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Crimini e misfatti – Il meta-dramma

Crimini e misfatti (1989) è una delle prime pellicole in cui Woody Allen, fra la commedia e il dramma, spazia in riflessioni esistenziali e metanarrative.

A fronte di un budget medio – 19 milioni di dollari, circa 46 oggi – fu un pesante flop al botteghino, con un incasso che fu quasi pari alle spese di produzione.

Di cosa parla Crimini e misfatti?

La pellicola segue due storie parallele e collegate in maniera piuttosto peculiare: da una parte Cliff Stern, un regista di documentari che vive di sogni, e dall’altra Judah Rosenthal, un dottore di successo ma con un oscuro segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Crimini e misfatti?

In generale, sì.

Per quanto sia nel complesso una visione piacevole e anche genuinamente divertente, Crimini e misfatti rappresenta un tentativo a mio parare ancora acerbo di accostare all’interno della stessa pellicola una profonda tematica esistenziale alla tipica comicità di Woody Allen.

Ne risulta una riflessione esistenziale, metanarrativa, che anticipa il più riuscito Match point (2005) e che tenta ancora una volta di mischiare il dramma con la commedia – una sperimentazione che avrà il suo picco in Melinda e Melinda (2004) – in con un prodotto non del tutto riuscito.

Il dramma invisibile

Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

In un clima festoso e apparentemente confortante, un angoscioso flashback ci svela l’oscuro segreto del protagonista.

Parte così un inseguimento alla scheggia impazzita, a quella donna così isterica e incontrollabile che potrebbe non solo distruggere la vita matrimoniale di Judah – omen, nomen – ma anche la sua credibilità sociale.

Con questa vicenda dai risvolti quasi thriller, Crimini e misfatti racconta anzitutto un dramma esistenziale legato ad un personaggio di successo e con una vita apparentemente desiderabile, in realtà con diversi scheletri nell’armadio.

Ma il peggio deve ancora arrivare.

La ricercata colpevolezza

Martin Landau e Jerry Orbach in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

L’uccisione della donna appare quasi inevitabile.

Ma è la stessa a far intraprendere al protagonista un’angosciosa riflessione sulla colpa e sulla punizione, andando anche a ripercorrere l’educazione religiosa che l’aveva convinto che ad un crimine seguisse sempre un giusto castigo.

Proprio per questa convinzione Judah – in una dinamica che per certi versi mi ha ricordato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – sembra quasi che voglia farsi scoprire, rischiando più volta di rovinare un piano dall’ideazione praticamente perfetta.

Cinema e religione

Woody Allen in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

La storia di Cliff viaggia parallela a quella di Judah.

Il collegamento più immediato è la totale simmetria fra i due drammi: come Judah tempo prima, anche il personaggio di Allen si trova invischiato in una storia amorosa e adultera che sembrerebbe risolutiva del suo insoddisfacente matrimonio.

Se questa tematica di per sé non è niente di nuovo per la produzione di questo regista, il collegamento più interessante è quello metanarrativo.

Per quanto i due personaggi non si conoscano fino alla fine, in realtà Cliff vede la storia di Judah grazie ai diversi titoli che visiona con la nipote durante la pellicola – in ordine, Il signore e la signora Smith (1941), Il fuorilegge (1942), Happy Go Lucky (1943) e L’ultimo gangster (1937).

Woody Allen e Martin Landau in una scena di Crimini e misfatti (1989) di Woody Allen

Per questo l’incontro finale è fondamentale.

In un’amara riflessione, Judah racconta a Cliff il suo dramma personale nell’essere colpevole, ma non punito, andando quindi a vanificare tutte le sicurezze morali che avevano definito la sua vita fino a quel punto.

E, proprio davanti alla replica di Cliff, che cerca di ricondurre la storia a degli stilemi narrativi fittizi e cinematografici, l’altro gli ricorda che la realtà – purtroppo – funziona diversamente, e non è possibile avere sempre un finale positivo, o anche solo soddisfacente.

In questo modo, anche se indirettamente, il personaggio di Woody Allen si rende conto che le sue convinzioni per cui Halley non avrebbe mai premiato il borioso e insopportabile Lester, in realtà si sono rivelate illusorie e derivanti proprio dai film che tanto amava, distrutte davanti alla più amara realtà che ha dovuto sopportare.

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Zoolander – Demenziale, ma non troppo

Zoolander (2001) è uno dei cult più particolari dell’inizio degli Anni Duemila, in cui Ben Stiller si mise in gioco come attore, regista e sceneggiatore.

Nonostante il riscontro al botteghino poco entusiasmante – appena 60 milioni di dollari a fronte di un budget di 28 milioni – divenne col tempo un film di culto, tanto da portare ad un sequel nel 2016.

Di cosa parla Zoolander?

Derek Zoolander è il modello del momento, ma la sua fama verrà scalzata in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zoolander?

Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Anche se la comicità nonsense non è nelle vostre corde, non potete veramente perdervi questa piccola perla dell’assurdo che, in un impeto di genialità, Ben Stiller riuscì a portare in scena nel lontano 2001 – nutrendo il futuro cast di Dodgeball (2004), fra l’altro.

Zoolander è uno dei cult più interessanti dei primi Anni Duemila, che colpisce sia per la sagacia con cui tratta tematiche ancora attualissime, sia per come riesce a non scadere mai nel banale, sorprendendo ad ogni scena.

Passato e presente

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Una delle tematiche principali di Zoolander è ancora drammaticamente attuale, anche a più di vent’anni di distanza.

L’obbiettivo dei villain è infatti quello di assassinare il neoeletto presidente della Malaysia, per le sue assurde ambiziose di mettere fine allo sfruttamento del lavoro minorile – molto conveniente per l’industria della moda.

Un tema molto caldo ancora oggi per la straziante tematica della fast fashion, non solo per l’impatto ambientale, ma proprio per il poco rasserenante panorama dello sfruttamento lavorativo, volto ad ottenere molti prodotti in poco tempo e a prezzi stracciati.

Ed è davvero incredibile trovare un tema del genere affrontato con tanta sagacia in un film come Zoolander.

Un adorabile idiota

Ben Stiller e Owen Wilson in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Zoolander e Hansel sono due adorabili idioti.

Ho apprezzato particolarmente la scelta di renderli tali fino in fondo, senza cioè ricondurli al ben più infelice e rincuorante stereotipo dell’uomo bamboccione, un bambino troppo cresciuto che ha ancora bisogno di una balia – di solito, il personaggio femminile di turno.

I due protagonisti sono invece semplicemente del tutto limitati al loro piccolo mondo, fatto di invidie e di una competizione galoppante, una realtà che li venera e li celebra a fasi alterne, ma rimanendo incapaci in ogni altro ambito dell’esistenza.

Si genera così un umorismo che personalmente trovo esilarante, basato su delle incomprensioni così stupide da risultare surreali, financo grottesche – in particolare con l’assurda morte dei fratelli del protagonista mentre giocavano con la benzina.

I divi usa-e-getta

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Un’altra tematica non scontata è la concezione dei modelli come divi usa-e-getta.

Già la rivalità fra Zoolander e Hansel è indicativa: per sua stessa ammissione, il protagonista si sente minacciato dalla figura del concorrente proprio perché sembra poter mettere a rischio lo status tanto fortuitamente guadagnato.

E, se consideriamo che i due non hanno che pochi anni di differenza, appare evidente come la popolarità nel mondo della moda sia una condizione estremamente passeggera, legata ad un successo momentaneo e, soprattutto, al mito della giovinezza eterna.

Questo concetto è particolarmente evidenziato dal personaggio di J.P. Prewitt, il mitico manista, che però ho dovuto mantenere la sua mano in uno stato di ibernazione eterna proprio per evitare che invecchiasse e che, di conseguenza, perdesse di valore.

E il racconto di come generazioni di modelli siano state pedine in mano a sanguinari imprenditori senza scrupoli, che li utilizzavano per eliminare ogni tipo di ostacolo al guadagno, sottolinea ancora una volta la fragilità di questi idoli, che possono essere creati e sacrificati ad libitum.

Infatti, non mancherà mai qualcuno che potrà prenderne il posto.

Un femminile anomalo

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

Il personaggio di Matilda mi ha particolarmente sorpreso.

Una protagonista femminile che diventa motore dell’azione, nonché personaggio estremamente attivo, in questo caso assumendo proprio il ruolo della figura ragionevole e, di fatto, risolutrice della vicenda.

Nondimeno Matilda non viene tratteggiata come una donna fredda che deve essere fatta sciogliere dal protagonista. Piuuttosto, i due si aiutano reciprocamente: Matilda impedisce che Zoolander diventi un assassino, e quest’ultimo le fa riscoprire il piacere sessuale.

Christine Taylor in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

E al contempo Matilda diventa anche la voce – pur in maniera molto semplicistica – dei danni che involontariamente il mondo della moda arreca soprattutto alle giovanissime, facendole vivere nell’ombra di modelli di bellezza irraggiungibili.

Ed è drammaticamente ironica la risata che i due protagonisti si fanno sulla sua bulimia, derubricandola ad una condotta del tutto normale per la loro professione…

Lo sguardo che uccide

Ben Stiller in una scena di Zoolander (2001) di Ben Stiller

La storia del Magnum è tutto un programma.

Proposto inizialmente come il biglietto da visita del protagonista, il suo sguardo corrucciato è una costante della recitazione di Ben Stiller, che non esce mai dal personaggio, riuscendo ad essere assolutamente credibile in ogni scena.

In questo senso, ottima l’idea di affidare al villain il ruolo di dare la voce ad un pensiero probabilmente già proprio dello spettatore: i meravigliosi sguardi di Zoolander in realtà non sono nulla di che, oltre ad essere tutti identici.

E invece Zoolander ci sorprende con un’espressione che cambia le sorti del mondo, dimostrando come uno sguardo abbastanza affilato possa mettere al tappeto persino uno shuriken.

Un colpo di scena che è anche motivo del successo di questa pellicola.

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Hannah e le sue sorelle – Una famiglia a pezzi

Hannah e le sue sorelle (1986) è una delle commedie più conosciute della produzione di Woody Allen, godendo fra l’altro di un cast piuttosto nutrito di star – o future tali – fra cui Carrie Fisher, Michael Caine e Diane West.

Fu anche uno dei più grandi successi economici della produzione di Woody Allen: con un budget di circa 6,4 milioni di dollari – circa 18 milioni ad oggi – incassò ben 40 milioni – circa 110 milioni ad oggi.

Di cosa parla Hannah e le sue sorelle?

La storia ruota intorno alle turbolente vite sentimentali di Hannah e delle sue due sorelle, April e Lee, che si intersecano in maniera piuttosto inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hannah e le sue sorelle?

Mia Farrow in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

In generale, sì.

Hannah e le sue sorelle si va ad incasellare in quel tipo di commedia della produzione di Woody Allen non particolarmente originale nelle tematiche, ma piacevole da fruire, nonché elegante e curata nella messinscena.

I suoi grandi punti di forza sono il cast di grandi attori – quell’anno, fra l’altro, ampiamente premiati agli Oscar – e l’irresistibile ironia di Woody Allen stesso, che, come tipico delle sue commedie, è il punto focale della comicità della pellicola.

Insomma, nel complesso ve la consiglio.

L’inizio di un amore

Mia Farrow e Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

L’incipit di Hannah e le sue sorelle racconta uno dei temi preferiti di Allen: un amore impossibile.

La voce fuori campo dell’ancora sconosciuto Elliot ci accompagna alla scoperta di Lee e dei suoi sentimenti segreti quanto problematici – niente di meno che per la giovane sorella della moglie.

Tutto sembra essere apparecchiato per lo svolgersi di uno struggente dramma romantico a lieto fine: entrambi sono ingabbiati in relazioni a loro dire insoddisfacenti, e sembrano invece ritrovarsi negli interessi intellettuali comuni.

Michael Caine in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Ma questa non è una qualunque commedia romantica.

Come aveva già sperimentato sia in Io e Annie (1977) e Manhattan (1979), Allen sceglie un taglio più amaramente realistico: per quanto Elliot si racconti di essere perdutamente innamorato di Lee e di volerla salvare da Frederick, in realtà è divorato dall’angosciante prospettiva di ferire Hannah.

E la troppa attesa preclude per sempre i rapporti.

Alla fine, Lee salva sé stessa: si lascia alle spalle la problematica relazione con Frederick – che era più un padre che un compagno – ed evita di affiancarsi nuovamente ad un uomo così distante da lei per età e per affinità.

Il ritaglio comico

Woody Allen in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

La storia dei Mickey è quella che ho più apprezzato della pellicola.

Con questo personaggio Woody Allen riesce a mantenere la comicità surreale tipica soprattutto della sua prima produzione: un incurabile ipocondriaco, tormentato da un’ansia costante e quasi grottesca.

Tramite un inaspettato crescendo drammatico, sembra veramente che i più tragici sogni del protagonista si siano avverati, e che la morte sia veramente venuta a bussargli alla porta, tanto da immaginarsi l’infausto annuncio del dottore.

Ma ancora più inaspettata – e, per questo, irresistibile – è la crisi esistenziale che lo assale, portandolo a riflettere sulla sua vita e il suo matrimonio finito, ricercando una fede in cui rifugiarsi, con un’ironia che già aveva sperimentato in Prendi i soldi e scappa (1969).

E poi c’è Holly.

Il lato debole

Mia Farrow, Barbara Hershey e Dianne Wiest in una scena di Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen

Holly, è a mio parere, la storia più debole del terzetto.

La debolezza risiede nella difficoltà che ho trovato nell’empatizzare con il personaggio: una bisbetica insoddisfatta che insegue amori impossibili e sogni irrealizzabili, ma sembrando più un peso per le sue sorelle che altro.

Ho trovato altresì piuttosto antipatica la sua scelta di umiliare la sorella con una sceneggiatura che svelasse la fallacia del suo matrimonio, idea per fortuna messa da parte e che conduce il personaggio ad un – a mio parere – davvero improbabile lieto fine.

Proprio per il tipo di commedie con finali piuttosto amari tipici della produzione di Allen, ho trovato quasi fuori luogo come Holly e Mickey si ritrovano, arrivando nel giro di poco tempo anche a sposarsi, a fronte di un primo appuntamento divertente quanto rivelatorio della loro incompatibilità.

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Diario di una tata – La spersonalizzazione voluta

Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.

Con un budget molto contenuto – appena 20 milioni di dollari – ebbe un discreto riscontro al botteghino, con 47 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Diario di una tata?

Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Diario di una tata?

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

In generale, sì.

Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.

Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.

Insomma, ve lo consiglio.

La strada obbligata

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.

A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.

La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.

Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tenta il colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.

Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.

La nuova non-identità

Scarlett Johansson in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

E la nuova identità arriva, ma non la definisce.

Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.

Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.

Scarlett Johansso e Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:

I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.

Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.

La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.

La catena di miseria

Laura Linney e Paul Giamatti in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.

I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.

Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.

Laura Linney n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.

Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.

E Annie si lascia strapazzare.

Going native

Scarlett Johansso in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.

Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.

Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.

Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.

Una nuova strada

Scarlett Johansso e Laura Linney in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.

Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.

Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.

Scarlett Johansso e Chris Evans n in una scena di Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini

Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.

Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.

E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.

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School of Rock – Imparare a ribellarsi

School of Rock (2003) di Richard Linklater è un piccolo cult dei primi Anni Duemila, nonché uno dei ruoli più iconici di Jack Black, in quel periodo fra le star comiche più quotate.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – incassò complessivamente molto bene: 131 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla School of Rock?

Dewey Finn è un musicista squattrinato e appena cacciato dalla sua stessa band. Ma troverà un modo inusuale per tornare sulla cresta dell’onda…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere School of Rock?

Jack Black in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

In generale, sì.

Devo ammettere che da spettatrice ormai cresciuta, nonostante sia un film piacevolissimo, ho trovato School of Rock leggermente più debole rispetto al suo alter ego di qualche anno successivo, ovvero Bad Teacher (2010) – molto più consapevole e sfacciato.

Ma, proprio per questo, la pellicola con protagonista Jack Black è decisamente più accessibile, sopratutto per il pubblico di giovanissimi a cui è principalmente rivolta, offrendo anche degli spunti di riflessione – e, di fatto, pedagogici – non scontati.

Insomma, in generale lo consiglio.

Un protagonista miserabile

Jack Black e Joan Cusack in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

L’inizio del 2000 era terreno fertile per i protagonisti negativi.

Una maggiore complessità e tridimensionalità dei personaggi, protagonisti molto più grigi che presero piede sopratutto a partire da Shrek (2001), e i cui effetti si videro anche in School of Rock: Dewey Finn è un illuso, uno squattrinato che vive solamente di sogni.

L’apice della sua negatività è raggiunto immediatamente, quando sfila di mano un’ottima proposta lavorativa al coinquilino, con una crescente gravità: non solo si tratta di gestire dei bambini, ma sopratutto di farlo all’interno di una prestigiosa – e costosa! – scuola privata.

Francamente il suo personaggio sulla carta non è niente di particolarmente interessante, ma la sua mordente iconicità è garantita da Jack Black, grazie alla sua travolgente comicità e espressività, recentemente riconfermata anche in Super Mario Bros. – Il film (2023).

Un’occasione…di guadagno?

Jack Black e Rebecca Julia Brown in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il piano di Dewey è di fatto maligno, ma non è portato avanti proprio con le peggiori intenzioni.

Se infatti il principale motivo appare quello di ricreare una band che può controllare come gli pare e piace, in realtà in un certo senso il protagonista si prende a cuore la missione di educare questi bambini alla buona musica rock

…e, sul lungo periodo, di insegnare loro anche molto altro.

Infatti, nonostante sostanzialmente Dewey li privi di nozioni fondamentali per la loro educazione primaria, col tempo e quasi involontariamente offre ai suoi alunni degli insegnamenti molto più importanti: saper pensare fuori dagli schemi, essere creativi e coltivare le proprie passioni.

Infatti, tramite questa esperienza i bambini scoprono qualcosa di nuovo su sé stessi, godendo anche un inedito rispetto da parte di un adulto: fino a quel momento erano abituati a genitori e ad insegnanti con un atteggiamento molto più stringente e tirannico.

In particolare due personaggi – Zack e Tomika – diventano più sicuri di loro stessi, trovandosi anche ad essere valorizzati e premiati da un insegnante per qualcosa di non strettamente collegato alla scuola, ma al loro innegabile talento musicale.

Ma non è neanche l’insegnamento più importante.

Ribelli e consapevoli

Jack Black, Rebecca Julia Brown e Joey Gaydos Jr. in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Il principale insegnamento di Dewey per i suoi alunni è il saper essere ribelli e non farsi sottomettere dall’autorità.

Infatti, sul finale riescono a portare a termine la loro missione in sostanziale autonomia, avendo dimostrato già in precedenza di essere molto più intelligenti e capaci di quanto gli altri adulti credessero – in particolare quando devono simulare una lezione in corso.

Oltre a questo, gli alunni si dimostrano anche più maturi del loro insegnante, capendo l’importanza di aver lavorato a qualcosa di creativo e di originale, senza necessariamente ricercare il riconoscimento da parte degli altri – quindi anche senza vincere la Battaglia delle Band.

Mike White e Sarah Silverman in una scena di School of Rock (2003) di Richard Linklater

Al contempo è una lezione utile anche per gli adulti.

Infatti, sia Ned che Rosalie riescono a ribellarsi.

Fin dall’inizio Ned è sostanzialmente sottomesso alla compagna, che lo spinge ad essere un adulto sempre più chiuso e insicuro, totalmente incapace di inseguire i propri sogni, o anche solamente di vivere serenamente i propri hobby.

Allo stesso modo la preside Rosalie è sostanzialmente terrorizzata dalla sua posizione e dagli altri adulti, incapace di relazionarsi in maniera serena né con loro, né con gli alunni stessi.

Ma grazie a Dewey riesce a ribellarsi dalla sua posizione, accettando persino le avances di un ragazzo così particolare come Spider.

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Il diavolo veste Prada – Una donna troppo intraprendente

Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel è uno dei più grandi cult degli Anni Duemila, ricordato soprattutto per la fantastica performance di Meryl Streep e per aver lanciato la carriera cinematografica di Anne Hathaway.

Con un budget medio – 35 milioni di dollari – fu un enorme successo commerciale, con 326 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Il diavolo veste Prada?

Andy è una giovane ragazza con un sogno: diventare una giornalista per le più importanti testate di New York. Ma la strada per arrivarci è strana quanto perigliosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il diavolo veste Prada?

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Assolutamente sì.

Il diavolo veste Prada è un cult imprescindibile, che riesce a raccontare molto di più sul dramma della femminilità dell’inizio del Millennio (e non solo) di quanto appaia ad una prima visione, con delle performance attoriali indimenticabili e una maturazione della protagonista tipica e atipica insieme…

Al contempo, questa pellicola è un racconto molto lucido delle difficoltà del mondo della moda e, più in generale, della realtà lavorativa statunitense – e non solo – soprattutto per una donna in un mondo dominato dalla visione maschile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Una ragazza con un sogno

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

L’opening de Il diavolo veste Prada è già di per sé iconico.

Si alternano sullo schermo scene di diverse donne senza nome che si preparano per uscire indossando abiti favolosi e molto chic. Tutto il contrario invece della nostra protagonista, che ha un abbigliamento molto più semplice e – se così vogliamo dire – trasandato.

Quindi fin da subito capiamo un concetto fondamentale: Andy è fuori posto.

Ma non per questo si arrende.

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Nonostante fin da subito sia osteggiata da ogni parte, nonostante sia redarguita e sbeffeggiata per non essere vestita alla moda e per non venerare Miranda, Andy non si perde d’animo ed affronta a testa alta un colloquio che già capisce essere destinato al fallimento.

E ancora, nonostante Miranda la tratti con sufficienza e superiorità, la protagonista si lancia comunque in un racconto sincero e appassionato riguardo le sue capacità di lavorare sodo e di potersi quindi adattare anche ad un contesto così alieno per lei.

E per questo Miranda la sceglie.

Ostilità e epifania

Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Fin da subito lavorare per Miranda si rivela un inferno.

Senza alcuna formazione, senza alcuna pietà, Andy viene travolta dal turbine di richieste impossibili e tiranniche che presuppongono che lei conosca già a menadito la rivista, i contatti e le abitudini della sua nuova capa.

Nonostante appaia impacciata, piena di dubbi e fuori posto, la protagonista non si arrende mai, dimostrandosi anzi ben cosciente che tutto quello sforzo è un passaggio necessario per percorrere la via più breve – ma anche più ardua – per conquistare il suo sogno.

L’epifania è l’iconica scena del ceruleo.

Nonostante sembri solo raccontare la cattiveria e la supponenza del personaggio di Miranda, in realtà rivela molto di più.

Miranda non se la prende con Andy perché non ne capisce nulla di moda: piuttosto la critica aspramente per la superficialità con cui sta approcciando il suo nuovo lavoro e l’ambiente di cui fa parte, considerando la moda come una roba che non la riguarda.

Ma proprio la direttrice di Runway le fa comprendere come invece il suo lavoro sia molto più trasversale e penetrante, molto più importante profondo di quanto creda: non solamente uno spreco di soldi per oggetti inutili, ma un’effettiva forma d’arte.

Ma sulle prime Andy questo non lo capisce.

Il diavolo veste Prada Nigel

Anne Hathaway e Stanley Tucci in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

La vera svolta arriva con il dialogo con Nigel.

Dopo l’amaro confronto con Miranda per non essere riuscita a riportarla a casa in tempo per la recita delle sue figlie, Andy si rivolge al braccio destro del suo capo per un conforto, sperando di trovare in lui una spalla su cui piangere.

Invece Nigel la sorprende.

Con il suo sentito monologo, l’uomo le fa comprendere una volta per tutte la faciloneria con cui ha approcciato il suo nuovo lavoro, scegliendo testardamente di non adattarsi e di continuare a sminuire Runway e tutto quello che – come spiega Nigel – effettivamente rappresenta.

La svolta superficiale?

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Con l’atto centrale il film comincia a combattere contro sé stesso.

Se da una parte infatti la sceneggiatura vorrebbe che il cambiamento di abbigliamento di Andy andasse di pari passo con il peggioramento del suo carattere, in realtà questa svolta rappresenta il momento di consapevolezza della protagonista.

Infatti, parallelamente al suo cambio di look, Andy si dimostra anche più spigliata, più sicura, più determinata nello sfruttare effettivamente questa opportunità che le è stata concessa, non scegliendo più di combattere l’ambiente, ma di trarre il meglio dallo stesso.

Ed è anche il momento in cui Miranda la mette maggiormente alla prova.

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Se il primo test di fiducia di Miranda fallisce miseramente – Andy è incapace di portare a termine una commissione così semplice come portare a casa il Book – la donna sceglie di metterla nuovamente alla prova con una missione impossibile quanto punitiva.

In questo modo, infatti, Miranda pensa di dimostrare definitivamente come Andy, pur essendosi adattata al suo mondo, sia comunque un’incapace.

E invece la protagonista incassa una vittoria dopo l’altra: prima superando brillantemente la prova impossibile del manoscritto di Harry Potter, poi dimostrandosi anche migliore di Emily alla Festa di Beneficenza.

Amici…serpenti

Sulla carta Il diavolo veste Prada vorrebbe raccontare come Andy abbandoni i suoi ideali e i suoi affetti, diventando una donna superficiale e spietata.

Nella realtà, vediamo tutt’altro.

Come detto, la protagonista si impegna sempre di più nel suo lavoro, ma non abbandona mai veramente i suoi amici o smette di preoccuparsi per loro, anzi cerca costantemente di conciliare la sua difficoltosa vita lavorativa con la sua sfera privata.

E dimostra anche di essere una buona amica quando ricopre i suoi amici di regali e li incoraggia continuamente nei loro sogni, al contrario degli stessi che si dimostrano costantemente ostili e di fatto poco rispettosi dello sforzo che sta compiendo.

Anne Hathaway in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Ma Nate è il peggiore di tutti.

Il fidanzato di Andy non si impegna mai ad essere veramente supportivo nei suoi confronti, anzi la ostacola costantemente, la fa sentire in colpa per prendere sul serio il suo lavoro, e infine la accusa perfino di non avere una dignità.

Ma il suo punto più basso è indubbiamente sul finale, quando Andy gli dice che ha voltato le spalle alla sua famiglia e ai suoi amici e si chiede per cosa l’ha fatto, e al che Nate risponde

For shoes and shirts and jackets and belts.

Per le scarpe. E le camicette. E le giacche e le cinte.

dimostrando di non aver capito assolutamente nulla.

La vera morale

Anne Hathaway e Meryl Streep in una scena di Il diavolo veste Prada (2006) di David Frankel

Invece la vera morale della storia è racchiusa nel viaggio a Parigi.

Quando Miranda sceglie Andy al posto di Emily per la Settimana della Moda, non lo fa per metterla alla prova per un proprio tornaconto, ma per farle veramente comprendere cosa significa la strada che ha intrapreso, e se sia davvero disposta a percorrerla fino in fondo.

E Andy sceglie ancora una volta di mettere sé stessa al primo posto, dimostrando anche una grande maturità – a differenza dei suoi amici – nel capire finalmente l’importanza del lavoro che sta svolgendo e di quali opportunità le si stiano aprendo davanti.

Al contempo, tuttavia, Andy sceglie anche di distaccarsi da quel covo di vipere che è il mondo che ruota intorno a Miranda, fatto di sotterfugi, pugnalate alle spalle e odio intestino mal celato, scegliendo di aiutare la sua capa, con un’umanità anomala per l’ambiente.

Tuttavia, quando alla fine Miranda le spiana definitivamente la strada per continuare a lavorare per Runway, Andy sceglie di non proseguire fino in fondo: la protagonista non vuole smettere di essere una donna determinata, ma non vuole neanche perdere la sua integrità.

Di fatto Andy continua a seguire il suo sogno, ma alle sue regole.

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Genitori in trappola – Un gustoso equilibrio

Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers, remake di Il cowboy con il velo da sposa (1961), è un irresistibile incontro fra una rom-com e una commedia per ragazzi.

Con un budget veramente contenuto – appena 15 milioni di dollari (circa 28 oggi) – fu un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo – circa 172 oggi.

Di cosa parla Genitori in trappola?

Annie e Hallie sono appena arrivate al campo estivo, e scopriranno di essere più simili di quanto pensano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Genitori in trappola?

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Assolutamente sì.

In questo caso sono veramente molto di parte perché Genitori in trappola è uno dei film della mia infanzia, che guardo ancora oggi con grande piacere.

Tuttavia, è indubbio che si tratti di una pellicola molto trasversale, che può conquistare un pubblico più o meno giovane, vista la varietà di situazioni e personaggi che animano la scena.

Fra l’altro con una divisione molto precisa dei tre atti della storia, alternando stili e generi diversi: dall’avventura per ragazzi, alla commedia degli equivoci, al più struggente dramma romantico.

L’importanza del volto

Natasha Richardson e Dennis Quaid in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Fin da subito la regia di Genitori in trappola gioca sulla dinamica dell’identità celata e rivelata.

Tutta la sequenza iniziale racconta una breve ma intensa storia romantica, i cui protagonisti ci rimangono sconosciuti fino alla fine del primo atto, con un susseguirsi di particolari che rivelano i contorni dell’antefatto.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Anche se non viene esplicitata la presenza di un figlio – anzi, di due gemelle! – l’ellissi temporale di 11 anni e 9 mesi ci fa già sospettare qualcosa…

Quando poi vediamo entrare in scena le due protagoniste, cominciamo ad unire i puntini e diventiamo di fatto complici della regia, che si diverte a giocare con gli equivoci che tengono le due ragazzine divise per diverse sequenze.

Alle origini della commedia

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Un grande merito di questa pellicola è di essere riuscita ad anticipare due grandi capisaldi della commedia del successivo millennio, riuscendo a gestirli con grande equilibrio.

Anzitutto, l’utilizzo dei personaggi tipizzati.

La commedia dei primi Anni Duemila straborderà di questo contrasto fra la cultura inglese e quella statunitense, dinamica che troviamo già in nuce in Genitori in trappola, che però ha il merito di saperla contestualizzare adeguatamente.

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Infatti, come Hallie è la classica californiana chiacchierona e un po’ guascona, con un carattere del tutto comprensibile visto il tipo di ambiente in cui è cresciuta, allo stesso modo Annie, figlia di una stilista elegante e raffinata, non può che essere una ragazzina a modo.

Un altro elemento imprescindibile della commedia del decennio successivo sarà l’inserimento di situazioni comiche al limite del grottesco, anche apertamente disgustose.

È questo il caso dei vari scherzi che le due gemelle si fanno fra di loro, con il picco rappresentato dal terribile risveglio di Annie, con delle trovate che ricordano molto da vicino le micidiali trappole di Mamma ho perso l’aereo (1990).

Senti chi parla ora!

Lindsay Lohan in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Da grande appassionata di film per ragazzi, un elemento secondo me immancabile del genere è l’assoluta superiorità dei bambini verso gli adulti.

Infatti, è un aspetto che riesce veramente ad incarnare il sogno infantile della supremazia verso un mondo adulto spesso incomprensibile, e che altrettanto frequentemente mette un freno a sogni ed a progetti, soprattutto quelli più scalmanati.

In questo caso, proprio grazie alla loro ritrovata amicizia, le due sorelle mettono in atto un piano incredibilmente audace, riuscendo a dare il via a quegli eventi che potranno finalmente riunire la loro famiglia, laddove i genitori ne erano stati incapaci.

I volti giusti

Lindsay Lohan e Natasha Richardson in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Il casting di Genitori in trappola non è per nulla casuale.

Anche in questo caso la pellicola rischiava pericolosamente di ricadere in facili stereotipi sulla giovane donna arrivista e il giusto interesse amoroso che è invece una donna diversa da tutte le altre.

Al contrario, il film sceglie di mettere sullo stesso piano Nick e Liz: anche se apparentemente sono due persone molto diverse, in realtà sono accomunate dall’incarnare il sogno tutto americano del self-made man – e woman, in questo caso.

Infatti, entrambi hanno seguito le loro passioni e si sono costruiti una vita soddisfacente e di successo nei loro rispettivi campi.

Lindsay Lohan e Elaine Hendrix in una scena di Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers

Ma non finisce qui.

Lo spettatore può empatizzare facilmente con questi personaggi sia per i loro volti semplici, puliti, i loro sorrisi aperti e sinceri, sia per il loro modo di vestirsi – equilibrato e accessibile anche quando sono molto eleganti – e di porsi – accogliente e persino comico in non pochi momenti.

Meredith è invece tutto il contrario: appare fin da subito come una presenza artificiosa, fuori luogo, una facciata costruita con un sorriso smagliante, ma che, al contrario di Liz, è forzato e velenoso…

Una strada solitaria

Per quanto le due protagoniste si sforzino nel far rimettere insieme i loro genitori, è una strada che i due devono percorrere da soli.

In primo luogo, è Nick che deve rendersi conto del valore di quello che sta perdendo, proprio quando è messo davanti ad una scelta apparentemente difficile – scegliere fra le figlie e la futura moglie – posta da un’esasperata Meredith che mostra finalmente il suo vero volto.

Ma anche con l’uscita di scena della donna di troppo, la storia di Nick e Liz è un continuo rincorrersi, una costante paura di riprendere le fila di una storia che era stata abbandonata così bruscamente, in maniera così apparentemente irrimediabile…

Ma è col piacevolissimo colpo di scena finale che questa strana e rinnovata famiglia ritrova finalmente la sua unione.

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The Blues Brothers – L’arte di cavarsela

The Blues Brothers (1980) di John Landis è uno dei più grandi cult degli Anni Ottanta, un misto fra road movie, commedia nera e musical, sempre al limite fra il surreale e il camp più spinto.

Con un budget di 27,5 milioni di dollari – circa 100 oggi – incassò piuttosto bene: 115 milioni in tutto il mondo (circa 425 oggi).

Di cosa parla The Blues Brothers?

Elwood accoglie Jake, il fratello appena uscito di prigione, con cui si imbarca in un’improbabile quanto fondamentale missione per conto di Dio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Blues Brothers?

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Assolutamente sì.

The Blues Brothers, insieme a Prendi i soldi e scappa (1969), è fra i titoli che mi hanno formato al cinema, quindi sono molto di parte. Tuttavia, posso dire con serenità che, se questa pellicola è un cult, non è un caso.

Questo incontro così irriverente fra la commedia più improbabile e il disaster movie, con inseguimenti in auto che violano ogni legge della fisica – e non solo – e con performance musicali di alcuni dei più grandi artisti del tempo, sono tutti elementi che rendono questo film una visione davvero imperdibile.

Insomma, cosa state aspettando?

Un uomo di nulla

La lunga sequenza iniziale ci presenta immediatamente Jake senza mostrandocelo in volto.

Ma non serve.

Quando il protagonista riacquista i suoi averi nell’iconica scena dell’inventario, in pochi minuti abbiamo un quadro completo della sua personalità: un uomo legato strettamente a pochi elementi distintivi (il completo e gli occhiali neri), una vita sessuale piuttosto disordinata (i due preservativi) e con pochissimi soldi in tasca (appena 23 dollari e 50).

E il fatto che firmi con decisione con una semplice X, oltre ad essere un momento irresistibilmente comico, racconta perfettamente il totale menefreghismo del suo personaggio.

Ritrovare la via

La suora in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Nonostante i due fratelli sembrino l’uno la copia dell’altro, in realtà mostrano tendenze opposte.

Come Jake vorrebbe ritornare alla sua vecchia vita, Elwood cerca di farlo reintegrare all’interno di un panorama assai mutato: la Blues Mobile è stata venduta – per un microfono! – la banda si è sciolta ed è ora di tornare alle proprie radici.

La sequenza della suora è una delle più iconiche dell’intero film, dove Landis comincia ad inserire degli elementi quasi fantastici, raccontando una donna così tanto devota a Dio che ne assume anche l’onnipotenza.

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Già in questa irresistibile sequenza i due cominciano a capire che qualcosa deve cambiare: è ora di ritrovare la propria spiritualità.

Ma, invece che con delle dovute preghiere, l’epifania arriva da Dio stesso, che illumina Jake nella chiesa Triple Rock e gli fa capire che il suo destino è rimettere insieme la banda e salvare l’orfanotrofio.

Ma è una missione ben più difficile da quello che sembri.

Siamo in missione per conto di Dio!

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

L’ironia di fondo di The Blues Brothers risiede nel travolgente contrasto fra la missione per conto di Dio e i metodi con cui la stessa viene portata avanti.

Paradossalmente l’illuminazione divina è utilizzata ben poco come motivazione per convincere gli altri membri della banda a tornare a suonare insieme, mentre il metodo più gettonato è l’esplicito ricatto, in particolare nell’esilarante scena del ristorante.

Ma al contempo i due fratelli rappresentano un sogno lontano e apparentemente irraggiungibile, del rimettere insieme una squinternata jazz band e così godere di una vita veramente piena e soddisfacente, pur vissuta alla giornata.

Queste motivazioni sono utilizzate sia per convincere i membri di Murph and Magic Tones, ridotti a cantare canzoncine popolari in squallidi locali, sia, soprattutto, per persuadere Murphy, che ha ormai abbandonato la sua carriera musicale per gestire la tavola calda con la moglie.

Il numero musicale di Aretha Franklin è un unicum all’interno della pellicola, perché rappresenta il momento più strettamente da musical: a differenza degli altri numeri musicali, che sono effettivamente degli spettacoli in cui i personaggi sanno di cantare, in questo caso la donna sta facendo la ramanzina al marito, ma cantando.

Vivere alla giornata

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Pur rimettendo insieme la banda, trovare un incarico è tutto tranne che semplice.

Infatti, il primo lavoro è totalmente improvvisato e basato su un incredibile colpo di fortuna: trovandosi per caso vicino ad un locale che effettivamente aspettava una banda di musicisti – in ritardo – i Blues Brothers riescono a rubargli il lavoro.

Questa sequenza racconta la grande capacità di adattarsi e di cavarsela dei protagonisti: pur con una falsa partenza, la band riesce a convincere un pubblico molto ostile, suonando pezzi che soddisfino anche i loro palati così lontani dalla musica jazz e blues.

Ma ovviamente questa piccola vittoria si rivela in realtà un’inevitabile sconfitta, dovuta proprio all’ingenuità dei due protagonisti, che sono ancora costretti a filarsela, facendosi nuovi nemici lungo la strada…

Il punto di svolta

Il punto di svolta per i Blues Brothers avviene, come sempre, grazie al ricatto.

Riuscendo a mettere alle strette Maury Sline e ad ottenere lo spettacolo nella migliore sala del Palace Hotel, i due riescono a creare grande curiosità intorno al loro show, con un marketing piuttosto insistente e sfrontato, ma, in definitiva, vincente.

Ma la schiera di nemici che si è affollata lungo la strada crea non pochi ostacoli alla coppia, che comunque riesce a salvarsi ancora una volta con diversi e abili sotterfugi, mentre Curtis prepara il pubblico al loro grande debutto.

Ma è di nuovo ora di scappare.

Il vero nemico

Carrie Fisher in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Il vero villain di The Blues Brothers è la misteriosa donna che tenta continuamente di attentare alla loro vita.

La bellezza del personaggio di Carrie Fisher, al tempo già iconica per Una nuova speranza (1977), sta proprio nel contrasto fra la sua spietatezza, che la porta a distruggere palazzi e far saltare in aria cabine telefoniche, e la totale indifferenza delle vittime dei suoi attacchi.

In questo modo Landis crea un irresistibile interesse per il suo personaggio e per la sua misteriosa storia, che raggiunge il suo picco nell’indimenticabile confronto con Jake nel tunnel, in cui John Belushi regala la migliore interpretazione di tutta la pellicola.

Ma è solo uno dei tanti ostacoli.

I nemici lungo la strada

Personalmente non sono una grande amante degli inseguimenti in auto, anzi spesso finisco per annoiarmi.

Ma le fughe dei Blues Brothers sono forse la mia parte preferita del film.

Già all’inizio l’iconica scena del centro commerciale, in cui i due travolgono con assoluta tranquillità e piacere negozi, oggetti e persone, ma anche i diversi momenti successivi che punteggiano il secondo atto, con incidenti e distruzioni sempre più improbabili.

L’escalation della violenza e dell’intervento di forze di polizia sempre più massicce va di pari passo con l’incredibile capacità dei due fratelli di salvarsi da ogni situazione, arrivando al punto di far fare un salto carpiato alla loro macchina e così sconfiggere i Nazisti dell’Illinois, ritornando in carreggiata totalmente illesi.

The Blues Brothers inseguimento

Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers (1980) di John Landis

Tuttavia, non manca una certa amarezza.

All’interno di questa apparente invincibilità dal forte sapore comico, proprio davanti al Richard J. Daley Center di Chicago, i Blues Brothers vedono l’inizio della loro sconfitta: la macchina si distrugge davanti a loro sguardi ammutoliti.

Ma la protezione di Dio gli permette di arrivare illesi fino al 102° piano, riuscendo a consegnare i soldi per salvare l’orfanotrofio. Tuttavia, ormai la grazia divina è finita: neanche il tempo di prendere la ricevuta, e i due sono in manette con centinaia di armi puntate addosso.

Il finale è comunque positivo: persino in prigione, i Blues Brothers riescono a rianimare le folle e a tenere insieme la banda.

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Indovina chi viene a cena? – Un momento di passaggio

Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer è uno di quei cult senza tempo che riescono a fotografare l’epoca storica in cui sono usciti, ma al contempo rimanere attualissimi negli anni a venire.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 4 milioni di dollari, circa 36 milioni oggi – incassò piuttosto bene: 56.7 milioni in tutto il mondo – circa 517 oggi.

Di cosa parla Indovina chi viene a cena?

Joey è una ragazza solare e apparentemente molto ingenua: nonostante venga da una famiglia bianca, sceglie di fidanzarsi con John, un uomo nero di grande successo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Indovina chi viene a cena?

Assolutamente sì.

All’interno di un impianto da commedia anche piuttosto leggera, Indovina chi viene a cena? racconta un passaggio fondamentale tra la generazione che pose le basi per superare uno scontro sociale secolare, e i figli della stessa che misero effettivamente in pratica le idee imparate dai genitori.

Infatti, nelle sue ultime battute, la pellicola abbraccia toni più drammatici e seriosi, offrendo diversi punti di riflessione.

Insomma, un manifesto antirazzista ancora attualissimo.

Guardami negli occhi

Il primo atto della pellicola è definito dagli sguardi.

Mentre Joey vive la situazione con la massima serenità, del tutto ignara delle espressioni delle persone che inevitabilmente giudicano le sue scelte relazionali, la regia si sofferma costantemente sulle reazioni dei personaggi con cui i protagonisti vengono a contatto.

Reazioni per la maggior parte dei casi mute, ma definite da espressioni assai eloquenti.

La peculiarità di queste situazioni risiede proprio nel fatto che di per sé la maggior parte delle persone non si sconvolge nel trovarsi davanti un uomo nero, anzi si mostra rispettosa nei suoi confronti chiamandolo dottore

…ma tutto cambia quando Joey annuncia la loro relazione, scatenando perplessità e disapprovazione.

Non vedere i colori

Katharine Houghton in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Joey rappresenta appieno la nuova generazione, cresciuta con ideali più inclusivi e pronta a metterli in pratica.

Una gioventù che manca totalmente di quel peso sociale della discriminazione fra bianchi e neri – in una visione ovviamente molto idealizzata e funzionale – al punto che la protagonista, prima ancora di informare i genitori dell’etnia del suo fidanzato, ne racconta il meraviglioso carattere.

Perché è davvero la prima cosa che vede.

Katharine Hepburn e Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

E allo stesso modo i suoi genitori sono del tutto disarmati, non riuscendo a trovare un solo motivo per opporsi al loro matrimonio, che non sia proprio un motivo razziale: John è semplicemente la migliore persona che potrebbero voler vedere al fianco della figlia.

E l’assoluta novità del film è il fatto di non mostrare né visivamente né nei comportamenti un’effettiva differenza fra le due famiglie – anche banalmente non utilizzando stereotipi poco felici – ma rappresentandole proprio come l’una lo specchio dell’altra.

Il primo risveglio

La prima persona che arriva effettivamente ad una consapevolezza positiva è Christina, la madre di Joey.

Ed è una consapevolezza che sopraggiunge nella maniera più brutale.

La donna, pur piena di dubbi, si trova a confrontarsi con Hilary, la sua collega di lavoro, che dimostra tutta il suo malcelato razzismo per la situazione di Joey, portando Christina a rendersi conto di starsi guardando in un orrendo specchio: quella potrebbe essere lei, se continua sulla strada del dubbio.

Per questo infine sceglie di diventare la principale promotrice della scelta della figlia, in primo luogo allontanando un personaggio scomodo come Hilary, ripromettendosi silenziosamente di non aver più certe persone intorno.

Lo scontro generazionale

Roy Glenn in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Il terzo atto è dominato da una regia quasi teatrale, con molte inquadrature fisse e semplici campi-controcampi, in cui i personaggi vengono inquadrati con mezzi primi piani, che li rendono gli assoluti protagonisti della scena, liberi di muoversi nella stessa.

Gli ostacoli al coronamento del sogno dei protagonisti sono due, ovvero i padri.

John Pertince Sr. sembra il personaggio più accanito, ma in realtà è quello che il figlio riesce più facilmente a sconfiggere.

Roy Glenn e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Tramite il loro scontro, il film mostra esplicitamente e per la prima volta la sua vera faccia, delineando un discorso intergenerazionale in cui i padri richiedono rispetto per il mondo che hanno creato e per i sacrifici che hanno fatto per i loro figli.

Ma sono i figli i primi a ribellarsi, e anche violentemente: con una retorica incredibilmente avanguardistica, John rigetta l’idea della colpa di essere nato, facendo ricadere le responsabilità dei sacrifici del padre sul genitore stesso.

Ma la svolta più significativa è quella di Matt.

Mettersi in gioco

Spencer Tracy in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

John mette il futuro suocero davanti ad un aut aut: o accetta in tutto per tutto la relazione della figlia, oppure questo matrimonio non s’ha da fare. Il giovane uomo si dimostra infatti ben più consapevole della fidanzata circa le difficoltà che dovranno affrontare come coppia mista.

E per questo vuole evitare di averne in primo luogo nella sua stessa famiglia.

Portando così Matt ad intraprende una riflessione per nulla scontata – ma non ci saremmo potuti aspettare di meno dal padre di Joey.

Spencer Tracy e Sidney Poitier in una scena di Indovina chi viene a cena (1967) di Stanley Kramer

Infatti, le sue riflessioni e le sue paure non sono pregiudizi razziali, ma piuttosto concrete preoccupazioni sul destino incerto e potenzialmente molto difficoltoso della coppia, non riuscendo, fino all’ultimo, ad essere veramente sicuro di volerlo approvare.

Invece alla fine, con un monologo quanto più semplice, quando più attuale possibile, mette finalmente in pratica quegli ideali che ha trasmesso così efficacemente alla figlia.

E così rigetta l’insensato razzismo che vorrebbe dividere una coppia meravigliosa solamente per la diversa pigmentazione della pelle. E proprio grazie a lui finalmente i componenti di questa neonata famiglia possono sedersi ad un tavolo come pari.

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A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar – Un equilibrio peculiare

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron è uno dei più importanti film del cinema queer, al tempo veramente rivoluzionario per il pubblico mainstream.

Nonostante negli anni abbia acquisito un’importante notorietà, all’uscita fu un flop: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 47 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Vida Boheme e Noxeema Jackson sono due famose drag queen di New York che intraprendono un viaggio in auto alla volta di Los Angeles, con un ospite inaspettato…

Vi lascio il trailer per farti un’idea:

Vale la pena di vedere A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar?

Patrick Swayze, Wesley Snipes e John Leguizamo in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Assolutamente sì.

A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è un film fantastico, che riesce a raccontare con particolare delicatezza temi per nulla semplici, anzi particolarmente drammatici, ma senza mai sfociare nel dramma più smaccato.

Particolarmente brillante la recitazione dei tre attori protagonisti: pur non essendo drag queen, si sono immedesimati perfettamente nella parte, senza mai risultare fuori luogo, anzi.

L’inaspettato

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

La particolarità di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar è già nel casting.

Scegliere un attore come Wesley Snipes, futuro interprete di Blade nella saga omonima, e soprattutto Patrick Swayze, la star del cult Dirty Dancing (1987), un divo che era il sogno di un’intera generazione di ragazzine, per interpretare delle drag queen non è una scelta casuale.

E infatti l’incipit gioca proprio su questo apparente contrasto: Patrick Swayze entra in scena in tutta la sua possanza dopo essersi fatto la doccia canticchiando It’s a man’s world, e si trasforma nel suo personaggio.

Un contrasto apparentemente incolmabile, che è invece smentito dalla bravura dell’attore, il quale, insieme a Wesley Snipes, porta in scena una drag queen elegantissima, sublime: insomma, una vera diva d’altri tempi.

Il primo atto d’amicizia

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ma Vida non è solamente una fantastica drag queen, ma è anche un personaggio guidato da importanti ideali.

Il motore della storia è proprio la scelta di aiutare un collega alle prime armi, un ragazzino ispanico che non conosce niente del mondo, e che, come vedremo, si mette continuamente in pericolo, in qualche modo anche svendendosi.

Un’occasione anche per raccontare in maniera molto esplicita la differenza fra transessuali, travestiti e le drag queen, in un momento quasi didascalico, in realtà fondamentale per gli intenti del film: avvicinare un pubblico inesperto del mondo queer a concetti importantissimi.

E, al contempo, si vanno anche a smentire stereotipi piuttosto crudeli per il mondo drag, che ne svalutano il valore, proprio scegliendo di non far mai uscire Vida dal suo personaggio, perché rappresenta proprio l’espressione della sua vera identità.

La violenza edulcorata

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Per rappresentare gli elementi anche più drammatici della vicenda, A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar sceglie una via di mezzo.

Ed è una via di mezzo ben pensata, che non toglie importanza a momenti veramente drammatici – come il ritorno di Vida alla sua casa natale – e violenti – come la relazione tossica fra Virgil e Carol.

In particolare, è interessante la scena della tentata violenza con il poliziotto, che ovviamente fa il verso a Thelma & Louise (1991), ma con un esito felice: essendo piuttosto ben piazzata, Vida riesce a difendersi e il poliziotto non muore, ma viene ridicolizzato.

Allo stesso modo, quando la protagonista sceglie di intervenire per proteggere la sua nuova amica, non si mostra esplicitamente la violenza della scena, se non per la sua parte conclusiva, che ha un taglio quasi comico.

Infatti, il taglio del film è quanto più positivo possibile.

Nemici e alleati

La pellicola vuole parlare il meno possibile di nemici, ma quanto più di alleati – o possibili tali.

Il weekend in quello sperduto paesino è un’occasione per le tre protagoniste di riuscire a rendere le donne locali più sicure di sé stesse, e gli uomini meno insicuri e distrutti dalla loro stessa mascolinità tossica e violenta.

E il percorso è quanto più naturale e positivo, con una storia emozionante e commovente, in cui un gruppo di donne riesce finalmente a valorizzarsi – ma, soprattutto, a sentirsi veramente libere e felici di poterlo fare.

Patrick Swayze in una scena di A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar (1995) di Beeban Kidron

Ed è una rappresentazione tanto più vincente in quanto mostra una realtà maschile molto variegata: gli uomini effettivamente negativi sono solo due – Virgil e il poliziotto – ed entrambi vengono messi al loro posto, senza però spingere troppo l’acceleratore sulla loro punizione.

Anzi, il momento di messa in fuga di Dollard racconta come tutti gli abitanti del paese abbiano accettato le protagoniste per quello che sono, sia perché li hanno aiutati, sia perché in questo modo hanno scoperto una parte di sé lontana dagli stereotipi di genere da cui erano definiti.

Ancora più interessante il fatto che i ragazzini non hanno una reazione violenta nei confronti delle drag queen, ma anzi accolgono la lezione – pur brutale – di Noxeema così da migliorarsi e diventare loro alleati.