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La desolazione di Smaug – Solo alla fine

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug (2013) è il secondo capitolo della trilogia prequel de Il Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson. Un sequel che aveva la grande attrattiva di un personaggio così monumentale come Smaug, solo marginalmente rivelato alla fine del primo film.

Ma d’altronde questa saga vive di hype.

La pellicola incassò piuttosto bene, anche se con un riscontro leggermente inferiore rispetto alla saga originale: 958 milioni di dollari a fronte di un budget di 180.

Di cosa parla La desolazione di Smaug?

Bilbo e la compagnia dei nani di Thorin continuano la loro avventura alla volta della Montagna Solitaria, dove si annida un nemico molto minaccioso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La desolazione di Smaug?

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Assolutamente sì.

Se avete visto lo scorso capitolo, non avete motivo per non continuare l’avvincente avventura di Bilbo, che viene ripresa proprio in medias res, ovvero dove era stata lasciata alla fine della scorsa pellicola.

Anzi, secondo me ci troviamo davanti ad un secondo capitolo anche migliore del precedente, con un terzo atto in particolare piuttosto avvincente, che mi ha colpito più di quanto mi aspettassi…

Una simpatica quest (ancora)

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Questo film mi ha trasmesso le stesse sensazioni del precedente, ovvero di una simpatica quest in tono decisamente più scanzonato rispetto alla saga originale. E senza che questo debba per forza essere un aspetto negativo: semplicemente, una simpatica avventura con deviazioni e imprevisti che mi ha piacevolmente intrattenuto.

La maggior parte delle vicende hanno un sottofondo comico e quasi cartoonesco, ben raccontato con la regia sempre fresca e dinamica di Peter Jackson, in particolare durante l’avvincente scena a fuga dagli elfi.

Una costruzione che mi ha lasciato un buon sapore in bocca, nonostante la maggior parte della pellicola sia concentrata su vicende che c’entrano in maniera veramente marginale Smaug, che era stato invece pubblicizzato (comprensibilmente) come il centro della vicenda.

Non dico che fosse un bait, ma poco ci mancava.

La grande attrattiva di Smaug

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Ma tutto viene perdonato per quanto è intrigante ed avvincente la parte dedicata a Smaug. E questo è dovuto sia al perfetto character design del personaggio, sia alla fantastica interpretazione di Benedict Cumberbatch.

Infatti, in un momento di follia, Jackson ha deciso di portare in scena questo personaggio coinvolgendo Cumberbatch in una pazzesca motion capture, in modo che non gli desse solo la voce, ma anche movenze:

E anche la caratterizzazione è impressionante: Smaug non solo è avido e profondamente malvagio, ma è anche troppo sicuro di sé stesso, raccontandosi come un’arma mortale e invincibile. E invece…

…manca la vittoria dei personaggi.

Tutto per l’hype

Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Molta della narrazione de Il Signore degli Anelli è basata sull’idea che una piccola e apparentemente innocua creatura come un hobbit sia capace di battere nemici potenti come Sauron. E solitamente infatti la narrazione si concentra su come il minuscolo protagonista, grazie al suo coraggio e alla sua astuzia, riesca a vincere.

In questa pellicola invece, sembra che ci sia una costruzione per cui Thorin riesce a mettere insieme un complesso piano per sconfiggere Smaug, battendolo con l’intelligenza, non essendo capace di sconfiggerlo con la forza.

E invece il suo piano fallisce.

Anche se non ho dubbi che nel prossimo film – che non ricordo minimamente – i nostri eroi riusciranno a fare la pelle anche ai nemici più imbattibili, ricordandoci come non serve essere forti per essere vincenti…per ora è tutto stato sacrificato per l’hype e un cliffhanger inaspettato.

CGI, che passione!

Mentre ammiravo il fantastico character design di Smaug – uno dei meglio riusciti della trilogia – mi sono resa conto di quanto fosse scricchiolante in certi punti la CGI.

E Smaug è il meno.

Per me la bellezza de Il Signore degli Anelli era anche l’evidente utilizzo, per la maggior parte delle scene, di spazi reali e di trucco prostetico, che rendevano molte scene e personaggi magari più caserecci, ma decisamente più d’impatto e credibili.

E se posso tutto sommato accettare gli orchi, che per la maggior parte hanno un design interessante, ho davvero mal sopportato la nauseante costruzione tutta in digitale di alcune location, particolarmente Laketown.

E davvero certe scene di questo film sono invecchiate di gran lunga peggio rispetto a quelle de Il Signore degli Anelli

Tauriel: che bello essere dei token!

Martin Freeman e Benedict Cumberbatch in una scena di Lo Hobbit - La desolazione di Smaug (2013) di Peter Jackson

Un grande problema, se così possiamo dire, è che la materia originale de Il Signore degli Anelli non si presta particolarmente ad un cast inclusivo, in praticamente nessuna direzione.

Assolutamente comprensibile per un romanzo scritto cinquanta e più anni fa, ma di fatto poco vendibile.

E negli anni hanno cercato di metterci più di una pezza.

Il cast femminile ne Il Signore degli Anelli era al limite del disastroso: passavamo da Arwen, il classico personaggio femminile che sospira e si emoziona drammaticamente in una relazione romantica impossibile, a Eowyn, una forzatura su gambee di cui ho già parlato abbastanza.

L’unico personaggio più interessante era di fatto Galadriel, che non a caso è diventata protagonista di Rings of Power, che però nella saga ha uno screentime molto più limitato di quanto ci si ricordi.

E poi c’è Tauriel.

Devo ammettere però che, per quanto Tauriel sia senza ombra di dubbio un token, me la ricordavo decisamente peggio. Almeno per La desolazione di Smaug, è un personaggio femminile abbastanza funzionante, che si ribella, ma non in maniera forzata e poco credibile, ma tutto sommato interessante.

E almeno non ho trovato la sua storia romantica non è terribilmente noiosa e inutilmente drammatica come quella di Aragorn e Arwen.

Parliamo di Thranduil in La Desolazione di Smaug

Uno dei miei personaggi preferiti in assoluto della trilogia è senza dubbio Thranduil.

Oltre al fatto che adoro il suo character design, sono semplicemente innamorata di Lee Pace come attore – che fra l’altro abbiamo visto recentemente in un ruolo analogamente fantastico nella serie tv Fondazione.

E personalmente ho un interesse abbastanza limitato di quanto questo personaggio sia fedele o meno al canone tolkieniano.

Perché non riesco ad immaginare un elfo più elfo di questo personaggio.

Con tutto che indubbiamente l’attore ha caricato leggermente la recitazione nella scena del confronto con Thorin…

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Avventura Cinema gelido Comico Commedia Commedia nera Drammatico Film Giallo Wes Anderson

Grand Budapest Hotel – Il picco artistico

Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson è per me il miglior film diretto da questo autore, in cui riesce ad unire la sua estetica peculiare con una piccola storia giallo.

Nonostante un budget abbastanza contenuto (25 milioni di dollari), ebbe un ottimo successo commerciale, con 172 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Grand Budapest Hotel?

All’interno di una complessa cornice narrativa, la storia racconta di Zero, un giovane lobby boy che viene coinvolto in un intrigato intrigo con M. Gustave, il direttore del Grand Budapest Hotel…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Grand Budapest Hotel?

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Come detto, Grand Budapest Hotel è il mio film preferito di Anderson, quello dove, per me, ha raggiunto il suo picco artistico, riuscendo a conciliare la sua folle passione per la simmetria e i dettagli con una piacevole storia mistery.

Se vi piace Wes Anderson, ovviamente non ve lo potete perdere. Se invece non vi siete mai interessati a questo regista, è un buon film per mettere un piede nella porta della sua regia.

Io ho cominciato proprio da qui.

Due attori incredibili (fra i tanti)

Tony Revolori e Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Più di ogni altro film di Anderson, questo raccoglie una pletora di attori più o meno famosi, alcuni già feticci di Anderson, come Jason Schwartzman, Owen Wilson e ovviamente Bill Murray.

Ma le perle di diamante sono Ralph Fiennes e Adrien Brody.

Ralph Fiennes è assolutamente perfetto per il suo ruolo, riuscendo ad interpretare ottimamente un personaggio particolarissimo, un tipico personaggio andersiano. Preciso, severo, innamorato del suo lavoro e del mondo in cui è totalmente immerso.

Adrien Brody è uno dei miei attori preferiti, e in questa pellicola correva il rischio di rendere il suo personaggio quasi macchiettistico. E invece è la perfetta controparte di Fiennes: un avido e maligno approfittatore, disposto a tutto per mettere le mani sull’eredità della madre.

Un piacevole intrigo

Tony Revolori e Saroise Ronan in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

L’intrigo è un elemento onnipresente della trama, che si srotola perfettamente per l’intera durata della pellicola. E ogni tappa della storia è assolutamente irresistibile nelle sue dinamiche e nei suoi personaggi, anche quelli più secondari.

In particolare, ho adorato i diversi plot twist e le varie scene di omicidio dirette con la sublime tecnica regista di Anderson, con anche qualche momento più splatter e violento, come la strage alla prigione o lo strangolamento del maggiordomo alla chiesa.

E fin da I Tenenbaum (2000) il regista ha dimostrato di non andarci troppo per il sottile in questo senso…

E con un finale premiante per i protagonisti.

Anche se…

Il finale malinconico

Ralph Fiennes: in una scena di Grand Budapest Hotel (2014) di Wes Anderson

Un tratto piuttosto tipico di Anderson è di portare elementi di una certa malinconia all’interno delle sue pellicole, soprattutto sul finale.

In questo caso la lacrima scende facilmente davanti al racconto di Zero da adulto, soprattutto quando ha come sfondo l’hotel ormai in decadenza, con uno stile evidentemente da Unione Sovietica.

Ma entrambe le storie sia di Agatha che di M. Gustave finiscono tragicamente, evitando quei finali dal sapore quasi fiabesco che molto spesso caratterizzano questo tipo di prodotti.

Ma non in un film di Anderson.

La costruzione a scatole cinesi di Grand Budapest Hotel

Un elemento piuttosto peculiare della pellicola è l’utilizzo delle cornici narrative in una costruzione a scatole cinesi.

Si comincia in un contesto forse contemporaneo in cui una ragazza senza nome si avvicina alla statua dell’autore del libro che sta leggendo; poi entriamo nel libro con la prefazione dell’opera in cui parla lo stesso autore; e poi si passa al racconto di come incontrò Zero; per poi vedere il racconto di Zero con anche la sua voce fuori campo.

Un finale tanto più malinconico per raccontare una storia davvero passata

Essere Wes Anderson

Un aspetto che trovo sempre incredibile della filmografia di Wes Anderson, tanto più in Grand Budapest Hotel, è la come siano sempre pieni di cameo e interpretazioni di attori di un certo livello.

Da attori più di nicchia come i già citati Jason Schwartzman e Owen Wilson, ad effettive star come Adrien Brody e Ralph Fiennes, tutti pronti a portare la loro fantastica presenza nei suoi film, anche per screentime davvero contenuti.

Wes Anderson è probabilmente il regista più popolare di Hollywood.

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Avventura Azione Comico Commedia Film Il cinema di James Cameron Spy story True Lies

True Lies – Il doppio inganno

True lies (1994) di James Cameron è uno dei suoi film minori, che nel caso di questo regista significa che non è un cult assoluto.

In questo caso Cameron gioca con il genere spy story, con l’action e una buona dose di umorismo.

Ma comunque un ottimo successo commerciale: a fronte di un budget abbastanza consistente di 100 milioni di dollari, ne incassò complessivamente 365 in tutto il mondo.

Di cosa parla True lies?

Harry è una spia internazionale che vive apparentemente una vita normale con la sua famiglia, totalmente ignara del suo vero lavoro. La situazione rischia di cambiare quando scopre il segreto della moglie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere True lies?

In generale, sì.

È forse finora fra i film più divertenti di James Cameron, con una buona dose action che non mi è del tutto dispiaciuta. L’unica cosa che ho un po’ accusato è l’eccessiva lunghezza, ma che è evidentemente dovuta alla volontà di presentare una trama ben strutturata.

Insomma, se vi piacciono le storie di spionaggio che non si prendono troppo sul serio e se soprattutto vi piace James Cameron, non potete perdervelo.

Lavorare su un volto

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Dopo la duologia di Terminator, Cameron di nuovo scelse come suo protagonista Arnold Schwarzenegger.

E questa volta forse non fu la scelta migliore…

Per quanto in Terminator Schwarzenegger facesse assolutamente il suo, e per questo fosse incredibilmente iconico, doveva reggere una parte in cui era volutamente legnoso nella recitazione.

In True lies, in cui deve sostenere una parte decisamente più espressiva, purtroppo, per quanto si sforzi, recita in maniera non tanto dissimile. Ed è doppiamente un problema quando è messo accanto a un’attrice così carismatica come Jamie Lee Curtis.

Tuttavia Cameron, che non è certo un pivello, e lavora sui primi piani stretti per mettere in evidenza lo sguardo iconico del suo attore feticcio.

E salva un po’ la situazione.

L’evasione dell’uomo comune

Arnold Schwarzenegger in una scena True lies (1994) di James Cameron

Il tema di fondo di True lies è un gancio che può coinvolgere facilmente la maggior parte degli spettatori: l’evasione dalla monotonia della vita comune.

E si articola in due direzioni.

Da una parte Harry, che si mostra già realizzato in questo senso, anche se deve portare sulle spalle il fallimento della sua situazione familiare, nonostante la sua vita sia incredibilmente adrenalinica e piena di avventure.

Dall’altra Helen, che invece muore dalla voglia di vivere una vita almeno un po’ più interessante di quella in cui si ritrova intrappolata, e che trova per fortuna sfogo nella sua piccola avventura, e poi in un tanto agognato lieto fine.

Ma a che prezzo…

Una vittima battagliera?

Jamie Lee Curtis in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Dal momento che Harry è l’eroe della storia, non può più di tanto essere punito per le sue azioni, che ne sottolineerebbero la gravità.

Ma al contempo viene pure perdonato troppo facilmente.

Helen è da certi punti di vista molto più vittima di Harry che di Simon: il truffatore la circuisce e ad un certo punto cerca anche di violentarla. Ma per questo è ripetutamente punito e umiliato, fino all’ultimo momento del film.

Ma Harry non solo le ha mentito per anni (cosa da un certo punto di vista anche comprensibile), ma la coinvolge in una missione che la mette in una posizione sempre riguardante la sfera sessuale, e che la mette non poco a disagio, nonché in pericolo. Oltre al fatto che fondamentalmente la stalkera perché pazzo di gelosia…

Ma per fortuna che Helen non è per nulla la vittima da salvare, ma anzi è incredibilmente battagliera e si salva da sola dalla maggior parte delle situazioni di pericolo.

Uscire dagli stereotipi

Art Malik in una scena di True lies (1994) di James Cameron

Ammetto che mi stavano discretamente cadendo le braccia davanti ad una rappresentazione dei terroristi e dei villain con il solito stereotipo di uomini brutti e cattivi mediorientali.

E invece Cameron mi ha sorpreso.

Anche se comprensibilmente non vuole fare una destrutturazione dello stereotipo a tutto tondo, basta una piccola frase nei dialoghi per dare maggior tridimensionalità alla vicenda.

Infatti Salim, il villain, sottolinea come sia ridicolo che loro vengano chiamati terroristi quando sono gli stessi Stati Uniti che bombardano i loro villaggi e uccidono gli innocenti.

Un’opinione per nulla scontata in un film del genere…

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Un viaggio inaspettato – Una simpatica quest

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (2012) è il primo capitolo della trilogia prequel del Signore degli Anelli, sempre diretta da Peter Jackson.

Un prodotto che ebbe una produzione molto più tormentata rispetto alla trilogia originale – che, ricordiamo, era stata girata tutta insieme nel giro di 8 mesi.

Un film che costò quasi il doppio rispetto ai film precedenti (180 milioni di dollari), e che però arrivò subito a superare il miliardo di incasso, con 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Mentre Bilbo sta concludendo le sue memorie e per festeggiare il suo 111esimo compleanno, ricorda l’inizio della sua inaspettata avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato?

Martin Freeman e Richard Armitage in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

In generale, sì.

Ma ci sono dei grossi ma.

Il punto è che sta tutto come volete intraprendere la visione di questa pellicola e della trilogia in generale: se lo prendete a sé stante, è un film assolutamente godibile e complessivamente ben fatto.

Se invece siete profondamente legati alla trilogia originale, o se siete dei tolkieniani puristi (e pure un po’ incazzati), vi consiglio caldamente di passare ad altro.

Per il vostro bene.

Un eroe diverso

Martin Freeman in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Ho già ampiamente parlato del tipo di eroe che è Frodo: profondamente tragico, fallibile e vicino allo spettatore.

E si definisce anche più nettamente in confronto col tipo di personaggio che invece è Bilbo. Come punto di partenza hanno avuto la buona pensata di non caricare il personaggio con la stessa tragicità della sua controparte della trilogia originale.

Perché gli sarebbe stata stretta.

Bilbo è in tutto per tutto un eroe comico, che comincia un’avventura in tono molto minore e che ha una conclusione positiva. Oltre a questo, è un personaggio che rappresenta un pubblico molto più adulto rispetto a quello del primo, con tutti i problemi da adulto.

E forse è stata proprio quella l’idea: agganciare il pubblico dei fan ormai cresciuti, a dieci anni di distanza…

Una simpatica quest

Una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto che aveva molto più il sapore di quest da GDR rispetto alla trilogia originale.

Infatti, rispetto a La compagnia dell’anello, l’obbiettivo molto più vicino e raggiungibile, il viaggio presenta una serie di deviazioni dal percorso, che comprendono anche il trovare la direzione effettiva per l’obbiettivo.

Purtroppo già qui si sente il voluto allungamento della trama, dovendo distribuire un libro di appena 400 pagine su tre capitoli. Tuttavia la più grossa deviazione del film, la trappola dei goblin, è anche quella che porta la scena migliore.

La sequenza di Gollum

Andy Serkis in una scena di Lo Hobbit - Un viaggio inaspettato (2012) di Peter Jackson

L’incontro di Gollum e Bilbo era uno dei momenti più importanti da raccontare: non solo definisce l’incontro con l’anello, ma anche la decisione più importante della vita del protagonista.

Non uccidere Gollum.

La sequenza a loro dedicata mi è particolarmente piaciuta perché è stata trattata con la giusta tragicità, e per tutto il tempo sentivo il pericolo di Gollum, che abbiamo già conosciuto come una creatura infida e bestiale.

Tuttavia, come Frodo dopo di lui, Bilbo prova una profonda pietà nei confronti di questo personaggio. In effetti Smeagol è in fondo una creatura di cui avere pietà: un hobbit che ha perso ogni elemento di umanità ed è diventato una figura bestiale, ma, soprattutto, miserabile.

La questione di Thorin

Thorin è una delle maggiori polemiche che hanno circondato questa saga.

In effetti, anche per come ci erano raccontati e come li avevamo visti in Il signore degli anelli e poi anche in Rings of power, i nani hanno dei tratti molto marcati e anche molto buffi.

Infatti Gimli era il comic relief della saga originale.

Tuttavia in questa saga avevano bisogno di un personaggio che fosse fondamentalmente la controparte di Aragorn. E non poteva avere un aspetto meno affascinante…

È un discorso incredibilmente triste da fare, ma è anche molto realistico: se Thorin non avesse avuto questo aspetto non sarebbe stato credibile nel suo personaggio.

Le aquile di Gandalf e altre amenità di un viaggio inaspettato

Fin dal Signore degli Anelli, impazza la cosiddetta polemica delle aquile di Gandalf. Molto banalmente, non pochi spettatori si sono lamentati per come le aquile arrivano sia alla fine de Il ritorno del re (2003), sia alla fine di Un viaggio inaspettato come deus ex machina.

Come al solito, mi sono informata.

E ho tre cose da dire.

Anzitutto, a livello strettamente letterario e di canone, no, le aquile non potevo arrivare prima e no, non potevano trasportare direttamente i protagonisti alla loro destinazione. Questo banalmente perché le aquile sono delle divinità, non degli animaletti da compagnia, e intervengono solamente quando lo ritengono necessario.

Ad un livello quasi metanarrativo, Gandalf non vuole rendere così semplice il viaggio né di Frodo né di Bilbo, perché lo stesso non è un semplice percorso, ma un viaggio che permette anche ai personaggi di crescere e maturare. Tanto più che lo stesso Gandalf è una creatura divina, quindi molto più in alto rispetto alle piccole vicende della Terra di Mezzo.

In ultimo, come ho già mostrato, non sono d’accordo con questa polemica, ma mi sento vicina ad un concetto piuttosto importante: se allo spettatore viene la domanda perché non è stato fatto prima? non è un buon segno. E se ne Il ritorno del re la questione per me non si pone, tutto il comportamento di Gandalf sul finale (aquile permettendo) è comunque discutibile e denota una sceneggiatura per certi tratti abbastanza traballante.

Come va considerato lo Hobbit

Ci tengo a dire due parole su questa questione.

Io capisco perfettamente quale sia stato il problema per molti fan della trilogia originale davanti a questo prodotto.

Banalmente, manca della stessa epicità.

Ma è indubbio che lo stesso taglio narrativo sarebbe stato tremendamente fuori posto davanti alla materia raccontata. Come detto, l’avventura di Bilbo è decisamente in tono minore rispetto a quella di Frodo. E di conseguenza è stata trattata.

E per me va bene così.

Con tutto che ci sono degli indubbi difetti soprattutto nella gestione della storia, ma che non vanno a mettere in discussione l’intera operazione.

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Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

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Avventura Cinema per ragazzi Comico Commedia Commedia nera Film Giallo Horror Satira Sociale Scream - Il primo rilancio Scream Saga

Scream 4 – Now streaming

Scream 4 (2011) è il quarto capitolo della saga omonima, arrivato a più di dieci anni di distanza da Scream 3, che chiude la trilogia originale.

L’ultimo film del compianto Wes Craven, che ci ha lasciato in eredità un prodotto che non solo era al passo coi tempi, ma che anticipava alcune dinamiche della società stessa.

Questo film ebbe un budget abbastanza sostanzioso (40 milioni), ma non ebbe il grande riscontro che ci si aspettava, con solo 97 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Scream 4?

A dieci anni dalle vicende di Scream 3, si torna a Woodsboro, con un cast di protagonisti rinnovato, che rappresentano la nuova generazione. Fra queste anche la cugina di Sidney, Jill, che dovrà cercare di riappacificarsi con la famosa parente, mentre la scia di omicidi sembra di nuovo prendere piede…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream 4?

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Per quanto mi riguarda, Scream 4 è il miglior film della saga, secondo solamente al primo capitolo.

Riesce con grande freschezza a riportare in scena le dinamiche tipiche fin dal primo film, riuscendo ad aggiornarle al nuovo decennio, con anche delle grandi novità che rompono gli schemi classici.

Un film dove l’elemento horror diventa quasi comico a suo modo, mettendosi in linea con l’horror più violento che andava di moda in quel periodo, ovvero quello della saga di Saw, che al tempo ancora furoreggiava (e che infatti è pure citata nel film). Ma senza mai scadere nel torture porn.

Insomma, da recuperare assolutamente.

Questo inizio ha troppi livelli

Lucy Hale in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You gotta have an opening sequence that blows the door off

La sequenza iniziale deve essere qualcosa di incredibile

L’inizio di Scream 4 credo che sia una delle cose più geniali mai concepite nel cinema horror.

Si comincia con un inizio che sembra l’effettivo inizio del film, in cui fra l’altro la pellicola si mette in linea con tutte le novità sia del genere, sia della società di dieci anni dopo: Facebook, i cellulari, le nuove saghe di successo come Saw.

Ed è la classica sequenza iniziale in cui le due ragazze in casa da sole sono le prime vittime di Ghostface (o di qualsiasi altro killer in uno slasher).

Tuttavia, il film ci catapulta in un altro inizio, che sembra ancora quello vero, con una coppia di ragazze che stava vedendo Stab 6, andando poi a screditarne la validità, perché banale e ripetitivo. Ma una delle due difende la saga per essere diversa dal solito che esce, e a sorpresa accoltella l’amica perché parla troppo.

E questo è l’inizio di Stab 7.

E poi si arriva all’effetto inizio del film che è di fatto quello che sembrava l’inizio all’inizio, in un meraviglioso cortocircuito mentale che ho semplicemente adorato.

Essere drammaticamente attuali

Ghostface in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

The killer should be filming the murders

Il killer dovrebbe filmare i suoi omicidi

La grande novità di questa pellicola è l’idea che il killer ora sia sostanzialmente un vlogger, quando questa era ancora una realtà emergente nella nascente cultura di internet e dei social.

Oltre ad essere un elemento di grande freschezza, che raggiunge un interessante apice nel finale, è una questione drammaticamente attuale anche oggi: senza andare a scavare troppo nel torbido, sappiate solo che, in tempi recenti, dei terroristi hanno fatto cose simili.

Ma più in generale, quello che al tempo sembrava una cosa strana o comunque molto nuova, è diventata quasi la quotidianità nel nostro tempo, anche prendendo strade diverse, con vlogger che spopolano su TikTok.

In questo senso, da capogiro lo scambio fra Sidney e Robbie:

– You film your entire high school experience and what, post it on the net?
– Everybody’ll doing it someday, Sid.

Registri la tua intera vita del liceo e poi che fai, lo posti su internet? – Tutti lo faranno in futuro, Sid.

Vecchi moventi, nuovi moventi

Emma Roberts in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You have your 15 minutes, now I want mine!

Hai avuto il tuo momento di gloria, ora è il mio turno!

La genialità del finale sta nel fatto di riprendere un movente simile del primo Scream, ma al contempo riuscendo a renderlo molto più attuale per il suo tempo. Nel primo film la vera radice del movente era la vendetta personale, in questo caso è l’invidia e il desiderio di essere al centro della scena.

Un sentimento tanto più comprensibile oggi, quando la popolarità sembra sempre dietro l’angolo e a portata di mano, tanto è semplice prendere in mano un cellulare e diventare, anche solo per poco tempo, famosi sui social.

In questo caso eravamo ancora all’inizio di questa ubriacatura di popolarità, ma non di meno questo sentimento esisteva.

Come infatti dice la stessa Jill:

We all live in public now, we’re all on the internet

Siamo tutti esposti oggi, siamo tutti su internet

Saper funzionare, 10 anni dopo

Una scena di Stab in una scena di Scream 4 (2011) di Wes Craven

You forgot the first rule of remakes, Jill. Don’t fuck with the original.

Hai dimenticato la regola più importante dei remake, Jill. Non puoi fottere l’originale

Un elemento che mi ha sempre dato da pensare di Scream è il personaggio di Sidney e in generale la volontà di creare una storia tutta in continuità, con il rischio di fare gli stessi errori della saga di Saw, che è andata inutilmente ad incartarsi. E, anche per questo, avevo paura di trovarmi davanti ad una trama ripetitiva.

Ovviamente, non potevo più sbagliarmi.

Sidney è un personaggio che funziona sempre, proprio perché è un personaggio femminile che funziona e che non ricade nella dinamica da Mary Sue. È una giovane donna con tante fragilità, ma che sa sempre rimettersi in piedi, affermare la sua posizione e lottare senza mai arrendersi contro Ghostface.

E in una maniera sempre credibile.

La violenza comica

The kills gotta be way more extreme

Le uccisioni devono essere molto più estreme

Le morti nel film sono tanto estreme da diventare quasi comiche per la loro originalità: abbiamo i poliziotti uccisi con un coltello piantato nel cervello, una ragazza con le budella fuori, tantissimo sangue, fino ad arrivare alla mia preferita:

La madre di Jill uccisa alle spalle col coltello che passa attraverso la buca delle lettere.

Ed è proprio una risposta ad un tipo di cinema e di violenta orrorifica inaugurata proprio da Saw, che fra l’altro non sono mai riuscita ad apprezzare. E infatti non potrei più essere d’accordo con quello che si dice all’inizio del film:

It’s not scary, it’s gross. I hate all that torture porn shit.

Non fa paura, è imbarazzante. Odio tutto quella merda di torture porn.

Il casting pazzesco di Scream 4

Una delle cose che più mi hanno sorpreso è quanto siano riusciti a castare praticamente tutti gli attori più famosi e popolari delle serie tv e film mainstream dall’inizio degli Anni 2000 fino circa a metà del decennio successivo.

Anzitutto Lucy Hale, che interpreta una delle due ragazze di Stab 6, e che era appena sbocciata come star per Pretty Little Liars. Poi Kristen Bell, la voce di Gossip Girl fino al 2011 e che interpreta una delle due ragazze in Stab 7.

Fra le protagoniste, Hayden Panettiere, che interpreta Kirby, che io ricordo soprattutto per Malcolm in the middle, ma che al tempo era molto conosciuta per la serie Heroes. E poi ovviamente Emma Roberts, che bivacchiava fra molti prodotti teen di secondo livello come Wild Child (2008).

Nota di merito anche alla presenza di Adam Brody, attore amatissimo al tempo per O.C. e che qui interpreta uno dei poliziotti, oltre a Rory Culkin, fratello del ben più famoso Macaulay Culkin, che qui interpreta Charlie, uno dei due Ghostface.

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Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson
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Fantastic Mr. Fox – Una favola per adulti

Fantastic Mr. Fox (2009) è il primo lungometraggio animato con la tecnica stop-motion di Wes Anderson, a cui è seguito L’isola dei cani (2018).

Il film fu purtroppo un pesante flop commerciale: a fronte di un budget non esattamente ridotto come 40 milioni di dollari, ne incassò appena 46 in tutto il mondo.

Di cosa parla Fantastic Mr. Fox?

In un mondo con animali semi-antropomorfi, Mr. Fox è una volpe che ha rinunciato alla sua natura animalesca di rubagalline su richiesta della moglie. Tuttavia, la sua avventatezza lo porterà a conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Fantastic Mr. Fox?

George Clooney come Mr Fox in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Fantastic Mr. Fox è assolutamente quello che vi potreste aspettare da Wes Anderson, con una tecnica di animazione che sembra calzargli a pennello e che per certi versi mi ha ricordato alcune sequenze di Grand Budapest Hotel (2018).

Un piccolo film di breve durata che ho trovato davvero piacevole da guardare, con una trama a sorpresa davvero piena di colpi di scena. Come al solito, non fatevi frenare dal fatto che sia un prodotto di animazione: non è un prodotto per l’infanzia, anzi è molto più godibile da un pubblico adulto.

Cos’è la tecnica stop-motion

La tecnica stop-motion, in Italia nota come passo uno, è una tecnica di animazione con l’utilizzo di una speciale macchina da ripresa, che riprende fotogramma per fotogramma.

Questo richiede diverse pose degli elementi della scena, rendendola una tecnica quanto affascinante che complessa.

Nel caso di Fantastic Mr. Fox i soggetti in scena sono dei pupazzi, avendo alle spalle professionisti come lavoratori anche con Tim Burton per La sposa cadavere (2005), altro prodotto creato con la stessa tecnica.

Anderson, oltre al successivo prodotto di animazione L’isola dei cani, utilizzò tecniche simili anche per Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Grand Budapest Hotel.

Se volete approfondire, ecco un dietro le quinte della realizzazione del progetto:

Perché è così difficile trasporre Roald Dahl

Vale la pena di spendere due parole su questa questione, soprattutto perché Roald Dahl è stato l’autore della mia infanzia, di cui lessi ogni storia, compresa l’autobiografia e la biografia.

E per l’occasione ho ripreso anche in mano il romanzo originale.

Generalmente parlando, la particolarità di questo autore sta tutto in certi elementi grotteschi, quasi orrorifici che inseriva nelle sue opere, nonché le morali non scontate dietro alle sue storie.

Uno dei punti più alti era forse ne Gli Sporcelli, in cui la coppia protagonista quasi si mangiava dei bambini che catturava, oltre a farsi gaslighting a vicenda, con tinte davvero horror.

Ma anche più semplicemente il finale de Le Streghe, che non è esattamente quello che ti aspetteresti da una storia per bambini, e che infatti è stata edulcorata senza alcuna vergogna nel film del 1990.

Paradossalmente è stato meglio che l’abbia preso in mano un regista come Wes Anderson, che ha cercato anzi di rendere la storia originale più digeribile per il suo pubblico.

Tuttavia, mentendo un totale rispetto per l’opera originale, arricchendola di contenuti, invece che cambiarla radicalmente

Una trama inaspettata

Willem Dafoe come Rat in Fantastic Mr Fox (2009) di Wes Anderson

In un prodotto più banale mi sarei aspettata che il punto di arrivo sarebbe stato la scoperta da parte della moglie delle malefatte di Mr. Fox.

E invece le stesse sono quasi il motore della vicenda che porta al finale.

Questa apparente anomalia riguarda anche il modo in cui Anderson ha cercato di arricchire la storia, che originariamente era molto più lineare e molto più breve. Nel libro in particolare manca tutta la sequenza iniziale di contrasto di Mr. Fox e la moglie.

Il regista è riuscito ad aggiungere dove bisognava aggiungere, soprattutto rendendo i personaggi più tridimensionali e la storia più ampia, ma mantenendo inalterato il cuore della storia.

Antropomorfi, ma non del tutto

Il carattere di antropomorfismo dei personaggi è reso con grande equilibrio, senza renderli del tutto umani, ma mantenendo il loro lato animalesco.

Si vede particolarmente nei momenti in cui le volpi mangiano come animali, appunto.

Nonché la questione di Badger, l’opossum, che in dei momenti improvvisamente perde coscienza del mondo. Questa caratteristica tanto strana è tipica del comportamento dei membri della sua specie, che in dei momenti sembrano morti.

Una reazione quasi involontaria che questi animali hanno quando si sentono minacciati, e che ha uno spassoso effetto comico all’interno del film.

Altrettanto geniale è tutta la messa in scena di come Mr. Fox organizzi di fatto una rapina umana, ma del tutto coerente con la sua natura da volpe ruba galline, appunto.

Il topos della fuga dal quotidiano

Un elemento che potrebbe apparire quantomeno bizzarro di questa pellicola è il tipo di rappresentazione del rapporto matrimoniale fra Mr. Fox e Mrs. Fox.

Tuttavia, facendo abbastanza attenzione si può notare come evidentemente la storia sia ambientata negli Anni Sessanta-Settanta, proprio quando fu pubblicato (e ambientato) il libro di ispirazione.

Così appare molto più comprensibile questa idea dell’uomo scapestrato in gioventù che si sente intrappolato nella vita matrimoniale, come effettivamente era tipico a livello sociale in quel periodo.

Fra l’altro il personaggio di Mr. Fox è molto più ampliato rispetto al libro, in cui era un eroe positivo in tutto e per tutto, nonostante in certi momenti si mettesse in luce la sua furbizia per finalità non del tutto positive…

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Do Revenge – L’adolescenza a mille

Do Revenge (2022) è un teen movie recentemente uscito su Netflix, per la regia di Jennifer Kaytin Robinson, che ricordiamo con piacere (?) per essere stata alla sceneggiatura del recente Thor: Love & Thunder (2022). Un film che mi era stato consigliato e che avevo guardato in prima battuta con grande superficialità.

Tuttavia, andando avanti, mi sono resa conto di quanti spunti di riflessione offrisse.

Così l’ho visto una seconda volta.

Di cosa parla Do Revenge?

Drea è una ragazza al penultimo anno di una high school privata e prestigiosa, in cui è entrata grazie ad una borsa di studio. Nonostante faccia parte del gruppo dei ragazzi più popolari (e ricchi) della scuola, la sua vita viene rovinata dalla diffusione di un suo video intimo, probabilmente per mano del suo ex-ragazzo.

Per questo, con la complicità della nuova arrivata, Eleanor, decide di vendicarsi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Do Revenge?

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Non fatevi (del tutto) frenare dal fatto che si tratti di un teen movie e dal fatto che appaia potenzialmente molto trash: è indubbio che faccia parte di quel genere, ma non raggiunge mai picchi di narrazione scadente ed esagerata. Personalmente io sono un’amante del genere, ma mi rendo anche conto che, essendo uscita ormai da un pezzo da quella fase della mia vita, questi film spesso non parlino più la mia lingua.

Tuttavia, questo succede quando un teen movie non ha altro da aggiungere alla trama se non una semplice crescita dei protagonisti, tipicamente con focus sulle dinamiche amorose. In una scala di gravità, mettiamo al punto più alto prodotti come Tutte le volte che ho scritto ti amo (2018), nel mezzo film anche piacevoli come Love, Simon (2018), nel punto più lontano capolavori di genere come Mean Girls (2004).

Poi c’è Do Revenge.

Quando i teen movie sono godibili anche se non sei teen

L’ostacolo che pongono i teen movie solitamente è che non sono pensati solamente per un pubblico di adolescenti, con un linguaggio cinematografico e generazionale che può essere facilmente incomprensibile nel caso in cui si faccia parte di quella generazione.

Quindi sono anche prodotti con una data di scadenza: senza niente togliere a chi sia piaciuto, il già citato Tutte le volte che ho scritto ti amo probabilmente non sarà considerato dalla prossima generazione ed è talmente un prodotto usa-e-getta ancorato al suo genere di appartenenza è difficile che sia apprezzato al di fuori del target di riferimento.

Al contrario abbiamo prodotti come Mean Girl per gli Anni Duemila e Clueless (1995) per gli Anni Novanta che sono dei cult intramontabili, assolutamente apprezzabili anche oggi.

Perchè sono prodotti non del tutto legati al loro genere, che riescono a raccontare dinamiche intergenerazionali, e a mischiarsi con altri generi cinematografici. Come Mean Girl aveva un taglio surreale e quasi grottesco, Clueless è una brillante riproposizione del romanzo Emma di Jane Austen.

Do Revenge, senza poter raggiungere quelle vette, riesce comunque a raccontare tematiche profonde e anche impegnative, come la difficoltà del coming out, il classismo, il sessismo sotterraneo, e via dicendo. Questo, riuscendo anche a incontrarsi quasi con il genere thriller.

Un film che non manca di ingenuità, ma che vale la pena di recuperare.

Anche se non vi piacciono i teen movie.

Un uomo, un harem

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

La parte forse più interessante della pellicola è il villain maschile, ovvero Max.

Max è una sorta di Regina George, che però ha il grande merito di raccontare il nuovo gusto estetico di questa generazione. Si può notare infatti come abbia un abbigliamento vagamente queer: gli orecchini, lo smalto alle unghie, le camicie ampie che lasciano scoperto il petto glabro.

Un tipo di estetica che è nata recentemente intorno a personaggi come Harry Styles e Timothée Chalamet, che raccontano un maschile che riesce finalmente a liberarsi di opprimenti stereotipi sociali. E che si sente di sperimentare con abbigliamenti stereotipicamente attribuiti all’altro sesso.

Senza che per questo sia additato come meno maschile, appunto.

Il sessimo in Do Revenge

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Oltre a questo, Max è un villain davvero interessante perchè racconta una dinamica drammaticamente reale, ovvero quella di un’uomo che, avendone le possibilità, si attornia di donne che utilizza come oggetti, unicamente per accrescere il suo ego.

E la rivelazione finale è significativa in questo senso: Max ha rovinato con odio e cattiveria la vita di Drea semplicemente perchè lei non era stata evidentemente grata nei suoi confronti per averla resa importante.

Si vede che c’è anche una dinamica simile per esempio con Tara, l’ex migliore amica della protagonista, il cui padre è aiutato da Max nella sua carriera al senato. E la stessa, nonostante si senta in colpa per aver escluso Drea, supporta continuamente Max, anche quando si dimostra un evidente traditore.

La difficoltà di raccontare personaggi queer

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il personaggio di Nora è interessante quanto problematico.

Da una parte è lodevole veder raccontare, in un prodotto comunque pensato per un target molto giovane, la difficoltà del coming out per un adolescente queer e l’omofobia sotterranea che deve sopportare. La storia di Nora è particolarmente drammatica: era riuscita a dichiararsi alla sua ragazza dei sogni, di cui era evidentemente innamorata, ed è stata non solo respinta, ma sotterrata da un pesantissimo pettegolezzo.

Questo aveva fra l’altro fatto ritornare la sua fidanzata, Carissa, nello stanzino, ovvero rendendola incapace di vivere serenamente la sua sessualità. E così Nora si incattivita, si è chiusa in se stessa, sentendosi (ed essendo effettivamente percepita) come un’intoccabile, arrivando pure a sottoporsi alla chirurgia estetica in giovanissima età.

Ed è ancora più insicura per l’omofobia sotterranea che serpeggia nel suo ambiente sociale, già solamente per come Drea definisce Carissa, abbastanza con disprezzo ed etichettandola come

That crunchy granola lesbian

Quella lesbica hippie

Gli stereotipi di Do Revenge

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Il problema tuttavia rimane per come Nora e gli altri personaggi femminili queer vengono rappresentati, ovvero come diversi dagli altri, o trasandati (come Nora prima del makeover) oppure associati ad una estetica da tomboy. Una rappresentazione che ho idea che non sia stata fatta con malizia, ma con sincera ingenuità, ma che è comunque un grave errore all’interno di un prodotto con questi propositi.

Il problema del classismo

Camilla Mendes e Alisha Boe in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un altro macrotema della pellicola è il classismo che strozza la società americana.

Nella società statunitense è veramente difficile emergere se non si hanno i soldi per farlo, anzi è un paese con una mobilità sociale piuttosto bassa. Per questo Drea si prende sulle spalle l’impegno di sopravvivere l’ultimo anno in un contesto che è diventato per lei l’inferno, perchè è l’unico modo in cui può entrare in una università importante e così costruirsi una vita migliore.

Perchè lei, provenendo da una famiglia non abbiente, non riesce ad entrare così facilmente come le sue amiche che, grazie ai soldi e alla loro posizione sociale, corrono in una corsia prioritaria.

Svelare l’ipocrisia

Austin Abrams in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Ad oggi le maggiori aziende non cercano più di convincerti sulla qualità del prodotto, ma sui valori dell’azienda stessa. Così funziona per certi versi anche col personal brand, elemento centrale del personaggio di Max.

Un ragazzo che è in realtà incredibilmente egocentrico, sessista e che usa ed oggettifica le donne, ma che vuole vendersi come invece progressista. Così per l’improbabile club dei CIS Hetero Man Championship Female Idenfying Student League (non significa fondamentalmente nulla), con l’idea di portare un San Valentino più inclusivo e scardinare l’idea delle relazioni monogame.

Concetti che sono di per sè anche giusti, ma che vengono dalla bocca di una persona che è appunto a parole in un modo, ma che nella realtà (come si vede alla fine) non ha alcun rispetto per le donne nè crede in nessuno di questi concetti che propone.

L’elemento thriller

Maya Hawke in una scena di Do Revenge (2022) di Jennifer Kaytin Robinson, nuovo film Netflix

Un elemento davvero gustoso della pellicola è il taglio thriller sul finale.

La rivelazione di per sè non annulla la costruzione del personaggio di Nora, che comunque rimane una ragazza con tante difficoltà nel trovarsi le giuste amicizie e a relazionarsi con gli altri. Cosa che fra l’altro la rende così violenta e macchinatrice, come si era mostrata fin dall’inizio.

Ed è esilarante la scena in cui aspetta Drea a casa come se fosse proprio un serial killer che aspetta la sua vittima, scena fra l’altro che è stata retta benissimo sulle spalle di Maya Hawke: in mano ad un’altra interprete meno capace, la stessa sequenza sarebbe risultata inevitabilmente ridicola.

Tuttavia, andando a portare questo elemento così forte come plot-twist, si rende leggermente meno credibile la riconciliazione finale fra le protagoniste, che sono di fatto ridimensionate nella loro cattiveria perchè riescono a confrontarsi e perchè si mettono contro con un personaggio indubbiamente negativo e per nulla pentito delle sue azioni.