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Dramma storico Drammatico Film L'ultima fatica di David Fincher

Mank – Il picco di complessità

Mank (2020) è l’ultimo film (finora) diretto da David Fincher, il primo ad arrivare quasi esclusivamente in streaming.

Tuttavia, ha incassato sorprendentemente bene: ben 100 milioni di dollari, a fronte di un budget di 25 milioni.

Di cosa parla Mank?

Herman Mankiewicz è un ottimo sceneggiatore, ma è anche fortemente detestato nell’ambiente. Si imbarca nella sua ultima, grande avventura: scrivere la sceneggiatura del primo film di un certo Orson Welles…

Vale la pena di vedere Mank?

Gary Oldman in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Dipende.

David Fincher rimane indubbiamente un ottimo regista, e a livello artistico è sempre superlativo. Tuttavia, è uno dei suoi pochi film che non mi ha quasi per nulla entusiasmato. Per vari motivi, ma principalmente perché – per sua stessa ammissione – è una pellicola incredibilmente verbosa e forse la più complessa della sua produzione.

Questo non vuol dire che non possa piacervi: come detto, la tecnica è sempre superba e la storia, soprattutto se siete appassionati del periodo storico e politico rappresentato – gli Stati Uniti degli Anni Trenta – potrebbe piacervi moltissimo. Altrimenti, è anche facile che vi perdiate nella sua pedante complessità…

Quando c’è la tecnica…

Tom Burke in una scena di Mank (2020) di David Fincher

David Fincher è sempre un autore impeccabile.

Persino nelle opere della sua produzione per me poco entusiasmanti, non mi ha mai deluso dal punto di vista registico. La sua presenza dietro la macchina da presa assicura sempre una tecnica sublime, curata ed elegante. E anche nel caso Mank non è assolutamente da meno.

In questo caso Fincher cerca di mimare proprio la regia di Orson Welles e in particolare quella – ovviamente – di Quarto potere (1941). E, almeno a livello tecnico, riesce a non essere da meno rispetto ad uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.

E quando c’è la tecnica…

…non sempre basta

Amanda Seyfried in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Mank non mima solamente la regia di Quarto potere.

L’opera prima di Welles, nonostante sia stata assolutamente rivoluzionaria dal punto di vista tecnico – il primo uso consapevole della profondità di campo – è un’opera che personalmente trovo davvero pesante.

E così anche Mank è incredibilmente e, per certi versi, inutilmente, complesso: l’alternanza fra presente e passato è in realtà ben calibrata, ma riuscire a seguire la rete intricata di eventi e la totale verbosità delle scene è stato un vero incubo.

Tanto più che il film si basa sulla consapevolezza del futuro, cercando di farci immergere nelle conversazioni ingenue di persone del tutto ignare degli eventi di portata epocale che da lì a poco avrebbero sconvolto l’umanità.

Io, personalmente, non sono riuscita ad immergermi.

La morale

Gary Oldman e Tuppence Middleton in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Un aspetto che mi è sempre piaciuto dei progetti di Fincher è la morale.

In questo caso, la morale del film è legata alla parabola della organ grinder’s monkey, letteralmente la scimmia dell’arrotino, simbolo di una persona che vive a fianco dei potenti, ma non ha effettivamente un ruolo di potere.

E così è infatti il ruolo di Mank.

Nonostante fosse un ottimo sceneggiatore, nonostante avesse cercato di forzare la mano sulla sua posizione, alla fine si era ritrovato con un nulla di fatto, senza mai riuscire ad avere un ruolo veramente importante, anzi finendo del tutto escluso dal mondo del cinema.

Una morale indubbiamente interessante, ma forse quella meno graffiante fra quelle proposte nella cinematografia di Fincher, tanto più per il suo essere basata su una tesi la cui veridicità storica è molto dubbia, ovvero quella secondo la quale Mank sarebbe stato l’unico autore della sceneggiatura di Quarto potere...

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Avventura David Fincher Dramma familiare Drammatico Film Thriller

Gone girl – Un thriller atipico

Gone girl (2014) di David Fincher è un thriller atipico, che permise al regista di tornare su pattern per lui più consueti, dopo Millennium – Uomini che odiano le donne (2011) – un remake piuttosto discutibile.

La pellicola fu anche il più grande successo commerciale della sua carriera: a fronte di un budget comunque consistente – 61 milioni di dollari – ne incassò quasi 370 in tutto il mondo.

Di cosa parla Gone girl?

Dopo una giornata come tante, Nick torna a casa e trova una situazione inaspettata: un silenzio funebre e un tavolo distrutto a terra. E da lì parte una vicenda piena di colpi di scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gone girl?

Assolutamente sì.

Gone girl è uno dei miei film preferiti di David Fincher, uno di quei registi che si migliora film dopo film – nonostante qualche capitombolo sulla strada. Una regia elegante, una fotografia enigmatica e quasi lugubre, con due attori protagonisti perfettamente in parte.

Una pellicola che al contempo porta uno spunto interessante per riflettere sulla società odierna e su quanto l’immagine pubblica sia spesso fondamentale per l’evoluzione per cambiare le sorti stesse di una persona, di come la verità possa essere manipolata più facilmente di quanto si pensi…

Un matrimonio come tanti

La storia di Amy e Nick è sorprendentemente breve.

Solo cinque anni, in cui la loro relazione passa dall’essere un sogno romantico, che sembra risolvere anche emotivamente la difficile situazione familiare di Amy, a prendere vie ben più tragiche, facendo anche emergere la vera natura dei suoi protagonisti.

In realtà, come tipico in ambito statunitense, la coppia si è sposata molto presto con l’idea di sistemarsi in fretta, ma scoprendo altrettanto in fretta come la luna di miele iniziale non era altro che un sogno.

In generale tutti i problemi della coppia ruotano intorno alla famiglia: i contrasti nascono per le intromissioni – volute o meno – dei rispettivi genitori. Prima Amy deve concedere una grossa somma di soldi ai suoi genitori senza chiederlo a Nick, azione che porta lo stesso ad una ripicca piuttosto infantile.

E poi tutto crolla definitivamente quando Amy deve del tutto allontanarsi dal suo habitat, e andarsi ad incastrare in un contesto che non le appartiene per nulla: la realtà suburbana, a cui Nick invece è molto legato.

Da quel momento diventa un’ombra nella vita del marito, che decide di andare a cercare la sua felicità altrove. E il suo tentativo di concludere definitivamente la relazione è il trigger definitivo per il piano che Amy aveva già da tempo in mente.

Scrivere una buona storia

Il piano di Amy è perfetto.

Si comincia con una riscrittura della loro storia: basta scrivere un diario particolarmente toccante, dove si mischia verità e fantasia, riempiendolo di elementi per la maggior parte impossibili da provare.

E allo stesso modo ricostruisce l’identità di Nick, basandosi su tratti in realtà già esistenti, e aggravandoli: le sue mani bucate, il suo tradimento, la sua violenza. Fino ad arrivare alla colpevolezza per omicidio.

Tutti i pezzi sono perfettamente posizionati sulla scacchiera.

E Nick non è un avversario degno.

Infatti, il marito è totalmente ignaro delle intenzioni della moglie, totalmente incapace di evitare gli ostacoli perfettamente costruiti che lei gli ha posto lungo la strada. Anzi vi inciampa più e più volte, in maniera ogni volta più sospettosa

Ed è ancora più fallibile tanto più le sue colpe erano effettivamente esistenti: era effettivamente un marito assente, adultero e del tutto ignaro di come la moglie passasse il suo tempo. E una volta le aveva davvero messo le mani addosso…

Ma Nick in parte riesce a salvarsi.

Un nuovo piano

Amy non è infallibile.

Anche se sembra assolutamente determinata a compiere fino alla fine la sua vendetta, non è preparata agli imprevisti. E così il suo assumere un’altra identità fallisce, e si trova spogliata, derubata. E deve passare ad un piano alternativo.

Inizialmente Amy sembra in un limbo, insicura sul da farsi: ancora per qualche scena sceglie di rimanere con l’aspetto della non-Amy, nonostante le insistenze di Desi.

E con la stessa butta le prime carte in tavola e lo circuisce con grande semplicità: basta ripetere la storia strappalacrime creata ad arte, già sperimentata e già funzionante.

Ma Nick le fa cambiare idea.

Per farla tornare da lui ed evitare la sedia elettrica, Nick prende le vesti di quel marito perfetto e premuroso che Amy ricercava in lui, anche solo nelle apparenze. E funziona.

Quindi Amy medita un nuovo piano, il cui primo atto è diventare la compagnia piacente e desiderabile per Desi: si taglia i capelli, sceglie un biondo freddo e tagliente, indossa solamente lingerie sensuale. E recita perfettamente la parte della vittima.

E poi, con una mossa fulminea, uccide l’uomo che si era davvero fidato di lei.

Troppo tardi

Amy ritorna a casa.

In un altro contesto, la sua storia sarebbe stata immediatamente verificata e messa in dubbio in più punti – e con convinzione.

Invece Amy si mette addosso le vesti della martire e gioca benissimo con quanto che aveva già costruito finora: la moglie tradita e maltrattata, che si è salvata da sola e vuole ricostruire il proprio matrimonio.

Nonostante evidentemente nulla torni.

Ma la pressione mediatica è così forte che Amy si sente totalmente al sicuro nel mettere in scena la facciata piuttosto convincente del matrimonio perfetto, che in realtà nasconde lo stesso incubo che lei aveva raccontato nel diario, ma a parti invertite.

E Nick non può scappare…

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Biopic David Fincher Drammatico Film I miei comfort movie Legal drama

The Social Network – Unfriend?

The Social Network (2010) di David Fincher, nonostante non sia magari il suo film migliore, è in assoluto il mio preferito della sua produzione. Sarà per la regia impeccabile, l’eleganza della messinscena, la scrittura perfetta di Aaron Sorkin…comunque io lo rivedo sempre con estremo piacere.

A fronte di un budget non indifferente – 40 milioni di dollari – incassò piuttosto bene: quasi 225 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Social Network?

Dietro ogni grande uomo, c’è un grande dramma: il racconto della creazione del più importante (?) social media, Facebook, e della turbolenta storia di Mark Zuckerberg. Ovviamente, piuttosto romanzata.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Social Network?

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Assolutamente sì.

Ovviamente sono molto di parte, ma è innegabile che The Social Network goda di una scrittura sublime e di una regia attenta e curata, con un approfondimento interessantissimo dei personaggi – pur nel suo voler romanzare moltissimo la vicenda.

Un casting praticamente perfetto, con attori che sembrano essere nati per il ruolo – in particolare Andrew Garfield in una delle sue migliori interpretazioni. Una vicenda appassionante, che non vive di divisioni nette, ma di un’interessantissima scala di grigi che, arrivati alla conclusione, lascia uno strano sapore amaro in bocca…

Una fredda cornice

Andrew Garfield in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Uno degli elementi che apprezzo di più della pellicola è la scelta della cornice.

Apparentemente è la parte più fredda del film, in cui i protagonisti devono ripercorrere le loro vicende davanti a dei rigidi burocrati. Ed invece è proprio qui che si dà un maggiore spazio alla loro emotività più profonda.

Infatti, nei flashback per la maggior parte del tempo i personaggi, nonostante abbiano davanti agli occhi tutti i segni della distruzione imminente, continuano ad essere speranzosi e propositivi.

Sembra infatti esserci sempre lo spazio per tornare sui propri passi, per tenere in piedi un rapporto che si sta lentamente sgretolando…

Nel presente è tutto il contrario.

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Nel presente del processo ormai tutti i giochi sono fatti, tutte le carte sono state svelate: non c’è possibilità di risolvere nulla, ma piuttosto di sfogarsi, e fare in modo che questi sfoghi e questi torti trovino un riconoscimento legale.

E questa stessa emotività porta anche ad una fantastica costruzione della suspense, in particolare nelle battute finali: per gli ultimi momenti della testimonianza di Wardo si parla di trappola e di condanna a morte. Termini forti, che colpiscono al cuore, e che raccontano tutta la drammaticità della vicenda.

Emblematica in questo senso una delle ultime battute della giovane avvocatessa:

When there’s emotional testimony, I assume 85% of it is exaggeration.

In una testimonianza emotiva, do per scontato che l’85% delle dichiarazioni siano esagerate.

La spietatezza

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Nonostante, per le parole dello stesso film, Mark non sia una cattiva persona, è quasi inconsciamente spietato nel suo agire. Il futuro multimiliardario vuole portare avanti le proprie idee fondamentalmente mettendo al primo posto il successo, e solo dopo le persone.

E questo comportamento si trova fin dalle battute iniziali: dopo essere stato scaricato da Erica, Mark crea un sistema umiliante per catalogare le ragazze, andando fra l’altro ad usare le immagini senza il loro consenso.

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Quella che potrebbe essere un’azione da condannare diventa invece un successo, che lo mette in contatto con i fratelli Winklevoss, che gli forniscono l’idea primaria per la sua futura e proficua azienda.

Ma, quasi per pura antipatia, il protagonista li inganna e sviluppa il progetto alle loro spalle.

L’ultima e più importante vittima della sua spietatezza è Wardo: nonostante senza il suo sostegno non avrebbe potuto in alcun modo creare Facebook, Mark non ci mette poi tanto a scaricarlo a favore di Sean, quando questo si dimostra ben più intraprendente e calzante con il suo progetto.

E lo stesso Sean, quando si dimostra inaffidabile, viene escluso dal progetto.

Una persona difficile?

Jesse Eisenberg in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Insomma, Mark è un personaggio problematico.

Una persona creativa e estremamente intelligente, ma fin troppo consapevole delle sue capacità e della sua superiorità rispetto agli altri, con un comportamento anche alimentato dalla stessa istituzione di cui fa parte: Harvard, considerata una delle università migliori degli Stati Uniti.

Tuttavia, Mark vorrebbe avere tutto: l’intelligenza e il successo anche in un contesto sociale che gli sembra precluso. E, soprattutto, vorrebbe essere attraente e desiderabile: vorrebbe, insomma, essere un po’ più simile a Wardo e ai Winklevoss.

Nel suo non riuscirci, si incattivisce e diventa sempre più chiuso in sé stesso e nella sua creazione, andando ad escludere appunto tutte quelle persone con un fascino desiderabile, ma è cui è indubitabilmente superiore dal punto di vista intellettivo.

Ma fanno tutti parte del problema.

Un mondo maschile

Il mondo di The Social Network è un mondo a predominanza maschile.

Se ci fate caso, tutte le persone coinvolte nel progetto di Facebook sono uomini, e i personaggi femminili sono sempre di contorno, oltre a ritrovarsi, molto spesso, esplicitamente esclusi dall’attività al centro della scena.

La scena più emblematica in questo senso è quando Sean scopre che Mark si è trasferito in California, e lo va a trovare con la ragazza di turno. Il protagonista quindi lancia a Parker e alla ragazza delle birre: Sean le afferra senza problemi, mentre la ragazza per due volte non riesce a prenderle e si dimostra piuttosto imbarazzata.

Poi, rimane in silenzio per il resto della scena.

Rooney Mara in una scena di The Social Network (2010) di David Fincher

Discorso diverso per Erica.

La scena di apertura del film è già di per sé rivelatoria: ci racconta immediatamente il protagonista nel suo egocentrismo e la sua presunta superiorità. Ma la stessa gli si rivolta contro, andando a negargli appunto quell’unica conferma sociale che una ragazza avrebbe potuto dargli.

La stessa ragazza che, anche se probabilmente involontariamente, umilia.

E, nonostante Mark ci provi in diverse occasioni, in nessuna di queste Erica gli permette di risolvere il danno che ha fatto – o, più che altro, non gli permette di ricucire il loro rapporto, la cui conclusione è stata per lui un vero smacco.

L’altro rapporto che racconta la sottile misoginia del protagonista è Marylin Delpy, la giovane avvocata con cui dialoga sul finale.

Più volte Mark si confronta con lei in brevi momenti durante il processo, e per la maggior parte del tempo la tratta con distacco e sufficienza, come se non meritasse la sua attenzione. Ma è alla fine la stessa che lo rimette al suo posto, facendogli capire qual è la cosa migliore.

Mettere da parte la sua arroganza e accettare la sconfitta.

E sempre Marylin gli nega la possibilità di intraprendere una nuova relazione, portando Mark a cercare di riconciliarsi ancora una volta – evidentemente inutilmente – con Erica, in maniera sconsolata e insistente…

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David Fincher Drammatico Film Thriller True Crime

Zodiac – Il caso infinito

Zodiac (2007) di David Fincher fu il film con cui il regista tornò al genere del thriller puro, prendendo in parte le mosse da Seven (1997), pellicola per cui si era ispirato proprio al caso del Killer dello Zodiaco.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso (65 milioni di dollari), incassò piuttosto poco: appena 84 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Zodiac?

Davanti al caso di uno dei più enigmatici e spietati serial killer della storia statunitense, il timido disegnatore Robert Graysmith cerca di far luce dove la polizia brancola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Zodiac?

Jake Gyllenhaal e Robert Downey Jr. in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

In generale, sì.

Non vedevo questo film da anni, nonostante ne avessi un buonissimo ricordo. E non mi sono di certo annoiata, però devo ammettere che, se non ci si sente coinvolti con la storia e, più in generale, se non si ha un minimo di interesse per il true crime, ci si potrebbe perdere facilmente nei dialoghi verbosi ed incredibilmente dettagliati dei personaggi.

Infatti, Zodiac non vuole essere un film semplice, che adatti la complessità del caso del Killer dello Zodiaco in modo che sia digeribile anche per il pubblico non esperto. Anzi, tutto il contrario: il film va estremamente nei particolari e sceglie un taglio verosimile e realistico, con pochi momenti di vera tensione.

Insomma, se con questa descrizione vi siete già annoiati, non ve lo consiglio.

Un killer banale

La particolarità del Killer dello Zodiaco fu il mito che si creò intorno ai suoi omicidi.

E fu tanto più peculiare tanto che il suo modus operandi non aveva niente di particolare o interessante, ma molto spesso si trattava semplicemente di uccisioni a sangue freddo. Insomma, se lo paragoniamo ad altri protagonisti della golden era dei serial killer statunitensi – Jeffrey Dahmer, per dirne uno – Zodiac appare decisamente il più banale.

Infatti, l’interesse intorno al suo caso nacque per due motivi: l’apparente impossibilità di catturarlo e il mito che lui stesso si costruì.

Zodiac mostra molto chiaramente la difficoltà, financo l’impossibilità, di identificare il vero colpevole nel marasma di prove e piste puramente indiziarie, che porta tutt’oggi questo caso ad essere ancora aperto.

Al contempo, fu il killer stesso – o chi per lui – ad alimentare il suo stesso mito, attraverso lettere deliranti ed enigmatiche – che in realtà non lo erano poi così tanto…

La complessità intrinseca

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Zodiac sceglie consapevolmente di essere complesso.

Come pubblico siamo abituati a thriller con un andamento tutto sommato lineare e complessivamente comprensibile – persino Seven, da un certo punto di vista – in cui noi stessi possiamo unire tutti gli indizi del caso ed arrivare soddisfacentemente alla rivelazione del killer.

Nel caso Zodiac non vi è nulla di semplice: dal momento che le prove sono pochissime ed indiziare, il caposaldo del caso sono le lettere stesse del colpevole, attraverso le quali si è cercato di identificarlo. Tuttavia, lo stesso metodo ha portato all’esclusione di sospettati piuttosto promettenti…

Tanto più complesso quanto la valutazione della grafia delle lettere non sembrava al tempo seguire una linea così precisa e netta, e si ipotizzava anche la possibilità che il killer avesse mutato appositamente la sua grafia…

L’ossessione dello spettatore

Jake Gyllenhaal in una scena di Zodiac (2007) di David Fincher

Nel terzo atto, quando il caso sembra arrivato ormai ad un vicolo cieco, il film incalza la tensione e mette quasi del tutto al centro della scena Robert. E così lo spettatore segue la sua folle, impossibile impresa di smascherare Zodiac.

Ed è tanto più impossibile tanto più avvincente.

Infatti, anche se lo spettatore è consapevole che il caso non ha una conclusione, nondimeno può essere facilmente travolto dalla ricerca del protagonista, che si barcamena fra brandelli di prove, possibili collegamenti, ma mai niente di veramente concreto e definitivo…

Effettivamente le prove erano così indiziarie, i riscontri così dubbi – senza contare quel pizzico di sfortuna che ha definitivamente troncato il caso quando sembrava alla svolta – che il film assume un sapore quasi estenuante, ma non di meno coinvolgente, nella sua chiusura.

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Avventura Commedia nera David Fincher Film Racconto di formazione Recult Satira Sociale Surreale

Fight Club – Distruzione e rinascita

Fight Club (1999) di David Fincher è stato il quarto film della sua carriera, nonché uno dei maggiori titoli di culto da lui diretti, insieme a Seven (1995).

Con un budget simile a quello del titolo da lui precedentemente diretto (The Game) – 64 milioni di dollari – fu anche in questo caso un discreto flop: poco più di 100 milioni di incasso. Infatti, il culto intorno a questa pellicola nacque solo con il suo rilascio in home video.

Di cosa parla Fight club?

Il protagonista, dal nome ignoto, è il classico impiegato frustrato dal lavoro e dalle aspettative della società. Grazie all’incontro con l’enigmatico Tyler, la sua vita cambierà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fight club?

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Sì, e con attenzione.

Fight club è un film terribilmente denso di contenuti, di spunti narrativi e di riflessioni su una realtà sociale che è ancora drammaticamente attuale – forse anche più del momento in cui fu girato il film. Una narrazione e uno svolgimento che travolge lo spettatore, con un tocco surreale che non poteva mai mancare nelle prime produzioni di Fincher.

Insomma, se non l’avete mai visto, guardatelo senza informarvi oltre.

Dentro una casella

Edward Norton in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il punto di partenza del protagonista è l’anonimato.

Ma un anonimato socialmente accettabile: è perfettamente incasellato nelle aspettative sociali, con un lavoro ordinario e monotono, scandito da una routine scialba e ripetitiva. L’unico sbocco di felicità sembra nella stabilità degli oggetti acquistati – o che la società in cui siamo immersi ci spinge a comprare.

Gli oggetti che rappresentano il nostro status sociale.

Particolarmente azzeccato è il racconto della nuova pornografia, rappresentata dal catalogo IKEA. Una dinamica che oggi potrebbe essere facilmente accostata al fenomeno di Tik Tok e degli influencer, che ci spingono a desiderare tanti – troppi – oggetti di cui non abbiamo nessun bisogno, ma che ci definiscono positivamente agli occhi degli altri.

Autodistruzione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Inconsapevolmente stanco di questa condizione, il protagonista procede alla sua autodistruzione.

E, infine, alla sua rinascita.

Il primo passo è liberarsi da ogni elemento che lo definiva come uomo ordinario schiavo del consumismo capitalista, con un’azione violenta ma necessaria: dare fuoco a tutti i suoi possedimenti che gli facevano vivere una vita sicura e socialmente accettabile.

Ma anche un’esistenza miserabile.

E così sceglie un’altra strada, molto più folle, dissociata e isolata: una stamberga nella periferia della città, del tutto caotica nella sua struttura e del tutto diversa dal grigio appartamento in cui viveva prima – che, anzi, manca quasi dei servizi essenziali.

Il passo fondamentale che si accompagna ad un altro elemento cardine della sua rinascita: l’alienazione.

Alienazione

Edward Norton e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Incapace di essere totalmente responsabile della sua scelta, il protagonista sceglie di mettere qualcun altro al centro della propria vita.

Tyler è una figura totalmente anarchica e distruttiva, cosciente di tutti gli inganni socialmente accettabili. Proprio per questo è un personaggio che è un continuo sabotatore, che inquina ogni ambiente che invade: le nuove indicazioni di emergenza sugli aerei, i frame porno nei film per bambini…

Al contempo, è anche una figura ammirabile, eroica, che riesce dove il protagonista sente di fallire, in particolare in due ambiti: il sesso e la violenza. E invece infine viene svelato come il protagonista fosse sempre stato al centro dell’azione, anche in contesti dove si era immaginato ai margini.

E l’ultimo atto, nel tentativo di totale distruzione di sé stesso, fallisce e invece porta al vero trionfo auspicato da Tyler – e quindi dal protagonista stesso.

La distruzione della società dalle fondamenta e dai suoi simboli.

Cos’è il Fight club?

Il Fight club che dà il titolo al film è molto più importante di quanto potrebbe sembrare.

In prima battuta il protagonista, per risolvere la sua insonnia e quindi la sua ansia sociale di essere sempre attivo e presente, sceglie di frequentare degli spazi sicuri in cui può lasciarsi andare, dove è socialmente accettabile piangere anche per un uomo, dove si può essere veramente ascoltati.

Una scelta che gli permette di continuare il suo ruolo sociale.

Jared Leto e Brad Pitt in una scena di Fight Club (1999) di David Fincher

Il Fight club è un ribaltamento di queste realtà.

Altrettanto sicuro e protetto, ma anche privo di regole, tranne una: tutti possono e devono combattere, senza pagare nulla, ma il combattimento termina quando uno dei combattenti lo chiede.

Di fatto, è il luogo dove chiunque può decidere di sfogare le sue ansie sociali, essere libero dalle proprie ansie e problemi – e secondo i suoi tempi.

Ma anche senza trovare una soluzione agli stessi.

Il significato del sapone in Fight club

Il sapone è uno degli elementi cardine e racconta molto bene il tema di fondo del film stesso.

Infatti, se pensiamo ad una saponetta, ci vengono in mente concetti come pulizia, candore, bellezza. Ma sappiamo veramente di cosa è fatto quel sapone? In Fight club i due protagonisti fanno i soldi creando del sapone dai disgustosi scarti industriali, proprio quelli di cui la società si vorrebbe liberare.

Proprio per questo, il sapone rappresenta la società stessa: vuole apparire splendida e desiderabile all’esterno, in realtà è composta dal marciume e dagli scarti, sorretta proprio da quegli elementi umani che cerca di emarginare, che in realtà sono il motore della società stessa.

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Avventura David Fincher Drammatico Film Thriller

The Game – Un inganno poco credibile

The Game (1997) di David Fincher è un thriller psicologico con protagonista Michael Douglas. Una pellicola per così dire minore e un po’ meno conosciuta di questo cineasta, ma che vale la pena di riscoprire.

A fronte di un budget di circa 70 milioni di dollari, fu un discreto flop: appena 109 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Game?

Nicholas è un businessman piuttosto sgradevole, con un tragico passato alle spalle. La sua vita ha una svolta quando il fratello lo coinvolge in un programma particolare, un gioco fatto su misura per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Game?

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

In generale, sì.

The Game era uno dei pochi film di Fincher che non avevo mai visto – e che sinceramente neanche conoscevo. La visione è stata complessivamente piacevole, grazie ad una tensione e ad una componente orrorifica ben gestita.

Sono invece rimasta meno convinta dello scioglimento della vicenda, che mi è sembrato per certi versi troppo sbrigativo e mancante di tutti gli elementi necessari – ma ammetto che potrei anche non averlo capito fino in fondo.

Tuttavia, rimane comunque una pellicola da riscoprire.

L’attore perfetto

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Quando si sceglie il cast di una pellicola, la sfida più ardua è riuscire a trovare un attore che riesca veramente a rispecchiare, anche solo a primo impatto, il protagonista che abbiamo in mente.

Nel caso di The Game, Michael Douglas è semplicemente perfetto.

Un attore che sto riscoprendo negli ultimi anni e che risulta impeccabile ogni volta che interpreta un personaggio sgradevole e scorbutico – qui come anche nel classico di Joel Schumacher Un giorno di ordinaria follia (1993). E in questo caso era fondamentale che trasmettesse questa sensazione per tutta la pellicola.

Ma per me Douglas è un attore talmente straordinario che nel finale riesce a convincermi anche quando il suo personaggio si ammorbidisce, accettando lo scherzo ai suoi danni e la lezione che ne ha potuto trarre.

Ma in questo elemento si annida per me il principale problema del film.

Un inganno a strati

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

L’impalcatura narrativa della pellicola è basata su un inganno talmente stratificato che è impossibile scoprire la verità. Quando si costruisce questo tipo di narrazione, sono due gli elementi da tenere in conto: le sensazioni che trasmettiamo allo spettatore e un efficace scioglimento del mistero.

Per quanto riguarda la tensione che il film vuole trasmettere, mi ha tenuto facilmente attaccata allo schermo, mentre vedevo il mistero sempre più fitto e angosciante che travolgeva il protagonista.

Per quanto riguarda lo scioglimento, invece…

Uno scioglimento poco convincente

Michael Duglas in una scena di The Game (1997) di David Fincher

Il racconto di The Game mi ha ricordato per certi versi Yes Man (2008), anche se in una veste ovviamente più drammatica.

In realtà, come tante commedie di quel tipo di inizio Anni Duemila, mi aspettavo un tipico scioglimento in cui il protagonista rifletteva sulle sue scelte di vita, diventando una versione migliore di sé stesso. Ed in effetti è quello che succede: Nicolas da questa traumatica esperienza decide di cambiare vita, appunto.

Tuttavia, a me non ha convinto.

Le reazioni dei personaggi sono veramente poco credibili: il protagonista si è trovato coinvolto in uno scherzo – se così vogliamo dire – veramente traumatico, e che lo segnerà per tutta la vita – e non in senso positivo. E nel finale, nonostante un attimo prima fosse pronto a suicidarsi, accetta con fin troppa leggerezza tutta la situazione.

E infatti io mi aspettavo un plot twist finale che ci rivelasse che il gioco non era ancora finito…

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Avventura Azione Cult rivisti oggi David Fincher Drammatico Film Giallo Noir Thriller

Seven – La (non) commedia

Seven (1995) di David Fincher è la seconda pellicola da lui diretta, ma quella che lo lanciò effettivamente come regista – dopo il dimenticatissimo Alien³ (1992). Un thriller che divenne un cult per tanti motivi, fra cui la totale follia e crudezza della storia, oltre all’incredibile finale…

A fronte di un budget abbastanza risicato (appena 30 milioni di dollari), incassò tantissimo: 327 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Seven?

Il Detective Mills è stato appena riassegnato ad una nuova divisione, sotto la guida del saggio detective William Somerset. E da subito si occuperà di un caso veramente senza precedenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Seven?

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Assolutamente sì.

Seven è un cult non per caso: oltre ad una regia piuttosto sperimentale e variegata e alle ottime prove attoriali, la storia è incredibilmente coinvolgente, piena di colpi di scena, anche non poco disturbanti – pur non scadendo mai nel gore.

Una pellicola davvero imperdibile, da vedere sapendone il meno possibile, pur con qualche trigger alert. Infatti, nonostante il film non contenga scene effettivamente disturbanti, racconta nondimeno delle dinamiche non poco inquietanti, che potrebbero non farvi dormire la notte.

Ma ne vale davvero la pena.

Un tragico viaggio

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

David Fincher si ispira evidentemente al viaggio ultraterreno dantesco, che viene fra l’altro continuamente citato all’interno della pellicola. Al punto che in una scena si vedono anche le splendide litografie di Gustave Dorè, che illustrarono il capolavoro della nostra letteratura.

Con la grande differenza che il viaggio di Dante era una commedia in quanto – secondo le parole dello stesso autore – aveva un lieto fine, con la redenzione del protagonista e, infine, la visione di Dio. Al contrario, il viaggio di Mills è tragico in ogni suo aspetto.

Ma per questo si crea un interessante parallelismo.

Detective Mills in Seven

Mills è un personaggio superbo e pieno di rabbia, una rabbia incontrollabile.

E, per questo, è insalvabile.

Per tutto il tempo si vuole mettere prepotentemente in gioco, in prima linea, ignorando le regole o anche il semplice buonsenso, del tutto insensibile agli ammonimenti di Somerset. Un personaggio che si sente superiore a tutti gli altri, che è convinto di sapere il fatto suo e che vive il caso in maniera davvero impetuosa e superficiale.

Morgan Freeman e Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ad ogni occasione si arrende davanti agli inganni apparentemente più insolvibili del killer, vuole a tutti i costi prendere in mano il caso, si rifiuta di seguire gli ammonimenti del suo collega e irrompe prepotentemente nella casa di John Doe – una sorta di foreshadowing di quello che poi succederà nel finale.

E la sua superbia si vede in particolare nel dialogo con John Doe, in cui è del tutto sicuro di averlo finalmente in pugno e per questo cerca di umiliarlo.

In realtà lo sta solo sottovalutando.

Brad Pitt in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Allo stesso modo Dante era un personaggio afflitto da un grande peccato capitale, anche se diverso da quello di Mills: la lussuria.

Per questo il suo viaggio, soprattutto quello purgatoriale, serviva per metterlo davanti ai sette peccati capitali, da cui si liberava salendo ogni cornice. In particolare passava attraverso il fuoco purificatore della lussuria con grande paura, ma riuscendo infine ad essere liberato da ogni peccato.

Invece, anche se a Mills viene data la possibilità di domare il suo peccato, fallisce.

William Somerset in Seven

Il Detective Somerset dovrebbe essere la guida per Mills.

Un personaggio disilluso, che vuole sottrarsi all’angoscia della vita di poliziotto in una realtà così violenta e degradata. È l’unico davvero consapevole di quello che sta accadendo, che capisce la natura seriale del caso e che riesce davvero ad orientarsi all’interno della rete di indizi del killer.

William è un personaggio saggio e riflessivo, che per tutto il film cerca di tenere a bada ed educare l’irriverente Mills, che invece si vuole buttare subito sul caso e nell’azione. Il suo gesto in extremis di salvare il suo giovane compagno e non far vincere John Doe, però, va in fumo.

Morgan Freeman in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Al contempo William è l’unico che davvero capisce il killer.

Come John Doe cerca continuamente di esaltarsi nella figura di prescelto, superuomo, salvatore e punitore, il detective cerca insistentemente di ridimensionarlo, di riportarlo alla sua natura strettamente umana, anche e soprattutto agli occhi di Mills.

La sua figura può essere facilmente paragonata a quella di Virgilio nella Commedia: una guida saggia e autorevole che conduce l’eroe nel suo viaggio, che lo protegge e lo assiste, riuscendo vittoriosamente nella sua missione.

Purtroppo, il finale per William non è altrettanto favorevole.

E, forse anche per questo, decide infine di non andare in pensione…

John Doe in Seven

La forza di John Doe è il suo annullamento.

Il motivo per cui questo killer è così sfuggente è perché distrugge totalmente la sua persona, in primo luogo spellandosi le dita per evitare di lasciare impronte digitali, poi privandosi di un nome – John Doe è il termine poliziesco per indicare un uomo non identificato – e, infine, riducendo sé stesso ad un semplice peccatore.

La missione di John Doe – che sia quella data da Dio o la sua personale – è quella di ripulire almeno in parte il mondo della sporcizia che lo domina, una bruttura così profonda che ormai fa parte dell’assoluta normalità.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Ed è per questo che, in parte, l’operato di John Doe è inattaccabile: prende di mira veramente quello che da alcuni può essere considerato il peggio della società – l’avvocato colluso, lo spacciatore, la prostituta… – come lo stesso personaggio sottolinea.

Ma in questo peggio è anche lui coinvolto: non tanto dalla superbia, ma dall’invidia che il personaggio ammette di provare nei confronti di Mills, nei confronti della sua vita normale che, nel dover portare avanti la sua missione, si è totalmente precluso.

Kevin Spacey in Seven

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

In questo senso è emblematica la scena dell’arresto: dopo che John Doe si è presentato trionfalmente agli occhi dei due detective, viene ridotto a terra, quindi si lascia abbassare ad un livello più terreno, e poi alza gli occhi verso Mills.

E qui mostra la sua apparentemente invidia, costretto a guardare dal basso chi gli sta sopra, in condizione di inferiorità dove spesso sono ridotte le anime purganti, in particolare quelle dei superbi – il suo vero peccato.

Il casting del killer di Seven fu piuttosto travagliato, anche per la natura del prodotto.

David Fincher in prima battuta avrebbe voluto Ned Beatty, per la sua incredibile somiglianza con lo Zodiac Killer – o il suo identikit – fra l’altro con un interessante foreshadowing per la carriera dello stesso Fincher, che tornò più di dieci anni dopo con Zodiac (2007).

Tuttavia l’attore rifiutò, affermando che la sceneggiatura del film era la cosa più diabolica che avesse mai letto.

Kevin Spacey in una scena di Seven (1995) di David Fincher

Seguirono diversi tentativi di casting, fra cui quello di Kevin Spacey, che venne però inizialmente rifiutato perché richiedeva un cachet troppo elevato.

Per questo inizialmente le scene con il killer vennero girate da un attore ignoto, ma in poco tempo si scelse di rimpiazzarlo e venne nuovamente negoziato il contratto di Spacey, che girò le sue scene nel giro di soli dodici giorni.

Lo stesso attore scelse appositamente di non essere inserito né nel marketing né nei titoli di testa del film, così da rendere veramente funzionale il colpo di scena finale.

Heath Leadger

Un elemento metanarrativo di grande interesse, che rendeva senza nome il killer per lo spettatore stesso, proprio a ricalcare il suo aspetto anonimo e non riconoscibile, quasi invisibile – come era stato sia per il killer dello Zodiaco quando per l’ancora misterioso attentatore D. B. Cooper.

Entrambi casi reali di criminali che vinsero per il loro aspetto anonimo.

Un aspetto di grande interesse che venne ripreso in maniera pedissequa dal Joker di Heath Ledger in Il cavaliere oscuro (2008): un criminale molto intelligente, ma senza nome e senza identità.

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