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The Truman Show – Il seme della follia

The Truman Show (1998) è un film diretto da Peter Weir (lo stesso di L’attimo fuggente, 1989) e che rappresentò un punto di arrivo importante per la carriera di Jim Carrey.

Infatti, dopo un’ascesa fulminante con film come The Mask (1994) e Ace ventura (1994), Carrey ebbe finalmente la possibilità di mostrarsi come attore completo.

Al tempo il film fu un discreto successo al botteghino (264 milioni di incasso contro 60 di budget) e divenne col tempo un cult dei cinefili.

Di cosa parla The Truman Show

Truman (nome parlante) è fin dalla sua nascita all’interno di un ambizioso reality show, che è totalmente realistico: Truman è assolutamente inconsapevole di vivere all’interno della finzione televisiva, ma comincerà a raccogliere gli indizi che lo porteranno alla consapevolezza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Truman Show?

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Assolutamente sì.

Avevo visto The Truman Show una sola volta diversi anni fa, e non ricordavo l’altissima qualità di questa pellicola. Il film gode di una solidissima struttura narrativa, che si articola ad ondate per i diversi momenti di consapevolezza di Truman.

Si avvicina pericolosamente al genere grottesco, senza mai scadere nella banalità o nel cattivo gusto. Il tono è perfettamente calibrato, riuscendo a trasmetterti il giusto senso di angoscia e di trasporto per il personaggio di Truman.

Perché, alla fine, gli spettatori del reality che vediamo in scena siamo noi, in tutto e per tutto. Non a caso i titoli di testa sono quelli del programma rappresentato, non del film stesso.

Un punto di arrivo

Jim Carrey in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Dopo delle ottime prove attoriali in ambito comico, solo quattro anni più tardi Jim Carrey ebbe la fortuna di essere diretto da un ottimo regista che ne capì la potenzialità.

Carrey in questa pellicola dimostra infatti tutte le sue capacità, caricando la recitazione dal punto di vista comico e grottesco, ma al contempo riuscendo a destreggiarsi ottimamente anche nelle scene più drammatiche.

Per non parlare della recitazione corporea, con cui riesce a trasmetterti tutta la potenza del suo personaggio.

La morale

Ed Harris in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

The Truman Show presenta una morale molto interessante, soprattutto per come è rappresentata la figura del creatore dello show.

La metafora cristiana è evidentissima: Christof (molto simile a Christ) è il creatore di Truman, che lo ha circondato di tutto ciò che lo possa rendere felice e l’ha protetto dalle brutture del mondo esterno, in questa sorta di paradiso terrestre televisivo.

E proprio con questo racconto il creatore cerca di convincere Truman a rimanere, con una logica che si può trovare in altri ottimi prodotti con una trama simile come Dogtooth (2009).

La bellezza della pellicola sta proprio nel fatto che non si vuole rappresentare Christof come una persona avida che vuole solo arricchirsi, ma, al contrario, come un uomo che si vede come un padre amorevole che cerca di proteggere il figlio.

Il tono

Jim Carrey Laura Linney e in una scena del film The Truman Show (1998) diretto da Peter Weir

Il tono di The Truman Show è ben calibrato.

Fra il grottesco e il surreale, soprattutto nei tentativi di Christof di impedire a Truman di scoprire la verità, portandolo al limite della follia. Scoprire di avere una vita costruita a tavolino, controllata in ogni particolare, in cui tutto però è fondamentalmente finto, pensato per un determinato scopo.

Così dall’altra parte avere la possibilità di avere uno sguardo quasi voyeuristico costantemente fisso sulla vita di una persona vera, che si percepisce come vicino a noi, anche se non la si conosce personalmente.

Il pubblico tenuto sulle spine fino all’ultimo e infine congedato con un finale consolatorio, dove Truman annuncia scherzosamente di andarsene, salutandoci. E a quel punto la chiusa perfetta: è finito il film, è finito questo The Truman Show, cosa danno sugli altri canali?

All’interno del film sono presenti diversi attori più o meno famosi che conosciamo soprattutto per prodotti televisivi successivi.

Uno dei poliziotti che guarda lo show è Joel McKinnon Miller, Scully nella serie Brooklyn 99, la moglie di Truman, Meryl, è Wendy della serie Ozark, la madre di Truman è Holland Taylor, Ellen nella miniserie di Netflix Hollywood, l’operatore che si vede sempre dietro le quinte è il caratterista Paul Giamatti, il creatore dello show è Ed Harris, un personaggio (di cui non posso dire di più) della prima stagione di Westworld.

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The mask – Il sogno di potenza

The Mask (1994) fu uno dei primi film di Jim Carrey, nonché una delle tre pellicole (insieme ad Ace ventura e Scemo & Più scemo, usciti lo stesso anno) che lo fece conoscere al grande pubblico.

Fu infatti un piccolo cult per i figli degli anni Ottanta-Novanta, e io stessa ricordo di averlo visto più e più volte, rimanendone sempre affascinata e divertita.

Non a caso fu un incredibile successo commerciale: 351 milioni di incasso contro un budget di circa 20 milioni.

Di cosa parla The Mask?

Stanley Ipkiss è un mediocre impiegato bancario, che vive di grandi sogni di successo, che però non riesce mai a realizzare. Troverà per caso una maschera che, se indossata, lo renderà un inguaribile rubacuori, capace di qualsiasi cosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.:

Vale la pena di guardare The Mask?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

In generale, sì.

Oltre ad essere uno dei film più famosi di Jim Carrey, è ancora una pellicola piacevole da guardare anche oggi, soprattutto se ci si approccia con l’idea di vedere un film di intrattenimento senza grandi pretese di originalità, ma totalmente retto sulle spalle di un giovane ma già incredibile Jim Carrey.

Quindi, se apprezzate i film comedy degli Anni Novanta, con tutte le loro esagerazioni e assurdità, e se soprattutto siete fan di Jim Carrey, guardatelo.

Perché The Mask divenne un cult?

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Le motivazioni del successo di The Mask in realtà non sono difficili da immaginare.

Anzitutto il film utilizza una tecnica molto comune di scegliere un protagonista che ricalchi le caratteristiche del target di riferimento. Infatti, Stanely rappresenta il topos dell’uomo medio, intrappolato nella sua mediocrità e incapacità di realizzarsi, pur avendo grandi sogni e speranze di successo.

E The Mask rappresenta il suo sogno di potenza: avere la possibilità di fare tutto, realizzare i suoi desideri più reconditi, che sono di fatto due: imporre la sua mascolinità sugli altri uomini superiori a lui e ottenere la ragazza dei sogni.

Così infatti la maschera dà la possibilità a Stanley ad avere la meglio sul borioso e viscido direttore di banca e di conquistare una splendida ragazza come Tina.

Non sei come gli altri

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Un altro trope piuttosto comune, e che si adatta sia ai personaggi maschili che femminili, è il tu non sei come gli altri.

Per i personaggi femminili di solito è una degradazione delle altre donne, disinibite e superficiali, mentre per i personaggi maschili è una dichiarazione di superiorità rispetto agli altri uomini, più potenti del protagonista, ma di minor valore.

Così ben due donne nel film dicono al protagonista che lui è speciale, che non è come gli altri, che è anzi un uomo romantico e sensibile come ogni donna vorrebbe. E anche questo è un sogno ricorrente: pensare di avere maggiori qualità degli altri uomini che raggiungono il successo e sperare che gli altri (soprattutto le donne da conquistare) se ne accorgano e ne rimangano ammaliati.

Semplicemente Jim Carrey

Jim Carrey in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

The Mask fu un ottimo banco di prova per Jim Carrey, al tempo ancora quasi sconosciuto. Nel film infatti, al di là delle poche reazioni in CGI, fu Jim Carrey, con la sua espressività esplosiva e coinvolgente, a conquistare il pubblico.

Quando veste i panni dell’uomo medio ha un’espressività più semplice, ma comunque molto convincente, mentre quando diventa The Mask è un personaggio al limite della follia e dove Carrey riesce a dare il meglio di sé.

Non ancora, secondo me, il miglior Jim Carrey, ma comunque un ottimo punto di partenza.

I limiti del film

Jim Carrey e Cameron Diaz in una scena del film The Mask (1994) diretto da Chuck Russell cult degli anni Novanta

Il film, anche per la sua semplicità, ha degli ovvi limiti.

Anzitutto, l’antagonista: oltre ad essere molto stereotipato, non riesce a diventare interessante e minaccioso quando indossa la maschera. Sembra anzi un altro personaggio totalmente, un mostro ancora più stereotipato. E infatti il suo screen time in quelle vesti è per fortuna molto limitato e la sua dipartita è altrettanto rapida, anche se piuttosto spassosa.

Così anche ovviamente il personaggio femminile, che è in tutto e per tutto una donna oggetto che esiste in funzione del sogno del protagonista. Lasciando anche da parte come il taglio erotico e abbastanza patetico con cui la regia la racconta, Tina è la classica donna bella e impossibile, ma alla fine si innamora comunque di Stanley e lo aiuta anche a realizzare il suo piano.

Ovviamente, all’interno della dinamica per cui la donna vive solo per essere oggetto del desiderio maschile, tutti i personaggi maschili sono pateticamente svenevoli quando appare. Ma stiamo parlando degli Anni Novanta: altri tempi, altra mentalità. E per quello che volevano fare, è un personaggio assolutamente azzeccato.

A differenza di come si pensi, nel film Jim Carrey non dice spumeggiante, ma sfumeggiante. Infatti, in inglese dice smoking, di cui sfumeggiante è la traduzione letterale.

Però sì, spumeggiante è molto più bello.

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Star Wars: Il ritorno dello Jedi – Un degno finale?

Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) è l’ultimo capitolo della trilogia originale di Star Wars, ovvero la prima uscita in ordine temporale. Dopo un ottimo inizio e un sequel ancora più convincente, George Lucas sarà riuscito a dare un degno finale alla sua storia?

Il successo di pubblico al tempo fu ampio, anche se economicamente minore rispetto al precedente film: solo 475 milioni con un budget di 32 milioni di dollari.

Sempre un grande successo, ma complessivamente un incasso inferiore.

Di cosa parla Star Wars: Il ritorno dello Jedi

La storia riprende le mosse dal precedente film: Luke e Leila devono salvare Han dalle grinfie del malefico Jabba The Hutt, orrendo mostro dalla forma di un verme gigantesco…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di guardare Star Wars: Il ritorno dello Jedi?

In generale, sì.

Per quanto devo dire che mi sia piaciuto leggermente di meno rispetto al capitolo precedente, è comunque un’ottima conclusione per la trilogia. Vengono lasciati aperti alcuni spunti per possibili sequel, ma la linea narrativa principale si conclude, con importanti colpi di scena e anche momenti piuttosto toccanti.

Quindi, se eravate indecisi se continuare a guardare Star Wars, non perdete altro tempo e recuperatevelo. Se invece non avete mai visto Star Wars, cosa ci fate qui? Ho scritto un articolo apposta per voi.

Una narrazione a tappe

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

A differenza del precedente capitolo, in questa pellicola la vicenda è piuttosto lineare, e si definisce secondo le diverse tappe o quest del protagonista.

Si comincia risolvendo il finale del film precedente, cui è legato il tentativo di salvataggio di Leila, seguito dall’intervento risolutivo di Luke. Tutto il piano presenta qualche ingenuità narrativa, ma è indubbiamente una costruzione della tensione piuttosto azzeccata.

La tappa successiva è dettata da Yoda, il quale, insieme al fantasma di Obi-Wan, rivela a Luke tutta la verità e gli assegna quindi la quest finale: affrontare Darth Vader e diventare finalmente un Cavaliere Jedi.

Il cammino dell’eroe

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Luke percorre un cammino dell’eroe piuttosto classico.

Raggiunge la consapevolezza della sua missione, si addestra e si mette in discussione, e infine sconfigge l’ultimo e peggiore nemico: suo padre.

In questo ultimo episodio Luke è assolutamente sicuro di se stesso, anche troppo. Infatti, per tutto il tempo minaccia gli antagonisti, si consegna volutamente, sicuro di essere capace di sconfiggerli e di portare a termine la sua missione.

E infatti così succede: però manca in parte per quel senso di fallibilità del protagonista che avrebbe potuto renderlo più tridimensionale.

Darth Vader: il villain incompreso

Sebastian Shaw in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Dart Vader è la parte migliore di Star Wars: Il ritorno dello Jedi.

In questo caso la sua spietatezza è poco raccontata, anzi è depotenziata dagli altri antagonisti messi in scena. Anzitutto, anche se indirettamente, da Jabba The Hutt, un essere disgustoso, che vive in un ambiente oscuro e spettrale, che usa le donne come schiave e che mangia animali vivi.

Un villain indiscutibile, insomma.

Così viene finalmente introdotto di persona Palpatine, un vecchietto apparentemente fragile, ma che, oltre a cercare di tentare malignamente Luke al lato oscuro, rivela infine i suoi terribili poteri. Il suo accanirsi su Luke è inoltre l’ultimo atto che convince Vader a rivoltarsi contro il suo maestro e salvare così il figlio.

Questo apparente climax della redenzione di Vader non è in realtà costruito al meglio, perché è rappresentato solo da Luke che insinua dei dubbi nella mente del padre, assolutamente sicuro della sua bontà.

E che infine ci riesce, con un atto definitivo che porta alla definitiva morte di Palpatine (e ci torniamo). Con, infine, la rivelazione del volto sofferente di Anakin Skywalker sotto la maschera, l’ultimo atto di riappacificazione col figlio.

Leila e la commedia degli equivoci

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

La trama di Leila e Han viaggia fra alti e bassi: sicuramente Leila, a differenza del precedente film, è un personaggio molto più attivo e interessante.

Prova a salvare il suo innamorato (pur essendo poi, giustamente, oscurata da Luke, l’eroe) e si salva da sola da Jabba, riuscendo persino ad ucciderlo. Insomma, ne esce come un personaggio rafforzato.

Per il rapporto con Han, ho apprezzato la dinamica scherzosa con cui Han dichiara il suo amore per Leila nello stesso modo in cui lei l’aveva dichiarato a lui alla fine dello scorso film. Tuttavia, non mi ha entusiasmato questa sorta di commedia degli equivoci che crea un apparente triangolo amoroso fra Luke, Leila e Han.

Soprattutto perché Leila non aveva veramente motivo di nascondere il trauma della parentela con Luke ad Han, anzi, visto il rapporto che si era creato fra loro due, aveva più senso che glielo rivelasse immediatamente.

Un evidente escamotage per creare tensione e zizzania nella coppia, che sembra altrimenti ormai consolidata. Tuttavia, bisogna riconoscere la maturità con cui Han si dimostra comunque comprensivo nei confronti di Leila, anche per l’eventuale relazione con Luke.

Un sequel inesistente?

Mark Hamill e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Il ritorno dello Jedi (1983) diretto da

Il film, come il primo, sembra lasciare delle porte aperte per eventuali sequel, dando diversi spunti, poi sviluppati in maniera forse diversa da come si immaginava all’inizio. I due spunti più importanti riguardano la sensibilità di Leila alla Forza e la missione di Luke di trasmettere la sua conoscenza come ultimo Jedi vivente.

La questione di Leila viene approfondita nell’Universo Espanso, ovvero nella pletora di opere derivate, nelle quali Leila viene addestrata come Jedi. Questo elemento viene richiamato molto goffamente all’inizio di quella porcheria di Star Wars: L’ascesa di Skywalker (2019), quando la Principessa addestra Rey off-screen.

Allo stesso modo la scuola Jedi di Luke viene accennata nella trilogia sequel e anche in The Book of Boba Fett, ma rivelandosi un progetto fallimentare che non porta a nulla se non a tornare al punto di partenza.

Sarebbe stato bello che invece questi spunti narrativi fossero stati esplorati in dei sequel degni di questo nome, invece che produrre dei prequel fallimentari e dei sequel che sono la brutta copia della trilogia originale.

retcon, che passione!

Come ogni saga di grande successo che si rispetti, Star Wars è piena di retcon.

Già solamente vedendo questo film, ne individuiamo tre.

Le prime due riguardano Bib Fortuna (il maggiordomo di Jabba) e Boba Fett, personaggio diventato iconico successivamente, in questa pellicola ancora un anonimo cacciatore di taglie.

Entrambi muoiono nella scena dell’esecuzione: Boba cade nel Sarlacc, Bib Fortuna muore nell’esplosione del palazzo di Jabba. E invece li ritroviamo entrambi nella serie The Book of Boba Fett.

Infine, la retcon più grande e peggio digerita di tutto Star Wars: Palpatine che ritorna in Star Wars: L’ascesa di Skywalker.

La sua sopravvivenza o rinascita che dir si voglia non a caso è spiegata in maniera molto fumosa: la scelta di includerlo nella pellicola fu una soluzione dell’ultimo minuto per riparare all’inaspettata morte del villain principale nel film precedente.

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Star Wars: L’impero colpisce ancora – L’inarrestabile ascesa

Star Wars – Episodio V: L’impero colpisce ancora (1980) è il secondo capitolo di una delle saghe più popolari e redditizie della storia del cinema.

Una pellicola aveva l’arduo compito di confermare l’enorme (e inaspettato) successo del primo film, la cui storia era conclusa, ma in realtà c’era ancora moltissimo da raccontare.

Ci è riuscito?

Già l’ottimo incasso di 538 milioni di dollari, a fronte di un budget di 18 milioni ce ne può dare un’idea…

Di cosa parla Star Wars: L’impero colpisce ancora

Nonostante la distruzione della Morte Nera, dopo tre anni l’Impero ancora furoreggia e dà la caccia ai membri della Ribellione. Troviamo i nostri protagonisti in una base segreta sul pianeta ghiacciato di Hoth, braccati dalle forze imperiali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Star Wars: L’impero colpisce ancora?

Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas Star Wars: L'impero colpisce ancora

Assolutamente sì.

Soprattutto se avete visto Star Wars: Una nuova speranza, il continuo della saga è assolutamente irrinunciabile: si conferma un ottimo prodotto di intrattenimento, che è riuscito perfettamente a utilizzare gli elementi del primo capitolo e ad introdurne altri in maniera perfettamente coerente.

Quindi, se vi è piaciuto il primo film, dovete assolutamente continuare. Se invece non avete mai approcciato Star Wars, cosa ci fate qui? Ho già scritto un articolo perfetto per voi!


La conferma

Peter Mayhew, Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena del film  Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Star Wars: L’impero colpisce ancora, come anticipato, è stato capace di confermare in maniera ottimale le dinamiche del primo capitolo. In particolare, l’incipit è ben pensato: rivediamo immediatamente i personaggi principali e veniamo reintrodotti nelle loro dinamiche relazionali.

Luke si dimostra ancora l’eroe della storia con la sua piccola avventura, da cui riesce parzialmente a salvarsi, per poi essere soccorso da Han, che sfida il clima avverso per andare a cercarlo, riconfermando così il loro rapporto di amicizia.

Al contempo Leila viene ancora (e per fortuna) raccontata come uno dei leader della Ribellione. Non manca anche il continuo della sottotrama amorosa e burrascosa fra lei e Han.

A differenza del primo capitolo seguiamo tre linee narrative, che alla fine si intersecano: l’avventura di Han, Leila e Chewbecca, l’addestramento di Luke e i piani di Darth Vader, che diventa molto più presente sulla scena.

Un film quindi molto più ricco e con una trama più articolata, con anche l’introduzione di nuovi elementi, divenuti immediatamente iconici.

Un cattivo stereotipato?

David Prowse in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Come detto, Darth Vader diventa un personaggio molto più centrale nella vicenda. Infatti, a differenza del primo capitolo, è l’unica persona al comando delle decisioni militari, mentre nel primo era affiancato da un villain secondario.

Sicuramente come personaggio presenta degli elementi che lo rendono abbastanza macchiettistico: la recitazione corporea, soprattutto nelle scene con Luke, è a tratti veramente stereotipata. Allo stesso modo è assolutamente e tremendamente spietato, senza che questo aspetto venga più di tanto approfondito.

Tuttavia, vediamo qualche sprazzo di maggiore interesse: vengono gettate le basi per raccontare la sua storia, poi effettivamente narrata nella trilogia prequel, e si approfondisce maggiormente la questione del Lato Oscuro della Forza. Inoltre, per la prima volta sbirciamo sotto al suo casco e scopriamo un personaggio misterioso e solitario, nonché estremamente intrigante.

Nel complesso un cattivo abbastanza tipico, ma che appare più tridimensionale rispetto al primo capitolo.

La storia di Luke

Mark Hamill e Frank Oz Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

L’addestramento di Luke è una delle parti più iconiche dell’intera saga, che si è poi tentato maldestramente di replicare nella trilogia sequel, e che è stata citata in infiniti prodotti successivi, fra cui ovviamente Kung fu Panda (2008).

Yoda appare inizialmente come un vecchietto esuberante e bizzarro, ai limiti del grottesco. Tuttavia, man mano prosegue il film, il personaggio si avvicina sempre di più alla figura del saggio maestro, guida del protagonista.

La parte dell’addestramento è gestita molto bene, soprattutto perché getta un’ombra su Luke, così impaziente di mettersi in gioco per usare la Forza, esponendosi facilmente al Lato Oscuro come suo padre prima di lui.

Io sono tuo padre

In particolare, splendida la scena, quasi onirica e davvero inquietante, in cui Luke deve affrontare i suoi demoni e vede se stesso dentro al casco distrutto di Vader: uno splendido foreshadowing della rivelazione principale della pellicola.

La rivelazione sulla parentela fra Darth Vader e Luke è sicuramente uno dei più famosi colpi di scena della storia del cinema, nonché uno dei peggio citati: Vader non dice Luke, io sono tuo padre, ma No, io sono tuo padre.

In generale una scelta decisamente indovinata per legare ancora più strettamente l’eroe ed il suo antagonista, con un’ulteriore svolta di trama nel prossimo film (che non vi spoilero). In questo modo si è evitato di ridurre Vader ad un villain anonimo e semplicemente cattivo, senza altro da raccontare.

Leila e il rapporto con Han

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il personaggio di Leila, per quanto mi fosse piaciuto nel primo capitolo, in questo caso mi è parso che abbia fatto un passo indietro. Infatti, nonostante la recitazione di Carrie Fisher sia complessivamente migliorata, la sua storia è maggiormente legata al rapporto con Han piuttosto che alle vicende chiave della pellicola.

In generale rimane sempre un personaggio relegato alle retrovie della narrazione nei momenti principali e che appunto partecipa molto di meno alle scene d’azione rispetto al primo capitolo. Oltre a questo, il suo rapporto con Han, per quanto fosse stato ben introdotto, non viene a mio parere sviluppato al meglio.

Carrie Fisher e Harrison Ford in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Il rapporto fra i due viene raccontato all’inizio in maniera giocosa, con Han che la provoca costantemente. Tuttavia, quasi da un momento all’altro, i due si baciano. E da lì il loro rapporto diventa ben più serio e maturo, con anche la dichiarazione d’amore finale, la quale mi è parsa non adeguatamente preparata.

Nel complesso il loro rapporto non mi dispiace del tutto, ma avrei preferito per l’appunto che fosse costruito decisamente meglio. Considerando anche che il comportamento di Han muta da un momento all’altro nella pellicola, rendendolo come detto più serio e maturo nel suo rapporto con Leila, ma senza che ci sia stata una crescita effettiva del suo personaggio.

Un finale aperto

Carrie Fisher e Mark Hamill in una scena del film Star Wars: L'impero colpisce ancora (1980) diretto da George Lucas

Una cosa che sinceramente non mi ricordavo per nulla di questa pellicola è quanto fosse aperto il finale e quante cose fossero rimandate al film successivo.

Un’ottima scelta all’interno del secondo capitolo di una trilogia, che permette di dare un senso di continuità fra le due pellicole, evitando al contempo un finale raffazzonato e troppo improvviso.

Vediamo se la prossima pellicola confermerà questo andamento positivo.

May the force be with you!

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Star Wars: Una nuova speranza – Un inizio vincente

Star Wars Episodio IV – Una nuova speranza (1977) è il primo capitolo di una delle saghe cinematografiche più di culto e redditizie della storia del cinema. Non a caso è considerato il primo blockbuster, ovvero un film pensato per il più ampio pubblico possibile.

A fronte di una produzione di medie dimensioni – appena 11 milioni (circa 55 ad oggi), che fu immediatamente un incredibile successo commerciale e di pubblico, con 775 milioni di incasso.

Questo articolo è anch’esso un blockbuster, pensato per tutti.

Se sei totalmente digiuno di Star Wars, continua a leggere. Se sai già di cosa si parla, clicca qui per passare alla parte specifica.

La struttura della saga

Star Wars è una saga cinematografica che prosegue da oltre cinquant’anni, articolata (finora) in nove capitoli, raggruppati in tre trilogie. Questo senza considerare tutti i prodotti satellite (serie tv, fumetti ecc.), che però non sono essenziali per capire la saga principale.

La trilogia originale (Episodi IV, V, VI), che è il nucleo fondamentale della vicenda, nonché la prima ad essere uscita a livello temporale (1977-83).

La successiva trilogia prequel (Episodi I, II, III) racconta gli avvenimenti precedenti alla trilogia originale e che è uscita circa vent’anni dopo (1999-2005).

La trilogia sequel (Episodi VII, VIII, IX) racconta gli avvenimenti successivi alla trilogia originale e che è l’ultima uscita a livello temporale (2015-2019).

Perché questo ordine strano?

Harrison Ford e Peter Mayhew in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Questo ordine strano, in cui i film usciti prima (Episodio IV, V, VI) sembrano successivi a quelli che arrivarono in sala successivamente (Episodio I, II, II) è dovuto ad una precisa scelta produttiva e di marketing.

Infarti George Lucas, la mente dietro al progetto, inizialmente chiamò il film del 1977 semplicemente Star Wars. Solamente dopo, davanti all’enorme successo e al progetto di far uscire la trilogia prequel, decise di riordinare i film in questo modo.

Ma quindi, di cosa parla Star Wars?

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Senza andare troppo nello specifico, Star Wars racconta di un mondo immaginario in una galassia lontana lontana, dove i viaggi interplanetari sono la norma e dove robot, umani ed alieni vivono insieme su vari pianeti.

Detto proprio in soldoni, la trama ruota intorno ai Cavalieri Jedi, figure che hanno sorti alterne nella saga, ma che sostanzialmente combattono con le spade laser e sono capaci di controllare la Forza.

La Forza è un campo di energia mistico che pervade tutte le cose e che permette, a chi sa controllarla, di avere poteri telecinetici e di dominio della mente, fra le altre cose.

Ma ora passiamo alla domanda fondamentale.

Ha senso guardare Star Wars?

Harrison Ford, Carrie Fisher e Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

La risposta più semplice è sì.

Nello specifico, è una serie di film che non può mancare nel vostro bagaglio culturale, tale è la sua portata storica. Inoltre, dal punto di vista intrattenitivo, almeno per la trilogia originale, si tratta di prodotti di intrattenimento assolutamente godibili anche oggi.

Tuttavia, ci sono molti motivi per cui queste pellicole potrebbero non piacervi. Anzitutto, dovete apprezzare un certo tipo di fantascienza vecchio stile, Anni Settanta-Ottanta appunto, con un’estetica che sembrava già vecchia al tempo.

Inoltre, non aspettatevi film di grande profondità, come Blade Runner (1982), ma prodotti con una trama abbastanza semplice, quasi archetipica.

Come guardare Star Wars

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Diffidate dai pazzi che vi dicono di guardare i film nell’ordine temporale e non di uscita: oltre al fatto che il livello della trilogia prequel è decisamente più basso di quello della trilogia originale, e quindi non è il miglior primo approccio alla saga, è una strategia assolutamente senza senso.

La trilogia prequel è infatti totalmente dipendente dalla trilogia originale, mentre non vale il contrario. Infatti, la visione della trilogia prequel presuppone la conoscenza dei film usciti precedentemente.

Con questa strategia andreste solo in confusione.

Per questo vi dico: guardate i film in ordine di uscita. Poi, se proprio ve la sentite, potete provare pure la follia di guardarli in ordine cronologico. Se invece volete giusto l’essenziale della saga, limitatevi alla trilogia originale, considerata universalmente la migliore.

Se invece volete vederla tutta, che la forza sia con voi!

Di cosa parla Star Wars – Una nuova speranza?

In una galassia lontana lontana, l’universo è oppresso dalla tirannia dell’Impero, ma un gruppo di ribelli gli si oppone. La navicella della Principessa Leila viene attaccata dalle forze imperiali. Prima di essere catturata, la nostra eroina riesce a mandare un messaggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Star Wars è il primo blockbuster

Lasciando da parte Lo squalo (1975), che è considerabile più il primo film evento, Star Wars: Una nuova speranza è considerato il primo blockbuster perché, come detto, è stato il primo film pensato per portare in sala il più ampio pubblico possibile.

Infatti, al suo interno troviamo personaggi e situazioni per tutti i palati: un eroe, un’eroina, una spalla comica e sex-symbol, una storia d’amore e dei simpatici personaggi secondari (R2-D2 e C3P-O), funzionali ad attrarre il pubblico di giovanissimi, nonché futuri acquirenti del merchandising.

E infatti è questo l’ulteriore motivo per cui questa pellicola è considerabile il primo blockbuster: fu il primo prodotto che ebbe un’importante produzione e vendita di merchandising, quindi un’altra vita oltre la sala, più di qualunque altro film prima.

Un trio vincente

Mark Hamill in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

Il trio di protagonisti della storia è assolutamente vincente, perché appunto riesce ad intercettare i più diversi pubblici.

Anzitutto Luke, protagonista perfetto anche solo per come si viene inizialmente presentato, raccontando, con le dovute differenze, i sentimenti e la condizione dello spettatore medio di questo genere di film al tempo.

È infatti un ragazzo giovane, pieno di sogni e speranze, che vorrebbe allontanarsi dalla sua casa natale per farsi una vita altrove.

Carrie Fisher in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

In secondo luogo Leila, uno dei primi personaggi femminili interessanti per il cinema mainstream: per quanto sia comunque una donna da salvare, nonché oggetto del desiderio dei due personaggi maschili, è comunque un personaggio attivo, che utilizza un’arma e che partecipa all’azione.

Insomma, niente di scontato per il tempo. Certe volte è sicuramente troppo sopra le righe, complice anche l’evidente inesperienza dell’attrice, ma è complessivamente un buon personaggio.

Harrison Ford in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

In ultimo, Han Solo, la controparte maschile più adulta di Luke: apparentemente spaccone e egoista, si rivela infine un personaggio positivo. Ed è, insieme a Chewbecca, la spalla comica del protagonista.

Questo personaggio fu fra l’altro la rampa di lancio per Harrison Ford, che andò a ricoprire anche altri ruoli iconici per gli Anni Ottanta e Novanta, fra cui Indiana Jones e Rick Deckard in Blade Runner (1982).

I cattivi senza volto

La rappresentazione dei villain è da manuale: anzitutto gli stormtrooper, tutti uguali e senza volto, che nelle scene di combattimento sono sostanzialmente indistinguibili. Insomma, personaggi con cui difficilmente si può empatizzare, a differenza delle controparti positive, che sono generalmente riconoscibili e a volto scoperto.

Una tecnica semplice, ma assolutamente efficace.

Anche Darth Vader ha il volto mascherato, ma per motivi leggermente diversi: sicuramente per renderlo emotivamente inaccessibile come personaggio (e infatti questo elemento sarà determinante nell’ultimo capitolo della trilogia), ma soprattutto perché la sua maschera lo rende una figura aliena e minacciosa.

Più in generale, gli antagonisti presentano un atteggiamento ed un abbigliamento rigido e militare, con una predominanza di colori scuri, contro i colori chiari e rassicuranti dei personaggi positivi.

Buona comicità e buona struttura

Anthony Daniels nei panni di C-3PO in una scena del film Star Wars: Una nuova speranza (1977) diretto da George Lucas

La comicità di Star Wars: Una nuova speranza non è mai ingombrante, ma anzi calibrata e circoscritta a pochi personaggi chiave.

Fra questi, ovviamente C3P-O, personaggio che rappresenta un maggiordomo inglese del tutto stereotipato, ma assolutamente spassoso. Soprattutto per le sue interazioni con R2-D2, che li rendono una coppia irresistibile.

Inoltre, la pellicola gode di una struttura narrativa complessivamente solida, per via anche dell’estrema semplicità della trama: quasi una favola, con una principessa da salvare, un cattivo da sconfiggere e una missione da portare a termine.

Un altro elemento vincente di Star Wars: Una nuova speranza, e di Star Wars in generale, è l’intersezione fra diversi generi: come ci ha ben insegnato in questi anni l’MCU, coprendo diversi generi cinematografici si può ottenere un prodotto che porta in sala un pubblico ampissimo.

Così in questa pellicola troviamo non solo la fantascienza, ma anche l’avventura, l’azione e la trama romantica.

La bellezza di questo film è inoltre quella di lasciare tutto aperto e chiuso allo stesso tempo: nel complesso la vicenda arriva ad una conclusione, ma lascia volutamente molte porte aperte per uno sviluppo ulteriore.

Come, per fortuna, accadde.

May the force be with you!

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Little Miss Sunshine – Vincere a tutti i costi

Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris, è un piccolo cult di inizio Anni 2000.

Non a caso, a fronte di un budget risicatissimo – appena 8 milioni di dollari – sbancò i botteghini internazionali con 108 milioni di incasso, e fu candidato a tre premi Oscar, vincendone due.

Di cosa parla Little Miss Sunshine?

Una piccola famiglia della classe media affronta un viaggio improvviso per accompagnare la piccola Ollie. In questa occasione ogni personaggio svilupperà il proprio percorso, con piccoli e grandi drammi personali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Little Miss Sunshine?

Assolutamente sì.

Little Miss Sunshine divenne un cult all’epoca per tanti motivi.

Prima di tutto, è un film davvero ben scritto, che porta in scena alternativamente momenti incredibilmente divertenti, sia sequenze assai drammatiche, con sempre un’importante riflessione di fondo.

Un prodotto da recuperare assolutamente, per ridere, piangere e appassionarsi sinceramente alle storie dei personaggi, oltre che per venire vicino ad un mondo e ad una cultura che sono dominanti nel panorama internazionale, ma molto diversi dalla nostra cultura europea.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Vincere e perdere

Abigail Breslin, Toni Colette, Steve Carelle e Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

La bellezza di Little Miss Sunshine risiede soprattutto la sua capacità di raccontare una storia davvero corale, dove ogni personaggio è tridimensionale e ha un’evoluzione avvincente.

Non a caso il film si apre con una piccola carrellata di scene di presentazione di tutti i personaggi ed il loro arco narrativo.

La piccola Olive e il suo sogno, il padre e il suo corso di life coaching, il fratello e la sua sfida, il nonno e la dipendenza dalle droghe, la madre che è il suo rapporto difficile col fratello, e infine il fratello suicida.

Il tema principale, come anticipato, è la cultura della vittoria. Vincere, vincere per forza, unica cosa che conta, come ben si vede dalle prime due scene: Olive che guarda e sogna la vittoria come reginetta di bellezza e il padre che racconta come si può essere o vincitori o perdenti. E bisogna essere vincitori.

E infatti ogni personaggio riesce a vincere e a perdere la sua battaglia personale.

Olive Little Miss Sunshine

Olive è una bambina di appena sette anni, eppure è il perno dell’intera pellicola.

Vediamo molto spesso il tutto dal suo punto di vista, che riesce ad empatizzare, nonché a venire in aiuto degli altri personaggi: Frank e il suo dramma personale, così il fratello Dwayne e la sua sconfitta.

Il sogno di Olive non è realmente quello di vincere per essere bella, ma di vincere per divertirsi. Tuttavia non è, pur ingenuamente, estranea a tutte le pressioni sociali che vogliono che lei sia bella, magra e già perfetta.

Emblematica in questo senso la scena in cui il padre cerca di convincerla a non mangiare il gelato per non ingrassare, così come quelle in cui si guarda allo specchio, più di una volta, preoccupandosi di non essere abbastanza bella.

Sono bella?

Abigail Breslin in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Effettivamente Olive non è una ragazzina convenzionalmente bella: è una bambina come tante, con un aspetto nella media, che non cerca di essere niente di più bello o di diverso dalla sua età.

Ma è comunque appunto influenzata dagli stimoli esterni del mondo degli adulti, tanto che chiede al nonno se lei è effettivamente bella e se riuscirà a vincere. Tuttavia, solo delle ansie derivate esternamente, non qualcosa che nasce naturalmente da lei.

La drammatica realtà è che se Olive non avesse le influenze positive di alcuni membri della sua famiglia, in poco tempo sarebbe caduta in un disturbo alimentare, come altre ragazzine prima di lei.

Frank Little Miss Sunshine

Frank è un perdente, sia per come si sente, sia perché non riesce a vincere il suo onore e andare avanti con la propria vita.

Non riesce a lasciare da parte il più grande traguardo della propria vita, l’unica cosa con cui riesce a definirsi.

E infatti alla fine il motivo vero del suo tentato suicidio non è né un amore fallito né aver perso il lavoro, ma aver perso il suo riconoscimento, che ribadisce (anche se scherzosamente), in altri momenti della pellicola.

La vittoria di Frank è riuscire a trovare una nuova identità, a capire di essere una persona completa anche senza essere riconosciuto come vincente. E riesce a riconoscersi in un nuovo contesto e un nuovo obbiettivo: la sua famiglia.

Non a caso è il primo a correre verso l’hotel del concorso.

E, non a caso, quando vede sul giornale il suo rivale riconosciuto con il premio che lui pensa che gli sia dovuto, lo mette via con solo una smorfia di disappunto, ma, infine, di accettazione.

Dwayne Litte Miss Sunshine

Dwayne è in una crisi esistenziale estrema.

Sente di odiare profondamente la sua famiglia e porta testardamente avanti l’obbiettivo di liberarsi dalla stessa.

Ma, in realtà, c’è una persona a cui non può odiare: Olive. Non è un caso infatti che sia Dwayne sia quello che si accorge della mancanza della sorella quando questa viene dimenticata alla stazione di servizio

E così Olive è l’unica persona che riesce veramente, e senza una parola, a convincerlo a tornare dalla famiglia quando Dwayne ha la sua crisi. E infine il ragazzo, come Frank, accetta che, anche se non verrà riconosciuto come quello che vorrebbe essere dagli altri, potrà comunque fare quello che lo renderà felice.

E questo senza doversi isolare da tutti, anzi preoccupandosi sinceramente per la sorella.

Il nonno Litte Miss Sunshine

Il nonno vuole vincere la sua libertà.

La libertà di vivere come vuole, anche in modo non accettato dalla società purista americana. E continua a farlo, nonostante le conseguenze, e fino alla fine. E alla fine muore, ma felicemente.

Insieme a Sheryl, il nonno è uno degli elementi di unione e un motore dell’azione, sia da vivo che da morto. Infatti il climax finale del ballo della famiglia, una danza gioiosa di unione, è merito della sfacciataggine del nonno.

La famiglia riesce a proseguire il viaggio, nonostante il cadavere nel bagagliaio, per le riviste pornografiche che il nonno ha acquistato. E tutta la vicenda è messa in moto dallo stesso, che aiuta la nipote nel suo spettacolo.

Richard Little Miss Sunshine

Richard è l’elemento più problematico del film.

Impulsivo, ossessionato dal sogno americano di vincere o perdere.

Senza vie di mezzo.

Durante la pellicola deve tuttavia prendere delle decisioni importanti, che gli fanno mettere in discussione i suoi valori. In particolare il momento di consapevolezza avviene durante il concorso di bellezza.

Guardando quelle bambine truccate e sessualizzate all’inverosimile, capisce che non vale sempre la pena vincere sempre, che sua figlia non deve per forza gareggiare, se sono queste le condizioni.

E infine anche lui sceglie la propria famiglia, proteggendo la figlia e intervenendo per primo per aprire la danza finale, nonostante sa che così verrà definitivamente escluso ed umiliato.

Ma ormai non è più importante.

Sheryl Little Miss Sunshine

Sheryl è una donna forte, coi piedi ben piantati a terra, che cerca di unire la famiglia.

La sua vittoria, alla fine, è riuscire a riportare insieme i suoi familiari, come cerca di fare per tutta la pellicola: riprende Richard quando intimorisce Olive, cerca di aiutare Frank, cerca in tutti i modi di ricongiungersi con Dwayne quando perde la testa e, alla fine, sostiene tutti sulle sue spalle.

È davvero il collante del gruppo.

È forse il personaggio che vince di più di tutti: riesce a vedere la famiglia finalmente e davvero unita, come avrebbe voluto, e per questo chiude le danze, correndo felice verso la figlia.

Vincere da subito

Little miss sunshine

Il tema principale della pellicola è ben esplicitato dal concorso stesso, che rappresenta l’atto conclusivo nonché il punto di arrivo del climax dell’intera pellicola.

Può sembrare eccessivo ed esagerato, ma è invece tremendamente reale.

L’ultimo tassello nel mosaico della cultura della vittoria a tutti i costi degli Stati Uniti, quando fin da giovanissimi si viene messi in competizione. Vestiti da adulti, costretti a diventare degli oggetti di scena, principalmente a favore dei genitori stessi e del ritorno economico che ne può derivare.

Little miss sunshine

Ci sono state molte discussioni, soprattutto ai tempi, sulla questione dei concorsi di bellezza.

La maggiore questione è che queste occasioni rappresentavano (e rappresentano) perfettamente il sogno americano. Non seguono infatti grandi capitali per accedervi, basta essere abbastanza belli e saper fare qualcosa di interessante, soprattutto nei circuiti più bassi.

E infatti le facce delle persone del pubblico sono facce assolutamente normali e ordinarie.

L’ipocrisia

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Little Miss Sunshine mette bene in scena la sessualizzazione rasente alla pedofilia di questi concorsi, con ragazzine truccate e acconciate come modelle, eroicizzate al limite del sopportabile ed estremamente ammiccanti.

Non a caso è emblematica la faccia del padre quando vede lo spettacolo, profondamente a disagio, come ogni persona di buon senso si sentirebbe.

E così lo spettatore con lui.

E quindi l’ipocrisia sta nel fatto che, quando una bambina fa qualcosa di effettivamente erotico e apparentemente volgare, in realtà semplicemente divertendosi nella sua ingenuità dei sette anni, è assolutamente inaccettabile.

Vivere di espedienti

Greg Kinnear in una scena del film Little miss sunshine (2006)

Come la maggior parte della classe media statunitense e delle persone che partecipano a questo tipo di concorsi, la famiglia della pellicola è in difficoltà economica. Deve sempre vivere di espedienti e soluzioni dell’ultimo minuto per andare avanti, faticosamente, perdendo ogni energia.

Perché se ci si arrende si è, appunto, dei perdenti.

Così non possono lasciare Frank in ospedale per farsi curare adeguatamente perché non c’è l’assicurazione sanitaria adatta. Non possono prendere un aereo per andare in California, non possono permettersi un’alternativa all’auto rotta. In ogni modo devo mettersi insieme, mettersi in strada.

Il viaggio e tutti i suoi ostacoli rappresentano perfettamente come è la loro vita: un imprevisto dietro l’altro, a cui non sono sempre pronti a rispondere.

Bonus

Breaking bad, sei tu?

In Little Miss Sunshine ci sono dei collegamenti involontari alla serie Breaking bad, che esordì sui nostri schermi due anni dopo.

Anzitutto, la famiglia abita ad Albuquerque, dove si svolge anche la serie tv. Inoltre nel film appaiono per dei camei Bryan Cranston come Stan, il collega del padre e Dean Norris, come il poliziotto che li ferma in autostrada.

Rispettivamente Walter White e Hank Schrade, due dei personaggi principali della serie cult, che i fan di Breaking bad non potranno non riconoscere.