra i due film è immenso, ma la visione del primo capitolo è fondamentalmente inutile per fruire del seguito. E potrebbe anzi avere l’effetto contrario: allontanarvi dalla visione de Il gatto con gli stivali 2.

Purtroppo, Il gatto con gli stivali (2011) è veramente mediocre: una trama banalissima e di nessun interesse, personaggi quasi grotteschi e villain assai deboli e mal costruiti. Per questo, nelle prossime righe vi dirò le poche cose che vi servono per godervi appieno Il gatto con gli stivali 2.

Non proseguire se non vuoi spoiler su Il gatto con gli stivali (2011)!

Quando era solo un cucciolo, il gatto con gli stivali fu adottato da una donna che curava un orfanotrofio, e la stessa gli regalò il suo iconico paio di stivali, simbolo della sua futura vita da eroe.

Nel primo film il gatto conosce anche Kitty Softpaws, che ritorna nel seguito, con cui intraprende una relazione romantica, nonostante la gatta sia una doppiogiochista e nel film si scopre essere parte dell’inganno del villain.

Ora potete vedere Il gatto con gli stivali 2!

La caduta dell’eroe

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

L’incipit è davvero ottimo.

La pellicola si apre con un rocambolesco numero musicale con protagonista il gatto, a cui segue un combattimento incredibilmente ben realizzato contro il gigante che ha involontariamente risvegliato e che attacca la città.

Questa sequenza ci racconta tutto quello che dobbiamo sapere sul nostro protagonista.

Il gatto con gli stivali vive una vita a metà fra l’eroismo e la criminalità: salva la città ed è ammirato dal popolo, ma in parte osteggiato dai personaggi più in vista, di cui si approfitta, conducendo una vita piuttosto spericolata e dissoluta.

Ma non è una scelta sostenibile nel tempo.

Il viaggio della maturità

Il gatto con gli stivali in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Il film racconta la maturazione del protagonista, una sorta di passaggio da un’esistenza più giovane e, volendo, adolescenziale, verso una vita più adulta e consapevole.

Infatti, all’inizio della pellicola il gatto viene messo davanti alle sue responsabilità: ha sparato tutte le cartucce che gli hanno permesso di ridere in faccia alla morte, vivere senza pensare alle conseguenze…

…e gli è rimasta una sola vita.

Inizialmente il protagonista si rifiuta di accettare questa possibilità, e sceglie di continuare a vivere come ha sempre fatto. Il momento del drastico cambio di idea, e della decisione di spogliarsi della sua identità, è l’incontro con la Morte.

La Morte è infatti l’unica cosa che fa davvero paura al protagonista.

Un’inquietante ombra che lo insegue per tutta la sua avventura, senza che il gatto sia – per la maggior parte del tempo – capace neanche di raccontarlo ai suoi compagni. E la sua maturazione sta proprio nel come affrontare la Morte o, meglio, la responsabilità di avere una sola vita da vivere, e per questo di trattarla con cura.

E infatti il primo istinto del protagonista è di aggirare il problema, concedendosi ancora molte vite e molte occasioni da utilizzare, ma, soprattutto, da sprecare.

Ma nel finale la sua scelta di non sfuggire dalla morte, ma di guardarla in faccia e sfidarla, è quello che fa capire alla stessa che il gatto non è più quello di una volta, non è più l’eroe sfacciato che non aveva alcun interesse o cura della sua esistenza. E per questo lo lascia andare.

Le favole adulte

Riccioli D'oro e i Tre Orsi in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Con Il gatto con gli stivali 2 finalmente la Dreamworks torna a delle scelte narrative più interessanti e mature, in questo caso portando in scena le versioni adulte delle favole stesse, che in certo senso rispecchiano anche il pubblico di riferimento.

La favola di più immediata comprensione per il pubblico europeo è quella di Riccioli d’oro, che ormai è una giovane adulta che vive insieme a tre orsi: un simpatico quanto temibile quartetto di criminali.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Anche più interessante è la riscrittura della storia di Little Jack Horner – nel film Big Jack Horner, per ovvi motivi. La sua favola proviene da una canzoncina del folklore inglese, che recita quanto segue (la traduzione è mia):

Little Jack Horner
Sat in the corner,
Eating his Christmas pie;
He put in his thumb,
And pulled out a plum,
And said, “What a good boy am I!”

Little Jack Horner
Stava seduto in un angolo
Mangiando la sua mince pie
Vi mise dentro il pollice
E tirò fuori una prugna
E disse: “Che bravo bambino che sono!”

Quindi la storia di un bambino incredibilmente viziato e dispettoso, per cui i genitori stravedevano e a cui permettevano di fare tutto quello che voleva, fra cui mettere il pollice dentro le torte, appunto.

E, da bambino capriccioso è diventato un adulto capriccioso, che vuole tutto per sé: colleziona ogni oggetto magico esistente, ma ancora non gli basta.

E per questo è un villain perfetto.

Un terzetto di villain

Mentre in un altro contesto la presenza di così tanti villain poteva impattare negativamente sul risultato finale, nel caso de Il gatto con gli stivali 2 questa scelta favorisce invece una narrazione articolata e senza tempi morti.

Il primo gruppo di villain – o quasi – è quello di Riccioli D’oro e i Tre Orsi.

Alle spalle dei Tre Orsi, la ragazza vuole portare indietro i suoi genitori perduti, in un atto di totale egoismo e di mancanza anche di rispetto nei confronti di personaggi che si dimostrano veramente accoglienti e amorevoli nei suoi confronti.

Un bellissimo racconto di come una famiglia si possa formare anche al di fuori dei perimetri più tradizionali, portando Riccioli D’oro ad una consapevolezza non tanto dissimile da quella del protagonista: essere felici della propria vita, che può essere già piena e soddisfacente senza dover inseguire sogni di felicità solo apparentemente risolutivi.

Big Jack Horner in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

Due sono gli elementi di forza di Big Jack Horner: il suo ruolo nella trama e il non abbandonare mai la sua natura malvagia.

Per fortuna per il sequel si è scelto di non perpetuare il tremendo e ridondante errore del primo film: far diventare buono il villain. Una scelta solo apparentemente diversa, in realtà diventata col tempo piuttosto prevedibile, con risultati veramente mediocri se gestita così male come in Il gatto con gli stivali (2011).

Invece Jack dice esplicitamente di essere morto dentro, e, nonostante i tentativi del Grillo Parlante di farlo rinsavire, rimane cattivo fino alla fine. E la sua disfatta determina anche la definitiva maturazione dei personaggi positivi, che si alleano ai suoi danni e rinunciano al desiderio tanto ambito.

La sua gestione è altrettanto ottima nel finale: Jack viene messo temporaneamente da parte – apparentemente sconfitto – per far spazio alla Morte.

Morte Il gatto con gli stivali 2

Morte in una scena di Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio (2022) di Joel Crawford

La Morte è uno dei migliori villain mai creati dalla Dreamworks.

Finalmente si ritorna a nemici nello stile di Kung Fu Panda, profondamente malvagi e temibili. In questo caso la Morte è veramente un avversario spaventoso, nell’aspetto e nei comportamenti, e che, soprattutto, viene sconfitto dalla maturità del protagonista.

E fa tanto più paura in quanto si contrappone un animale così possente e pauroso – almeno nel folklore – del lupo, armato di due mannaie, con quello che in fin dei conti è un piccolo gattino, che quasi scompare davanti alla possanza del suo nemico…

Un film per tutte le età

Il grande pregio de Il gatto con gli stivali 2 è stata la scelta di tornare ad un target variegato come era stato per i suoi brand di successo, soprattutto quello da cui deriva: Shrek. Ed è possibile grazie alla scelta di un gruppo di personaggi piuttosto variegato che riesce ad agganciare diversi tipi di pubblico.

Il protagonista racconta una fascia di pubblico intermedia, di giovani adulti che si trovano ad abbandonare l’adolescenza per abbracciare la complessità della vita adulta, con grandi dubbi e paure, ma anche importanti soddisfazioni.

Per un pubblico più giovane e adolescenziale, il punto di riferimento è Riccioli D’oro, che rappresenta proprio la classica adolescente insicura e dal brutto carattere, che però riesce a rendersi conto del valore della famiglia e, in generale, degli affetti che la circondano.

Ma anche il pubblico infantile rimane soddisfatto grazie a Perrito, l’adorabile cagnolino che diventa l’improbabile compagno di avventure del gatto e di Kitty. Il cucciolo – da cui il nome, perrito – racconta proprio lo sguardo infantile e sognante, offrendo quel tocco di dolcezza e tenerezza che non poteva mancare.

Un cambio di passo?

Proprio in questa scelta di un pubblico così variegato come ai vecchi bei tempi io spero di vedere l’inizio di un ripensamento di questa casa di produzione: dopo il cambio di direzione del 2016 – ma per certi versi anche da prima – la Dreamworks ha perso del tutto la sua identità.

Infatti ha cercato di mimare i successi della Illumination Entertainment – madre dei grandi successi della saga di Cattivissimo me e Sing – ma finendo solo per snaturarsi: a differenza dei grandi incassi dei concorrenti – quasi un miliardo solo per il recente Minions 2 (2022) – alla Dreamworks sono rimaste solo le briciole.

Infatti, quando ormai i grandi successi della saga di Shrek erano lontani, dal 2016 i tentativi di rilanciarsi con prodotti solo destinati al pubblico infantile come Trolls o Baby Boss, ma solo il secondo è riuscito a fare un incasso dignitoso.

Per il resto, solo poche centinaia di milioni di incasso per ogni film, se non veri e propri flop.

Che sia il momento della svolta?

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Accadde quella notte... Avventura Commedia Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione Road movie

Green book – Quando l’emozione è tutto…

Green book (2018) di Peter Farrelly è un film un road movie con protagonisti l’improbabile coppia composta da Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Un film che riscosse parecchio successo: venne candidato a cinque Oscar e ne vinse tre, fra cui Miglior film. Probabilmente proprio per questo – e per il budget davvero risicato di 23 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 321 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Green book?

Per uno strano caso, Don Shirley, importante concertista nero, sceglie Tony come suo autista nel profondo Sud degli Stati Uniti degli Anni Sessanta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Green book?

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

In generale, sì.

Nonostante mi abbia leggermente annoiato sul finale, Green book è un prodotto complessivamente piacevole, con un andamento lineare e facile da seguire.

Non il solito buddy movie, ma una sua versione molto più drammatica, con due attori stellari come Viggo Mortensen e Mahershala Ali, che alzano decisamente il livello medio della pellicola.

Insomma, non imperdibile, ma abbastanza consigliato.

Un tema importante

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il tema centrale della pellicola è l’amicizia fra i due protagonisti.

Un’amicizia difficile, nata con i peggiori presupposti. Infatti Tony e Don sono due persone che si trovano veramente agli antipodi: l’uno molto raffinato e impettito, l’altro più guascone e quasi zotico.

Il loro rapporto nascerà incontrandosi a metà strada: Tony supererà i pregiudizi nei confronti di Don e quest’ultimo troverà nel suo autista un amico su cui contare.

Trovo sempre piacevole seguire il racconto di due persone così avanti nella loro vita che riescono comunque a stringere relazioni durature ed importanti.

Un bel messaggio, tutto sommato, raccontato anche con una scrittura complessivamente buona, che mette in scena un rapporto credibile e realistico.

Attori perfetti

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Gli attori protagonisti alzano di gran lunga il livello della pellicola.

Mahershala Ali riesce a raccontare in maniera piuttosto interessante un personaggio complesso e combattuto, financo anche piuttosto insostenibile. Purtroppo, nonostante gli intenti della pellicola fossero palesi, non sono riuscita a farmi coinvolgere col dramma umano di Don.

Infatti ho preferito di gran lunga il personaggio di Viggo Mortensen, che porta in scena un italo americano degli Anni Sessanta senza mai scadere negli stereotipi – nonostante la sceneggiatura lo spinga molto in quella direzione – anzi impegnandosi molto in una recitazione corporea eloquente e persino in alcune frasi in italiano non del tutto storpiate.

Il razzismo non è il tema ma…

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il razzismo non è il tema centrale della pellicola.

Anzi, è un argomento piuttosto di contorno, raccontato per la maggior parte del tempo attraverso il razzismo benevolo di Tony: l’uomo dimostra di aver interiorizzato una serie di pregiudizi nei confronti della comunità nera, e cerca di farli aderire insistentemente alla persona di Don, nonostante lo stesso non vi si ritrovi per nulla.

E la creazione del loro rapporto si basa proprio sul superamento di questi preconcetti.

Non mancano comunque alcuni picchi drammatici – come l’arresto di Don – ma nel complesso, anche nei momenti più tragici, ci si limita ad un razzismo molto più polite, in cui il personaggio in diversi momenti viene escluso da determinati spazi e contesti – ma quasi mai con l’uso della violenza.

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

E per questo è molto digeribile per il pubblico medio statunitense.

E questo è anche il motivo per cui ha vinto come Miglior film.

Nonostante, a differenza di altri film – come 12 anni schiavo (2014) – non sia un prodotto scritto appositamente per entrare nel cuore dell’Academy attraverso trigger emotivi piuttosto smaccati, nondimeno l’ha fatto.

E così agli Oscar 2019 è stato premiato un film di medio livello, che gareggiava contro opere di invece altissimo valore come Vice (2018) e La Favorita (2018)

Ed è successo proprio perché portare in scena un razzismo così light, e in qualche modo più vicino allo spettatore odierno, ha pagato.

Nonostante in quel contesto storico un uomo nero poteva rischiare in ogni momento la sua vita e venir trattato decisamente peggio in molte le situazioni del film, come si vede per esempio in The Help (2011) – prodotto persino edulcorato da questo punto di vista.

Ed è anche il motivo per cui un film più sincero e veritiero sulla tematica come BlacKkKlansman (2018) non avrebbe mai potuto vincere.

Green book meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2019 vengono sopratutto ricordati per la chiacchieratissima interpretazione di Bradley Cooper e Lady Gaga, protagonisti di A star is born (2017). Come dopo dichiararono gli attori stessi, in quel momento si erano molto immedesimati nei personaggi – con tutto quello che ne consegue:

Inoltre, quell’anno, per la prima volta nella storia dell’MCU, venne candidato un prodotto supereroistico: Black Panther (2018), che era ormai diventato un fenomeno mondiale:

Personalmente, gli Oscar 2019 furono la mia epifania.

Dopo aver visto Vice – che tutt’oggi considero uno dei migliori prodotti di Adam McKay insieme a Don’t look up (2021) – andai a vedere con non poco interesse Green book, convinta che indubbiamente sarebbe stato il miglior film dell’anno.

E potete immaginare quanto mi indispettì quando mi resi conto che evidentemente non lo era, ma era stato comunque premiato come tale.

In quel momento compresi cosa muove veramente le premiazioni degli Oscar, che è stato anche il motivo di questa rubrica: accade spesso che, con una lista di film di grande valore candidati, il meno interessante – ma più politicamente orientato – ne esce vincitore.

Quindi direi che la domanda Green book meritava di vincere l’Oscar? ha più possibili risposte: trovate la vostra.

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Antman Avventura Azione Cinecomic Commedia Fantascienza Film Heist movie MCU

Antman – Un eroe piccolo piccolo

Antman (2015) di Peyton Reed è la origin story dell’eroe omonimo, interpretato da Paul Rudd, in forma di heist movie. Uno dei prodotti minori della Marvel, solitamente meno considerato nel panorama complessivo dell’universo MCU.

E infatti si cercò di renderlo il più importante possibile da Civil war (2016) a Endgame (2019).

Ma i risultati commerciali parlarono da soli: nonostante rientrò ampiamente nel budget (519 milioni di dollari di incasso contro 150 milioni di spesa), fu uno degli incassi minori della produzione, confrontandoli anche con altre origin story come Doctor Strange (2016) o addirittura Captain Marvel (2019).

Di cosa parla Antman?

Scott Lang è appena uscito di prigione dopo aver violato i segreti di una grande multinazionale. Mentre fa fatica a conciliare lavoro e famiglia, viene coinvolto in una rapina piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Antman?

In generale, sì.

Anche per la sua semplicità, considero Antman uno dei prodotti della Marvel meglio riusciti, che veramente ha poche sbavature e una costruzione della trama assolutamente funzionale e funzionante.

Inoltre, ha il vantaggio di poter essere guardato anche come un film a sé stante, senza dover conoscere più di tanto del resto del mondo MCU: solamente per pochi elementi si ricollega alla trama complessiva della realtà cinematografica cui appartiene.

Inoltre, è un film davvero simpatico e piacevole.

Empatizzare con l’eroe

Un elemento di forza di Antman è come costruisce il protagonista.

Scott Lang viene inizialmente presentato come un personaggio negativo: un carcerato che si picchia con gli altri detenuti. Ma già da lì comincia l’ammorbidimento: a sorpresa si scopre che quel combattimento non aveva un sottofondo antagonistico, ma quasi giocoso.

Già da qui capiamo che il nostro eroe è una persona amabile e benvoluta da tutti.

Subito dopo scopriamo un altro elemento fondamentale della sua storia: è andato in prigione, ma ci è andato per motivi del tutto nobili, ovvero insidiare una multinazionale. Fondamentalmente un elemento di ammirazione: Scott è un uomo molto intelligente, ma che non si lascia schiacciare dagli oppressori un tema molto ben voluto sopratutto in ambito statunitense.

E l’inserimento della figlia è il colpo finale.

Una perfetta checklist

Altrettanto ben fatta è la costruzione della trama.

La storia del film segue una serie di step fondamentali e perfettamente funzionali. Dopo l’introduzione del protagonista, questo viene coinvolto nel piano della rapina e tutta la parte centrale si allena, mostrando i suoi miglioramenti e quanto sia fallibile e vicino allo spettatore.

Ma, prima dello scontro finale, il protagonista si scontra con una sorta di mini boss, ovvero Falcon. Con questa scena non solo si contestualizza il personaggio nel futuro Civil War (2016) prima e Infinity War (2018) e Endgame (2019) dopo, ma sopratutto si mostra come il suo allentamento abbia dato effettivamente dei frutti.

A questo punto lo spettatore si fida del protagonista e delle sue capacità.

E così si può arrivare al conflitto finale.

Una regia indovinata

A quasi dieci anni di distanza, ho trovato Antman ancora molto efficace sia dal punto di vista della regia che degli effetti speciali – anche più del più recente Wakanda Forever (2022).

La regia è chiara e coinvolgente anche nelle scene più dinamiche, quando l’eroe si muove in maniera fulminea negli spazi, tenendo alta la tensione e al contempo utilizzando una CGI (ancora) molto credibile.

Allo stesso modo, ho davvero apprezzato la sottile ironia di mostrare le vicende che avvengono nel microcosmo ingrandite, e come appaiono invece ridicole ad un occhio umano, sopratutto nella parte finale.

Un banale villain

Il villain di Antman è fra gli elementi più deboli della pellicola.

Tuttavia, niente di sorprendente: come aveva già visto per Black Panther (2018) e riflettendo sulla prevedibilità, è molto tipico delle pellicole supereroistiche – e dell’MCU in particolare – mettere in scena antagonisti molto banali e ridondanti, che tendenzialmente non devono oscurare la figura dell’eroe.

In questo caso il villain non è neanche uno dei peggiori, ma pensandoci a posteriori appare quasi ridicolo sia nell’aspetto che nella caratterizzazione: il volto ricorda la durezza del giovane Luthor in Smallville (2001 – 2011) e riprende gli atteggiamenti da cattivo spietato di tanti suoi simili in prodotti analoghi.

E diventa quasi esilarante quando mette in scena un certo tipo di mentalità guerrafondaia tipica di certi ambienti statunitensi…

L’insipidezza di Wasp

Sulla figura di Hope bisogna spendere due parole in più.

Un problema della Marvel per tanto tempo sono stati i personaggi femminili messi in scena: molto spesso stereotipi su gambe – ve la ricordate Black Widow agli inizi? – fino a ricadere nella figura della Mary Sue con Captain Marvel. Insomma, tendenzialmente i personaggi femminili sono secondari, insipidi e spesso persino insopportabili.

Non arriverei a dire che Hope sia una delle peggiori, tuttavia è davvero un pessimo personaggio femminile: non ha veramente niente di interessante da raccontare, è del tutto definitiva nel rapporto col padre ed è talmente fastidiosa che non si capisce cosa Scott ci veda in lei – a parte la bellezza, ovviamente.

Per fortuna che questa tendenza si sta risolvendo in tempi recenti, con personaggi come Ms. Marvel, She Hulk e Kate Bishop in Hawkeye – a prescindere dalla qualità dei prodotti.

Dove si colloca Antman?

Per quanto sia un film abbastanza indipendente, Antman ben si contestualizza nell’MCU per elementi interni alla pellicola.

Il personaggio viene introdotto in questo film, per poi essere ampiamente coinvolto nel film successivo – e maxi evento – Civil War (2016), a cui si collega direttamente, ed è una delle tre origin story – insieme a Spiderman Homecoming (2017), Doctor Strange (2016) – che introduce personaggi poi protagonisti della fine della saga del Multiverso.

È l’ultimo film della Fase 2 e si ambienta poco prima di Civil War, quindi fra il 2015 e il 2016.

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Accadde quella notte... Commedia Drammatico Film Notte degli Oscar

The Artist – Il potere del muto

The Artist (2011) di Michel Hazanavicius più che un film è un sorprendente esperimento cinematografico: provare a riproporre una storia simile a Singing in the rain (1952), ma con la struttura tecnica di una pellicola muta degli Anni Venti.

E il risultato lascia senza parole.

Il film ricevette diversi riconoscimenti, fra cui l’Oscar per Miglior Film, garantendogli anche un buon ritorno economico: a fronte di un budget davvero risicato (15 milioni di dollari), incassò 133 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Artist?

George è una star del cinema muto, che si ritrova improvvisamente a scontrarsi con il nuovissimo cinema sonoro, che sembra spadroneggiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Artist?

Assolutamente sì.

Era davvero difficile riuscire a riproporre un film muto nel 2011, con anche le dinamiche tipiche dei prodotti del cinema primigenio, e renderle apprezzabili al pubblico contemporaneo ormai abituato a prodotti totalmente diversi.

Eppure The Artist ci riesce perfettamente.

Per questo vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che si tratti di un film muto: con pochi tocchi e grazie ad una messinscena davvero ben pensata, il regista è riuscito a rendere il prodotto assolutamente godibile.

E vale la pena di spendere due parole in più al riguardo.

Come guardare The Artist

Davanti ad un film come The Artist – in 4:3, in bianco e nero, con dinamiche di un cinema lontanissimo da quello attuale e pure muto – ci si potrebbe facilmente scoraggiare.

Come me è stato in parte per me.

Ma la genialità di questa pellicola sta proprio nella sua capacità di alleggerire notevolmente la maggiore pesantezza del cinema muto, ovvero la continua interruzione della scena per mostrare, tramite scritte sullo schermo, cosa si stanno dicendo i personaggi.

Al contrario, The Artist punta molto sulla recitazione corporea e espressiva, mettendo a schermo neanche un quarto dei dialoghi in forma scritta, ma rendendo chiarissime le dinamiche in scena.

Vedere per credere.

Uno spunto prevedibile…

L’incipit è molto simile – e anche volutamente – al classico del Cinema Singing in the rain (1952): una giovane promessa che riesce ad affermarsi nel nuovo cinema sonoro.

E la pellicola racconta anche un finto spunto narrativo che la rende simile al suddetto film: George deve scontrarsi con la sua vanesia co-star, Costance, che fin da subito si irrita per come il divo gli rubi tutta la scena.

In realtà il suo personaggio viene brevemente rimesso in scena quando Al Zimmer, il produttore, mostra al protagonista la prima prova audio dell’attrice. Poi, semplicemente, esce di scena. E lo stesso vale per la presunta storia romantica fra George e Peppy.

…ma uno sviluppo diverso

Dopo appunto questi spunti narrativi che rimangono orfani – totalmente a favore di pubblico – il film prende una strada totalmente diversa, quasi inaspettata.

Si mostra parallelamente il successo di Peppy Miller, la nuova star del cinema sonoro, e gli inutili tentativi di George di riuscire nuovamente a sfondare nel cinema muto ormai morente, finendo per distruggere anche se stesso.

The Artist quindi si propone di raccontare l’altro lato della medaglia di Singing in the rain: la sorte sfortunata dei divi del cinema muto che non riuscirono a stare al passo con la nuova tendenza.

Infatti nel film del 1952 il contrasto era fra i personaggi positivi – che rappresentano il nuovo cinema – e l’insopportabile diva del muto, che ormai non poteva più essere al passo con la nuova tendenza.

Al contrario, qui è George ad essere vittima della situazione.

Un tipico divo?

George è un protagonista perfetto.

In prima battuta, viene presentato come il classico divo molto – troppo – sicuro di se stesso, anche a costo di mettere in ombra gli altri. Ma non si calca troppo sulla negatività del personaggio, non andando quindi a scadere nella classica narrazione del divo vanesio che si redime nel corso della pellicola.

Il nostro protagonista è semplicemente molto sicuro delle sue doti, e non ha il minimo dubbio sul suo futuro attoriale. Ma si deve scontrare con il cambio dei tempi, spendendo moltissimi soldi per produrre il proprio film, e andando in rovina per questo. E solo per la sua ingenuità, molto spesso rappresentata in maniera quasi giocosa.

Ma anche diversi picchi drammatici, quasi inaspettati per un film con un tono quasi da commedia…

Giocare con il suono

Ho trovato assolutamente geniale il gioco metanarrativo sul suono all’interno della pellicola.

Prima di tutto per l’incubo di George, in cui improvvisamente sente tutti i suoni, ma lui rimane muto, incapace di parlare – proprio come per i suoi film. E il suo urlo rimane totalmente inascoltato.

Ma anche con diversi momenti comici, piccole battute che giocano con il tema del film, ad esempio quando George parla con la signora che è piuttosto interessata al suo cane, e dice:

If only he could talk.

Se solo potesse parlare

E con un finale piacevolissimo, che non scade nella banalissima trama romantica, ma anzi mostra il racconto di una dolcissima Peppy Miller che trova un posto a George nel nuovo cinema. Con un finale in cui esplode finalmente il suono, e sentiamo per la prima volta il protagonista parlare.

Con il suo vistoso difetto di provincia.

The Artist meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2012 furono interessanti per diversi motivi.

Per cercare di rianimare l’interesse intorno alla premiazione, come per gli Oscar del 2010, si decise di portare un numero di nomination fra le cinque e le dieci per la categoria Miglior film, a seconda del risultato delle votazioni interne.

E infatti si ebbero solo nove nomination per quella categoria.

La spartizione dei premi fu molto larga: l’unico film veramente a trionfare nelle categorie principali fu The Artist, affiancato da Hugo Cabret (2011), che però vinse solamente nelle categorie tecniche. Il resto dei premi fu distribuito fra i vari candidati, che acquisirono una statuetta ciascuno.

Purtroppo conosco solamente la metà dei candidati per la categoria Miglior film. Tuttavia, fra quelli che ho visto – Hugo Cabret, Moneyball, The Help, Midnight in Parisa nessuno avrei assegnato la statuetta.

Per questo secondo me la vittoria di The Artist fu non solo la migliore, ma l’unica che veramente avrei accettato.

Fra l’altro la sua vittoria fu molto interessante nella storia dell’Academy: il secondo film muto a vincere in questa categoria – il primo fu Ali (1927), durante la primissima Notte degli Oscar del 1929. Inoltre fu il primo film in bianco e nero a vincere in questa categoria dopo quasi vent’anni – l’ultimo era stato Schindler’s List (1993).

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2022 Avventura Comico Commedia Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Horror Nuove Uscite Film Satira Sociale Surreale

White noise – Un puzzle incompleto

White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.

Non è stato così.

Di cosa parla White noise?

Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere White noise?

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Probabilmente no.

Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.

Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…

Aprire bellissime porte…

Adam Driver, Don Cheadle e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.

Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.

Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...

…qualcosa che non è mai arrivato.

…e aprirne altre ancora

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.

Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…

E basta.

Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.

Qual è il punto?

Adam Driver n una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.

Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.

Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.

E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:

What’s the point I want to make?

Anderson, sei tu?

Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.

In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.

E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…

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2022 Animazione Avventura Cinema per ragazzi Commedia Disney Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Futuristico Nuove Uscite Film Racconto di formazione

Strange World – Ambientalismo generazionale

Strange world (2022) di Don Hall è un lungometraggio animato di genere avventura, con un forte elemento fantastico-fantascientifico e una piccola morale molto interessante.

Peccato che nessuno ne stia parlando.

Il film è stato infatti un disastro commerciale: a fronte di una produzione piuttosto importante di 180 milioni di dollari, ne ha incassati ad oggi 66 in tutto il mondo.

E ormai è sbarcato su Disney+ e la sua vita in sala è finita…

Di cosa parla Strange world?

Jaeger Clade e suo figlio Searcher sono due avventurieri che stanno per scoprire cosa si nasconde dietro le montagne che circondano il loro piccolo mondo. Ma qualcosa di più interessante si trova su quelle montagne, che porterà le loro strade a dividersi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strange world?

In generale, sì.

Strange world è un film fatto apposta per essere visto con tutta la famiglia, con un cast di personaggi piuttosto corale che mette in scena tre diverse generazioni, e i rapporti che le legano.

Oltre a questo, è una piccola avventura molto simpatica e piacevole, che sicuramente potrebbe allietare un pomeriggio in compagnia, senza particolari difetti. Più che altro il grande problema del film è il fatto che è molto dimenticabile

Ed è solo uno dei motivi del suo insuccesso…

Perché Strange world è un flop?

Strange world è stato un disastro commerciale.

Si potrebbe pensare che questo insuccesso sia dovuto unicamente alla scarsissima campagna marketing e alla recente antipatia della Disney per i prodotti animati al cinema, all’interno di una crisi del genere tutto.

Sia Red (2022) quanto Lightyear (2022) sono testimoni di questa tendenza.

Tuttavia, secondo me non è l’unico motivo.

La Disney si è trovata fra le mani un prodotto non particolarmente forte, per vari motivi: per quanto sia appunto un prodotto piacevole e davvero adatto al target familiare, è purtroppo davvero dimenticabile e non è così originale e memorabile sotto nessun punto di vista.

Questo sia per la trama molto semplice, ma sopratutto per la mancanza di canzoni: come mi ha ben fatto notare il caro collega di @cangius.movie, la parte musicale resta molto più facilmente in testa ed è parte del successo di un film Disney.

E Encanto (2021) lo testimonia perfettamente.

Per cui, davanti ad un prodotto non molto forte, che forse sapevano anche non avrebbe avuto un gran profitto, hanno deciso di non promuoverlo e scaricarlo il prima possibile su Disney+.

Con le conseguenze che abbiamo visto.

Un film per tutta la famiglia

Strange world è un film confezionato alla perfezione per colpire i diversi target: il bambino o ragazzino, il padre e anche il nonno, raccontando i conflitti e rapporti che definiscono queste tre generazioni.

Per quanto in qualche misura le risoluzioni sembrano un po’ affrettate e semplicistiche, colpiscono indubbiamente al cuore e raccontano delle dinamiche in cui un po’ tutti possono ritrovarsi, ed essere per questo coinvolti e commossi.

E la rappresentazione del conflitto generazionale è tanto più interessante in riferimento al tema di fondo.

Ambientalismo intergenerazionale

Il tema di fondo diventa tanto più evidente più ci si avvicina al finale.

Strange world vuole in realtà parlare di ambientalismo, di vivere in armonia con il pianeta che abbiamo colonizzato senza pietà per millenni e del male che gli stiamo facendo con la nostra scorsa allo sfruttamento selvaggio.

E questo tema si articola nei tre personaggi protagonisti.

Jaeger Clade rappresenta la generazione più vecchia e con una volontà distruttiva: come si vede, il personaggio si fa largo nell’ambiente in maniera aggressiva e mettendo solamente la propria persona al centro, considerando nemico ogni elemento che gli si pone davanti.

Più morbido il comportamento di Searcher Clade, che rappresenta la generazione fra i Millennial e la Generazione X, che comunque sfrutta l’ambiente in cui vive, nonostante questo provochi dei danni allo stesso.

E si sente anche nel giusto nel farlo.

In quest’ottica il Pando può essere associato a tutte le risorse della Terra che sfruttiamo all’inverosimile e al conseguente inquinamento dovuto all’ipersfruttamento e all’utilizzare tutto unicamente a nostro vantaggio.

La generazione di svolta è quella di Ethan, che fin da subito si sente in colpa nello sterminare esseri viventi, per quanto aggressivi, e che alla fine riesce insieme al padre a comprendere la verità sulla situazione in cui si trova e, di conseguenza, a salvare il proprio mondo.

Con un finale in cui le generazioni si ricongiungono in un messaggio di speranza.

Una rappresentazione positiva?

Strange world ha fatto un certo rumore per la rappresentazione del protagonista come esplicitamente omosessuale.

Durante la pellicola Ethan racconta più volte di essere interessato a Diazo, e tutti i personaggi accettano pacificamente, anzi felicemente, questa potenziale relazione. E tutta la rappresentazione del loro rapporto è molto tenera e naturale.

Tuttavia, io non sono del tutto convinta.

Mi rendo perfettamente conto che stiamo parlando della Disney che va con i piedi di piombo su questo argomento, ma a me sembra che ancora non sia abbastanza e che forse non sia la migliore rappresentazione auspicabile.

Il mio dubbio sta anzitutto nel character design sia di Ethan che di Diazo: volevano dare una rappresentazione del maschile che si sente più libero di avere una aspetto non rigidamente e stereotipicamente di genere, oppure stavano semplicemente giocando con uno stereotipo?

E qui sta tutta la differenza.

Oltre a questo, nonostante alla fine abbiamo una relazione, non si vede mai che si scambiano effusioni, a differenza di quanto succede piuttosto esplicitamente fra Searcher e Meridian.

Io personalmente, più che una buona rappresentazione, vedo ancora dei contentini e delle mani messe avanti…

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Glass onion – La ricetta vincente

Glass onion – A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson è il sequel di quel piccolo successo che fu al tempo Knives out (2019). Un riscontro di pubblico tale, per una produzione comunque non particolarmente impegnativa, da far acquisire i diritti a Netflix e ordinare due sequel.

Un prodotto che mi ha colpito così tanto tanto da vederlo due volte di fila senza annoiarmi neanche un minuto.

Tuttavia, vanno fatte delle giuste premesse.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Glass onion (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliore sceneggiatura non originale

Di cosa parla Glass onion?

Il detective Blanc viene coinvolto in un nuovo mistero, con al centro un eccentrico miliardario, che però non è ancora morto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Glass onion?

Daniel Craig, Kate Hudson, Madelyn Cline e Leslie Odom Jr. in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Per me, assolutamente sì.

Tuttavia, ci sono diverse mani da mettere avanti.

Anzitutto, ovviamente, se non vi è piaciuto Knives out, non guardate il sequel: non aspettatevi niente di diverso. Oltre a questo, Glass onion gioca ancora di più in maniera sperimentale con il genere whodunit, sostanzialmente snaturandolo. Per questo, se invece cercate le classiche dinamiche del genere, non è il film che fa per voi.

Invece se, come me, non siete particolarmente appassionati dei racconti di genere giallo, sopratutto nelle sue dinamiche che, pur indubbiamente vincenti, risultano ridondanti alla lunga per i non appassionati, potrebbe piacervi. E anche molto.

L’importante è partire con il giusto mindset.

Mantenere la ricetta…

Daniel Craig in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Glass onion gode di una grande furbizia di scrittura.

Rian Johnson si è trovato davanti all’impresa di dover portare un sequel ad un film autoconclusivo, non snaturando l’opera originale e creando un prodotto che fosse altrettanto avvincente per il pubblico che aveva apprezzato il primo film.

E così ha scelto di utilizzare uno scheletro narrativo piuttosto simile, ma esplorandolo in direzioni diverse e cambiando radicalmente la caratterizzazione di alcuni personaggi, che pure hanno un ruolo molto simile rispetto al primo capitolo.

Ed è stata una strada vincente, con risultati inaspettati.

…per uscire dal genere

Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Sopratutto alla seconda visione, mi sono resa conto di quanto la pellicola esca dai canoni del giallo whodunit.

Infatti, se il primo film complessivamente si poteva considerare un giallo classico, che poteva però infastidire gli appassionati per la profonda ironia e la mancanza di volontà di rimanere nel seminato, in questo caso possiamo felicemente parlare di un’uscita dal genere di riferimento.

Non ci sono colpi di scena che rivelano il vero colpevole, tutti gli indizi sono mostrati allo spettatore, e, nonostante in qualche misura sembri seguire le strade più classiche, sul finale rivela tutto il contrario.

In particolare tramite il gioco metanarrativo della glass onion.

Glass onion: un gioco metanarrativo

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Come per il primo Knives out, Glass onion è un film assolutamente democratico.

Infatti tutti gli indizi necessari per risolvere il mistero sono già in scena, e sono tanto più evidenti tanto più si entra nella logica metanarrativa della glass onion.

La pellicola gioca ampiamente con lo spettatore e con le sue aspettative: io stessa per tutta la durata mi aspettavo un grande colpo di scena finale che rivelasse chissà quali misteri. E invece, per ammissione dello stesso Blanc, il mistero è tanto semplice quanto stupido.

E infatti la questione si risolve su più livelli, per cui sia il mistero che Miles sono come una cipolla di vetro: apparentemente complessa e stratificata, in realtà evidente e sotto gli occhi di tutti. Lo stesso miliardario basa la sua identità su una serie di stratificazioni ingannevoli e fragili, mentre la sua vera natura è palese e insignificante.

Il simbolismo di Mona Lisa

Janelle Monáe in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Dal versante totalmente opposto, troviamo il personaggio di Helen, che viene più volte associato alla figura di Monna Lisa.

Infatti sia il suo personaggio che la misteriosa donna di Leonardo condividono una personalità e uno sguardo tanto più enigmatico e intrigante, e così anche per la sorella gemella: difficili da leggere e da comprendere. E ben più sottili e interessanti di quanto appaia all’esterno.

E infatti il dipinto di Mona Lisa è una sorta di simbolo di quello che Miles vorrebbe essere, e dell’immagine che cerca di costruirsi per diventare altrettanto intrigante e enigmatico. Ma, appunto, come la stessa glass onion rivela, non è nulla di tutto questo.

Un finale migliore

Kathryn Hahn, Kate Hudson e Madelyn Cline, Edward Norton in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

In prima battuta il finale mi aveva deluso.

Poi, ho capito di essere caduta nella mia stessa trappola: considerare questa pellicola per quello che non era, e aspettarmi delle dinamiche che non sono nella sua natura. E infatti, come molti altri come me, mi aspettavo un grande colpo di scena finale o una rivalsa più classica in cui il villain veniva incastrato.

E invece non è così, ma è meglio così.

Infatti, se ci si ragiona un attimo, Helen non avrebbe avuto nessun vantaggio ad incastrare Miles a livello legale: con le sue connessioni e con l’omertà diffusa, il miliardario se la sarebbe comunque cavata. Invece, riuscire a distruggere il suo impero dalle fondamenta, rivelarne tutta la sua fragilità, è la mossa perfetta per mettere davvero in scena una vendetta vincente.

Ancora attuali

Dave Bautista in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Anche più della scorsa pellicola, Glass onion riesce ad essere incredibilmente attuale.

Già l’idea di ambientarlo nel 2020 era intrigante, ma lo è stata tanto più in quanto non ci si è fossilizzati su questo elemento, che poteva già apparire datato. Al contrario, si dedica ampio spazio al discorso della cosiddetta woke culture e in generale degli scandali nati su internet.

Per fortuna il discorso non è banalizzato per nulla, anzi si mostra, senza raccontarlo esplicitamente, di come personaggi stupidi e fondamentalmente negativi giustifichino il loro comportamento sbagliato con quello che noi chiameremmo il politicamente corretto.

Un argomento tanto attuale, quanto raccontato in maniera interessante e quasi grottesca.

La delicatezza

Hugh Grant in una scena di Glass onion - A Knives Out Mystery (2022) di Rian Johnson, sequel di Knives out

Il cameo di Hugh Grant merita un discorso a parte.

L’attore appare all’improvviso nella seconda parte della pellicola, e ci rivela un elemento del tutto inaspettato, ma raccontato con una tale delicatezza che non ho potuto smettere di pensarci. Nonostante Blanc non sia una macchietta né uno stereotipo – anzi non lo diresti mai – è in una relazione con un uomo.

Molti dovrebbero prendere spunto da come è stato introdotto questo elemento nella pellicola, senza feticizzarlo, senza drammatizzarlo, ma rendendolo un elemento assolutamente organico nella trama.

Tanto più che la rappresentazione di coppie omosessuali di uomini adulti più avanti con gli anni è quasi totalmente assente nel cinema contemporaneo…

Sherlock sei tu?

Con la preziosa collaborazione di Irene

All’interno della pellicola, non mancano i riferimenti a Sherlock Holmes.

Anzitutto nella scena del bagno in cui Blanc sta giocando ad Among us con i suoi colleghi, fa un discorso che riprende molto le mosse di Sherlock: come il famoso detective, il protagonista afferma di aver bisogno di casi interessanti per combattere la noia.

Questo elemento è presente sia nell’opera originale, sia nelle trasposizioni: nel romanzo per combattere la noia fa utilizzo di eroina, nella serie tv Sherlock utilizza i cerotti di nicotina.

Così anche nella stessa scena, nella vasca da bagno regna il disordine più totale: così al 221B Baker Street, nei romanzi come nei prodotti derivati, l’ambiente è dominato dal caos.

Più in generale, il personaggio di Blanc sembra un interessante incontro fra le versioni televisive e cinematografiche Poirot quanto di Sherlock.

Per le modalità dello svelamento del mistero e sopratutto la rivelazione del finto omicidio di Miles ricorda in particolare lo Sherlock di Benedict Cumberbatch nella serie omonima, che desidera svelare immediatamente le sue deduzioni, quasi per vanità…

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Una poltrona per due – Un cult non di Natale

Una poltrona per due (1983) di John Landis è un cult di Natale tutto italiano, e anche il più particolare fra tutti.

Infatti, non è un film di Natale.

Almeno, non in senso stretto.

Un film che, non a caso, ebbe un ottimo successo commerciale: a fronte di appena 15 milioni di dollari di budget, ne incassò ben 120 in tutto il mondo.

Di cosa parla Una poltrona per due?

Le vicende parallele di Louis, un ricco imprenditore, e di Billy, un senzatetto, si intrecciano in maniera assolutamente inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Una poltrona per due?

Assolutamente sì.

Una pellicola piacevole e ottimamente costruita insieme: la struttura narrativa è perfetta, la caratterizzazione dei personaggi e la loro evoluzione ottimamente ideata, oltre ad essere genuinamente divertente anche alla millesima visione.

Un cult che merita di essere tale.

E che non potete assolutamente perdervi.

L’introduzione, anche con poco

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il primo atto del film è tutto dedicato all’introduzione dei personaggi e del loro contrasto.

Lo stesso è annunciato già dalle primissime scene, in cui riprese della strada della città e delle realtà più povere corrono parallele alle inquadrature della vita agiata di Louis.

Fin da subito la pellicola ci racconta come Louis sia troppo sicuro della sua posizione: nato e cresciuto nella bambagia, trattato da tutti coi guanti, si sente all’interno di una roccaforte. Elemento fra l’altro ben raccontato dall’apice della sua introduzione, la parte della cena con Penelope, in cui dice al maggiordomo Coleman:

I have all I want.

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

L’introduzione di Billy Ray è più breve, ma altrettanto efficace.

Viene subito inquadrato come un senzatetto che vive di espedienti, fingendosi un invalido di guerra e pure cieco, portando alla divertentissima gag con i due poliziotti, quando finge di aver recuperato miracolosamente la vista.

Da lì il suo personaggio si scontra per la prima volta con la sua controparte, arrivando a definire il primo punto di contrasto: la parola di Louis, nonostante si sia trattato di un malinteso, viene immediatamente creduta, mentre Billy Ray viene sbattuto in galera, dopo una mirabolante fuga.

Il suo personaggio viene infine definito dalla scena della prigione, in cui si dimostra ancora una volta come uno che cerca sempre di fregare gli altri, millantando imprese mai compiute.

Bonus

Eddie Murphy e Giancarlo Esposito in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Nella scena della prigione, il ragazzo appoggiato alle sbarre è niente di meno che Giancarlo Esposito, il futuro interprete dell’iconico Gus Fring in Breaking bad!

Una coincidenza interessante vedere un attore ancora sconosciuto, che avrà la sua gloria a quasi trent’anni di distanza, e Eddie Murphy, interprete che stava per raggiungere il successo con la sua parte nel buddy movie cult 48 ore (1982).

Il piano si mette in moto

Parallelamente all’introduzione dei protagonisti, conosciamo anche i due antagonisti, i famigerati Duke Brothers.

E li conosciamo soprattutto per due caratteristiche: l’avarizia e le macchinazioni. Fin dalle prime scene cominciano a portare le idee per il loro terrificante piano, basato semplicemente sulla noia e il desiderio di sperimentare con la vita degli altri.

Per tutto il tempo fra l’altro vivranno del loro antagonismo, sia per la scommessa, sia per i loro caratteri opposti, ben definiti dalla scena della macchina in cui bisticciano su quali offerte fare in Borsa.

E così i due cominciano a muovere le pedine in gioco, e ad innescare la parte centrale, con i suoi due archi narrativi opposti: uno costruttivo e uno distruttivo.

Louis: l’arco distruttivo

La distruzione del personaggio di Louis è definita dalla sua perdita di identità.

E la stessa passa attraverso la perdita dei vestiti.

Anzitutto Louis viene incastrato per i due crimini più umilianti (ma comunque molto credibili) per una persona del suo livello: il furto e il possesso di droga – due crimini di strada. E, fin da subito, soprattutto al commissariato, cerca di ribadire l’importanza della sua persona.

Ma è tutto inutile.

Dan Aykroyd e Jamie Lee Curtis in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

E qui comincia la prima perdita effettiva di identità, tramite la perdita dei vestiti, che gli vengono sottratti, e mai più ridati. E si vede subito dal contrasto con la fidanzata, Penelope, quando va a recuperarlo al commissariato: lei perfettamente curata, lui assolutamente impresentabile, come da lei stessa sottolineato.

Subito dopo, cerca ancora in due occasioni di ribadire la sua identità: prima cercando di rientrare in casa, poi andando in banca, dove le sue carte di credito vengono sequestrate e la sua identità totalmente distrutta.

Il suo primo picco è raggiunto quando, dovendo pregare Ophelia di portarlo con lui, si mette in ginocchio, con un parallelismo incredibilmente vincente con la scena in cui Billy Ray si fingeva un invalido. E fra l’altro perdendo tutta la sua statura, abbassandosi al livello (e sotto) di una persona che fino al giorno prima avrebbe disprezzato.

Il tentativo di ritorno

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

In seconda battuta Louis tenta di recuperare la sua identità, che ormai gli è stata totalmente sottratta.

E lo fa cercando di riassumere gli abiti che lo definivano, ma è impossibile: quella cravatta, quella camicia e quella giacca così stravagante stonano moltissimo davanti all’abbigliamento ben più sobrio dei suoi amici del club. E infatti per questo ancora una volta viene respinto.

L’ultimo atto della sua distruzione è il banco dei pegni: Louis cerca di ottenere anche un certo tipo di riconoscimento, di cui era tanto sicuro, tramite lo speciale orologio da polso, che però viene totalmente svalutato.

E ancora perde un altro pezzo di sé.

Caduta libera

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

L’ultimo atto della sua distruzione è la cena di Natale.

Il preludio è rappresentato da un momento di drammatica consapevolezza di Louis, che si trova davanti all’immagine di Billy che ha ormai preso il suo posto. Mentre lui è fuori, totalmente emarginato da quello che un tempo era tutto il suo mondo.

Ma il trigger è l’articolo di giornale dove vede che Billy Ray ha definitivamente preso il suo posto anche agli occhi del pubblico.

E in quel momento Louis perde per certi versi la sua natura umana, e diventa quasi un essere bestiale. Così cambia del tutto abiti, diventando in tutto e per tutto un barbone, che fa ribrezzo nei modi e nell’aspetto.

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

E a quel punto, la mossa disperata: cercare di incastrare Billy Ray, facendo leva su un’improbabile autorità che non possiede più. Ma, una volta trovatosi davanti alla sconfitta, scappa come era stato per la sua controparte prima di lui.

Infine quando Billy cerca di raggiungerlo per innescare il terzo e conclusivo atto del film, lui gli risponde con un verso animalesco: Louis non è più Louis. E diventa totalmente un emarginato, schifato e allontanato da tutti, mentre è sull’autobus nella sua forma peggiore…

E il picco definitivo è la sua quasi morte.

Billy Ray – L’arco costruttivo

L’arco di Billy segue la china totalmente opposta: una ricostruzione dell’identità.

Come le due scene dedicate dell’introduzione ci hanno ben raccontato, Billy è un personaggio furbo – o che crede di esserlo – che racconta storie clamorose su imprese mai compiute per avere una sorta di riconoscimento sociale.

E infatti, dopo una prima fase di assestamento, Billy decide di spendere la sua nuova posizione – e i suoi nuovi soldi – per rivalersi su quelli che l’avevano sbeffeggiato, inaugurando la sua nuova casa con un festivo che prende strade inaspettate.

E qui avviene la sua epifania.

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Una lenta, ma significativa presa di coscienza che colpisce il personaggio mentre vede diverse persone che non rispettano in alcun modo le proprietà degli altri. E forse in quelle stesse vede lo specchio del suo comportamento fino al giorno prima.

E a quel punto capisce che non vuole essere più quella persona.

La brillantezza sopita

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il secondo passo della sua evoluzione è l’entrata alla Duke & Duke: anche incoraggiato giocosamente da Randolph, dimostra che, nonostante sia un senzatetto probabilmente senza alcun tipo di istruzione, riesce ad indovinare le previsioni sull’andamento di borsa.

E questo perché, a differenza dei Duke Brothers, ha un polso più chiaro della situazione della vita reale del consumatore comune, che era lui stesso fino a poco tempo prima.

Ovviamente si tratta di un racconto molto fantasioso, ma che funziona perfettamente nel contesto della pellicola, che ovviamente richiede un’importante sospensione dell’incredulità.

Cambiare faccia

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il picco della sua evoluzione corrisponde a quello di Louis, ovvero il primo momento in cui si scontrano direttamente.

E le parti si scambiano definitivamente, non solo perché Billy Ray diventa la persona con autorità e credibilità, ma soprattutto perché Billy si comporta nello stesso modo di Louis all’inizio del film, disprezzando quel tipo di persona che era lui stesso poco tempo prima.

E infatti il suo comportamento rappresenta la chiusura della scommessa.

Il piano risolutivo?

La bellezza di Una poltrona per due è che il terzo atto, che rappresenta lo scioglimento della vicenda, è una storia a parte.

Finalmente tutti i pezzi si mettono insieme: Billy, Louis e Ophelia uniscono le loro conoscenze e capiscono il piano dei Duke Brothers, riuscendo a intesserne uno loro parallelo per togliergli la ricchezza dalle mani.

E riescono effettivamente a batterli perché i due fratelli sono sempre troppo sicuri della loro posizione.

Così mettono insieme quella che è in tutto e per tutto una carnevalata, all’interno di una cornice narrativa che gioca proprio di maschere e finte maschere: chi si traveste per Capodanno, chi finge di essere travestito, chi rimane per sempre con un’altra identità.

E qui va fatto un discorso a parte.

Giocare con gli stereotipi in Una poltrona per due

Visto con gli occhi di oggi, e sopratutto decontestualizzando questo elemento, sembrerebbe che in Una poltrona per due Dan Aykroyd abbia fatto una black face.

Invece tutta la scelta di queste maschere ha un preciso significato, che si può cogliere solo ragionando sul periodo storico e sul racconto del razzismo all’interno del film.

Per tutta la pellicola vediamo infatti un razzismo sotterraneo ma onnipresente, associato principalmente ai Duke Brothers.

Billy Ray viene costantemente discriminato dai personaggi, ma non dalla pellicola stessa: considerando il periodo in cui è stato prodotto, è un personaggio del tutto scevro dagli stereotipi, che anzi lascia spazio alla creatività interpretativa di Eddie Murphy.

Eddie Murphy e Jamie Lee Curtis in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Proprio per questo, in questa sequenza il regista calca invece la mano nella direzione opposta, e inserisce una sconvolgente black face all’interno della fiera degli stereotipi, come uno schiaffo in faccia allo spettatore, all’interno di un film che ne è totalmente privo.

Quindi lo stereotipo dell’africano rumoroso, della donnina svedese piacente, del prete irlandese ubriacone.

E, fra l’altro, la mascherata di Louis ha un preciso intento narrativo: il personaggio deve nascondersi agli occhi di Clarence Beeks, che ovviamente conosce la sua faccia.

Ophelia in Una poltrona per due

Sempre secondo lo stesso concetto, anche Ophelia è un personaggio femminile interessantissimo, proprio perché non vive di stereotipi, anzi.

Ophelia è una figura femminile veramente scandalosa: non una donna angelica, non solo l’interesse amoroso del protagonista, ma una donna forte, decisa, che sa perfettamente usare il suo corpo per costruirsi una vita.

E senza nessuna vergogna per essere una prostituta.

Infatti, in un mondo degli ultimi, Ophelia è perfettamente consapevole della difficoltà di evitare il degrado e l’autodistruzione. Per questo riesce a costruirsi una propria realtà dove può muoversi liberamente e guadagnarsi una vita con quello che ha a disposizione.

Cosa succede nel finale?

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il finale, per quanto avvincente, non è semplicissimo da capire per chi non mastica la materia.

Per questo ho preso spunto da un articolo molto dettagliato de Il Post, cercando di spiegarlo in maniera anche più semplice: fondamentalmente i Duke Brothers vogliono mettere le mani sulle previsioni del raccolto dell’anno per avere un’idea dell’andamento del mercato, e poi acquistare i cosiddetti futures.

I futures sono dei contratti fra due parti che scommettono sull’andamento di un prodotto: entrambi si accordano per acquisire una certa merce ad un certo prezzo in un momento futuro.

E solo una delle parti ci guadagnerà a seconda del prezzo effettivo del prodotto: se ad esempio io mi accordassi per comprare il succo d’arancia a 10 dollari fra un mese, ma fra un mese il succo d’arancia avrà un valore di mercato di 15 dollari, io lo comprerò sempre a quella cifra e ci guadagnerò rivedendolo e guadagnando sulla differenza.

Così anche al contrario.

Cosa succede nel finale di una poltrona per due

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

In Una poltrona per due quindi i Duke Brothers, ingannati dal finto rapporto, pensano che il raccolto sarà scarso e di conseguenza il prezzo alto. Per questo comprano tantissimi futures, sicuri che, una volta diffuso il rapporto, il prezzo schizzerà alle stelle e lo ci guadagneranno avendo comprato ad un prezzo inferiore.

Al contrario, Louis e Billy, sapendo che il raccolto invece sarebbe stato ottimo e di conseguenza il prezzo basso, stipulano dei futures come venditori, promettendo di vendere il prodotto ad un prezzo che gli investitori in quel momento considerano basso.

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Tuttavia, quando viene svelato il rapporto veritiero, gli investitori si rendono conto di essersi impegnati a comprare il prodotto ad un prezzo altissimo rispetto al valore effettivo di mercato, che, dopo l’annuncio, che crolla immediatamente. Quindi cercano di stipulare dei futures per vendere il prodotto, che i protagonisti accettano di comprare dopo che il prezzo è sceso ancora.

Quindi Billy e Louis vincono perché prima dell’annuncio, avevano concordato di vendere il prodotto ad un prezzo molto alto rispetto a quello che è il valore di mercato dopo l’annuncio. Così, sempre dopo l’annuncio, possono comprare le arance ad un prezzo basso e venderle ad un prezzo alto. I Duke Brothers, avendo scommesso il contrario, hanno perso tutti i loro soldi.

Perché Una poltrona per due è un cult di Natale?

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

La particolarità di Una poltrona per due è che è considerato un film natalizio, ormai una tradizione, ma di fatto non è un film di Natale in senso stretto.

Infatti, è una tradizione tutta italiana dovuta alla programmazione Mediaset.

Il film fu trasmesso per la prima volta in tv nel 1986, e poi dal 1987 si cominciò a metterlo in onda a Dicembre, avvicinandosi progressivamente sempre di più al periodo natalizio. Questo evidentemente perché, in prima battuta, la pellicola era stata inserita nella programmazione dicembrina in quanto ha effettivamente degli elementi legati alle festività.

E il pubblico negli anni ha sempre risposto benissimo: una Poltrona per due è un film senza tempo, piacevole da vedere e con un forte messaggio di speranza e di rivalsa degli ultimi, che riesce in qualche modo a colpire in un periodo in cui ci sente stressati e sommersi dal Natale e dagli impegni che ci prendiamo per il nuovo anno.

Sostanzialmente Mediaset ha cavalcato una tendenza e l’ha resa una tradizione, programmando Una poltrona per due, a partire dal 1997, ogni anno per la sera di Natale.

E le tradizioni sono dure a morire…

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Klaus – Un Natale diverso

Klaus (2019) di Sergio Pablos è un lungometraggio animato di produzione Netflix.

Un prodotto che non ebbe (purtroppo) l’eco che meritava, venendo candidato agli Oscar come Miglior Lungometraggio Animato, ma perdendo ancora una volta contro lo strapotere della Disney.

Un prodotto molto particolare, con una tecnica originalissima che mischia il 3D con il 2D in maniera superba.

Di cosa parla Klaus?

Jesper è un ragazzo ricco e viziato, che il padre cerca inutilmente di far maturare. Il suo ultimo tentativo è di farlo diventare il postino di una piccola città dispersa in una minuscola isola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Klaus?

Una scena di Klaus

Assolutamente sì.

Come detto, Klaus è una piccola perla dimenticata, la quale, oltre ad avere una costruzione narrativa incredibile, una storia meravigliosa, dei personaggi piacevolissimi, presenta anche una tecnica di animazione molto peculiare.

Insomma, non aspettatevi il solito film di Natale dei buoni sentimenti, né un racconto astruso e poco interessante dell’origine di Babbo Natale. Troverete anzi un racconto umano, avvincente e pieno di sorprese.

Insomma, se non l’avete visto, è ora di rimediare.

Il fascino dell’eroe negativo

Una scena di Klaus

L’eroe negativo è un topos molto in voga (anche troppo) nel cinema contemporaneo, ma che necessita di una certa costruzione che lo renda credibile e che lo faccia avvicinare allo spettatore.

E Klaus ci riesce benissimo.

Una scena di Klaus

Jesper parte da un apice negativo, come quasi un ragazzino viziato e capriccioso, che tendenzialmente lo spettatore mal sopporta, anzi quasi è felice che venga punito. Dopo però questo sentimento viene smorzato, sia per l’elemento comico grottesco, sia perché di fatto l’eroe diventa vittima degli eventi.

E in una situazione talmente eccessiva che non si riesce a non dispiacersi almeno in parte per lui, e a venir inevitabilmente coinvolti nella sua improbabile avventura.

E la sua risoluzione finale è in qualche misura prevedibile, ma per nulla banale.

Una costruzione perfetta

Una scena di Klaus

All’interno della improbabilità della vicenda, si crea una costruzione fondamentalmente perfetta che riesce a includere tutti gli elementi tipici della storia di Babbo Natale. E con una trama talmente perfettamente oliata e talmente costruita sui particolari che, anche dopo numerose visioni, non sarei capace di raccontare a memoria.

E infatti ogni volta riesco ad essere nuovamente sorpresa da come tutti gli elementi si incastrano perfettamente.

Fra l’altro, una narrazione quasi del tutto priva dell’elemento magico, anzi molto materiale e terrena, che gioca molto sulla negatività del personaggio, con elementi quasi grotteschi, come quando cerca di vendere le lettere ai bambini come fosse uno spacciatore…

Il Babbo Natale che non ti aspetti

Una scena di Klaus

Klaus viene presentato proprio come il contrario dell’immagine canonica di Babbo Natale: pauroso e lugubre, silenzioso e minaccioso.

Tuttavia tutta la sua evoluzione era già in nuce del personaggio: il suo essere silenzioso e impercettibile è un elemento che lo renderà così abile nell’entrare nelle case di notte, il suo essere circondato dalle renne per la sua futura slitta, essere un giocattolaio…

Ma, soprattutto, Klaus è segnato dal profondo lutto non solo della morte della sua compagna, ma dell’impossibilità di crearsi una famiglia. Ma Lydia in realtà è sempre con lui, fino alla fine, e gli permette di creare la famiglia che non hai mai avuto.

Quella dei bambini di tutto il mondo.

La splendida morale

Una scena di Klaus

Klaus propone diverse morali, ma quella più importante è racchiusa in una frase continuamente ribadita:

A true act of goodwill always sparks another.

Un atto di altruismo ne porta sempre un altro

Così, ampliando il discorso, mostra che anche l’ambiente più marcio e il cuore più indurito, con la giusta spinta, riuscirà a migliorarsi e a mostrare la sua parte migliore.

E questo miglioramento, nonostante non sia fatto con le migliori intenzioni, è capillare e coinvolge tutti i personaggi in scena in maniera lenta e ben costruita.

Cosa succede nel finale di Klaus?

Il finale lascia volutamente aperti molti interrogativi.

Spesso in film soprattutto per bambini si cerca di spiegare il concetto di Babbo Natale e tutto quello che lo circonda in maniera molto materiale e comprensibile per il pubblico infantile.

In Klaus l’elemento magico è una sorta di spintarella per i personaggi, ma in generale si mantiene un certo realismo nella vicenda. Sul finale invece lo stesso diventa preponderante, e lascia l’aura di mistero.

E si apre alle interpretazioni.

Per me nel finale Klaus viene richiamato da Lydia, in una sorta di regno ultraterreno, e continua il suo viaggio in una beatitudine eterna in cui può donare felicità ai suoi nuovi figli.

E, una volta l’anno, ritornare dal suo amico che gli ha permesso tutto questo…

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Mamma ho perso l’aereo – Un cult genuino

Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus è uno dei più classici film di Natale, che ha segnato l’infanzia di più di una generazione.

E non è certamente un caso.

Il film incassò benissimo: a fronte di un budget veramente contenuto di appena 18 milioni di dollari, se ne portò a casa 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Mamma ho perso l’aereo?

Il piccolo Kevin sta per partire per una vacanza insieme alla sua famiglia allargata. Ma un evento imprevisto lo porterà a essere dimenticato a casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mamma ho perso l’aereo?

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Non parliamo di uno di quei film semplicemente amati perché parte dei ricordi d’infanzia, ma di un prodotto genuinamente bello e con un altissimo valore intrattenitivo, oltre che interpretazioni da far girar la testa.

E soprattutto come film di Natale si distingue per non essere la solita commedia dei buoni sentimenti, anzi.

Insomma, se non l’avete mai visto, esattamente cosa state aspettando?

Un’infanzia genuina…

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Un grande elemento di successo della pellicola è proprio il racconto dell’infanzia.

Molto spesso in questo tipo di film l’elemento infantile è quasi angelico, legato alla magia e all’importanza del Natale, più idealizzato che raccontato veramente.

Al contrario, in Mamma ho perso l’aereo il bambino protagonista è molto realistico: credibilmente capriccioso, pestifero, e che vive del sentirsi non compreso, ingabbiato in un sistema di regole e convenzioni che non comprende e che non accetta.

E infatti il suo più grande desiderio è rimanere da solo.

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

E quando lo fa, almeno all’inizio, gli sembra di vivere un sogno: può fare tutto quello che vuole, tutto quello che fino a quel momento gli era stato proibito.

Tuttavia, proprio per non volerlo banalizzare, da questa esperienza Kevin impara anche a responsabilizzarsi, a diventare grande. E mostra al contempo tutte le sue capacità non solo di adattamento, ma anche di incredibile inventiva nel contrastare due adulti ben più pericolosi.

…in un film non infantile

Kieran Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Proprio sulla china della verosimiglianza, i contenuti della pellicola non sono esattamente edulcorati.

Kevin subisce un bullismo sistematico, da parte del fratello Buzz, ma anche la cugina che gli dice che è incompetente e inutile – ma anche dagli adulti stessi – a cominciare dallo Zio Frank, che lo chiama little jerk (stronzetto).

Al contempo vengono messe in scena delle paure enormi come quella del terrificante vecchio Marley, oltre all’angoscia, dopo un po’ di tempo, di non avere la propria famiglia intorno e di essere per questo abbandonato.

Non dei temi semplicissimi, insomma.

Marley: un personaggio chiave

Il vecchio Marley è un personaggio chiave.

E per diversi motivi.

In primo luogo rappresenta la paura quasi atavica di Kevin, alimentata dalle storie di suo fratello. Un terrore potente che lo porta persino a scappare da un negozio senza pagare. La paura viene però superata e presentata anche come un arricchimento per il protagonista e per Marley stesso, quindi un doppio insegnamento sia per gli adulti che per i bambini.

In ultimo, ha anche un valore pedagogico: nonostante la celebrazione dell’astuzia e della creatività di Kevin, il film non poteva far passare il messaggio che un bambino se la può cavare totalmente da solo e senza l’aiuto dell’adulto.

E infatti l’intervento di Marley sul finale è risolutivo.

L’altra faccia della medaglia

Catherine O'Hara in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Il coinvolgimento emotivo della pellicola è duplice, in quanto offre una sponda anche al pubblico adulto.

E lo stesso è rappresentato dalla piccola avventura di Kate McAllister, la mamma di Kevin, su cui grava fondamentalmente tutto il peso emotivo della vicenda, mettendo abbastanza in ombra – e prevedibilmente – la figura del padre.

La storia di Kate è un’avventura a parte, definita da poche tappe, ma che coinvolgono facilmente a livello emotivo e che hanno anche interessanti risvolti comici. Fra l’altro, la stessa è protagonista di una delle scene più iconiche del film, che è stata anche recentemente replicata dall’attrice su TikTok:

Riempire i buchi (ma con eleganza)

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Una sfida davanti alla quale indubbiamente si è trovato Columbus era quella di creare un’interessante parte centrale che non fosse solo un riempitivo, e che fosse piacevole e che costruisse adeguatamente la trama.

Ed era facile cadere nel banale.

Ma non è il caso di Mamma ho perso l’aereo.

Tutta la parte centrale è già iconica di per sé, oltre ad essere assolutamente funzionale alla trama complessiva: costruisce ottimamente le parti in scena, racconta la crescita di Kevin – in particolare nella spassosissima scena del supermercato – e rende tutta la vicenda interessante e tridimensionale.

Perché Mamma ho perso l’aereo è un cult?

Rivedendo Mamma ho perso l’aereo, è lampante perché questo film sia un cult.

Il cuore della questione è l’originalità.

Sia, come già detto, per la rappresentazione non idilliaca dell’infanzia e del racconto di Natale in genere, ribadito dall’indovinatissimo finale in cui Buzz urla contro Kevin per il disastro che ha trovato nella sua stanza.

Quindi una conclusione che, ancora una volta, non racconta buoni sentimenti, ma una vicenda vicina e reale di una famiglia reale.

Ma soprattutto proprio la trama era – ed è ancora oggi – fondamentalmente un unicum. E infatti si cercò di replicare il successo, prima con un sequel abbastanza piacevole e diversi altri prodotti derivati, ma nessuno dei quali arrivò alla stessa iconicità e bellezza del primo film.