Categorie
Avventura Comico Commedia Commedia nera Cult rivisti oggi Drammatico Film Film di Natale Recult

Una poltrona per due – Un cult non di Natale

Una poltrona per due (1983) di John Landis è un cult di Natale tutto italiano, e anche il più particolare fra tutti.

Infatti, non è un film di Natale.

Almeno, non in senso stretto.

Un film che, non a caso, ebbe un ottimo successo commerciale: a fronte di appena 15 milioni di dollari di budget, ne incassò ben 120 in tutto il mondo.

Di cosa parla Una poltrona per due?

Le vicende parallele di Louis, un ricco imprenditore, e di Billy, un senzatetto, si intrecciano in maniera assolutamente inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Una poltrona per due?

Assolutamente sì.

Una pellicola piacevole e ottimamente costruita insieme: la struttura narrativa è perfetta, la caratterizzazione dei personaggi e la loro evoluzione ottimamente ideata, oltre ad essere genuinamente divertente anche alla millesima visione.

Un cult che merita di essere tale.

E che non potete assolutamente perdervi.

L’introduzione, anche con poco

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il primo atto del film è tutto dedicato all’introduzione dei personaggi e del loro contrasto.

Lo stesso è annunciato già dalle primissime scene, in cui riprese della strada della città e delle realtà più povere corrono parallele alle inquadrature della vita agiata di Louis.

Fin da subito la pellicola ci racconta come Louis sia troppo sicuro della sua posizione: nato e cresciuto nella bambagia, trattato da tutti coi guanti, si sente all’interno di una roccaforte. Elemento fra l’altro ben raccontato dall’apice della sua introduzione, la parte della cena con Penelope, in cui dice al maggiordomo Coleman:

I have all I want.

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

L’introduzione di Billy Ray è più breve, ma altrettanto efficace.

Viene subito inquadrato come un senzatetto che vive di espedienti, fingendosi un invalido di guerra e pure cieco, portando alla divertentissima gag con i due poliziotti, quando finge di aver recuperato miracolosamente la vista.

Da lì il suo personaggio si scontra per la prima volta con la sua controparte, arrivando a definire il primo punto di contrasto: la parola di Louis, nonostante si sia trattato di un malinteso, viene immediatamente creduta, mentre Billy Ray viene sbattuto in galera, dopo una mirabolante fuga.

Il suo personaggio viene infine definito dalla scena della prigione, in cui si dimostra ancora una volta come uno che cerca sempre di fregare gli altri, millantando imprese mai compiute.

Bonus

Eddie Murphy e Giancarlo Esposito in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Nella scena della prigione, il ragazzo appoggiato alle sbarre è niente di meno che Giancarlo Esposito, il futuro interprete dell’iconico Gus Fring in Breaking bad!

Una coincidenza interessante vedere un attore ancora sconosciuto, che avrà la sua gloria a quasi trent’anni di distanza, e Eddie Murphy, interprete che stava per raggiungere il successo con la sua parte nel buddy movie cult 48 ore (1982).

Il piano si mette in moto

Parallelamente all’introduzione dei protagonisti, conosciamo anche i due antagonisti, i famigerati Duke Brothers.

E li conosciamo soprattutto per due caratteristiche: l’avarizia e le macchinazioni. Fin dalle prime scene cominciano a portare le idee per il loro terrificante piano, basato semplicemente sulla noia e il desiderio di sperimentare con la vita degli altri.

Per tutto il tempo fra l’altro vivranno del loro antagonismo, sia per la scommessa, sia per i loro caratteri opposti, ben definiti dalla scena della macchina in cui bisticciano su quali offerte fare in Borsa.

E così i due cominciano a muovere le pedine in gioco, e ad innescare la parte centrale, con i suoi due archi narrativi opposti: uno costruttivo e uno distruttivo.

Louis: l’arco distruttivo

La distruzione del personaggio di Louis è definita dalla sua perdita di identità.

E la stessa passa attraverso la perdita dei vestiti.

Anzitutto Louis viene incastrato per i due crimini più umilianti (ma comunque molto credibili) per una persona del suo livello: il furto e il possesso di droga – due crimini di strada. E, fin da subito, soprattutto al commissariato, cerca di ribadire l’importanza della sua persona.

Ma è tutto inutile.

Dan Aykroyd e Jamie Lee Curtis in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

E qui comincia la prima perdita effettiva di identità, tramite la perdita dei vestiti, che gli vengono sottratti, e mai più ridati. E si vede subito dal contrasto con la fidanzata, Penelope, quando va a recuperarlo al commissariato: lei perfettamente curata, lui assolutamente impresentabile, come da lei stessa sottolineato.

Subito dopo, cerca ancora in due occasioni di ribadire la sua identità: prima cercando di rientrare in casa, poi andando in banca, dove le sue carte di credito vengono sequestrate e la sua identità totalmente distrutta.

Il suo primo picco è raggiunto quando, dovendo pregare Ophelia di portarlo con lui, si mette in ginocchio, con un parallelismo incredibilmente vincente con la scena in cui Billy Ray si fingeva un invalido. E fra l’altro perdendo tutta la sua statura, abbassandosi al livello (e sotto) di una persona che fino al giorno prima avrebbe disprezzato.

Il tentativo di ritorno

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

In seconda battuta Louis tenta di recuperare la sua identità, che ormai gli è stata totalmente sottratta.

E lo fa cercando di riassumere gli abiti che lo definivano, ma è impossibile: quella cravatta, quella camicia e quella giacca così stravagante stonano moltissimo davanti all’abbigliamento ben più sobrio dei suoi amici del club. E infatti per questo ancora una volta viene respinto.

L’ultimo atto della sua distruzione è il banco dei pegni: Louis cerca di ottenere anche un certo tipo di riconoscimento, di cui era tanto sicuro, tramite lo speciale orologio da polso, che però viene totalmente svalutato.

E ancora perde un altro pezzo di sé.

Caduta libera

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

L’ultimo atto della sua distruzione è la cena di Natale.

Il preludio è rappresentato da un momento di drammatica consapevolezza di Louis, che si trova davanti all’immagine di Billy che ha ormai preso il suo posto. Mentre lui è fuori, totalmente emarginato da quello che un tempo era tutto il suo mondo.

Ma il trigger è l’articolo di giornale dove vede che Billy Ray ha definitivamente preso il suo posto anche agli occhi del pubblico.

E in quel momento Louis perde per certi versi la sua natura umana, e diventa quasi un essere bestiale. Così cambia del tutto abiti, diventando in tutto e per tutto un barbone, che fa ribrezzo nei modi e nell’aspetto.

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

E a quel punto, la mossa disperata: cercare di incastrare Billy Ray, facendo leva su un’improbabile autorità che non possiede più. Ma, una volta trovatosi davanti alla sconfitta, scappa come era stato per la sua controparte prima di lui.

Infine quando Billy cerca di raggiungerlo per innescare il terzo e conclusivo atto del film, lui gli risponde con un verso animalesco: Louis non è più Louis. E diventa totalmente un emarginato, schifato e allontanato da tutti, mentre è sull’autobus nella sua forma peggiore…

E il picco definitivo è la sua quasi morte.

Billy Ray – L’arco costruttivo

L’arco di Billy segue la china totalmente opposta: una ricostruzione dell’identità.

Come le due scene dedicate dell’introduzione ci hanno ben raccontato, Billy è un personaggio furbo – o che crede di esserlo – che racconta storie clamorose su imprese mai compiute per avere una sorta di riconoscimento sociale.

E infatti, dopo una prima fase di assestamento, Billy decide di spendere la sua nuova posizione – e i suoi nuovi soldi – per rivalersi su quelli che l’avevano sbeffeggiato, inaugurando la sua nuova casa con un festivo che prende strade inaspettate.

E qui avviene la sua epifania.

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Una lenta, ma significativa presa di coscienza che colpisce il personaggio mentre vede diverse persone che non rispettano in alcun modo le proprietà degli altri. E forse in quelle stesse vede lo specchio del suo comportamento fino al giorno prima.

E a quel punto capisce che non vuole essere più quella persona.

La brillantezza sopita

Eddie Murphy in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il secondo passo della sua evoluzione è l’entrata alla Duke & Duke: anche incoraggiato giocosamente da Randolph, dimostra che, nonostante sia un senzatetto probabilmente senza alcun tipo di istruzione, riesce ad indovinare le previsioni sull’andamento di borsa.

E questo perché, a differenza dei Duke Brothers, ha un polso più chiaro della situazione della vita reale del consumatore comune, che era lui stesso fino a poco tempo prima.

Ovviamente si tratta di un racconto molto fantasioso, ma che funziona perfettamente nel contesto della pellicola, che ovviamente richiede un’importante sospensione dell’incredulità.

Cambiare faccia

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il picco della sua evoluzione corrisponde a quello di Louis, ovvero il primo momento in cui si scontrano direttamente.

E le parti si scambiano definitivamente, non solo perché Billy Ray diventa la persona con autorità e credibilità, ma soprattutto perché Billy si comporta nello stesso modo di Louis all’inizio del film, disprezzando quel tipo di persona che era lui stesso poco tempo prima.

E infatti il suo comportamento rappresenta la chiusura della scommessa.

Il piano risolutivo?

La bellezza di Una poltrona per due è che il terzo atto, che rappresenta lo scioglimento della vicenda, è una storia a parte.

Finalmente tutti i pezzi si mettono insieme: Billy, Louis e Ophelia uniscono le loro conoscenze e capiscono il piano dei Duke Brothers, riuscendo a intesserne uno loro parallelo per togliergli la ricchezza dalle mani.

E riescono effettivamente a batterli perché i due fratelli sono sempre troppo sicuri della loro posizione.

Così mettono insieme quella che è in tutto e per tutto una carnevalata, all’interno di una cornice narrativa che gioca proprio di maschere e finte maschere: chi si traveste per Capodanno, chi finge di essere travestito, chi rimane per sempre con un’altra identità.

E qui va fatto un discorso a parte.

Giocare con gli stereotipi in Una poltrona per due

Visto con gli occhi di oggi, e sopratutto decontestualizzando questo elemento, sembrerebbe che in Una poltrona per due Dan Aykroyd abbia fatto una black face.

Invece tutta la scelta di queste maschere ha un preciso significato, che si può cogliere solo ragionando sul periodo storico e sul racconto del razzismo all’interno del film.

Per tutta la pellicola vediamo infatti un razzismo sotterraneo ma onnipresente, associato principalmente ai Duke Brothers.

Billy Ray viene costantemente discriminato dai personaggi, ma non dalla pellicola stessa: considerando il periodo in cui è stato prodotto, è un personaggio del tutto scevro dagli stereotipi, che anzi lascia spazio alla creatività interpretativa di Eddie Murphy.

Eddie Murphy e Jamie Lee Curtis in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Proprio per questo, in questa sequenza il regista calca invece la mano nella direzione opposta, e inserisce una sconvolgente black face all’interno della fiera degli stereotipi, come uno schiaffo in faccia allo spettatore, all’interno di un film che ne è totalmente privo.

Quindi lo stereotipo dell’africano rumoroso, della donnina svedese piacente, del prete irlandese ubriacone.

E, fra l’altro, la mascherata di Louis ha un preciso intento narrativo: il personaggio deve nascondersi agli occhi di Clarence Beeks, che ovviamente conosce la sua faccia.

Ophelia in Una poltrona per due

Sempre secondo lo stesso concetto, anche Ophelia è un personaggio femminile interessantissimo, proprio perché non vive di stereotipi, anzi.

Ophelia è una figura femminile veramente scandalosa: non una donna angelica, non solo l’interesse amoroso del protagonista, ma una donna forte, decisa, che sa perfettamente usare il suo corpo per costruirsi una vita.

E senza nessuna vergogna per essere una prostituta.

Infatti, in un mondo degli ultimi, Ophelia è perfettamente consapevole della difficoltà di evitare il degrado e l’autodistruzione. Per questo riesce a costruirsi una propria realtà dove può muoversi liberamente e guadagnarsi una vita con quello che ha a disposizione.

Cosa succede nel finale?

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Il finale, per quanto avvincente, non è semplicissimo da capire per chi non mastica la materia.

Per questo ho preso spunto da un articolo molto dettagliato de Il Post, cercando di spiegarlo in maniera anche più semplice: fondamentalmente i Duke Brothers vogliono mettere le mani sulle previsioni del raccolto dell’anno per avere un’idea dell’andamento del mercato, e poi acquistare i cosiddetti futures.

I futures sono dei contratti fra due parti che scommettono sull’andamento di un prodotto: entrambi si accordano per acquisire una certa merce ad un certo prezzo in un momento futuro.

E solo una delle parti ci guadagnerà a seconda del prezzo effettivo del prodotto: se ad esempio io mi accordassi per comprare il succo d’arancia a 10 dollari fra un mese, ma fra un mese il succo d’arancia avrà un valore di mercato di 15 dollari, io lo comprerò sempre a quella cifra e ci guadagnerò rivedendolo e guadagnando sulla differenza.

Così anche al contrario.

Cosa succede nel finale di una poltrona per due

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

In Una poltrona per due quindi i Duke Brothers, ingannati dal finto rapporto, pensano che il raccolto sarà scarso e di conseguenza il prezzo alto. Per questo comprano tantissimi futures, sicuri che, una volta diffuso il rapporto, il prezzo schizzerà alle stelle e lo ci guadagneranno avendo comprato ad un prezzo inferiore.

Al contrario, Louis e Billy, sapendo che il raccolto invece sarebbe stato ottimo e di conseguenza il prezzo basso, stipulano dei futures come venditori, promettendo di vendere il prodotto ad un prezzo che gli investitori in quel momento considerano basso.

Eddie Murphy e Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

Tuttavia, quando viene svelato il rapporto veritiero, gli investitori si rendono conto di essersi impegnati a comprare il prodotto ad un prezzo altissimo rispetto al valore effettivo di mercato, che, dopo l’annuncio, che crolla immediatamente. Quindi cercano di stipulare dei futures per vendere il prodotto, che i protagonisti accettano di comprare dopo che il prezzo è sceso ancora.

Quindi Billy e Louis vincono perché prima dell’annuncio, avevano concordato di vendere il prodotto ad un prezzo molto alto rispetto a quello che è il valore di mercato dopo l’annuncio. Così, sempre dopo l’annuncio, possono comprare le arance ad un prezzo basso e venderle ad un prezzo alto. I Duke Brothers, avendo scommesso il contrario, hanno perso tutti i loro soldi.

Perché Una poltrona per due è un cult di Natale?

Dan Aykroyd in una scena di Una poltrona per due (1983) di John Landis

La particolarità di Una poltrona per due è che è considerato un film natalizio, ormai una tradizione, ma di fatto non è un film di Natale in senso stretto.

Infatti, è una tradizione tutta italiana dovuta alla programmazione Mediaset.

Il film fu trasmesso per la prima volta in tv nel 1986, e poi dal 1987 si cominciò a metterlo in onda a Dicembre, avvicinandosi progressivamente sempre di più al periodo natalizio. Questo evidentemente perché, in prima battuta, la pellicola era stata inserita nella programmazione dicembrina in quanto ha effettivamente degli elementi legati alle festività.

E il pubblico negli anni ha sempre risposto benissimo: una Poltrona per due è un film senza tempo, piacevole da vedere e con un forte messaggio di speranza e di rivalsa degli ultimi, che riesce in qualche modo a colpire in un periodo in cui ci sente stressati e sommersi dal Natale e dagli impegni che ci prendiamo per il nuovo anno.

Sostanzialmente Mediaset ha cavalcato una tendenza e l’ha resa una tradizione, programmando Una poltrona per due, a partire dal 1997, ogni anno per la sera di Natale.

E le tradizioni sono dure a morire…

Categorie
Avventura Cinema per ragazzi Comico Commedia Cult rivisti oggi Drammatico Film Film di Natale Racconto di formazione Recult

Mamma ho perso l’aereo – Un cult genuino

Mamma ho perso l’aereo (1990) di Chris Columbus è uno dei più classici film di Natale, che ha segnato l’infanzia di più di una generazione.

E non è certamente un caso.

Il film incassò benissimo: a fronte di un budget veramente contenuto di appena 18 milioni di dollari, se ne portò a casa 476 in tutto il mondo.

Di cosa parla Mamma ho perso l’aereo?

Il piccolo Kevin sta per partire per una vacanza insieme alla sua famiglia allargata. Ma un evento imprevisto lo porterà a essere dimenticato a casa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mamma ho perso l’aereo?

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Assolutamente sì.

Non parliamo di uno di quei film semplicemente amati perché parte dei ricordi d’infanzia, ma di un prodotto genuinamente bello e con un altissimo valore intrattenitivo, oltre che interpretazioni da far girar la testa.

E soprattutto come film di Natale si distingue per non essere la solita commedia dei buoni sentimenti, anzi.

Insomma, se non l’avete mai visto, esattamente cosa state aspettando?

Un’infanzia genuina…

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Un grande elemento di successo della pellicola è proprio il racconto dell’infanzia.

Molto spesso in questo tipo di film l’elemento infantile è quasi angelico, legato alla magia e all’importanza del Natale, più idealizzato che raccontato veramente.

Al contrario, in Mamma ho perso l’aereo il bambino protagonista è molto realistico: credibilmente capriccioso, pestifero, e che vive del sentirsi non compreso, ingabbiato in un sistema di regole e convenzioni che non comprende e che non accetta.

E infatti il suo più grande desiderio è rimanere da solo.

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

E quando lo fa, almeno all’inizio, gli sembra di vivere un sogno: può fare tutto quello che vuole, tutto quello che fino a quel momento gli era stato proibito.

Tuttavia, proprio per non volerlo banalizzare, da questa esperienza Kevin impara anche a responsabilizzarsi, a diventare grande. E mostra al contempo tutte le sue capacità non solo di adattamento, ma anche di incredibile inventiva nel contrastare due adulti ben più pericolosi.

…in un film non infantile

Kieran Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Proprio sulla china della verosimiglianza, i contenuti della pellicola non sono esattamente edulcorati.

Kevin subisce un bullismo sistematico, da parte del fratello Buzz, ma anche la cugina che gli dice che è incompetente e inutile – ma anche dagli adulti stessi – a cominciare dallo Zio Frank, che lo chiama little jerk (stronzetto).

Al contempo vengono messe in scena delle paure enormi come quella del terrificante vecchio Marley, oltre all’angoscia, dopo un po’ di tempo, di non avere la propria famiglia intorno e di essere per questo abbandonato.

Non dei temi semplicissimi, insomma.

Marley: un personaggio chiave

Il vecchio Marley è un personaggio chiave.

E per diversi motivi.

In primo luogo rappresenta la paura quasi atavica di Kevin, alimentata dalle storie di suo fratello. Un terrore potente che lo porta persino a scappare da un negozio senza pagare. La paura viene però superata e presentata anche come un arricchimento per il protagonista e per Marley stesso, quindi un doppio insegnamento sia per gli adulti che per i bambini.

In ultimo, ha anche un valore pedagogico: nonostante la celebrazione dell’astuzia e della creatività di Kevin, il film non poteva far passare il messaggio che un bambino se la può cavare totalmente da solo e senza l’aiuto dell’adulto.

E infatti l’intervento di Marley sul finale è risolutivo.

L’altra faccia della medaglia

Catherine O'Hara in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Il coinvolgimento emotivo della pellicola è duplice, in quanto offre una sponda anche al pubblico adulto.

E lo stesso è rappresentato dalla piccola avventura di Kate McAllister, la mamma di Kevin, su cui grava fondamentalmente tutto il peso emotivo della vicenda, mettendo abbastanza in ombra – e prevedibilmente – la figura del padre.

La storia di Kate è un’avventura a parte, definita da poche tappe, ma che coinvolgono facilmente a livello emotivo e che hanno anche interessanti risvolti comici. Fra l’altro, la stessa è protagonista di una delle scene più iconiche del film, che è stata anche recentemente replicata dall’attrice su TikTok:

Riempire i buchi (ma con eleganza)

Macaulay Culkin in una scena di Mamma ho perso l'aereo (1990) di Chris Columbus

Una sfida davanti alla quale indubbiamente si è trovato Columbus era quella di creare un’interessante parte centrale che non fosse solo un riempitivo, e che fosse piacevole e che costruisse adeguatamente la trama.

Ed era facile cadere nel banale.

Ma non è il caso di Mamma ho perso l’aereo.

Tutta la parte centrale è già iconica di per sé, oltre ad essere assolutamente funzionale alla trama complessiva: costruisce ottimamente le parti in scena, racconta la crescita di Kevin – in particolare nella spassosissima scena del supermercato – e rende tutta la vicenda interessante e tridimensionale.

Perché Mamma ho perso l’aereo è un cult?

Rivedendo Mamma ho perso l’aereo, è lampante perché questo film sia un cult.

Il cuore della questione è l’originalità.

Sia, come già detto, per la rappresentazione non idilliaca dell’infanzia e del racconto di Natale in genere, ribadito dall’indovinatissimo finale in cui Buzz urla contro Kevin per il disastro che ha trovato nella sua stanza.

Quindi una conclusione che, ancora una volta, non racconta buoni sentimenti, ma una vicenda vicina e reale di una famiglia reale.

Ma soprattutto proprio la trama era – ed è ancora oggi – fondamentalmente un unicum. E infatti si cercò di replicare il successo, prima con un sequel abbastanza piacevole e diversi altri prodotti derivati, ma nessuno dei quali arrivò alla stessa iconicità e bellezza del primo film.

Categorie
Avventura Cinema gelido Cult rivisti oggi Drammatico Film Giallo Horror Recult Thriller

Misery – Un thriller claustrofobico

Misery (1990) è un piccolo cult dell’horror – thriller, diretto da Rob Reiner e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, fra l’altro uscendo pochi anni dopo la sua pubblicazione.

Il titolo italiano è molto spoileroso, quindi, anche se lo conoscete già, eviterò di riportarlo qui.

Un film prodotto con un budget molto limitato, appena 20 milioni, ma che incassò molto bene: 61 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Misery?

Paul Sheldon è uno scrittore di successo, che si ritira in una piccola città di montagna per scrivere il suo nuovo romanzo. Ma questa volta rimarrà coinvolto in una bufera, con conseguenze inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Misery?

Assolutamente sì.

Misery è un piccolo thriller ottimamente confezionato – cosa per nulla scontata per un prodotto derivato da King. Ma, d’altronde, da questo regista, già autore di Harry ti presento Sally (1989), non mi aspettavo niente di meno.

Per certi versi è più un thriller che un horror, anche se non mancano le componenti orrorifiche. Più che altro si punta sulla psicologia dei personaggi, già abbastanza spaventosa di suo, ma senza mai eccedere.

Anzi, le scene più violente sono di impatto, ma mai esagerate.

Un’attrice poliedrica

Per una simpatica coincidenza, proprio il giorno prima della mia visione avevo visto Titanic (1997), dove Kathy Bates, qui interprete della terribile Annie, portava in scena un personaggio totalmente diverso.

E mi ha piacevolmente sorpreso come sia un’attrice assolutamente poliedrica.

Nonostante la sua recitazione poteva probabilmente essere smussata, è indubbio che ci abbia regalato una prova attoriale di grande impatto e che riesce a reggere la terrificante dualità del personaggio.

Non a caso, fu premiata come Miglior attrice non protagonista agli Oscar 1991.

L’abito fa il monaco

Quando Annie nostra la sua vera natura maligna e incontrollabile, non è in realtà una grande sorpresa per lo spettatore.

Già il suo character design, se così vogliamo chiamarlo, è di per sé rivelatorio: le camicie e i maglioni stretti fino al collo, i capelli perfettamente pettinati, la croce d’oro al collo. Tutti indizi di una donna che vive per il piacere del controllo e delle sue ossessioni.

E viene anche più arricchito da elementi puramente grotteschi, come il maiale da compagnia e l’arredamento della sua stanza che sembra quello di un’adolescente troppo cresciuta…

Un senso di claustrofobia

Per tutta la pellicola siamo pervasi da un senso di profonda claustrofobia, sopratutto perché per la maggior parte le scene si svolgono in un unico ambiente.

E anche l’esplorazione degli spazi della casa trasmette comunque un importante senso di impotenza e di trappola: come il personaggio, neanche che noi possiamo esplorare al di fuori di quelle quattro pareti.

E, con un paio di plot twist ben posizionati, ecco la ricetta perfetta per un thriller psicologico davvero appassionante.

Categorie
Animazione Avventura Cult rivisti oggi Disney Dramma familiare Drammatico Fantasy Film Racconto di formazione

Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.

Categorie
Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Il cinema di James Cameron Racconto di formazione Terminator

Terminator 2 – Is this struttura narrativa?

Terminator 2 (1991) è il secondo capitolo della duologia omonima diretta da James Cameron, poi proseguita da diversi sequel dalle sorti alterne.

Arrivato a quasi dieci anni dal primo capitolo, fu un sequel di incredibile successo, considerato dagli appassionati anche migliore dell’iconico primo capitolo.

Con un budget enormemente superiore del precedente (100 milioni di dollari), fu un ottimo successo commerciale, con 502 dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator 2?

Sono passati diversi anni dal primo capitolo e Sarah Connor è rinchiusa in un centro di igiene mentale, mentre suo figlio, l’ancora giovanissimo John Connor, è il nuovo bersaglio di un viaggiatore del futuro...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Terminator 2?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Banalmente, sì.

Come avevo detto nella recensione del precedente capitolo, non ero stata così tanto colpita a livello intrattenitivo, nonostante riconoscessi l’ottimo livello tecnico e registico. Per questo film sono stata molto sul chi va là per paura che seguisse la medesima struttura narrativa del primo, che a mio parere era davvero debole.

E invece sono stata parzialmente sorpresa.

Terminator 2 mi ha permesso parzialmente di superare il mio disinteresse intrinseco per i film action, soprattutto perché la pellicola non può essere appiattita solo su questo (come neanche del tutto la precedente, in realtà). Di fatto, è un prodotto che, a otto anni di distanza, riprende in mano i fili narrativi, riesce ad innovarsi e a portare novità, rimanendo comunque fedele a sé stessa.

Se vi è piaciuto Terminator, guardatelo sicuramente.

Se non vi è piaciuto, vale la pena dargli un’altra possibilità con questo film.

Is this struttura narrativa?

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Durante il primo film avevo trovato quasi estenuante la struttura narrativa.

Un infinito inseguimento che sembrava insolvibile, e che poi si risolveva sempre in maniera estenuante nelle sue dinamiche, con la punta di diamante che era ovviamente il Terminator di Arnold Schwarzenegger. E per questo ero molto dubbiosa su questo film.

Invece sono rimasta abbastanza soddisfatta.

Per quanto la parte action e degli inseguimenti sia una grossa fetta del film, non definisce tutto l’andamento narrativo, che invece prosegue a tappe con una serie di obbiettivi piuttosto interessanti e avvincenti. Un deciso miglioramento, che ha reso la narrazione più ampia e interessante.

E non è l’unico passo avanti.

Finalmente, Sarah Connor

Linda Hamilton in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Sarah Connor era un elemento piuttosto debole della prima pellicola. E per più motivi.

Anzitutto perché era un personaggio totalmente vittima degli eventi, la quale, tranne nell’ultimissimo momento, non agiva mai attivamente in scena. Invece in questo sequel il suo personaggio migliora da ogni punto di vista.

Oltre a diventare un personaggio incredibilmente attivo, ha una profondità narrativa e emotiva mille volte più interessante, che mi ha personalmente anche molto coinvolto. Oltre a questo, riesce finalmente ad essere una protagonista femminile di un film action che non è la vittima da salvare, ma anzi una donna forte e determinata che si allena per sconfiggere il nemico.

E io dico, finalmente vedo veramente la Sarah Connor che mi era stata promessa.

Un aggancio efficace

Edward Furlong e Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Un’ottima scelta della pellicola è stata l’introduzione di John Connor in versione adolescente.

In questo modo si è riusciti, a otto anni di distanza, a riagganciare i fan del primo film e a coinvolgere nuovissimi fan che vedevano sullo schermo come protagonista un ragazzino non tanto diverso da loro, destinato a diventare un eroe.

Oltre a questo, John Connor porta una comicità piuttosto simpatica e piacevole, che ammorbidisce i toni del film, oltre ad arricchire la pellicola di un taglio da buddy movie che non ho potuto fare a meno di apprezzare.

La meraviglia degli effetti speciali

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Senza stare troppo a parlare di quanto sia fantastica la fotografia e la regia in generale di questa pellicola, sono rimasta senza parole davanti alla bellezza degli effetti speciali.

Tutti gli effetti legati a T-1000 in particolare sono qualcosa da far girare la testa: non riescono praticamente mai a deludere e sembrano così veri in scena, oltre ad essere incredibilmente creativi.

E stiamo parlando del 1991.

Unica piccola pecca è stata la sequenza in cui T-1000 muore, dove, come era anche per certe sequenze della prima pellicola, sembra molto bidimensionale e poco credibile. Ma è davvero una piccolezza all’interno di un comparto tecnico di prima categoria.

Un Terminator di troppo

Robert Patrick  in una scena di Terminator 2 (1991) di James Cameron

Ma T-1000 è anche il punto debole della pellicola.

La sua presenza l’ho trovata veramente accessoria, tanto che l’inseguimento finale, che riprende le mosse dal primo capitolo, è la parte meno interessante dell’intero prodotto.

E il grande problema è che il povero Robert Patrick, che poi si è rifatto anche recentemente in serie come Peacemaker, non ha un’unghia dell’iconicità di Arnold Schwarzenegger.

E mi è sembrato davvero un elemento che dovevano inserire per far quadrare la storia e farla quantomeno assomigliare al film precedente, ma che in realtà diventa quasi un elemento sotterraneo della narrazione, che corre parallelamente al resto degli eventi.

Cameron, non ti capisco

So già cosa risponderanno gli appassionati di Cameron al mio dubbio, ma ci tengo comunque a prendermi questo piccolo spazio per parlarne.

Cameron aveva fra le mani una trama potenzialmente interessantissima come quella del futuro distopico di Skynet, che mostra brevemente solo in alcuni momenti delle pellicole da lui dirette. Poi, altri registi meno capaci hanno preso in mano la saga e fatto quello che probabilmente il pubblico si aspettava.

E invece James Cameron ha deciso di non incastrarsi in questa saga, ma di mettere un punto alla questione in maniera definitiva. E, per la sua carriera, a posteriori è stata indubbiamente la scelta migliore.

Ma è una scelta che comunque non riesco a capire del tutto…

Categorie
Avventura Azione Cult rivisti oggi Distopico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Il cinema di James Cameron Recult Terminator

Terminator – Nato per un ruolo

Terminator (1984) di James Cameron è il primo capitolo della duologia omonima diretta dall’iconico regista, che portò poi ad altri quattro seguiti e tentativi di rilancio, non sempre vincenti…

Un film che è diventato facilmente iconico, grazie alla straordinaria scelta di un interprete come Arnold Schwarzenegger, che sembra veramente nato per il ruolo, e che al tempo era noto soprattutto nella scena culturista.

Un film prodotto con veramente pochissimo, appena 6,4 milioni di dollari, e che, per questo, fu un ottimo successo commerciale: 78 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Terminator?

Un misterioso killer sembra prendere di mira donne dal nome Sarah Connor. Ma il suo vero obiettivo è piuttosto inusuale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Terminator?

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

In generale, sì.

Ammetto che è un film che mi ha entusiasmato meno di quanto mi aspettassi, ma sono stata colpita dagli elementi che l’hanno reso un cult, ovvero l’infinita tamarraggine e convinzione di Arnold Schwarzenegger.

Per il resto, è un film che può indubbiamente entusiasmare i patiti di film action, soprattutto datati, ma narrativamente parlando è abbastanza debole e leggermente ridondante. Tuttavia, non mi sento assolutamente di sconsigliarlo.

Potrebbe sorprendervi.

Nato per un ruolo

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

L’assoluto punto di forza della pellicola è proprio il suo villain, il Terminator. E, come detto, non poteva esserci un attore più adatto di Arnold Schwarzenegger per questo ruolo.

Sembra genuinamente che non stia neanche recitando, tanto che, quando il suo personaggio deve dimostrare la sua forza sovrumana, mi viene il dubbio che non ci fosse niente di finto…

D’altronde, l’attore era innanzitutto una star nel mondo del culturismo, e si era già fatto notare a livello internazionale per un ruolo non dissimile, nella duologia di Conan. Insomma, le sue scene, anche quelle più sopra le righe, le ho assolutamente adorate.

Una protagonista insipida

Linda Hamilton in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

La sua controparte positiva non si può dire altrettanto vincente.

L’attrice, Linda Hamilton, era al tempo giovanissima e ancora molto alle prime armi. La sua carriera, fra l’altro, non è mai decollata, restando sempre molto vincolata alla saga di Terminator.

Purtroppo, come protagonista fallisce soprattutto dal punto di vista dell’evoluzione: per la maggior parte della pellicola Sarah Connor è un personaggio indifeso e da salvare, che non ha fondamentalmente una volontà propria, ma che si lascia trasportare dagli eventi.

Il suo momento di evoluzione avviene troppo in fretta e troppo tardi, senza un’adeguata costruzione, portandoci ad una caratterizzazione finale poco credibile e che non giustifica quello che è stato raccontato sul suo futuro.

Fare molto con poco

Arnold Schwarzenegger in una scena di Terminator (1984) di James Cameron

Terminator è un altro ottimo esempio di quanto basta poco per fare molto.

Il tocco registico di Cameron si vede ampiamente nella messinscena affascinante, la fotografia suggestiva e la direzione delle scene di azione di grande impatto.

Quasi altrettanto vincente è il comparto trucco e degli effetti speciali: molto bella e credibile la sequenza in cui Terminator si cura il braccio, un pochino meno quando si apre l’occhio, quando è evidente (per ovvi motivi) che l’attore avesse addosso una maschera di gomma.

Non male anche Terminator nella sua forma metallica, anche se in certe scene sembra molto bidimensionale.

Nel complesso, un’ottima prova di un regista capace di rendere di valore anche un prodotto mainstream.

Un racconto ridondante

La trama di Terminator è purtroppo molto ridondante: è fondamentalmente un infinito inseguimento, puntellato da alcuni elementi di trama e dai grandi momenti di Arnold Schwarzenegger.

Soprattutto sul finale mi rimbombava nella testa uno degli insegnamenti fondamentali di Scream:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

Infatti, da certi punti di vista, la struttura narrativa è simile a quella di uno slasher, con il protagonista imbattibile e che sembra non morire mai.

Anche il recente Halloween Ends (2022) insegna…

I sequel dovuti

A differenza di altri prodotti che portarono ad infiniti sequel senza che ce ne fosse il minimo bisogno, come Lo squalo (1975) e Scanners (1981), questa pellicola è una miniera d’oro per sequel e spin-off.

Infatti, la trama del futuro è incredibilmente affascinante, e, soprattutto fatta con budget più consistenti, poteva portare a dei prodotti spettacolari. Ammetto di avere solo un vago ricordo di Terminator Salvation (2009) e abbastanza un buon ricordo di Terminator 2 (1991), quindi non posso giudicare nella sua interezza.

Ma i numeri parlano chiaro: fra i sequel, quelli andati meglio furono il secondo e il terzo, mentre i successivi, anche per via di un budget ben più consistente, ebbero risultati medi, fino a abbastanza mediocri con l’ultimo, Terminator – Destino Oscuro (2019).

Personalmente mi sarei aspettata risultati più vicini a quelli del recente rilancio di Jurassic Park

Categorie
Avventura Cult rivisti oggi Drammatico Fantasy Film Il viaggio di Frodo Viaggio nella Terra di Mezzo

Le due torri – Una buona distrazione

Il Signore degli Anelli – Le due torri (2002) di Peter Jackson è il secondo capitolo della trilogia dedicata all’opera di Tolkien.

Il capitolo mediano di una trilogia è sempre quello più problematico: bisogna raccontare una storia interessante, ma senza arrivare alla fine del percorso. E il rischio è sempre quello di sembrare un filler di poco interesse.

E invece Le due torri riesce ad essere narrativamente quasi più vincente del primo capitolo.

Neanche a parlarne, un altro grande successo commerciale: davanti ad un budget di 94 milioni di dollari, ne incassò ben 936 in tutto il mondo.

Di cosa parla Le due torri?

Il capitolo centrale è l’intreccio di più storie: Sam e Frodo continuano il loro viaggio, non con qualche sorpresa. Aragorn e i suoi compagni, nel tentativo di salvare i due piccoli hobbit, si trovano coinvolti in una situazione politica ben più complessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le due torri?

Bernard Hill in una scena de Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Assolutamente sì.

Come detto, un capitolo mediano che dà molte soddisfazioni.

A differenza della possibile pesantezza del primo capitolo, Le due torri risulta un capitolo molto più narrativamente coinvolgente, con una struttura più classica con un punto di arrivo più chiaro e che lo spettatore aspetta con grande attesa.

Personalmente l’ho apprezzato quasi di più del precedente, ed è uno di quei fantastici casi in cui il sequel è ottimo se non migliore, come era il caso di L’impero colpisce ancora (1980).

La tragedia di Gollum

Andy Serkis in una scena di Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Gollum è la grande novità della pellicola.

Brevemente introdotto (a parole) nel primo capitolo, in questo film diventa un personaggio fondamentale, con un’evoluzione inaspettata. Si lascia infatti brevemente conquistare dalle parole di Frodo, che nella sua infinita pietà cerca di salvarlo e farlo tornare alla sua forma più umana.

E il racconto della sua psicologia dilaniata (letteralmente) è uno dei momenti più iconici della saga, grazie anche all’ottima interpretazione di Andy Serkis, in uno dei momenti più alti della sua carriera, insieme a Il pianeta delle scimmie.

Fra l’altro con un CGI che farebbe ancora oggi impallidire tanti blockbuster

Un’ottima distrazione

Sarebbe stato troppo semplice se Sam e Frodo fossero già arrivati alla fine della propria avventura. E sarebbe stato altrettanto poco credibile se il loro viaggio si fosse prolungato per tre film, senza alcun intoppo.

Invece credibilmente i due hobbit arrivano da Sauron, ma non arrivano fino al Monte Fato. E l’allungamento del viaggio è credibile e l’intoppo che trovano è assolutamente funzionale.

Infatti, con la vicenda di Faramir, si inserisce sia un approfondimento della storia di Boromir, una di quelle classiche cosa che non sai che ti servivano, ma che alla fine si rivelano necessarie; sia si racconta meglio di come l’anello sia desiderato e di come Frodo si possa facilmente far corrompere dallo stesso.

E con questo intermezzo il popolo degli uomini sembra rinunciare definitivamente al desiderio dell’anello.

La storyline vincente

Viggo Mortensen, Orlando Bloom e Ian McKellen in una scena di Il Signore degli Anelli - Le due torri (2002) di Peter Jackson

Come la vicenda cardine è la distruzione dell’anello, è molto più funzionale porne una accanto, quella di Aragorn e del regno di Edoras, per ampliare e rendere più interessante la narrazione.

Questa linea narrativa è gestita in maniera praticamente perfetta, con una costruzione avvincente e ben strutturata. E soprattutto rende complessivamente più interessante l’intero film, perché pone un punto di arrivo chiaro e crea un’ottima tensione.

E poi il punto di arrivo è uno spettacolo.

La meraviglia della battaglia del Fosso di Helm

Non sono uno spettatore che si lascia facilmente impressionare dalle scene d’azione né di battaglia, anzi spesso è il contrario.

Ma non ho che potuto rimanere a bocca aperta davanti alla bellezza di questa battaglia.

Oltre ad essere uno spettacolo visivo, è anche ben costruita sia sulla tensione, raccontando uno scontro che sembra praticamente impossibile da vincere, variando molto la messa in scena e facendoci seguire chiaramente tutti i momenti della vicenda. E infine portando il colpo di scena finale, la salvezza che non si sperava più.

E, per rendere tutto davvero perfetto, non manca anche l’elemento comico di Gimli e Legolas, assolutamente ben contestualizzato e genuinamente divertente.

Una bromance mancata

Penso che un po’ tutti siano arrivati con le lacrime agli occhi al finale, quando un’altra volta Frodo e Sam confermano il loro meraviglioso rapporto di amicizia.

Perché, davvero, se Frodo non avesse avuto Sam al suo fianco non sarebbe riuscito ad arrivare alla fine della sua avventura. Infatti, Sam non è una semplice spalla, ma un elemento assolutamente fondamentale della narrazione.

E non posso fare a meno di pensare che se questi film fossero usciti una decina di anni più tardi saremmo stati sommersi dalle fanfiction dedicate.

Che forse lo siamo già stati, inconsapevolmente…

Lode all’odio per le Due torri

Mi prendo questo piccolo spazio conclusivo per ammettere una mia colpa (?): ho trovato estenuante e veramente poco interessante la relazione fra Aragorn e Arwen.

Mi rendo conto che si tratti di un blockbuster e che sia necessario inserire anche personaggi femminili di una qualche centralità e così delle relazioni romantiche. Tuttavia, se già questa storyline mi interessava poco nello scorso capitolo, mi ha definitivamente annoiato con questo triangolo amoroso insopportabile con Éowyn.

Fra l’altro Éowyn un personaggio che sembra vivere praticamente in funzione di questo elemento…

Categorie
Comico Commedia romantica Cult rivisti oggi Dramma romantico Drammatico Film Manhattan Woody Allen

Manhattan – Inghiottiti dalla città

Manhattan (1979) è la pellicola più importante e iconica di tutta la produzione di Woody Allen, un cult nonché un capolavoro del cinema occidentale. E i motivi si sprecano.

Fondamentalmente, se avesse smesso improvvisamente di produrre film dopo questa pellicola, sarebbe stato comunque artisticamente inarrivabile.

Troviamo ancora una volta come protagonista Diane Keaton, con una dinamica altrettanto amara e coinvolgente come in Io e Annie (1977). Fu anche il primo grande successo del regista: a fronte di un budget di 9 milioni di dollari, ne incassò 40.

Di cosa parla Manhattan?

Isaac è un autore televisivo con una vita sentimentale tormentata: divorziato dalla moglie con cui è ancora ai ferri corti e in una relazione con una ragazza molto più giovane di lui, si innamora della donna sbagliata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Manhattan?

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Manhattan è considerato un capolavoro del cinema, e non a caso: un livello artistico che definire mostruoso è poco, con scelte che non sono solo un vezzo o un esercizio di stile, ma organiche al tipo di narrazione profonda e coinvolgente.

Ma non dirò di più: se non l’avete mai visto è giusto che lo scopriate da soli.

Oltre a questo riprende la bellezza di Io e Annie proprio nel raccontare delle relazioni genuine e profondamente coinvolgenti, con, fra l’altro, un umorismo brillante e ben dosato.

Insomma, uno di quei film che non possono non essere visti.

Quando il bianco e nero non è solo un vezzo

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Manhattan è un film girato in bianco e nero, ed è una scelta registica con un significato ben preciso: Allen gioca continuamente con la luce e il buio, portando scene anche completamente buie o molto luminose sui toni del bianco in cui le figure scure dei personaggi si stagliano sullo sfondo.

Ancora più interessante è l’uso della luce diegetica: le scene per la maggior parte vivono della luce in scena, l’unica di cui i personaggi possono servire per apparire agli occhi dello spettatore, finendo spesso per essere facilmente inghiottiti dal buio che li circonda.

Entrambe queste scelte senza il bianco e nero non avrebbe avuto lo stesso effetto.

La città al centro

Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Altra scelta registica peculiare sono state le non poche sequenze con camera fissa, in cui i personaggi entrano ed escono dai limiti della scena senza che la macchina da presa li segua. A volte interi dialoghi avvengono proprio fuori scena, con inquadrature che invece privilegiano la vista della città.

Come se questo non bastasse, i personaggi sono sempre messi a lato dell’inquadratura, anche quando sono gli unici soggetti in scena. Questo sempre con la volontà di mettere la città, e per estensione lo spazio, al centro, e fare in modo che la stessa inghiotta i personaggi.

La comicità naturale

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

We should meet some stupid people once in a while. We could learn something.

Potremmo frequentare delle persone stupide ogni tanto. Potremmo imparare qualcosa.

Con questo film Allen riesce a trovare definitivamente una sua dimensione comica, tenendo tutta la comicità sulle sue spalle e portando un tipo di umorismo molto naturale, con poche battute brillanti e genuinamente divertenti.

Molta della comicità nasce dalla situazione paradossale in cui la società dei ricchi newyorkesi persa nelle sue divagazioni senza senso per darsi un tono, con situazioni paradossali e spassosissime, che si prestano facilmente a battute di effetto.

Insomma con questo film Allen capisce che è meglio poco, ma di qualità.

Cosa ci insegna Manhattan delle commedie romantiche

Woody Allen e Meryl Streep in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Come già in Io e Annie, Manhattan racconta in maniera sincera il mondo delle relazioni, con le sue complicatezze e insidie. Solitamente le commedie romantiche hanno un finale confortante, per cui ogni cosa si risolverà inevitabilmente a nostro favore e tutto andrà al proprio posto, nonostante tutto.

E come sembra che il nostro partner viva in nostra funzione.

Invece con questa pellicola Allen ci racconta la realtà contraria, la più dolorosa: come quella relazione che sembrava perfetta può in realtà finire in una bolla di sapone, ci si può ripensare, tornare sui propri passi. Lasciare. Non aspettare. E, infine, accontentarsi.

Con un finale amarissimo, ma dovuto.

Categorie
Avventura Cinema per ragazzi Commedia nera Cult rivisti oggi Drammatico Film Horror Humor Nero Scream Saga Scream Trilogia Originale Thriller

Scream – E così nasce l’anti-horror

Scream (1996) di Wes Craven è il primo capitolo della saga anti-horror omonima, un cult ancora oggi. E un cult non a caso: nel momento della saturazione del genere horror, Craven decise di portare qualcosa di profondamente diverso.

Una pellicola che non avevo mai recuperato negli anni, ma che ho avuto il piacere di ricoprire, in attesa anche del nuovo capitolo in uscita il prossimo anno, Scream 6 (2023).

Un film fatto con poco (appena 15 milioni), ma che fu immediatamente un successo commerciale, incassando 183 milioni di dollari, il maggior incasso del 1996.

Di cosa parla Scream?

È passato quasi un anno dalla morte della madre di Sidney, che non riesce a superare la sua scomparsa, i cui dettagli sono ancora fumosi. Un serial killer comincia a minacciare la sua vita e la comunità, con degli strani collegamenti con l’omicidio della madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Scream?

Drew Barrymore in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Assolutamente sì.

Nonostante sia un film di quasi trent’anni fa, Scream è ancora assolutamente godibile. Ovviamente non vi dovete aspettare un horror autoriale alla Nope (2022), ma un prodotto che si inserisce efficacemente nel filone dell’horror commerciale, pur deridendolo.

In particolare, ve lo consiglio se siete particolarmente appassionati all’horror slasher degli Anni Settanta – Ottanta, che la pellicola cita continuamente.

E nella maniera più metanarrativa che possiate immaginare.

Giocare con la metanarratività

Più si prosegue nella narrazione, più le citazioni e i riferimenti agli horror cult si moltiplicano, andando a dialogare direttamente con il film stesso. Il momento più alto è quando Bill dice a Sidney

It’s all…one great big movie

È tutto un grande incredibile film

E da lì è tutto in discesa.

Si sprecano poi i parallelismi con Halloween (1978), in particolare in due momenti: quando, davanti alla scena in cui la protagonista si sta spogliando, il montaggio alternato ci mostra Sidney che fa lo stesso nell’altra stanza. E poi quando Randy urla alla protagonista del film

Jamie, look behind you!

Jamie, dietro di te!

e ha lui stesso il killer alle spalle che lo sta per uccidere. Infine, altrettanto memorabile quando sempre Randy, mentre stanno guardando Bill a terra apparentemente morto, ricorda:

This is the moment when the supposed dead killer come back to life

Questo è il momento in cui il killer che dovrebbe essere morto torna in vita

e infatti Bill torna in vita e Sidney gli spara, chiosando

Not in my movie.

Non nel mio film.

Ci sono anche momenti più gustosamente umoristici, come quando il preside parla con il bidello, che si chiama Fred ed è vestito come Freddy Krueger della saga di horror Nightmare.

Uscire dagli schemi

Matthew Lillard e Skeet Ulrich in una scena di Scream (1996) di Wes Craven

Scream riesce ad essere diverso dal canone non solo a parole, ma anche nei fatti. Anzitutto, portando una violenza al limite dello splatter e del grottesco, che non appare finta, con anche una certa ironia che sdrammatizza molte scene di tensione.

Fra tutte, piuttosto indovinata la scena prima della morte di Tatum, in cui lei crede che il killer sia uno scherzo e gli chiede se vuole che sia la sua vittima. E anche, più in piccolo, quando Sidney è chiusa in macchina e il killer le sventola davanti alla faccia le chiavi che stava cercando per scappare.

Ma soprattutto è originale la scelta di mettere una coppia di killer e soprattutto di non appiattire gli stessi sull’immagine di personaggi pazzi e con un passato tormentato, assegnandogli invece motivazioni più semplici e terrene.

Ma il colpo di genio è stato fare in modo che il sospettato numero uno fosse effettivamente il colpevole, e non un modo per confondere lo spettatore. Spettatore, fra l’altro, ormai abituato a questo tipo di dinamica e che non si sarebbe lasciato facilmente ingannare.

Una regia non scontata

Tutt’oggi l’horror commerciale – sempre con splendide eccezioni – è caratterizzato da produzioni da discount, per cui di solito si mettono alla regia dei semplici mestieranti che portano una messinscena molto mediocre, con spesso anche una sceneggiatura molto scontata.

Al contrario Wes Craven riesce a plasmare la messa in scena con una regia dinamica e interessante, con anche tocchi registici piuttosto peculiari, come il particolare sul riflesso del killer negli occhi del Preside prima di morire.

E in generale è una regia che gioca molto di inquadrature improvvise e con insistenti primi piani stretti.

Categorie
Cinema d'autunno Commedia Commedia romantica Cult rivisti oggi Drammatico Film Racconto di formazione

Harry ti presento Sally – L’incubo delle relazioni

Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner è un cult del genere rom-com. Divenne un modello sopratutto per il sottogenere dell’enemy to lovers, ovvero le storie romantiche incentrate su due personaggi che passano da una condizione di antagonismo ad una di amore.

Un cult non per caso: pur non incassando moltissimo, per un film del genere portarsi a casa 93 milioni contro un budget di 16 fu indubbiamente un grande successo commerciale.

Ma perché Harry ti presento Sally è diventato un cult?

Di cosa parla Harry ti presento Sally?

La vicenda si dipana nell’arco di dieci anni (o più) da quando Sally e Harry si incontrano per un viaggio e poi si perdono e si rincontrano negli anni successivi. E da un rapporto cominciato non con i migliori presagi, nascerà qualcosa di inaspettato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Harry ti presento Sally può fare per me?

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

I motivi per cui questo film è diventato un cult non sono da ricercare nei suoi meriti artistici, ma nel fatto che è indubbiamente una commedia romantica per nulla banale. Indubbiamente alcune dinamiche le avrete già viste in commedie recenti, ma con ogni probabilità le stesse prendono le mosse proprio da qui.

Ma tanto più questa pellicola può essere piacevole anche per chi (come me) non ama questo genere cinematografico.

Infatti, non andandosi ad arenare su dinamiche semplici e prevedibili, ma raccontando una storia di più ampio respiro con anche tematiche non scontate, è un film che può dare più soddisfazioni di quanto si potrebbe pensare.

Perché Harry ti presento Sally è un cult?

Banalmente, Harry ti presento Sally è diventato un cult perché non è banale.

In particolare, due elementi sono stati vincenti in questo senso: raccontare le reazioni in maniera autentica e non buttarsi via con l’instant love.

Gran parte del film, ancora prima di arrivare alla stessa relazione fra i protagonisti, è dedicata all’incubo delle relazioni, a questo inseguire la necessità di essere accoppiati, pena mancare il match perfetto. Ed è una sensazione in cui, oggi come al tempo, molti spettatori si possono ritrovare.

Così anche la mancanza dell’instant love, ovvero quella modalità narrativa tipica delle rom-com, soprattutto di scarso livello, in cui i due protagonisti si innamorano istantaneamente.

Ovviamente nella vita reale sono cose che possono anche succedere, ma quando vediamo un film vogliamo una storia interessante e strutturata, che ci appassioni. Oltre a questo, ovviamente, la pellicola è diventata un modello nel genere nelle sue dinamiche, particolarmente l’appassionante dichiarazione d’amore finale.

L’incubo delle relazioni

Meg Ryan in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Harry ti presento Sally ha la capacità di raccontare in maniera interessante il mondo delle relazioni sentimentali.

Infatti, i personaggi sono costantemente frustrati dall’idea di doversi trovare un compagno, di doversi sistemare.

E al più presto possibile.

Perché, se non ci si accalappia il compagno subito, questo andrà a qualcun altro. E noi rimarremo per sempre soli. Un modo molto meccanico, ma di fatto anche credibile, di raccontare queste dinamiche, come una giostra da cui si continua a scendere e salire.

L’unico elemento in cui si perde, ma è anche motivo del suo fascino, è l’idea che Harry e Sally siano fatti per stare insieme, e che quindi dopo più di dieci anni riusciranno a raggiungere una relazione soddisfacente solamente se si metteranno insieme.

Ma, appunto, mancando questo elemento, la storia amorosa non avrebbe funzionato.

Un enemy to lovers mai banale

Billy Crystal in una scena di Harry ti presento Sally (1988) di Rob Reiner

Il sottogenere dell’enemy to lovers è intrigante quanto facilmente banalizzabile.

Lo vediamo in molti prodotti di scarso valore come il recente Bridgerton, e spesso i protagonisti si perdono in relazioni sciocche e adolescenziali, in cui l’antagonismo nasce non da basi concrete, ma da motivi fumosi e poco credibili.

Al contrario questa dinamica in Harry ti presento Sally viene costruita fin dall’inizio e con grande abilità: Harry e Sally sono due personaggi diversi e in contrasto, ma per motivi mai banali.

Infatti Harry è un uomo, soprattutto all’inizio, piuttosto sgradevole, totalmente mancante di una maturità emotiva, anzi che sente di sapere tutto sulle relazioni e sulle sue dinamiche.

Sally è la sua giusta controparte: un personaggio che si sente comunque oppresso dalle dinamiche relazionali, ma non si lascia mai ingoiare dalle stesse. Quindi, anche dopo molti anni di relazione, lascia il suo fidanzato, si approccia sessualmente ad Harry con grande genuinità ed ha soprattutto l’energia per tenergli testardamente testa.

E non può infine accettarlo, se non quando lui gli dimostra di essere emotivamente maturato.