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La La Land – Una storia di distruzione

La La Land (2016) è il terzo film di Damien Chazelle, nonché la pellicola che l’ha portato al successo presso il grande pubblico, aggiudicandosi moltissimi premi, fra cui la Coppa Volpi per Emma Stone e sei premi Oscar.

A fronte di un budget medio – 30 milioni – è stato un enorme successo: 447 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla La La Land?

Mia e Sebastian sono due giovani sognatori che cercano di sfondare in un contesto molto competitivo come quello di Los Angeles, perdendosi in bellissimi sogni da musical che contrastano con la più triste realtà…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La La Land?

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

La La Land è una delle più incredibili sperimentazioni artistiche e cinematografiche degli ultimi anni, che riesce a raccontare una decostruzione e, di fatto, una distruzione di un genere su diversi livelli: fotografia, messinscena, metanarrativa.

Quando si dice che Chazelle ha avuto il suo picco troppo presto, io rispondo che questa pellicola è stata il primo passo di un percorso incredibile di riflessione sui generi e sul cinema, sulla realtà e sul sogno, con un’evoluzione altrettanto interessante in Babylon (2022).

Non un musical, non un anti-musical, ma una sperimentazione imperdibile.

La falsa partenza

L’incipit di La La Land ci racconta già tutto della visione di Chazelle.

In un contesto molto urbano e reale, la scena esplode improvvisamente in un rocambolesco numero musicale, con la classica canzone introduttiva e positiva del più classico dei musical, ma che in realtà suggerisce fin da subito il sottotesto (neanche tanto sotteso) metanarrativo del film.

In particolare, è interessante osservare uno specifico passaggio della canzone:

Summer Sunday nights
We’d sink into our seats
Right as they dimmed out all the lights
The Technicolor world made out
of music and machine
It called me to be on that screen
And live inside its sheen
La sera delle domeniche d'estate
Sprofondiamo nelle nostre poltroncine
Appena spengono tutte le luci
Quel mondo di Technicolor fatto
di musica e macchina
Mi ha invitato a stare su quello schermo
e a vivere nella sua lucentezza

Questi pochi versi raccontano il desiderio del protagonista della canzone di far parte di quel mondo Technicolor fatto di musica, ovvero il mondo del musical, facendo riferimento in particolare alle opere prodotte fra gli Anni Venti e Cinquanta – in cui la tecnica del Technicolor fece la sua fortuna.

Per il resto la canzone anticipa proprio il percorso dei protagonisti – il più classico per il genere: partire con nulla (without a nickel to my name), cercando di raggiungere il successo (I’m reaching for the heights), pur andando incontro a diversi ostacoli (and even when the answer’s no / or when my money’s running low).

E, nonostante tutto, il protagonista della canzone conclude dicendo insistentemente It’s another sunny day: è un altro giorno di sole, è un altro giorno positivo, niente mi può fermare dall’inseguire il mio sogno.

Ma è un falso inizio.

L’altro inizio

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Il vero inizio della storia è quando i protagonisti effettivamente entrano in scena, dopo essere rimasti ai margini per tutto il numero musicale d’apertura.

Ma la prima apparizione di Mia è ancora ingannevole.

In prima battuta sembra che la ragazza stia parlando al telefono, ma subito dopo scopriamo che in realtà sta ripassando le battute per il provino. La rivelazione dell’inganno è sottolineata dall’improvviso colpo di clacson di Sebastian, che sembra riportare alla realtà sia Mia, sia lo spettatore.

La successiva scena del provino è luogo contrasti: la protagonista cerca testardamente di mantenere viva la scena, ma lo sguardo dello spettatore non può che essere distratto dal personaggio fuori fuoco alle sue spalle che si muove insistentemente.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una scena, fra l’altro, dai toni carichi e estremamente ingannevoli: per quanto sembri il classico momento in cui la protagonista riesce finalmente a vivere il suo sogno ed a diventare una star del cinema, la sequenza si rivela invece il solito provino senza futuro.

Anche Sebastian ha un climax simile: costretto a suonare insulse canzoncine natalizie, infine si decide a far mostra delle sue capacità musicali, improvvisando un pezzo con cui spera finalmente di riuscire a conquistare il pubblico e lo sperato successo.

E invece perde il lavoro e non ottiene il presunto amore della sua vita.

Si comincia in piccolo

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La scena successiva è il momento in cui, apparentemente, Mia accetta di seguire la trama del musical.

Incoraggiata dalle sue amiche ad andare alla festa dove potrà incontrare la persona che stava cercando (a little chance encounter / could be the one you’ve waited for), ovvero, secondo il modello classico del musical, il suo interesse amoroso.

In realtà, ancora una volta, la scena è piena di elementi di disturbo: anzitutto il fatto che la musica di sottofondo sembra costantemente voler introdurre la parte cantata, ma la stessa ci mette moltissimo tempo prima di partire effettivamente.

Allo stesso modo gli altri personaggi in scena – che appaiono come effettivamente integrati nella stessa – spingono Mia ad accettare le vesti di quel personaggio (letteralmente), mentre la ragazza sembra deriderli per il loro comportamento, intervenendo con un’unica battuta, con cui si tira fuori dalla scena: I think I’ll stay behind.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Solo in un momento successivo, dopo un paio inquadrature che mostrano come Mia non abbia trovato nella festa quello che cercava, la protagonista riprende le battute della canzone in maniera molto più malinconica, parlando a sé stessa con un atteggiamento disilluso.

Ma the show must go on, e i personaggi della festa continuano la medesima canzone di prima, in maniera ancora più convinta e confusionaria, lasciando definitivamente Mia al di fuori della scena e del numero musicale, proprio come aveva detto lei poco prima:

Watching while the world keeps spinning around.

Guardando mentre il mondo continua ad andare avanti.

Rifiutare il musical

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La sequenza della festa in piscina è ancora più straniante, grazie ad una fotografia incredibilmente azzeccata.

Per quanto, infatti, la scena sia piena di colori caricatissimi, la fotografia racconta altro, scegliendo invece una luce molto più naturale, con lunghe ombre sui volti dei personaggi, i quali appaiono del tutto fuori contesto per il genere di appartenenza.

Ma l’iconica scena del ballo è quella più esplicativa.

I protagonisti sembrano come intrappolati all’interno della trama del musical, che li obbliga ad incontrarsi, anche se non sono interessati l’uno all’altro, mostrando anzi un rapporto molto conflittuale, come racconta lo stesso scambio fra i due:

— It's pretty strange that we keep running into each other.
— It is strange. Maybe it means something.
— I doubt it.
— Yeah, I don't think so.
— È così strano che continuiamo ad incontrarci. 
— È strano. Magari vuol dire qualcosa.
— Non credo.
— Sì, neanche io.
Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Le battute della canzone iniziata da Sebastian sono particolarmente indicative: il protagonista racconta come la scena sia perfetta per un incontro romantico (that’s tailor-made for two), ma aggiunge peccato che siamo noi due (what a shame those two are you and me), mostrando tutta la sua arroganza.

Al che Mia, ancora una volta deridendo questa ipotetica situazione romantica, racconta come lei per prima non sia interessata, e di come quella scena non faccia per lei (But, I’m frankly feeling nothing), soprattutto con quelle scarpe.

E allora i due sembrano come trascinati dentro la sequenza, con Mia che si cambia istintivamente le scarpe, come a rendersi pronta per il successivo numero musicale, e Sebastian che si muove meccanicamente e la coinvolge in un assurdo balletto, anche un po’ scoordinato, che dovrebbe farli innamorare…

Ma viene ancora interrotto da un elemento di disturbo.

La la land pontile

Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Lo stesso schema si ripete per la scena del pontile: Sebastian chiede alla città se stia splendendo per lui, se questo è per lui l’inizio di qualcosa di nuovo e fantastico (is this the start of something wonderful and new?)…

…ma viene subito riportato con i piedi per terra quando capisce che il cappello non è un oggetto di scena pensato per il suo numero musicale, venendo infatti interrotto dal compagno della signora con cui sta ballando languidamente, concludendo:

Or one more dream / That I cannot make true

O un altro sogno / che non posso realizzare

Accettare il sogno

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

L’atto centrale è l’accettazione del sogno.

Passaggio che avviene in maniera quanto più surreale e artificiosa, quanto comprensibile all’interno del genere musical: Mia si rende conto che non vuole stare con Greg, si alza improvvisamente e raggiunge Sebastian al cinema.

E, non a caso, si mostra a Sebastian come immersa nello schermo, proprio come lui aveva profetizzato:

Well’, I’ll see you into the movies.

Bene, allora ti rivedrò al cinema.
Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Ma questa volta, nonostante il film sembra contro di loro, interrompendosi improvvisamente, la coppia decide di continuare sulla strada definita della storia: nelle atmosfere fantastiche dell’Osservatorio, sboccia il loro amore, con persino un elemento fantastico che li porta a volteggiare fra le stelle – pur nel loro iniziale stupore.

La sequenza successiva usa ed abusa del linguaggio del musical, anzitutto con la transizione che chiude sul bacio fra i due e apre con una Mia finalmente sicura del suo sogno, intenta a scrivere la sceneggiatura che la farà diventare una star, seguito da un montaggio che racconta il felice susseguirsi delle vicende.

Tuttavia, diversi elementi in scena raccontano altro, a partire dalla sequenza in cui i due si allontanano in auto, ambientata in uno squallido vicolo con i cassonetti della spazzatura e la strada crepata…

Una dura realtà

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Ma la realtà sembra farsi largo prima del previsto.

La sequenza musicale che accompagna il passare del tempo è molto più malinconica di quanto racconterebbe la canzone: si mostra Mia che continua a lavorare strenuamente per raggiungere il suo sogno, anche se sembra meno vicino di quanto sembri.

Finché non arriva al momento della prova: a spettacolo concluso, quando le luci si accendono e noi ci aspetteremmo una folla festante che si congratula con Mia per la sua performance, in realtà vediamo solo pochi sparuti spettatori, e una voce fuori campo che critica duramente la sua prova attoriale.

E, se Sebastian quanto la storia sembravano promettere alla protagonista di potercela fare, la realtà racconta qualcosa di molto diverso: lo spettacolo non l’ha visto nessuno, non è stato il successo sperato e Mia non ha neanche i soldi per pagare il teatro.

Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La situazione non è migliore per Sebastian.

In teoria il protagonista ha scelto una carriera che avrebbe dovuto portargli abbastanza soldi per realizzare il suo effettivo sogno, ma ancora una volta lo stesso è molto meno a portata di mano di quanto pensasse.

E, davanti agli occhi increduli della fidanzata, accetta di suonare una musica che non lo rappresenta, che sulla carta aveva sempre detto di odiare, come la stessa Mia gli fa notare nella scena della cena.

La la land dinner

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una scena, fra l’altro, immersa in un’apparente atmosfera sognante tinta di un suggestivo verde smeraldo, che in realtà diventa lo sfondo per il contrasto e lo scontro definitivo fra la coppia, prologo della loro rottura.

Ma Chazelle non ci vuole lasciare senza speranza, non vuole dirci di abbandonare i nostri sogni: nonostante tutto, la scelta dello spettacolo ha portato Mia al risultato sperato, ovvero di essere coinvolta in una grande produzione.

E la scena del provino è indicativa proprio per la scelta della fotografia e la messinscena: mentre tutte le altre sequenze analoghe mostravano una Mia vestita di colori carichi ed illusori, in questo caso la scena è definita da tinte più tenui e da una messinscena molto più verosimile.

What if…

Emma Stone e Ryan Gosling in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

La chiusura di La La Land è magistralmente metanarrativa.

Anche se Mia è diventata una famosa attrice, anche se ha potuto realizzare il suo sogno, non ha ottenuto tutto quello che sperava e credeva: la reazione con Sebastian si è chiusa fuori scena, portando i due ad allontanarsi del tutto per molto tempo.

Ma, totalmente per caso, proprio come il loro primo incontro, la scena del club di Sebastian è il momento dell’epifania.

La prima sequenza racconta la versione della storia secondo i canoni musical più tradizionali: all’interno di uno sfondo pittoresco in cui i protagonisti sono perfettamente integrati, la loro vita e il loro amore sono costellati di immediati e facilissimi successi.

Emma Stone in una scena di La La Land (2016) di Damien Chazelle

Una messinscena che decostruisce totalmente il genere, mostrando ambientazioni che vivono sempre di più di sottrazione, sempre più artificiali e teatrali.

La seconda sequenza mostra qualcosa di diametralmente diverso: attraverso il linguaggio iperrealistico del finto documentario, scopriamo il destino della coppia se avesse abbandonato i propri sogni, per seguire la più felice via dell’amore e di una vita più modesta, che però non li avrebbe divisi.

E, in quello scambio finale di sguardi, vediamo tutta la consapevolezza dei protagonisti per quello che avrebbe potuto essere, i due estremi irraggiungibili, quando la realtà è invece una malinconica via di mezzo…

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Shrek Terzo – La grande debolezza

Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller è il terzo capitolo della saga cult di Shrek, nonché il film considerato più debole fra quelli prodotti finora per questo personaggio…

Con un budget leggermente superiore al precedente – 160 milioni – fu sempre un grande successo, ma non riuscì ad avvicinarsi alla soglia del miliardo come Shrek 2, con appena 813 milioni di incasso.

Di cosa parla Shrek Terzo?

Dopo essere riuscito a tornare in buoni rapporti con i genitori di Fiona, Shrek cerca una via d’uscita dalla soffocante vita di corte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Shrek Terzo?

Ciuchino e Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

In generale, sì.

Per quanto Shrek Terzo manchi assolutamente della brillantezza dei precedenti, è complessivamente un capitolo piacevole, che riesce, pur con molta difficoltà, a rimanere sui binari della saga, cercando di introdurre qualche novità…

È anche il capitolo in cui si punta di più sull’ironia, con però, ancora una volta, un umorismo molto meno interessante e originale rispetto a quello a cui ci aveva abituato fino a questo momento…

Insomma, se siete innamorati di Shrek, potreste amarlo quanto odiarlo…

Un nuovo ostacolo

Ciuchino, Shrek, Fiona e Il gatto con gli stivali in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come ogni film di Shrek, anche in questo caso il protagonista si deve trovare davanti ad un ulteriore ostacolo che metta in discussione il suo status quo.

E, a fronte di tutte le possibili strade che si sarebbero potute intraprendere, si è preferito portare Shrek sui binari dell’uomo medio, ovvero alle medesime problematiche che affliggono i protagonisti della maggior parte delle sitcom e delle commedie romantiche.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Prima il matrimonio, poi i figli.

E purtroppo non si sono resi conto di quando questa scelta non faccia altro che allontanare il personaggio da sé stesso, mentre aveva potenzialmente la strada spianata per mettersi veramente alla prova, non tanto come padre, ma piuttosto come regnante.

Invece questa possibilità viene subito tolta dal tavolo.

La banalità

Per due film Shrek ci aveva stupito con delle location profondamente originali, incontri vincenti fra il vecchio e il nuovo.

Purtroppo, non si può dire lo stesso di Worcestershire.

La high school in stile medievale di per sé non è malvagia, ma personalmente ho visto video fanmade su Facebook più riusciti. Fra l’altro, un’idea veramente vista e rivista, poco originale, e che è stata replicata in tutte le salse anche troppe volte.

Shrek in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Al contempo portare Shrek in questo contesto così da teen movie l’ho trovato abbastanza fuori luogo per il personaggio, unicamente finalizzato all’inserimento di momenti di comicità spicciola e slapstick – alcuni anche vagamente indovinati, altri veramente poco interessanti…

E parlando di Artie…

La strada obbligata

Artie in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Come per Shrek, anche Artie imbocca una strada obbligata dalla sceneggiatura.

Uno dei punti di forza di Shrek è sempre stato di riuscire a costruire i rapporti fra i personaggi e i loro archi evolutivi in breve tempo. In Shrek Terzo, anche per una narrazione estremamente spezzettata, l’evoluzione di Artie funziona fino ad un certo punto.

Infatti, se tutto sommato il personaggio riesce a compiere la sua maturazione e diventare più sicuro di sé, appare molto più forzato invece il fatto che riesca così facilmente a prendersi sulle spalle una responsabilità come quella di essere un re per un paese sconosciuto…

L’esasperante girl power

In Shrek Terzo sembrano improvvisamente essersi resi conto che Fiona era un personaggio più secondario del dovuto.

Indubbiamente la scena della rivolta delle principesse è la parte più iconica del film e di per sé non è neanche un’idea scadente, ma ho anche sempre avuto la sensazione che fosse qualcosa di molto raffazzonato, e che andasse persino a banalizzare il senso dell’evoluzione di Fiona.

Fiona e Mildred in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Infatti il significato della sua emancipazione non era tanto quello di potersi salvare da sola – cosa di cui, come abbiamo detto, era capacissima di fare – ma più che altro di liberarsi da quella prigione mentale autoimposta dell’essere la principessa perfetta.

Al contrario qui le principesse sembrano rendersi conto di quanto sia stupido essere del tutto dipendenti dalla figura del principe, mostrando scene veramente interessanti come quella di Biancaneve, ma complessivamente un ragionamento molto più superficiale rispetto a quanto visto nel primo capitolo.

Il tema di fondo

Artie e Merlino in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Il tema di fondo di Shrek Terzo è fondamentalmente l’idea di emanciparsi dalla posizione sociale (auto)imposta.

Quindi si distribuisce la tematica comune di tutti e tre i film su più personaggi, idea che potrebbe essere anche complessivamente interessante, ma che in realtà ho trovato una scelta, arrivati a questo punto, francamente ridondante.

Nonostante questo, Azzurro non mi dispiace come villain.

Azzurro in una scena di Shrek Terzo (2007) di Raman Hui e Chris Miller

Per quanto preferisca i precedenti antagonisti, recuperare un personaggio negativo ma non troppo esplorato del secondo film e renderlo un villain in tutto e per tutto è stata secondo me la scelta migliore di tutta la pellicola.

Tanto più che Azzurro si autoproclama il paladino della diversità, ma in realtà agisce per motivi puramente egoistici, ovvero riuscire a recuperare lo status sociale che gli è stato tolto, facendo leva sull’insoddisfazione di personaggi che avrebbe disprezzato fino al giorno prima…

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Avventura Azione Commedia Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Racconto di formazione Star Wars - Gli spin-off

Rogue One – Una falsa speranza

Rogue One (2016) di Gareth Edwards è un film prequel spin-off di Star Wars.

Un progetto piuttosto ambizioso, facente parte dei piani iniziali della Disney di portare un prodotto di Star Wars all’anno – nel 2015 era uscito Il risveglio della forza.

E fu anche un grande successo: a fronte di un budget fra i 200 e i 265 milioni, incassò più di un miliardo in tutto il mondo.

Di cosa parla Rogue One?

Galen Erso è un ex-scienziato al servizio dell’Impero, che viene scovato dalle forze imperiali per tornare a lavorare ad un certo progetto oscuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena vedere Rogue One?

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Assolutamente sì.

Rogue One è indubbiamente il miglior prodotto concepito dopo la Trilogia Originale.

Il suo grande pregio è il riuscire a raccontare finalmente una storia diversa dal solito coming of age di un membro sconosciuto della famiglia Skywalker, segretamente lo Jedi che salverà la Galassia – come è stato fatto, pur rimescolando le carte, con tutti gli altri prodotti della trilogia prequel e sequel.

Purtroppo, fa anche un po’ di tristezza vedere questo prodotto con la consapevolezza di quanto sarebbe arrivato dopo: una bellissima, ma falsa speranza della rinascita del brand…

Dove si colloca Rogue One?

Rogue One ha una collocazione molto precisa all’interno della timeline di Star Wars: si ambienta nei giorni immediatamente precedenti all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Cominciare dal nulla

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

La bellezza del personaggio di Jyn è il suo percorso di maturazione.

Una ragazza già piuttosto adulta, che vive una sostanziale indifferenza, se non addirittura un antagonismo, per tutto quello che riguarda la Ribellione. E questo la porta a vivere solo per sé stessa, come una criminale qualunque.

Il cambio di passo è scatenato in particolare dal confronto con le due figure paterne che l’hanno portata al suo annullamento: Saw e il padre, Galen Erso.

Felicity Jones in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Da entrambi si è sentita abbandonata e tradita, anche se per motivi diversi.

Viene così spinta ad un rincontro forzato, che però le permette di ricucire quelle ferite che l’avevano così profondamente colpita, comprendendo che invece entrambi si erano sacrificati e prodigati per la sua salvezza.

In particolare, vedendo il messaggio del padre, si riaccende in Jyn quel fuoco interiore da tempo sopito, che la fa diventare il protagonista più importante della Ribellione – senza il quale, di fatto, la vittoria contro l’Impero non sarebbe potuta avvenire.

Il buon fan service

Carrie Fisher in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Uno dei meriti maggiori di Rogue One è non solo il riuscire a raccontare una storia inedita, anche di andarsi a collocare perfettamente all’interno dell’universo di Star Wars.

Per quanto ci siano alcuni elementi ripescati dal canone di riferimento – il protagonista che ha un padre apparentemente malvagio, la presenza di uno Jedi, un robot a cui è affidata la linea comica del film – niente è forzato o eccessivo.

Inoltre, Gareth Edwards è riuscito ad aggiornare l’estetica della saga senza stravolgerla, ma apportando interessanti cambiamenti così che non sembrasse – come si è cercato di fare in altri film successivi – una sostanziale copia di quanto venuto prima.

Darth Vader in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Complessivamente i momenti di fanservice – se così vogliamo chiamarlo – rappresentano una porzione minuscola della pellicola, e sono comunque inseriti in maniera intelligente, con la funzione principalmente di contestualizzare la storia, più che di far emozionare i fan.

Inoltre, Rogue One racconta una storia effettivamente importante, che, invece che cambiare, arricchisce nel complesso la saga, andando a spiegare in maniera interessante e credibile un elemento che effettivamente poteva apparire forzato.

Ed è quasi ironico che abbiano usato lo stesso anche in L’ascesa di Skywalker pochi anni dopo…

Il domino

Forest Whitaker in una scena di Rogue One (2016) di Gareth Edwards

Rogue One è anche un film straziante.

È angosciante quanto dovuto vedere alla fine tutti i personaggi che muoiono.

Ma, appunto, non si poteva fare altrimenti: non si è voluto per questo film rischiare alcun tipo di forzatura, né di far sorgere domande per le quali, per ovvi motivi, non si sarebbe potuto dare una risposta.

In breve, se nessuno di questi personaggi appare nella Trilogia Originale, deve morire.

Tuttavia, l’eleganza di questo film sta non solo nel dare ad ognuno di loro una morte importante e che rimanga nella mente dello spettatore, ma anche nel saper concludere la pellicola con un aggancio al canone geniale quanto rincuorante.

Hope.

Speranza.
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Ponyo sulla scogliera – Un disastro felice

Ponyo sulla scogliera (2008) è uno dei film forse più particolari della filmografia di Miyazaki, che arrivò dopo un’assenza dagli schermi del maestro nipponico di ben quattro anni.

Ancora una volta si confermò il successo commerciale della sua produzione: a fronte di un budget di 34 milioni di dollari (circa 3,4 miliardi di yen), incassò 200 milioni in tutto il mondo.

In Italia è stato distribuito nel 2009 dalla Lucky Red.

Di cosa parla Ponyo sulla scogliera?

Il mago Fujimoto vive sott’acqua insieme alle figlie e medita di distruggere il mondo umano. Ma la figlia più grande, Brunilde, riesce a scappare al suo controllo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ponyo sulla scogliera?

In generale, sì.

Ammetto che questa pellicola è una di quelle che meno apprezzo della produzione di Miyazaki. Tuttavia, a differenza di Kiki – Consegne a domicilio (1989), in questo caso semplicemente non mi sento in target.

Infatti, Ponyo sulla scogliera è il prodotto più infantile di Miyazaki.

Un film che farà la felicità dei più piccoli, che sono gli assoluti protagonisti, anche per il punto di vista: nonostante, a livello più profondo, si possono intravedere delle tematiche ambientaliste per nulla scontate, lo sguardo della storia è proprio quello di un bambino.

Insomma, un modo per fare felici i vostri figli e nipoti.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Ponyo sulla scogliera il pericolo è altissimo.

Questo giudizio potrebbe apparire esagerato – e probabilmente lo è – ma per questa pellicola ho un particolare dente avvelenato con Cannarsi. Infatti Ponyo sulla scogliera fu uno dei primi film che guardai per ampliare la mia conoscenza di Miyazaki, al tempo molto limitata.

E fu anche il punto in cui mi sono bloccata per diversi anni.

Infatti, la pellicola si presta proprio ad un doppiaggio incredibilmente pedante e sinceramente insostenibile, che ha sicuramente fatto la felicità di Cannarsi – ma non la mia…

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia di tutti i giorni

Ponyo sulla scogliera è il primo film di Miyazaki con un taglio così quotidiano.

Nonostante sia presente l’elemento magico, il mondo reale è presente ed integrato in esso senza troppi sconvolgimenti.

Non abbiamo infatti un protagonista che si scontra con un mondo fantastico e segreto come ne La città incantata (2001), ma un taglio più simile a Il mio vicino Totoro (1988).

Tuttavia, in questo caso il mondo reale e quotidiano è molto più presente, al punto che lo scheletro narrativo è una piccola avventura che potenzialmente ogni bambino ha vissuto: trovare un animale in difficoltà, salvarlo e volerlo adottare.

Il film cerca continuamente di dare una maggiore importanza e peso alla storia raccontata – con il piano di Fujimoto e il destino di Ponyo – ma complessivamente è un elemento che rimane costantemente in sottofondo, senza che ci sia mai un conflitto davvero forte in scena.

E, al contempo, il punto di arrivo è sostanzialmente un ripristino della quotidianità, con l’eliminazione dell’elemento magico in Ponyo, senza che in realtà la protagonista abbia avuto un’evoluzione importante o delle prove da affrontare.

La componente educativa

Un elemento che mi ha sempre stranito di Ponyo sulla scogliera è la sua sezione educativa.

Tutta la sequenza in cui Ponyo, ormai umana, viene accolta nella casa di Sōsuke, lo stesso la guida nella scoperta del mondo umano. Ma le loro interazioni sembrano uscite da un libro per bambini in cui si spiega come funziona l’economia domestica…

E diventa ancora più strano nell’incontro con la donna e il bebè, con cui Ponyo riesce a comunicare, andando anche a scontrarsi con la madre, che le spiega sostanzialmente come funziona l’allattamento, proprio come farebbe una madre con sua figlia…

E paradossalmente questi elementi sembrano più importanti del destino di Ponyo stessa…

Il disastro felice

Forse l’elemento più interessante di Ponyo sulla scogliera è il racconto ambientalista.

In questo caso Miyazaki sceglie di rappresentare una natura solo apparentemente minacciosa, facendo riferimento ad un disastro naturale molto presente nella mente del pubblico giapponese: gli tsunami – di cui uno dei più terribili avvenne pochi anni dopo.

L’apparente disastro si trasforma in realtà in un momento di convivenza pacifica con l’elemento naturale, sia in un’occasione per la comunità per rincontrarsi. Infatti, nonostante la città sia letteralmente sommersa, non si parla mai di vittime o di perdite.

Il punto di vista è quello di un bambino, che riesce a divertirsi moltissimo dopo questa apparente catastrofe naturale…

Con Ponyo sulla scogliera Miyazaki sceglie di fare diversi cambiamenti sul lato artistico – e devo dire che non sempre mi convincono…

Il cambiamento più evidente è la rappresentazione degli ambienti esterni: mentre fino a questi sembravano come se fosse dei dipinti ad olio, in questo caso sembrano invece dei disegni fatti a matita:

Nonostante siano sempre sfondi pieni di particolari e cornici perfette per le azioni dei protagonisti, non apprezzo particolarmente questa evoluzione.

Allo stesso modo, anche se ne capisco i motivi, non apprezzo moltissimo la scelta di utilizzare linee molti fluide e morbide, con disegni poco particolareggiati, molto spesso abbozzando i personaggi, soprattutto Ponyo:

Secondo la stessa idea, dopo i fantastici risultati dei film precedenti, non mi ha entusiasmato la rappresentazione delle donne anziane, nonostante siano ben differenziate fra loro.

Ma ci si basa su modelli già esistenti:

Interessante però sia la rappresentazione di Fujimoto, in cui si applica un modello di volto femminile ad un personaggio maschile:

sia il fantastico character design e l’animazione di Granmamare:

Interessante anche la rappresentazione del mondo subacqueo, prima sperimentazione di Miyazaki in questo senso:

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La finestra sul cortile – Spiare un delitto

La finestra sul cortile (1954) è uno dei film più noti della filmografia di Hitchcock, nonché uno dei miei preferiti.

In maniera piuttosto prevedibile, dato i pochi spazi utilizzati e il cast di principali piuttosto ridotto, il budget è di appena 1 milione di dollari (circa 12 milioni oggi). E incassò veramente benissimo: 37 milioni in tutto il mondo (circa 463 oggi).

Di cosa parla La finestra sul cortile?

L’avventuroso fotoreporter Jeff è costretto sulla sedia a rotelle dopo un brutto incidente. Nella sua ultima settimana di ricovero in casa, nota qualcosa di strano che accade nell’appartamento di fronte…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La finestra sul cortile?

Assolutamente sì.

La finestra sul cortile è una delle sperimentazioni più interessanti di Hitchcock, che aveva già in parte messo in scena nel precedente Nodo alla gola (1948) – con protagonista sempre James Stewart, ormai attore feticcio.

Il film si svolge all’interno di un unico ambiente, esplorando il circondario tramite un abilissimo uso della soggettiva, con l’inserimento di piccole storie autoconclusive dal forte sapore umoristico.

Inoltre, la costruzione della tensione è superba, narrativamente e registicamente integrata in maniera eccellente nella storia, rendendo questa pellicola il perfetto esempio di thriller alla Hitchcock.

Inquadrare il protagonista

L’incipit de La finestra sul cortile è uno dei migliori di tutta la filmografia hitchcockiana.

Anzitutto una carrellata rivelatoria ci racconta, in pochi secondi, moltissimo del protagonista: un fotoreporter d’assalto, particolarmente appassionato del suo lavoro, ma che rischia continuamente la sua vita per ottenere scatti spettacolari.

La sua situazione viene anche meglio inquadrata dalla telefonata con il suo caporedattore: con una simpatica gag, scopriamo che Jeff è all’ultima, noiosissima settimana di ricovero domestico.

In ultimo, l’arrivo di Stella, l’infermiera, ci racconta le intenzioni del protagonista, continuamente indaffarato a spiare – con un gusto non poco voyeuristico – i suoi vicini e a seguire le loro vicende, fra il comico e grottesco.

Ma dal loro dialogo emerge anche un altro elemento importante.

Una donna in posa?

Avere fra le mani un’attrice così magnetica come Grace Kelly non era cosa da poco.

Il suo personaggio viene introdotto dallo scambio fra Stella e Jeff, in cui l’infermiera rimprovera il protagonista per non essere in grado di suggellare la relazione con la ragazza – da subito definita meravigliosacon il tanto sospirato matrimonio.

All’inizio sembra insomma che il rapporto fra Jeff e Lisa sia antagonistico.

Ma la prima apparizione del personaggio racconta anche altro: a livello sentimentale e – soprattutto – sessuale, Jeff e Lisa hanno un’intesa profonda ed evidente, complice anche l’aspetto così delicato, ma anche fortemente attraente, della ragazza.

Il conflitto riemerge da alcuni scambi fra i due, in cui entrambi raccontano il loro rifiuto di abbandonare il proprio stile di vita attuale: da una parte un’esistenza abbastanza superficiale e mondana, dall’altra una vita avventurosa e piena di pericoli.

Apparentemente, i due sono incompatibili.

Sulle prime Hitchcock sembra sfruttare l’incredibile presenza scenica di Grace Kelly, mettendola in non poche scene in posa. E così sembra anche che il suo personaggio sia ridotto ad un mero vezzo estetico…

Per fortuna non è così.

Il loro rapporto si risolve perché Lisa – anche abbastanza indipendentemente da Jeff – si dimostra davvero intraprendente: va a caccia di indizi, fornisce al protagonista delle informazioni fondamentali, rischia la sua stessa vita infilandosi nell’appartamento dell’assassino, arrivando persino ad ingannarlo.

Insomma, la ragazza si dimostra ben più intelligente, acuta e intraprendente di quanto Jeff avrebbe mai immaginato – anche sottovalutandola, evidentemente. E, nella migliore delle ipotesi, questa piccola avventura sancirà un loro ricongiungimento.

Tante piccole storie

La costruzione narrativa de La finestra sul cortile è di rara eleganza.

Hitchcock non vuole introdurre immediatamente – e smaccatamente – il delitto e il colpevole, ma lo nasconde in un folto gruppo di personaggi secondari, le cui vicende continuano per tutta la pellicola.

Troviamo diverse figure, meno tipizzate di quanto potrebbe sembrare: l’ape regina – che in realtà è sposata con un militare – la donna solitaria – che ritrova l’amore tanto cercato nell’altrettanto solitario pianista – la coppia focosa

La presenza di queste storyline, apparentemente del tutto accessoria, è in realtà fondamentale: oltre ad offrire maggiore profondità allo spazio scenico, regala qualche momento di leggerezza e elegante ironia.

E in una storia così ricca di tensione, è un comic relief essenziale.

Costruire la tensione

Inizialmente la storia di Lars non sembra tanto diversa da quella dei suoi vicini: una velenosa vicenda matrimoniale, in cui la moglie, indisposta a letto, bullizza e deride il marito, che sulle prime sembra anche incapace di tenerle testa.

Il punto di svolta è quella fatidica notte, che, in linea con i migliori noir, racconta un delitto che si consuma nell’ombra, e le cui prove sono del tutto indiziarie. E la tensione è già perfetta proprio in questa sequenza, in cui il protagonista cerca di non addormentarsi per seguire i movimenti di Lars…

Il mistero è dinamico ed intrigante: il protagonista continua a osservare attentamente le azioni del suo sospettato, sentendosi pronto all’azione e all’intervento a parole, ma impossibilitato fisicamente.

E la bellezza della costruzione narrativa sta anche nella costante difficoltà del protagonista – in cui lo spettatore può rispecchiarsi – nel riuscire a farsi credere dagli altri personaggi, in particolare dal suo amico poliziotto.

E proprio quando sembra essersi convinto che era tutto frutto della sua immaginazione, un altro delitto riapre il mistero: l’avventato omicidio del cagnolino troppo curioso, il cui colpevole emerge proprio dalla sua assenza in scena…

Allora continua un crescendo di tensione, con un abilissimo uso della soggettiva…

La finestra sul cortile soggettiva

Le sperimentazioni con la soggettiva sono uno dei marchi di fabbrica del cinema di Hitchcock, con il picco che si vedrà in Psycho (1960).

In particolare, questa specifica inquadratura è al centro de La finestra sul cortile: la maggior parte delle vicende sono mostrate filtrate dallo sguardo del protagonista stesso, che permette fra l’altro allo spettatore di immergersi nella scena ed identificarsi con l’eroe.

E l’abilità di Hitchcock sta proprio nell’utilizzarla per mostrare il colpo di scena della pellicola: quando Lars finalmente si accorge di essere osservato, guarda direttamente negli occhi Jeff – e, da un certo punto di vista, sta guardando anche noi…

Come se non bastasse, il momento dello scontro fra l’eroe e l’antagonista è proprio definito dalla soggettiva, con il punto di vista che rimbalza fra l’uno e l’altro.

Infatti, come Jeff vede Lars emergere minacciosamente dall’ombra, vediamo anche l’effetto stordente che le mosse dell’eroe hanno sugli occhi del suo assalitore, con una tecnica semplicemente perfetta.

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Peter Pan (2003) – Dalla parte di Wendy

Peter Pan (2003) di P. J. Hogan è l’adattamento più recente e pedissequo dell’opera omonima di J. M. Barrie, molto più anche del Classico Disney del 1953.

Fu purtroppo anche un flop commerciale piuttosto disastroso: a fronte di un budget di 130 milioni, ne incassò appena 122, rimanendo comunque nei cuori degli spettatori ancora oggi.

Di cosa parla Peter Pan (2003)?

Londra, inizio Novecento. La giovane Wendy si trova costretta a crescere, ma le viene offerta una via d’uscita piuttosto interessante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Peter Pan (2003)?

Jeremy Sumpter in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Assolutamente sì.

Questa pellicola mi è sempre rimasta nel cuore e posso dire felicemente che mi ha accompagnato nella crescita: la vidi da bambina, da adolescente, e l’ho rivista ora da adulta, ogni volta percependola in maniera assolutamente differente.

Peter Pan è infatti una pellicola estremamente trasversale.

Per i suoi aspetti giocosi e favolistici può coinvolgere facilmente i più piccoli, può emozionare gli adolescenti che si possono rivedere nei protagonisti, ma anche gli adulti, con una riflessione sulle bellezze e le amarezze del diventare grandi…

Dalla parte di Wendy

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uno degli aspetti più vincenti della pellicola è la riscrittura del personaggio di Wendy.

Nelle opere originali – sia la pièce teatrale, sia nel romanzo derivativo – Wendy è un personaggio passivo, che viene costantemente ricondotto al ruolo della madre – per quello che voleva dire essere tale nell’epoca rappresentata.

E questo era proprio il primo ostacolo della trasposizione.

Come nella storia di P. J. Hogan Wendy più che madre dei bimbi sperduti diventava la loro balia e domestica – cucina, li mette a letto, li accudisce, Peter compreso – nel Peter Pan del 2003 si sceglie di ricondurre il ruolo della madre invece alla raccontastorie, soprattutto nel gioco dei ruoli fra lei e Peter.

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Al contempo, il dramma della crescita è principalmente sulle sue spalle.

Nel contesto storico raccontato, diventare adulta per una donna era un passaggio fondamentale quanto difficoltoso, in cui si doveva sottostare a precise aspettative ed obblighi, per mettersi sul mercato e maritarsi al più presto.

È quindi è piuttosto comprensibile che Wendy si lasci abbastanza facilmente lusingare dalle promesse di Peter – oltre ad essere totalmente ammaliata da lui fin dal primo incontro. Wendy di fatto scappa dalle responsabilità che le sono crollate addosso all’improvviso, e sceglie di rimanere per sempre bambina e felice.

Ma non è tutto oro quel che luccica…

Una crescita dolce e amara

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood, Freddie Popplewell e Harry Newell in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Wendy è totalmente rapita – in tutti i sensi – dalla vita di Peter, fatta di continue avventure in un mondo pieno di creature fantastiche e uscite da un libro delle favole – praticamente la materializzazione di tutti i suoi sogni.

Ma Wendy non può non crescere.

Da preadolescente comincia inevitabilmente a sentire quei primi pruriti, che non riesce del tutto a comprendere, ma che sa che saranno più chiari quando sarà grande. In sostanza, Peter Pan parla della maturazione sia emotiva che sessuale di Wendy – e, in parte, anche di Peter.

Una maturazione che la protagonista sente non solo come necessaria, ma anche tutto sommato più auspicabile rispetto all’eterna giovinezza di Peter. E questo nonostante sia allo stesso tempo consapevole di cosa significa essere adulti.

Mrs. Darling racconta infatti alla figlia il lato più amaro della crescita: dover mettere da parte i sogni, chiuderli in un cassetto, ma mantenerli ancora nel proprio cuore, pur con sofferenza – proprio quello a cui Peter non vuole e non può rinunciare…

Un personaggio tragicomico

Jeremy Sumpter, Rachel Hurd-Wood e Ludivine Sagnier in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Peter Pan è un personaggio complesso, con diverse chiavi di lettura.

Rappresenta di fatto la giovinezza eterna, con le sue luci e le sue ombre: una perpetua spensieratezza – che gli permette di essere leggero e quindi di volare – ed avventure fantastiche, che farebbero la gioia di ogni bambino.

Ma è anche chiudere le porte alle felicità che solo un’effettiva maturazione può portare, anzitutto l’amore romantico, ben diverso dal semplice affetto dei propri genitori, e che Peter scopre proprio grazie a Wendy.

Un altro lato piuttosto drammatico – più volte affrontato nelle opere originali – è che questa eccessiva spensieratezza si accompagna anche ad una memoria fragilissima, che porta Peter a dimenticarsi continuamente delle sue stesse avventure e, potenzialmente, anche di Wendy stessa…

O a diventare come Uncino.

Il dramma di Uncino

Jason Isaacs in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Uncino è un personaggio speculare e parallelo a Peter Pan.

Un adulto pieno di rabbia e malignità, che odia Peter perché rappresenta tutto quello che lui ha ormai da tempo perduto. Al contempo, si rende conto che sia lui che Peter sono privi di un elemento fondamentale, anche se per motivi diversi.

Infatti Uncino, nella sua astuzia e malizia, vuole far paura a Peter quando capisce che anche lui sta vivendo il suo stesso dramma – non essere amati. E quello che gli racconta è per certi versi quello che succede effettivamente nel finale del romanzo: Peter si dimentica di Wendy e la ritrova adulta e sposata.

E glielo racconta così abilmente perché è proprio la stessa situazione in cui si trova lui stesso, la stessa consapevolezza che ha ormai da molto tempo, e che infine lo porta ad arrendersi, a rinunciare alla sua stessa vita…

Come Wendy salvò Peter

Jeremy Sumpter e Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Quando Uncino lo minaccia di un futuro senza Wendy, senza amore e senza affetti, Peter è inevitabilmente a terra, vinto.

Per questo Wendy riesce a salvarlo, promettendogli che, anche se le loro strade si separeranno, lei continuerà comunque ad amarlo, come suo primo ed unico amore. Per questo quel bacio rappresenta il momento di passaggio per entrambi.

Wendy accetta la sua maturazione sessuale ed emotiva, capisce in quale direzione la porteranno queste nuove sensazioni che la stanno travolgendo. Al contempo Peter conosce una felicità nuova, regalata non solo dalle emozioni di questa spensierata giovinezza, ma anche da altri sentimenti finora conosciuti.

Rachel Hurd-Wood in una scena di Peter Pan (2003) di  P. J. Hogan

Perché allora alla fine Peter e Wendy si separano?

Anche se Peter rimarrà per sempre un ragazzino, in qualche modo è diventato comunque un po’ più grande: ha capito meglio le sue scelte di vita, le gioie – la spensieratezza, la mancanza di responsabilità – e le amarezze – non avere l’affetto di una famiglia o l’amore di Wendy.

Ma la stessa Wendy è maturata: ha abbracciato questi nuovi e strani sentimenti, ed è pronta ad esplorarli come giovane donna. Ed è diventata anche abbastanza matura da capire le amarezze della vita di Peter, dicendo in un certo senso addio alla sua stessa infanzia.

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Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Super Mario Bros. – Il film – Bastava poco…

Super Mario Bros. – Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic è un titolo già di per sé abbastanza esplicativo.

Ma, in altri termini, è anche molto probabilmente il più grande incasso dell’anno: con un budget di 100 milioni di dollari, ne ha incassati 470 in sole due settimane.

Di cosa parla Super Mario Bros. – Il film?

Mario e Luigi sono due fratelli aspiranti idraulici, che trovano un passaggio che porta in un regno magico, ma anche pieno di insidie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super Mario Bros. – Il film?

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Dipende.

Ed è un enorme dipende.

Se siete anche minimamente appassionati dei giochi platform e dei vari titoli di Supermario, resterete molto facilmente abbagliati dalla bellezza delle animazioni e dei riferimenti inseriti all’interno della pellicola.

Se invece non avete il minimo interesse per questi temi, anzi vi danno pure un po’ fastidio questo tipo di argomenti e le trasposizioni videoludiche in genere, vi sentirete con ogni probabilità dei pesci fuor d’acqua.

Io vi ho avvisato.

Un’animazione perfetta

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Finora non avevo visto nessun titolo della Illumination.

E sono rimasta letteralmente a bocca aperta.

Gli autori di questo film sono riusciti perfettamente a riportare in scena personaggi che già da anni hanno la loro versione 3D, ma senza farne una copia carbone, ma piuttosto arricchendo il loro character design.

E così la finezza nella gestione dei particolari dei personaggi e delle ambientazioni, la potenza delle animazioni, e pure una regia piuttosto indovinata, hanno reso i personaggi e gli ambienti vivi, materiali, reali.

E non è l’unico pregio.

La gestione dei ruoli

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Era piuttosto importante sia per la robustezza della narrazione, sia per il coinvolgimento dello spettatore, gestire in maniera ottimale i ruoli di personaggi.

Soprattutto Mario e Peach.

Mario parte come un personaggio molto vicino allo spettatore, con cui è facile empatizzare: cerca di inseguire il suo sogno, nonostante sia da tutti considerato un perdente.

E per questo (ri)scopre il mondo di gioco insieme a noi, e con noi si emoziona, si stupisce di tutte le stranezze che si trovano davanti, e riesce piano piano, e in maniera assolutamente credibile, a diventare l’effettivo eroe.

Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Discorso diverso per la Principessa Peach.

Anzitutto interessante l’idea di mantenere il suo character design sostanzialmente intatto, riuscendo comunque a farla passare da figura canonicamente passiva (soprattutto nei primi giochi) ad attiva e molto presente sulla scena.

Una costruzione complessivamente intelligente, che riesce ben a contestualizzare il suo personaggio e le sue abilità senza che questo appaia forzato, e senza doverla far diventare più protagonista di quanto fosse necessario.

Parlando invece della costruzione narrativa…

Bastava così poco…

Mario in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Analizziamo la trama.

Il primo atto è complessivamente solido: conosciamo il protagonista e l’antagonista, in particolare il primo con la sua piccola avventura urbana. Poi, appena Mario conosce la Principessa Peach, vi è un momento di passaggio fondamentale in cui il protagonista deve convincerla delle sue capacità.

Ma è molto debole.

Sembra che Mario impari ad essere un eroe nel giro di una giornata, pur mantenendo una certa fallibilità essenziale per il proseguo della storia e della sua maturazione. Ma il vero problema è che Peach sceglie di portarlo con sé per motivi non proprio chiari, dal momento che anche in seguito non ha così tanta fiducia in lui.

Mario e Peach in Super Mario Bros. - Il film (2023) di Aaron Horvath e Michael Jelenic

Sembra più che lo scelga come compagno di viaggio per aiutarlo nel suo percorso di crescita, ma senza che ci siano delle basi effetti per il loro rapporto. Bastava così poco per rendere Mario più convincente o indicare meglio il loro legame in quanto umani…

Così anche la parte centrale in generale non è stata sfruttata a dovere: sarebbe stato molto più equilibrato inserire qualche tappa in più, magari coinvolgendo Donkey Kong. E anche quest’ultimo funziona a metà: molto ben realizzato lo scontro con Mario, meno il rapporto che dovrebbe crearsi fra i due.

Lo stesso finale si poteva gestire meglio, in particolare rendendo meglio il piano di Peach, che è forse la parte meno credibile di tutta la pellicola: non esiste una vera costruzione del suo rapporto con Bowser, ne è chiaro come riesca ad ottenere il fiore per liberarsi.

Al contrario, gli ultimi momenti della pellicola sono davvero ben gestiti.

Appunto, bastava poco per fare un prodotto veramente buono.

Rendere il videogioco in Supermario film

Portare sullo schermo un videogioco senza sembrare dozzinali non è per nulla semplice, e si sprecano gli esempi in questo senso.

Super Mario Bros. rischia diverse volte di eccedere nel citazionismo, ma nel complesso è un aspetto ben gestito, soprattutto per la ricca presenza dei personaggi sullo sfondo, delle vere chicche per i fan.

Al contempo, la scena della corsa di Mario e Luigi per andare al lavoro è semplicemente perfetta nel raccontare un gioco platform, fluida e naturale nelle dinamiche.

Per non parlare di tutta la parte di Donkey Kong, in cui ogni appassionato del genere può facilmente rivedersi.

Ci sarà un seguito del Super Mario Bros il film?

La prospettiva di un sequel è praticamente certa, soprattutto visto il riscontro incredibile che questo prodotto sta ricevendo al botteghino.

La seconda scena post-credit che introduce Yoshi è un buon punto di partenza per ampliare e rinnovare il gruppo di personaggi, oltre alla probabile introduzione di Wario, già vociferata.

Inoltre, il mondo e i personaggi sono così vari che ci sono anche delle ottime basi per creare un seguito, anche con una storia abbastanza analoga, magari scritta un po’ meglio…

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Kiki – Consegne a domicilio – Una piccola storia

Kiki – Consegne a domicilio (1989) è uno dei prodotti meno noti di Miyazaki, e anche quello che personalmente apprezzo di meno – all’interno di una produzione di opere meravigliose, beninteso.

Un prodotto che confermò l’andamento positivo delle opere di questo regista in ambito internazionale: a fronte di 6,9 milioni di dollari (800 milioni di yen), ne incassò 41,8 in tutto il mondo, al pari del precedente.

Di cosa parla Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki è una giovane strega di appena tredici anni, che si imbarca nel suo anno di formazione, pronta ad affrontare un mondo del tutto nuovo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kiki – Consegne a domicilio?

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

In generale, sì.

Come anticipato, non è esattamente fra i miei preferiti della produzione di Miyazaki: fra tutti, è quello che mi sembra il meno ispirato e il meno interessante. Quasi un esercizio di stile, che conferma gli ottimi passi avanti a livello di animazione e tecnica, e al contempo muove i primi passi verso altre direzioni meno esplorate finora.

Nel complesso un prodotto piacevole, che vive più di piccoli archi narrativi che di una vera e propria storia unitaria. Fra l’altro storyline a volte pure difettose dal punto di vista della credibilità delle dinamiche rappresentate…

Insomma, se volete approcciarvi per la prima volta a Miyazaki, non cominciate da qui.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Kiki – Consegne a domicilio il pericolo è medio.

Ascoltando il doppiaggio italiano ci troviamo di fronte alle solite forzature, costruzioni sconclusionate e frasi artificiosissime: il solito, insostenibile Cannarsi. Ma, complessivamente, c’è molto di peggio.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Fin troppo semplice…

Kiki e Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Le sfide di Kiki tutto sommato si risolvono fin troppo facilmente.

Fin dall’inizio la protagonista sembra trovarsi in un ambiente ostile e sconosciuto, in cui fa fatica ad orientarsi. Ma in realtà non ci vuole molto perché riesca facilmente a trovare una sistemazione, senza dimostrare in realtà alcuna capacità e dando un aiuto abbastanza marginale alla panetteria che la ospita.

Allo stesso modo, nonostante qualche imprevisto, riesce a completare il suo lavoro e ad essere immediatamente amata da tutti, così da raggiungere facilmente il successo e la fama. Non mancano le insidie, ma sembrano più avere un sapore quasi comico che essere delle vere minacce.

Per esempio, fra tutte le difficoltà della prima consegna, il cane che le viene in aiuto è davvero fin troppo conveniente…

Coming of age?

Kiki e Tombo in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Apparentemente Kiki – Consegne a domicilio dovrebbe essere un racconto di formazione, un coming of age.

Tuttavia, è un aspetto che ho sentito veramente poco.

La protagonista viene messa davanti a diverse sfide, ma, proprio per quanto detto sopra, sembra come se ne sarebbe uscita vincitrice in ogni caso: non si vede una vera e propria maturazione del personaggio, ma più l’inizio della stessa.

Soprattutto nel finale, che dovrebbe essere il punto di arrivo, Kiki mostra semplicemente ancora una volta la sua intraprendenza e viene ancora di più amata ed ammirata da tutti: non un cambiamento sostanzialmente, ma la conferma di una situazione già esistente.

E a questo proposito…

Perché Kiki perde i poteri?

L’ultimo atto del film apre non pochi punti di domanda.

Anzitutto, perché Kiki perde i poteri?

La protagonista perde temporaneamente i suoi poteri da strega perché in un certo senso viene meno a sé stessa: sceglie di non accettare l’invito di Tombo e si mette anche in pericolo pur di finire il lavoro.

E quella che è un’apparente pausa, è invece il passaggio, la rottura fondamentale che la porta alla maturazione – almeno sulla carta. Infatti, Kiki alla fine dovrà dimostrare di sapersi impegnare in qualcosa di veramente importante.

Jiji Kiki consegne a domicilio

Jiji in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Perché Jiji non le parla più?

Apparentemente il comportamento cambiato di Jiji è dovuto alla perdita di poteri di Kiki. In realtà, anche quando la protagonista li riacquista, il gatto continua a non parlarne. E lei ne è consapevole, ma sembra accettare la nuova situazione con una ritrovata serenità.

L’interpretazione più evidente è che il mutismo di Jiji rappresenti un altro passaggio di Kiki, che abbandona un elemento che l’aveva definita nella sua infanzia, ma che adesso è cambiato: lei e il gatto continueranno a vivere insieme, ma con dinamiche differenti.

In questa pellicola Miyazaki sperimenta in nuove direzioni e consolida al contempo strade già intraprese.

Continuano le sperimentazioni sui volti giovani, portando ad una interessante differenziazione – anche solo per particolari del volto – fra i vari personaggi coinvolti:

con anche un curioso passo indietro rispetto a Il mio vicino Totoro nella rappresentazione delle bocche e dei denti: mentre nell’opera precedente erano molto marcati, in questo caso sono più naturali:

Una sperimentazione piuttosto peculiare anche nei volti anziani, con tre modelli totalmente differenti fra loro:

E si vedono anche i primi tentativi di differenziazione fra i volti più infantili – quello di Kiki – e quelli delle giovani donne – Ursula. In questa fase il volto della ragazza assomiglia di più a quelli maschili, ma personaggi come il suo saranno definitivamente differenziati in La principessa Mononoke (1997) e La città incantata (2001):

Allo stesso modo, confermata la bellezza degli sfondi e degli esterni:

Kiki in una scena di Kiki - consegne a domicilio (1989) di Hayao Miyazaki

Inoltre, per la prima volta Miyazaki sperimenta davvero con gli oggetti della casa e col cibo, con risultati ancora un po’ approssimativi, soprattutto se confrontati con la bellezza di Il castello errante di Howl (2004):