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Beau is afraid – La madre rapace

Beau is afraid (2023) è la terza pellicola di Ari Aster, autore indie attivo da pochi anni, ma che si è proficuamente fatto strada nel panorama dell’horror autoriale grazie alla A24.

A fronte di un budget abbastanza consistente per questo tipo di prodotto – 35 milioni – ha aperto piuttosto male al primo weekend: appena 5 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Beau is afraid?

Beau è un uomo di quarant’anni che vive in un quartiere estremamente pericoloso, e sta per andare a trovare la madre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Beau is afraid?

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Assolutamente sì, anche se…

Beau is afraid non è il film che potreste aspettarvi da Ari Aster: se vi immaginate un prodotto simile ai due precedenti – Hereditary (2018) e Midsommar (2019) – cambiate idea. Questa nuova pellicola è probabilmente un punto di svolta per la carriera di questo ambizioso regista, che sceglie un taglio alla I’m Thinking of Ending Things (2020).

E forse è anche il motivo per cui mi è piaciuto.

Non vorrei che Aster in futuro abbandonasse del tutto l’horror, ma apprezzo questa nuova via che ha intrapreso, anche se non tutti potrebbero esserne altrettanto contenti. Personalmente, non essendomi entusiasmata per i precedenti prodotti, è stato un passo fondamentale.

L’unico elemento che mi sento di segnalare è l’eccessiva pesantezza della narrazione, tipica di tutti i prodotti di Aster finora: nonostante la durata importante non mi abbia infastidito, al contempo la storia poteva essere notevolmente alleggerita.

Nell’occhio del ciclone

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

La prima scena Beau is afraid mostra una situazione apparentemente tranquilla.

Beau dialoga con il suo terapeuta, facendoci capire che sta per tornare nella sua casa natale, per l’anniversario della morte del padre.

Ma già in questa scena è presente un elemento di disturbo: la madre che continua ad intervenire – tramite chiamate e messaggi – in uno spazio che dovrebbe essere privato e confidenziale.

E l’intrusione è continua.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Così, anche quando il protagonista riesce ad arrivare illeso al suo appartamento, viene continuamente stressato dall’ambiente che lo circonda, anche e soprattutto per motivazioni che non sono colpa sua – rappresentazione esplicita del suo stato di ansia e di colpevolezza.

Infine, viene totalmente scacciato da quel piccolo spazio privato che era riuscito a costruirsi, ma che viene letteralmente invaso e distrutto. E, anche se poi cerca di riprenderne possesso, ormai è stato violato.

E si può solo scappare.

Madonna Beau is afraid

Nel primo atto è interessante il contrasto fra due elementi.

La madonna e il ragno.

Prima di tornare a casa, Beau compra un regalino per sua mamma, una statuina che rappresenta una candida scena materna, con una figura mariana con in braccio un bambino – rappresentazione del suo desiderio di amore materno.

E proprio su quell’oggetto il protagonista racconta la sua angoscia interiore, un ulteriore tentativo di scusarsi con la madre, per qualcosa che non è neanche colpa sua – la morte del padre.

La stessa immagine la troviamo nell’imponente statua davanti alla casa natale.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Ma nell’appartamento è presente una figura ben più minacciosa: il ragno dal morso mortale.

È la rappresentazione effettiva della natura della madre: insidiosa, potenzialmente mortale, costantemente presente nella vita di Beau, anche senza che lui se ne renda conto.

E questo tanto più se si considera che l’appartamento in cui abita, come si scopre in seguito, è stato costruito dalla madre stessa…

Un’apparente tranquillità

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Dopo essere fuggito dal suo appartamento ed essere stato totalmente spogliato, è come se Beau rinascesse, e fosse ricondotto alla sfera infantile, che forse non aveva mai effettivamente lasciato…

Infatti, si sveglia nella stanza di una ragazzina, viene vestito solo con vestiti da ospedale e con pigiami, proprio come un infante, e trattato come se fosse il nuovo figlio di questa strana famiglia, che lo accudisce teneramente.

Ma è tutta apparenza.

In realtà, più che una casa, è una prigione: Beau è inconsapevolmente incatenato – con la cavigliera che mostra la sua posizione – e costantemente controllato da telecamera di sicurezza, come scopre solo alla fine.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Al contempo, la nuova casa è anche il luogo della colpa.

Beau viene continuamente stressato dall’idea di doversi ricongiungere con la madre, di mostrare il suo affetto, mentre la sua assenza – nonostante sia giustificata da motivi del tutto validi – è raccontata come un’umiliazione.

La vera natura della nuova abitazione – luogo di conflitto e di violenza – viene particolarmente sottolineata in chiusura dell’atto, con la terrificante morte di Toni. E, ancora una volta, la colpa viene data a Beau.

E così deve ancora scappare.

Lo spettacolo di una vita

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Sulle prime mi era veramente poco chiaro il senso dello spettacolo che Beau si immagina mentre è nel bosco.

Poi, pensando agli elementi raccontati a posteriori, sono riuscita a formulare una mia interpretazione: questo viaggio mentale del protagonista è forse l’unica parte veramente irreale della storia raccontata.

Nonostante riprenda alcuni elementi della realtà e preveda anche gli eventi successivi, è una riscrittura di Beau della sua stessa vita. In essa, infatti, si ritrovano la maggior parte degli eventi raccontati, anche se re immaginati – come lo spezzare della catena (la cavigliera) e il cane che lo insegue (Jeeves).

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Tuttavia, vi sono due elementi di differenza fondamentali: la madre morta e la famiglia di Beau.

Nella sua immaginazione, il protagonista si è liberato dalla madre – che comunque ricompare nei panni della moglie – e vive una vita piena di insidie e pericoli. Tuttavia, riesce a guadagnarsi un finale idealmente felice.

Ma proprio lì si spezza l’incanto: quando i figli ritrovati gli fanno comprendere la contraddizione delle sue parole – la loro esistenza e la verginità del padre – la scena si interrompe bruscamente.

È il momento in cui Beau capisce che questa vita felice è per lui impossibile.

Ritornare a casa

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

L’ultimo atto è dedicato al ritorno a casa.

Come nella sua immaginazione Beau ritrovava i figli, nella realtà ritrova la madre. Ma prima si esplora l’immensa figura materna: una donna potente e minacciosa, che aveva costruito un impero commerciale, ma anche una trincea intorno al figlio.

Non a caso tutte le pubblicità dei suoi prodotti si concentrano sulla sicurezza e hanno molto spesso al centro Beau stesso: quindi rappresentano il continuo tentativo della madre di proteggere il figlio dal mondo esterno.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E allora Beau prova a prendersi la prima rivalsa.

Rincontrando Elaine dopo tantissimi anni, il protagonista ammette di essersi conservato per lei, di averla aspettata per poter condividere con lei la sua prima esperienza sessuale – e ancora una volta si parla quindi di una donna opprimente che cerca di limitarlo…

Tuttavia, il protagonista sembra avere il suo riscatto, vivendo – nonostante la paura – la sua prima relazione sessuale, la stessa che la madre gli aveva negato tutta la sua vita, terrorizzandolo tramite i terribili esiti che la stessa avrebbe portato.

In realtà la madre vince ancora.

La madre rapace

La natura rapace della madre si capisce fin dal primo atto, anche se non è presente in scena.

Sia per la foto che Beau tiene in bagno – con la mano della madre che gli regge la testa che sembra un artiglio – sia per le pressioni che la donna continua a buttargli addosso, accusandolo, fra le altre cose, di non volerla andare a trovare.

Insomma, Mona è un genitore narcisista, che affoga il figlio con amore e attenzioni, ma pretendendone altrettante indietro, pena terribili ricatti emotivi. E, proprio grazie alle registrazioni delle sedute con il terapista, Beau si rende conto della tossicità del loro rapporto.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

E questo viene ancora ribadito dalla scena della soffitta.

Il sogno – in realtà un ricordo – racconta proprio il loro conflitto: se nella sua fantasia Beau poteva essere un bambino che si ribellava dalle continue invasioni della madre, la stessa aveva un potere tale su di lui da riuscire a sopprimere questi inaccettabili slanci.

La soffitta è soprattutto il luogo della distruzione della virilità: sia tramite la reclusione del padre, foce della più importante paura – quella verso il sesso – sia, in maniera estremamente esplicita, tramite la segregazione dei simboli fallici.

E allora avviene l’effettiva ribellione.

Beau is afraid finale

Sul finale Beau cerca di uccidere la madre, ma poi si pente – con una reazione piuttosto infantile.

Ma ormai è fatta.

E Beau scappa, definitivamente.

Ma si trova imprigionato nel terribile tribunale che lo mette davanti alle sue colpe, anche quelle apparentemente più assurde, che aprono la strada a due diverse interpretazioni della storia nel complesso: quella letterale e quella metaforica.

Joaquin Phoenix in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se seguiamo la lettura letterale, tutto quello che è successo – tranne due momenti – è fondamentalmente reale.

Il viaggio di Beau nasce dalla morte della madre, si sviluppa nel suo continuo scappare e trovarsi in situazioni di pericolo e di conflitto, in realtà create ad hoc dalla madre, che cercava ancora una volta di avere prova dell’amore del figlio.

Tutte scene reali, ad eccezione dell’immaginazione di Beau per lo spettacolo, e la scena finale col tribunale, che potrebbe essere in parte deviata dall’immaginazione del protagonista – ed essere in realtà un semplice dialogo con la genitrice.

Kylie Rogers in una scena di Beau is afraid (2023) di Ari Aster

Se invece seguiamo l’interpretazione metaforica, tutta la storia racconta è un viaggio immaginario di Beau, con rappresentazioni visive delle sue ansie e del suo tentativo di superare il legame opprimente con la madre.

Tuttavia, in entrambe le visioni, alla fine Beau è vinto dall’eccessivo senso di colpa che lo opprime, e decide di non provare neanche a salvarsi, ma accettare la sua morte come giusta punizione per il suo comportamento.

Quindi, alla fine, Beau è sconfitto.

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Avventura Azione Cinecomic Commedia Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Guardiani della Galassia MCU

Guardiani della Galassia Vol. 2 – Il film della maturazione

Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) è il sequel dell’omonimo film che fece la fortuna di James Gunn, confermata proprio da questo capitolo: dopo il licenziamento del regista per dei tweets di cattivo gusto (ma molto datati), cast e pubblico si rivoltarono contro la produzione.

Il resto è storia.

Fra l’altro un sequel che confermò l’andamento positivo del brand, con anche un aumento degli incassi: 863 milioni, contro 200 di budget – il primo ne aveva guadagnati circa un centinaio in meno.

Di cosa parla Guardiani della Galassia Vol. 2?

Pochi mesi dopo il primo film, i Guardiani sono impegnati in una missione per i Sovereign, ma non tutto va come si immaginavano…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Guardiani della Galassia Vol. 2?

Michael Rooker e Sean Gunn in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

In generale, sì.

Assolutamente sì se avete visto ed apprezzato il primo capitolo: vedendoli per la prima volta a così poca distanza, mi sono resa conto della superiorità di Guardiani della Galassia Vol. 2 rispetto alla pellicola del 2014, indice forse anche di una maggiore maturazione e libertà del regista a seguito del successo ottenuto.

Nonostante non manchi di qualche elemento anche di forte debolezza, riesce a migliorarsi sotto molti aspetti, anzitutto per l’antagonista e per la struttura narrativa, che evade la gestione più classica di questo tipo di prodotti, come era stato invece per il precedente.

Un nuovo obbiettivo

Michael Rooker e Rocket Raccon in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Nel precedente film l’obbiettivo finale della pellicola era costituire il gruppo, in questo caso Gunn si è trovato davanti all’ostacolo di dover gestire un gruppo piuttosto folto di personaggi – vista anche l’introduzione di Mantis e la maggior importanza di Yondu.

E ha sperimentato una gestione dei personaggi che sarà poi la stessa di Infinity War (2018): dividerli in piccole storyline autoconclusive, per poi farli rincontrare nel finale.

L’arco narrativo più azzeccato è ovviamente quella di Yondu e Rocket, utile ad entrambi per un’interessante riflessione e conseguente maturazione: come Rocket si rende conto della sua irriverenza e incapacità di fare gruppo, Yondu sceglie di abbandonare la sua corazza burbera per rinsaldare il rapporto con Peter.

Ma qui nasce il primo problema…

Come si cambia…in fretta

Rocket Raccon e Groot in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

A conti fatti, l’arco narrativo di Rocket e Yondu è quello meglio costruito, mentre gli altri appaiono complessivamente molto più difettosi.

Escludendo la coppia Drax e Mantis, che rappresenta semplicemente un simpatico siparietto comico, l’arco narrativo che mi ha meno convinto è quello di Peter e suo padre.

Per quanto il film si impegni moltissimo nel raccontare la diffidenza di Star Lord nei confronti di Ego, concede molto meno minutaggio al racconto dell’assuefazione di Peter verso il ritrovato genitore.

Infatti, nonostante Ego riesca a convincere sottilmente il figlio della sua visione, al contempo lo stesso si rivolta fin troppo facilmente e nettamente contro di lui, anche se il trigger è molto potente – il trauma della morte della madre – e rivela immediatamente la vera natura dell’antagonista.

Karen Gillan in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Altro discorso per Nebula e Gamora.

Il loro rapporto è in realtà una costante anche nei successivi film degli Avengers, ed era già stato introdotto nello scorso capitolo. Tuttavia, il loro parziale rappacificamento mi è parso un po’ troppo veloce, e avrebbe secondo me avuto bisogno di un maggiore screentime.

Tuttavia, mi sono anche in parte ricreduta quando l’argomento viene nuovamente affrontato sul finale, con almeno un parziale ed effettivo confronto fra le due, che verrà poi meglio raccontato nei film successivi, collocato proprio nel momento di riflessione generale di tutti i personaggi.

Lo stesso problema?

Pom Klementieff, Dave Bautista, Chris Pratt, Kurt Russell e Zoe Saldana in una scena di Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017) di James Gunn

Uno dei principali problemi di Guardiani della Galassia era proprio la scelta dell’antagonista.

Nel sequel Gunn compie un parziale passo avanti.

E dico parziale in quanto, anche se indubbiamente il personaggio di Ego è ben gestito, raccontando abbastanza approfonditamente la sua psicologia e le sue motivazioni, sostanzialmente le stesse si riassumono – ancora una volta – nel desiderio di conquistare il mondo.

Anche peggio se parliamo dei Sovereign, l’elemento più debole, soprattutto esteticamente, dell’intera pellicola: personaggi veramente anonimi, che potevano essere sostituiti od eliminati dalla pellicola con poche righe di sceneggiatura.

Infatti, la loro vera utilità è introdurre il villain del terzo capitolo, Adam Warlock.

La morte di Yondu è probabilmente una delle più dolorose dell’intero MCU.

Ma era di fatto inevitabile.

È evidente che in questo capitolo Gunn volesse approfondire Yondu: nonostante sia un personaggio davvero accattivante e intrigante, aveva avuto fin troppo poco spazio nel primo capitolo.

E il suo approfondimento è anche finalizzato a farci comprendere meglio il significato della sua morte, essenziale per il personaggio di Quill: il protagonista dice definitivamente addio la figura paterna e scende a patti con un trauma che l’aveva accompagnato per tutta la vita, anche se nella maniera più tragica…

Dove si colloca Guardiani della Galassia 2?

Come il primo capitolo, Guardiani della Galassia Vol. 2 è un film altrettanto autonomo, tanto da essere ambientato appena un paio di mesi dopo la pellicola del 2014.

Non a caso le diverse post-creditben cinque! – non si collegano in alcun modo agli altri film dell’MCU, ma servono ad approfondire alcuni aspetti della pellicola stessa, ad inserire alcune gag per smorzare la tragicità del finale, nonché ad introdurre il villain del terzo capitolo.

La pellicola è fra i primi tre film dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Commedia Dramma familiare Drammatico Fantastico Film La magia di Miyazaki

Il mio vicino Totoro – La favola di Miyazaki

Il mio vicino Totoro (1988), traduzione abbastanza coerente del titolo originale – となりのトトロ, lett. Totoro il vicino è uno dei film dal taglio più delicato e favolistico della produzione di Miyazaki.

A fronte di un budget ad oggi sconosciuto, è il miglior riscontro di Miyazaki a livello internazionale, con 41 milioni di dollari di incasso. Il film venne proposto nei cinema italiani solamente nel 2015.

Di cosa parla Il mio vicino Totoro?

Le sorelle Satsuki e Mei si sono appena trasferite in una graziosa casa nella campagna di Tokyo degli Anni Cinquanta. Un paesaggio quasi favolistico, che nasconde molti splendidi segreti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il mio vicino Totoro?

Assolutamente sì.

Anche se l’ho scoperto più tardivamente rispetto agli altri prodotti di questo regista, è un film assolutamente imperdibile, per la sua delicatezza e piacevolezza. Una storia in realtà con un sottofondo piuttosto drammatico, perfettamente integrata in un contesto favolistico e quasi onirico, nel peculiare stile nipponico.

Fra l’altro una delle migliori prove di Miyazaki come autore, sia per la costruzione della trama, sia per la bellezza dei disegni, in particolare negli splendidi sfondi. Un’opera che ti cattura, ti commuove, ti intrattiene in una durata anche piuttosto contenuta.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il mio vicino Totoro il pericolo è abbastanza basso.

Nonostante il doppiaggio risalga al 2015, forse anche per i pochi dialoghi, non è niente di così tanto drammatico, ma generalmente abbastanza ascoltabile.

In ogni caso, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Il contesto fantastico…

Il world building de Il mio vicino Totoro è spettacolare.

Una realtà fantastica che si integra perfettamente nel tema di fondo molto presente nelle opere di Miyazaki: la bellezza della natura e della sua conservazione.

Forse proprio per questo la scelta di ambientare la vicenda in una realtà più lontana anche dall’uscita originaria del prodotto in un contesto meno urbanizzato, e dove la natura domina.

Una natura anche piuttosto misteriosa, piena di nascondigli e segreti, uno sfondo perfetto per raccontare una storia con due protagoniste così giovani e la loro riscoperta dell’ambiente che le circonda, per nulla osteggiato – come in altri contesti – dagli adulti.

E qui nasce il più importante contrasto.

…e il sottofondo drammatico

L’elemento drammatico è introdotto molto lentamente, facendo prima immergere lo spettatore nella spensieratezza del contesto fantastico.

La malattia della madre inizialmente non sembra neanche grave – nella sua prima apparizione viene mostrata serena e con nessun segno di cedimento. Il picco drammatico avviene con il rimando del ritorno a casa.

Per la mancanza di comunicazioni dirette, rinasce nelle protagoniste di nuovo la terribile paura di perdere la genitrice, una paura sotterranea, ma in realtà non nuova, che le angoscia terribilmente. E la tensione viene ancora più caricata con la scomparsa di Mei, che assume per certi versi dei tratti da cronaca nera.

Il fantastico rincuorante

Anche l’elemento fantastico è introdotto a piccoli passi.

E sempre ridimensionato in senso positivo.

Il primo contatto con il mondo nascosto degli spiriti e della magia è con i fantasmini della polvere, che i protagonisti riescono a cacciare dalla casa. E poi, ormai nella parte centrale della pellicola, si introduce finalmente Totoro, la cui scoperta avviene grazie al giocoso inseguimento di Mei e gli spiritelli impauriti.

Nei due incontri successivi, Totoro arriva proprio nei momenti di maggiore sconforto e paura delle due bambine: prima quando aspettano impazienti il padre che sembra non arrivare mai, nell’iconica scena della fermata dell’autobus, in cui questa meravigliosa creatura mostra tutta la sua piacevolezza e giocosità.

In ultimo, proprio nel picco drammatico della pellicola, Satsuki chiede aiuto proprio a Totoro, che non solo l’aiuta a ritrovare alla sorella, ma le dà un passaggio con il gattobus, altra creatura fantastica che sembra uscita fuori da un libro delle favole.

E riescono così anche a vedere in prima persona che la madre sta bene.

In questo film la tecnica di Miyazaki compie un passo avanti piuttosto decisivo.

L’elemento che salta subito all’occhio sono gli sfondi: curatissimi e pieni di dettagli, quasi dei dipinti in movimento, e rendono perfettamente quell’aspetto aulico e retrò dell’ambientazione:

Ovviamente il punto più alto sono i dettagli, l’animazione e la cura nel disegno di Totoro, e così anche del gattobus:

Continua inoltre l’ottimo studio sui volti anziani. Infatti, con Nanny sembra formarsi in via definitiva il modello per questo tipo di personaggi: occhi molto grandi, guance pronunciate, corporatura robusta e una fitta rete di rughe, che avrà poi il suo apice in La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004):

Diversi miglioramenti anche per la gestione dei personaggi giovani, che diventano molto più espressivi: piangono, si emozionano, urlano, paradossalmente in maniera quasi parallela al personaggio di Totoro:

Guardando al futuro più prossimo, nell’aspetto Satsuki assomiglia molto alla protagonista della prossima pellicola di Miyazaki, Kiki – consegne a domicilio (1989):

Mentre sia Mei che Kanta ricordano lo sviluppo dei bambini in Il castello errante di Howl, nel personaggio di Markl:

Il mio vicino totoro vs la città incantata

E ho notato anche un paio di interessanti – nonché strani – parallelismi con La città incantata. Anzitutto, Mei in certi momenti ha una faccia che assomiglia molto ad una rana, e infatti se si fa il confronto:

La scena in cui i semi cadono per la casa sul pavimento ricorda, anche se in maniera diversa, la scena delle pepite d’oro. Ma il collegamento più evidente è l’aspetto degli spiriti della polvere, che si vedranno identici nel film del 2001:

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Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri – Le giuste aspettative

Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri (2023) di Jonathan Goldstein e John Francis Daley è un film d’avventura per ragazzi basato sull’omonimo gioco di ruolo.

A fronte di un budget piuttosto consistente – 150 milioni di dollari – ha aperto con 70 milioni in tutto il mondo: un inizio promettente, ma basterà?

Di cosa parla Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Il bardo Edgin Darvis e la barbara Holga Kilgore sono in prigione da due anni, ma hanno finalmente la possibilità di imbarcarsi in una nuova avventura…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?

Chris Pine, Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Assolutamente sì.

Almeno, se ci andate con le giuste aspettative.

Io mi aspettavo – e volevo – un prodotto d’intrattenimento, un’avventura per ragazzi leggera e divertente, con un umorismo piacevole e una storia coinvolgente.

Ed è esattamente quello che ho trovato.

Oltre ad avermi piacevolmente intrattenuto, anche andando a valutarlo più analiticamente, non mancano alcuni guizzi registici non indifferenti, e la sceneggiatura si dimostra complessivamente solida.

Per farvi un’idea del tono della pellicola, questa coppia di registi si è occupata della sceneggiatura di film come Spiderman – Homecoming (2018) e Come ammazzare il capo…e vivere felici (2011).

Io, comunque, ve lo consiglio.

Una trama a quest

Chris Pine e Regé-Jean Page una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Proprio per la vicinanza al gioco originale, la trama di Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri è suddivisa in quest.

Una prima parte dedicata all’introduzione dei personaggi, con un racconto piuttosto esplicativo del background del protagonista, in una cornice comica e molto funzionante.

E nel primo atto vengono anche definiti i ruoli in campo, si racconta il tradimento di Forge – interpretato da un Hugh Grant davvero convincente – e il conflitto fra il protagonista e la figlia.

La parte centrale è piuttosto ampia, più di quanto sinceramente mi sarei aspettata, ed è dedicata appunto all’articolata quest centrale, con i personaggi che si muovono in una serie di tappe, fra cui la gustosissima scena del cimitero.

In maniera altrettanto inaspettata, l’atto finale è diviso in due parti, del tutto funzionali a concludere le vicende di entrambi i villain in gioco: quello politico e il vero antagonista – Sofina.

Insomma, una campagna di D&D fatta a film.

Piccoli trucchi, nessuna forzatura

Chris Pine in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

La scrittura gioca sicuramente con alcuni piccoli trucchi per portare a certe svolte di trama.

Quello più evidente è il Bastone Qui-e-là, che arriva piuttosto convenientemente in aiuto ai personaggi proprio quando ne hanno bisogno. Ma la sceneggiatura non è così banale da renderlo del tutto inverosimile, ma si cerca un minimo di giustificarne la presenza. Ed è del tutto verosimile che Holga l’abbia rubato senza sapere di cosa si trattasse.

Al contempo, l’unico momento poco credibile è quando i protagonisti devono attraversare il ponte del dungeon ormai crollato: sarebbe stato del tutto sensato se Doric avesse proposto di trasformarsi e portarli dall’altra parte.

E ci sarebbero stati diversi motivi per cui la stessa non avrebbe potuto farlo – anche solo il fatto di non sapersi trasformare in un certo animale o in uno così grande da poterli sollevare. Ma tacere questo aspetto lascia la questione un po’ in sospeso e toglie leggermente credibilità alle dinamiche in scena.

Ma, tutto sommato, è una piccolezza.

Un’evoluzione equilibrata

Justice Smith, Michelle Rodriguez e Sophia Lillis in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Tutti i personaggi, chi più chi meno, godono di un’evoluzione e una caratterizzazione ben precisa.

Fra tutte, quella più rischiosa era quella di Simon, su cui la trama insiste continuamente riguardo ai suoi poteri non sfruttati. E se la sceneggiatura fosse stata messa in mani meno esperte, nel finale il mago avrebbe scoperto il suo vero potere e sconfitto Sofina.

Invece Simon riesce un minimo a tenerle testa, ma non è assolutamente altrettanto capace – e giustamente. La sua evoluzione si è fermata riuscire a credere in se stesso e ad usare l’elmo, e la sconfitta del villain prende altre strade.

E va benissimo così.

La morale

Chloe Coleman e Hugh Grant in una scena di  Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Ho decisamente apprezzato la morale conclusiva legata a Edgin.

Mi ha ricordato moltissimo una delle tematiche centrali di Il gatto con gli stivali 2 (2022): l’importanza della famiglia, anche se non quella di sangue. In conclusione, il bardo capisce che il riportare in vita la moglie morta non farebbe davvero la felicità della figlia – per quanto abbia cercato di convincersi del contrario.

Invece, è piuttosto evidente che la vera madre di Kira è Holga, che l’ha cresciuta proprio come sua figlia e che è ancora importante per la sua vita – e che lo potrà essere anche per il futuro.

Pochi nei in un ottimo equilibrio

Daisy Headin una scena di Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023)

Pensando ai (pochi) punti deboli, il primo pensiero va ovviamente a Sofina.

Paragonata a Forge, che risulta un villain molto più intrigante e piacevole, la maga appare invece piuttosto banale, e così anche il suo padrone. Non che manchi un tentativo di costruire meglio la loro backstory, ma che mi è sembrata comunque abbastanza fumosa e poco interessante.

Allo stesso modo l’estetica e la CGI della pellicola falliscono in pochi punti, in particolare nel character design di Sofina e in alcuni dei suoi incantesimi.

Invece, più in generale si è riuscito a trovare un ottimo equilibrio fra un’estetica molto giocosa, quasi cartoon, coerente con l’opera di partenza, e un’ottima tecnica visiva che ha mantenuto alto il livello complessivo del prodotto.

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Alfred Hitchcock Avventura Comico Cult rivisti oggi Dramma familiare Drammatico Film Thriller

Rebecca – L’ombra perpetua

Rebecca (1940), noto in Italia col titolo ben più esplicativo di Rebecca – La prima moglie, è un film della prima fase di Alfred Hitchcock, nonché uno dei più noti della sua prolifica produzione.

Scelto come pellicola di apertura del primo Festival di Berlino nel 1952, fu anche un buon successo commerciale: a fronte di un budget di appena 1.9 milioni di dollari (circa 40 milioni oggi), incassò circa 6 milioni in tutto il mondo (che oggi corrisponderebbero a circa 130 milioni).

Di cosa parla Rebecca?

Una giovane dama da compagnia dal nome ignoto farà la conoscenza di un ricco e avvenente aristocratico, Mr. de Winter. Ma l’ombra della defunta moglie è sempre in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rebecca?

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

In generale, sì.

Nonostante qualche ingenuità di scrittura, è un piccolo cult non a caso: un mistero intrigante ed avvincente, che riesce a far sognare ed intrattenere lo spettatore lavorando profondamente di sottrazione – e fino all’ultimo.

L’elemento che forse mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda, per certi versi più banale e scontato di quanto mi sarei aspettata, anche se generalmente coerente nel complesso della narrazione.

Tuttavia, rimane una pellicola godibilissima ancora oggi.

Lo spazio all’immaginazione

Joan Fontaine e Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

L’elemento che forse mi ha più stupito della pellicola è lo spazio che lascia all’immaginazione dello spettatore.

Anzitutto, per Rebecca stessa: mi aspettavo in qualche momento di vederla apparire sullo schermo, magari in un filmato o in una fotografia. E invece non abbiamo nessuna idea dell’aspetto di questa donna, se non per le parole dei personaggi stessi: era una donna bellissima, mora e piuttosto alta.

Nient’altro.

Allo stesso modo le sue colpe non vengono esplicitamente raccontate, ma lasciate nell’assoluto mistero, e così la vicenda clou della storia – il suo suicidio – la conosciamo solamente tramite il racconto di Maxim, proprio nel momento invece in cui mi aspettavo partisse un flashback.

L’apparenza è tutto

Judith Anderson in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Per catturare immediatamente lo spettatore nelle dinamiche dei personaggi, vi è una particolare cura nella scelta del casting e della recitazione.

Il maggiore contrasto è fra Mrs. Danvers e la nuova Mrs. de Winter.

La governante è piuttosto austera, nell’aspetto quanto nella recitazione: capelli corvini, con una pettinatura piuttosto datata, il naso con la gobba, il vestito nero strettamente abbottonato…

E i suoi movimenti sono molto lenti e controllati: per la maggior parte del tempo è ritta, con le mani congiunte sulla vita, mentre i suoi diabolici occhi neri si muovono anche con guizzi inaspettati…

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

La nuova Mrs. de Winter è tutto il contrario.

Il viso giovane e angelico, la purezza dei lineamenti, e così anche il modo di vestire, spesso con abiti modesti e dai colori chiari: tutto racconta una ragazza giovane e innocente. E, soprattutto, Joan Fontaine recita più col corpo che con la voce.

Si vede chiaramente come il suo personaggio sia continuamente fuori posto, e i suoi movimenti lo raccontano molto bene: si muove a scatti, impaurita, si stropiccia continuamente le mani, le usa per proteggersi…

In parte per la sua insicurezza, in parte per l’ambiente che la circonda…

L’ombra perpetua

Joan Fontaine in una scena di Rebecca -Le prima moglie (1940) di Alfred Hitchcock

Non c’è posto per una seconda Mrs. de Winter.

La protagonista si ritrova in un contesto che fin dal primo momento non solo non le è calzante, ma che le è anche incredibilmente ostile, nel suo continuo voler confrontare la nuova e impacciata mogliettina con la figura monumentale di Rebecca.

Perché Rebecca è morta, ma è come se fosse ancora presente.

Questa misteriosa donna viene raccontata costantemente, soprattutto da Mrs. Danvers, vengono elogiati i suoi comportamenti, le sue abitudini, la sua perfezione, con la quale la nuova moglie non ha alcuna possibilità di confrontarsi: Rebecca era una figura potente, di successo, che tutti amavano.

Al contrario la protagonista è costantemente sminuita e scacciata, persino dal suo stesso marito…

Un alleato improbabile

Appare fin da subito evidente perché Maxim abbia scelto la protagonista come nuova moglie.

Anche se poco appariscente nell’aspetto, la ragazza è una mansueta e, soprattutto, molto giovane e influenzabile. E il tipo di considerazione che Mr. de Winter ha nei suoi confronti, almeno all’inizio, è piuttosto chiaro: non la bacia mai sulle labbra, ma sempre sulla fronte, e le parla come se fosse più una figlia che una compagna.

Il suo comportamento cambia quando finalmente comincia a considerarla non come un errore, ma come una possibile alleata per liberarsi finalmente dal fantasma della ex-moglie.

E infatti dall’incidente della festa, la protagonista comincia a cambiare abbigliamento, preferendo i colori scuri, e il marito inizia finalmente a trattarla davvero amorevolmente come si meriterebbe.

In un certo senso, comincia ad apprezzarla veramente quando la ragazza arriva ad una sorta di maturazione.

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Gone girl – Un thriller atipico

Gone girl (2014) di David Fincher è un thriller atipico, che permise al regista di tornare su pattern per lui più consueti, dopo Millennium – Uomini che odiano le donne (2011) – un remake piuttosto discutibile.

La pellicola fu anche il più grande successo commerciale della sua carriera: a fronte di un budget comunque consistente – 61 milioni di dollari – ne incassò quasi 370 in tutto il mondo.

Di cosa parla Gone girl?

Dopo una giornata come tante, Nick torna a casa e trova una situazione inaspettata: un silenzio funebre e un tavolo distrutto a terra. E da lì parte una vicenda piena di colpi di scena…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gone girl?

Assolutamente sì.

Gone girl è uno dei miei film preferiti di David Fincher, uno di quei registi che si migliora film dopo film – nonostante qualche capitombolo sulla strada. Una regia elegante, una fotografia enigmatica e quasi lugubre, con due attori protagonisti perfettamente in parte.

Una pellicola che al contempo porta uno spunto interessante per riflettere sulla società odierna e su quanto l’immagine pubblica sia spesso fondamentale per l’evoluzione per cambiare le sorti stesse di una persona, di come la verità possa essere manipolata più facilmente di quanto si pensi…

Un matrimonio come tanti

La storia di Amy e Nick è sorprendentemente breve.

Solo cinque anni, in cui la loro relazione passa dall’essere un sogno romantico, che sembra risolvere anche emotivamente la difficile situazione familiare di Amy, a prendere vie ben più tragiche, facendo anche emergere la vera natura dei suoi protagonisti.

In realtà, come tipico in ambito statunitense, la coppia si è sposata molto presto con l’idea di sistemarsi in fretta, ma scoprendo altrettanto in fretta come la luna di miele iniziale non era altro che un sogno.

In generale tutti i problemi della coppia ruotano intorno alla famiglia: i contrasti nascono per le intromissioni – volute o meno – dei rispettivi genitori. Prima Amy deve concedere una grossa somma di soldi ai suoi genitori senza chiederlo a Nick, azione che porta lo stesso ad una ripicca piuttosto infantile.

E poi tutto crolla definitivamente quando Amy deve del tutto allontanarsi dal suo habitat, e andarsi ad incastrare in un contesto che non le appartiene per nulla: la realtà suburbana, a cui Nick invece è molto legato.

Da quel momento diventa un’ombra nella vita del marito, che decide di andare a cercare la sua felicità altrove. E il suo tentativo di concludere definitivamente la relazione è il trigger definitivo per il piano che Amy aveva già da tempo in mente.

Scrivere una buona storia

Il piano di Amy è perfetto.

Si comincia con una riscrittura della loro storia: basta scrivere un diario particolarmente toccante, dove si mischia verità e fantasia, riempiendolo di elementi per la maggior parte impossibili da provare.

E allo stesso modo ricostruisce l’identità di Nick, basandosi su tratti in realtà già esistenti, e aggravandoli: le sue mani bucate, il suo tradimento, la sua violenza. Fino ad arrivare alla colpevolezza per omicidio.

Tutti i pezzi sono perfettamente posizionati sulla scacchiera.

E Nick non è un avversario degno.

Infatti, il marito è totalmente ignaro delle intenzioni della moglie, totalmente incapace di evitare gli ostacoli perfettamente costruiti che lei gli ha posto lungo la strada. Anzi vi inciampa più e più volte, in maniera ogni volta più sospettosa

Ed è ancora più fallibile tanto più le sue colpe erano effettivamente esistenti: era effettivamente un marito assente, adultero e del tutto ignaro di come la moglie passasse il suo tempo. E una volta le aveva davvero messo le mani addosso…

Ma Nick in parte riesce a salvarsi.

Un nuovo piano

Amy non è infallibile.

Anche se sembra assolutamente determinata a compiere fino alla fine la sua vendetta, non è preparata agli imprevisti. E così il suo assumere un’altra identità fallisce, e si trova spogliata, derubata. E deve passare ad un piano alternativo.

Inizialmente Amy sembra in un limbo, insicura sul da farsi: ancora per qualche scena sceglie di rimanere con l’aspetto della non-Amy, nonostante le insistenze di Desi.

E con la stessa butta le prime carte in tavola e lo circuisce con grande semplicità: basta ripetere la storia strappalacrime creata ad arte, già sperimentata e già funzionante.

Ma Nick le fa cambiare idea.

Per farla tornare da lui ed evitare la sedia elettrica, Nick prende le vesti di quel marito perfetto e premuroso che Amy ricercava in lui, anche solo nelle apparenze. E funziona.

Quindi Amy medita un nuovo piano, il cui primo atto è diventare la compagnia piacente e desiderabile per Desi: si taglia i capelli, sceglie un biondo freddo e tagliente, indossa solamente lingerie sensuale. E recita perfettamente la parte della vittima.

E poi, con una mossa fulminea, uccide l’uomo che si era davvero fidato di lei.

Troppo tardi

Amy ritorna a casa.

In un altro contesto, la sua storia sarebbe stata immediatamente verificata e messa in dubbio in più punti – e con convinzione.

Invece Amy si mette addosso le vesti della martire e gioca benissimo con quanto che aveva già costruito finora: la moglie tradita e maltrattata, che si è salvata da sola e vuole ricostruire il proprio matrimonio.

Nonostante evidentemente nulla torni.

Ma la pressione mediatica è così forte che Amy si sente totalmente al sicuro nel mettere in scena la facciata piuttosto convincente del matrimonio perfetto, che in realtà nasconde lo stesso incubo che lei aveva raccontato nel diario, ma a parti invertite.

E Nick non può scappare…

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Moonlight – La drammaticità mancata

Moonlight (2016) di Barry Jenkins è una pellicola drammatica e un film coming of age nel senso più stretto del termine: la narrazione si divide in tre parti, che coprono le diverse fasi della vita del protagonista.

Nonostante abbia incassato molto bene per i costi di produzione – 65 milioni contro un budget di 1,5 – è, insieme a The Hurt Locker (2008), uno dei peggiori incassi per un film vincitore nella categoria Miglior film.

Di cosa parla Moonlight?

Chiron è un ragazzino nero cresciuto in un contesto piuttosto difficile, circondato dalla droga, il degrado e una madre tossica. La pellicola segue la sua storia dall’infanzia fino all’età adulta.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Moonlight?

Ashton Sanders in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Dipende.

Personalmente la pellicola non mi ha convinto per niente: l’ho trovata incredibilmente superficiale, senza sapore, con una fotografia per la maggior parte del tempo totalmente fuori contesto. Il protagonista che non mi ha trasmesso nulla, e così neanche la sua storia.

Tuttavia, se riuscirete a farvi trasportare dalla vicenda fortemente drammatica che la pellicola vuole proporre, potrebbe persino piacervi.

E ve lo auguro.

L’evidente finzione

Janelle Monáe in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

L’elemento che mi ha subito colpito è la fotografia.

Potrebbe sembrare strano, ma fin dai primi minuti ero assillata dalla sensazione che le scene fossero così finte. E poi ho capito che era tutta colpa della fotografia: la maggior parte delle sequenze sono dominate da una luce fredda, di un giallo tenue, che tende ad appiattire i personaggi in scena.

Insomma, una fotografia non tanto dissimile da quella di Hairspray (2007) e The Help (2011) – che però in quei casi era giustificata dal contesto e, soprattutto, bilanciata dalle tematiche del film. In questo caso è molto più gelida, avendo il solo effetto di farmi allontanare ancora di più dalla storia.

E mi rendo conto che il fine ultimo era di utilizzare una luce leggera che mimasse quella della luna – da cui il titolo – spaziando poi per i toni più forti e neon in altre scene. E quest’ultime sono anche le poche che hanno guizzi registici un minimo interessanti.

Per il resto, tutto quello che vedevo in scena mi appariva assolutamente poco credibile.

Un racconto vuoto

Naomie Harris in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Ma quindi?

Questa è la domanda che mi sono fatta in ogni momento della visione.

E il problema non è che la storia sia banale – il nostro cinema è dominato da film splendidi con trame banalissime. Il problema è lo svolgimento della vicenda, l’approfondimento dei personaggi assente, il protagonista che non parla e lascia fin troppo spazio allo spettatore per interpretare quanto portato in scena.

Il risultato per me è un film che non mi stava raccontando nulla, in cui non sapevo fondamentalmente nulla – o nulla di interessante – del protagonista, che non mi dava alcuno spunto di riflessione.

E che, sopratutto, non mi lasciava lo spazio per appassionarmi.

Il finale

Trevante Rhodes in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Forse l’elemento che mi ha più infastidito della pellicola è il suo trattare un argomento piuttosto importante – la difficoltà di un ragazzo omosessuale in un ambiente machista – senza in realtà aggiungere nulla di nuovo, o provare a portare qualche novità sullo schermo.

I personaggi omosessuali sono già così rari nel cinema contemporaneo che per me Moonlight è veramente un’occasione sprecata.

Alex Hibbert in una scena di Moonlight (2016) di Barry Jenkins

Per quanto non apprezzi Chiamami col tuo nome (2017), ne riconosco assolutamente il valore anche sociale nel rappresentare una relazione omosessuale i cui protagonisti non siano stereotipati e in cui, sopratutto, si mostri abbastanza esplicitamente un rapporto sessuale fra i due.

In questo caso invece ho trovato l’ennesima storia di un ragazzo omosessuale che deve reprimere la sua sessualità, ma che in realtà non arriva a nessun punto, ma subisce solo la situazione in cui si trova.

E se quel finale dovrebbe essere il punto di arrivo del suo arco narrativo, è di una debolezza devastante…

Moonlight meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2017 vengono ricordati sopratutto per la figuraccia dell’Academy e dei presentatori nel confondere le buste per il vincitore della categoria Miglior film.

Venne infatti annunciato come vincitore La la land (2016), ma poco dopo venne ammesso l’errore, in una scena a dir poco grottesca:

Ed in generale, tutta la premiazione fu qualcosa di incredibile: quella meraviglia di La la land ottenne il record di candidature – ben 14! – arrivando al pari di Titanic (1997) e Eva contro Eva (1950).

E si portò a casa 6 premi.

Purtroppo fra questi non vi fu appunto quella di Miglior film, che andò invece a Moonlight – una delle tre vittorie, con otto nomination.

La mia opinione su questa vittoria si può facilmente immaginare: al di là anche del gusto personale, è evidente che Moonlight scompare davanti alla grandezza della seconda opera di Chazelle.

E, non a caso, il film veramente ricordato nel tempo come capolavoro è La la land, non certo Moonlight

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2022 Dramma familiare Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Aftersun – Sotto lo stesso sole

Aftersun (2022) di Charlotte Wells è uno di quei piccoli film indipendenti che emergono a sorpresa nella stagione dei premi. In questo caso, con una distribuzione italiana unicamente sulla piattaforma streaming MUBI.

Il budget è ignoto, ma probabilmente è davvero risicato – sul milione di dollari, anche meno – con un incasso al contempo assai contenuto: 4,7 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Aftersun (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior attore protagonista a Paul Mescas

Di cosa parla Aftersun?

Inizio Anni Duemila, Turchia. L’appena undicenne Sophie è in vacanza col padre, che sta per compiere trentuno anni. Un’estate come tante…?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Aftersun?

Assolutamente sì.

Ma…

Aftersun è un film davvero piacevole e di grande profondità, ma non è per tutti i palati. Mi verrebbe da paragonarlo alla serie Afterlife (2019-22) e al film C’mon C’mon (2021): una pellicola che basa la sua forza nell’essere molto verosimile e realistica nella recitazione e nella storia raccontata.

Un prodotto per prendersi una pausa da un cinema contemporaneo che – anche comprensibilmente – cerca costantemente di colpirti e catturarti con effetti speciali e storie travolgenti.

Aftersun è invece un film che ti cresce dentro, minuto per minuto.

Non subito

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Solitamente quando si guarda un film – sopratutto nel caso di prodotti molto commerciali – l’attenzione dello spettatore è destata fin da subito, in vari modi e sopratutto raccontando la maggior parte dell’antefatto e della caratterizzazione dei personaggi il prima possibile.

Non è il caso di Aftersun.

La pellicola procede indipendente dalle aspettative dello spettatore, volendo raccontare la vicenda nella maniera più realistica e credibile possibile, ovvero nel suo naturale svolgimento. L’antefatto e il rapporto fra i personaggi viene svelato poco a poco, tramite dialoghi casuali.

Mi ha particolarmente colpito uno scambio fra Calum e Sophie: mentre la bambina sta leggendo un libro che il padre le ha consigliato, gli dice che le sembra molto difficile. E l’uomo, dall’altro lato della stanza, le risponde:

Stay with it. I think you’ll like it

Continua a leggerlo. Penso ti piacerà molto.

Il mio rapporto con il film stesso in a nutshell, in sostanza.

Frammenti di felicità

Paul Mescal in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

L’elemento centrale della narrazione – e della sperimentazione registica – è la videocamera.

Attraverso di essa Sophie racconta la visione che aveva al tempo di quella vacanza, così felice e spensierata, in particolare attraverso il filtro della fotocamera, in cui ogni volta si racconta la realtà un po’ più piacevole e bella di quanto effettivamente fosse.

Al di fuori del mondo della telecamera, particolarmente quando Calum chiede a Sophie di spegnerla, si consuma l’angoscia del padre, della sua incapacità – o volontà – di tenere insieme la famiglia, nonostante l’affetto che ancora prova.

E la consapevolezza arriva solamente dopo.

La misteriosa cornice

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Proprio nella filosofia di svelamento passo passo, la cornice narrativa è rivelata in pochi, fatidici momenti.

Il tutto si ricollega al filmato delle vacanze di quell’anno, che è rivisto dalla Sophie adulta, che troviamo convivere con la sua compagna e con un figlio. La donna sembra guardare indietro nel tempo, voler rivivere quel frammento di felicità che si era potuta godere un tempo, prima che – probabilmente – tutto finisse.

È infatti emblematico il gioco di montaggio sia all’inizio che alla fine, in cui le immagini di Sophie da bambina che balla col padre si alternano a questa scena a prima vista quasi incomprensibile, in cui la Sophie adulta cerca di chiamare disperatamente il padre, che però alla fine si sottrae.

E qui nasce la domanda fondamentale.

Cosa succede nel finale di Aftersun?

Il finale di Aftersun a primo impatto può apparire piuttosto oscuro.

Non nascondo che io ho dovuto informarmi per riuscire a fare luce su questa enigmatica conclusione. In poche parole, Sophie da adulta, nel riguardare il filmino della sua vacanza col padre, probabilmente sta ricordando l’ultimo momento in cui lo vide.

O, almeno, l’ultimo momento felice.

Paul Mescal e Francesca Corio in una scena di Aftersun (2022) di Charlotte Wells

Vista anche la scena del ballo – che nel flashback è un momento felicissimo, nel presente è invece quasi orrorifico – la donna sta probabilmente inseguendo qualcosa che le è imprescindibilmente sfuggito di mano.

E infatti, ferma la registrazione su quell’ultimo frame in cui salutava il padre, che per tutta la pellicola – e la vacanza – ha cercato di essere felice per lei, ma che in realtà era evidentemente e profondamente angosciato.

E che, per questo, si è probabilmente tolto la vita.

Cosa significa il titolo di Aftersun?

Il titolo di Aftersun ha una doppia valenza.

A livello prettamente materiale, l’aftersun è il doposole che Calum mette ogni sera alla figlia, per evitare le scottature. A livello invece metaforico, l’aftersun può essere letto come una sorta di cura per il trauma subito dalla protagonista – ovvero la perdita del padre.

E la cura può essere proprio la visione del filmino delle vacanze…

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Il discorso del re – Un film da Oscar

Il discorso del re (2010) di Tom Hooper è un dramma storico, vincitore di diversi premi, fra cui Miglior Film e Miglior Attore protagonista agli Oscar.

Un film che incassò ottimamente, sopratutto davanti ad un budget veramente risicato: appena 15 milioni di dollari, con un incasso di 423 milioni.

Di cosa parla Il discorso del re?

Il principe Alberto, futuro Giorgio VI e padre della compianta Elisabetta II, è balbuziente. Problema non da poco per un reale che deve sostenere dei discorsi in pubblico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il discorso del re?

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Assolutamente sì.

Il discorso del re è un film veramente ottimo, sia per la regia, ma sopratutto per le superbe interpretazioni di Colin Firth e Geoffrey Rush – fra i migliori ruoli della loro carriera.

Un prodotto con ritmi lenti e compassati, ma al contempo una costruzione praticamente perfetta della storia, e sopratutto dei personaggi, nei loro turbolenti rapporti.

Un principe debole

Colin Firth e Geoffrey Rush in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

All’interno di una crisi serpeggiante della Corona Inglese, non era accettabile avere al proprio interno un membro debole e impresentabile.

E Bertie era davvero impresentabile, praticamente una vergogna per la sua famiglia.

Ma era altrettanto difficile abbassarsi ad accettare questa debolezza, così da riuscire a risolverla effettivamente. E infatti, per tutto il tempo, la strategia Lionel è quella di spogliare il futuro re della sua identità regale e di metterlo al suo livello, quasi infantilizzandolo.

Privandolo della sua identità, per dargliene una nuova.

E infatti alla fine lo chiama secondo la sua carica, riconoscendola in maniera definitiva.

Mostruosamente capace

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Portare sullo schermo le balbuzie, lo sforzo, le difficoltà e le paure annesse, non è cosa da tutti.

Ma Colin Firth è stato mostruosamente capace.

Neanche per un momento all’interno della pellicola ho mai pensato stesse recitando, tanto era intensa e convincente la sua interpretazione. E funziona perfettamente anche nel modulare la sua evoluzione nel corso del film, sopratutto nel suo lento ma costante miglioramento.

Ed era fondamentale che ne fosse capace.

La costruzione drammatica

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Uno dei motivi del successo di pubblico di questa pellicola è la sua costruzione drammatica – semplice ma vincente.

Il protagonista del film – e così anche Lionel – è la vittima della situazione e ci coinvolge profondamente a livello emotivo perché gli antagonisti – il padre quanto il fratello – sono indifendibili.

Quindi si percorre una strada sicura nel raccontare la famiglia reale come un luogo rigido e opprimente, quasi militarista. La stessa strada che percorre anche The Crown, alternando le vittime a seconda della stagione – prima Margaret, poi Carlo, infine Diana.

Facendo fra l’altro leva su un trigger emotivo che facilmente coinvolge il pubblico: i rapporti familiari difficili.

La vera famiglia reale?

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Vedere Il discorso del re oggi, dopo cinque stagioni di The Crown, fa tutto un altro effetto.

La mano dietro ai due prodotti è radicalmente differente, sopratutto nella scelta del casting: come Peter Morgan – per The Crown e The Queen (2006) – punta sulla somiglianza perfetta, Tom Hooper invece predilige i grandi nomi.

Anche se questi assomigliano veramente poco alle loro controparti reali.

Ed in generale forse è l’elemento che mi ha meno convinto dell’intero progetto, con una costante sensazione di messa in scena e dei personaggi molto caricati e un po’ finti, per certi versi. Ma le interpretazioni sono talmente buone che comunque non è niente di eccessivamente condannabile.

Il discorso del re meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2011 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Oltre a Toy Story 3 (2010), terzo film d’animazione nominato nella categoria Miglior Film in tutta la storia degli Oscar, Il grinta (2010) fu nominato in dieci categorie. E le perse tutte – la seconda volta in tutta la storia dell’Academy.

Il discorso del re fu la pellicola a ricevere più nomination, ma si divise una buona fetta di premi con Inception (2010): entrambi si portarono a casa quattro statuette.

Le pellicola di Tom Hooper aveva dei contendenti molto forti nella categoria Miglior film, in particolare Inception e The Social Network (2010). Ma, per la qualità del prodotto, mi sento di confermare la scelta dell’Academy.

Tuttavia, devo dire che non è il film che personalmente avrei premiato: il mio voto sarebbe indubbiamente andato alla pellicola di David Fincher.

Ma è anche vero al contempo che Il discorso del re è uno di quei film che, pur essendo artisticamente validi, sono perfettamente confezionati per trionfare a queste premiazioni – per il cast stellare e il tipo di storia raccontata.

Farewell, my dear Hooper…

Il regista, Tom Hooper, ha avuto una sorte veramente infelice.

O meritata, a seconda di come la si guarda.

Ha vissuto degli anni felici come golden boy dell’Academy, a capo di film ampiamente discussi e premiati come Les Misérables (2012) e The Danish Girl (2015). Insomma, si era fatto un nome ad Hollywood e per quasi un decennio sembrava invincibile.

Poi è arrivato Cats (2019).

Cats è ancora oggi un mistero cinematografico: sulla carta sembrava un prodotto incredibile, destinato a far parlare molto di sé, essendo il primo adattamento cinematografico dell’omonimo spettacolo teatrale.

Ed effettivamente fece molto parlare di sé.

Ma non nel modo che Hooper probabilmente si aspettava.

Cats fu infatti un disastro sotto ogni punto di vista: fu un flop disastroso al box office, non riuscendo minimamente a coprire le spese di produzione, venne sbeffeggiato in ogni dove e, sopratutto, fece perdere ogni tipo di credibilità al regista.

Anche a livello umano Hooper fu sotterrato dalle critiche: vennero alla luce una serie di indiscrezioni per cui avrebbe sottoposto gli addetti agli effetti visivi – fra l’altro terribili – a dei ritmi massacranti, comportandosi anche in maniera incredibilmente scorretta nei loro confronti.

E vincendo un Razzie awards come peggior regista dell’anno.

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White noise – Un puzzle incompleto

White noise (2022) di Noah Baumbach è una produzione Netflix di genere difficilmente definibile: mischia una sorta di surreale e disaster movie con una forte riflessione di fondo. Dal regista di Storia di un matrimonio (2019) personalmente mi aspettavo un film simile, se non superiore in qualità.

Non è stato così.

Di cosa parla White noise?

Jack è professore di Hitlerologia, facoltà da lui stesso fondata, e vive la sua vita fra il matrimonio apparentemente felice con Babette e il suo successo accademico. Ma qualcosa di inaspettato metterà in moto una serie di eventi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere White noise?

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Probabilmente no.

Il problema di questo film è che non è di per sé un film brutto, ma una bella costruzione con spunti narrativi anche interessanti…che però non vengono effettivamente portati fino in fondo.

Quindi personalmente non mi sento di consigliarlo, perché in ultimo mi ha lasciato con un cattivo sapore in bocca, di aver visto qualcosa di non finito…

Aprire bellissime porte…

Adam Driver, Don Cheadle e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Il primo atto del film racconta una bellissima costruzione tematica, con tre elementi: il fascino dell’incidente stradale, il potere delle icone e la morte.

Il film propone un interessantissimo parallelismo – quasi accademico – fra questi elementi, che sfocia nell’intrigante montaggio alternato in cui Jack viene acclamato per il suo discorso, e si alternano immagini del discorso di Hitler, della folla concitata di Elvis e dell’incidente stradale che sta al contempo avvenendo.

Ero veramente affascinata da questa costruzione e mi aspettavo...

…qualcosa che non è mai arrivato.

…e aprirne altre ancora

Adam Driver e Greta Gerwig in una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Nel secondo atto il film mette in scena un secondo tassello: l’incidente stradale e la conseguente piccola apocalisse.

Per la maggior parte le scene sono interessanti e ottimamente dirette, con una fotografia pazzesca, costruiscono una discreta tensione, gettano degli spunti di parallelismo uno dei figli di Jake, che intrattiene la folla con un parallelismo ancora una volta con Hitler…

E basta.

Questi semi, insieme a tutti gli affascinanti discorsi iniziali, non portano di fatto a nulla.

Qual è il punto?

Adam Driver n una scena di White noise (2022) di Noah Baumbach

Arrivati al terzo atto, ero nella totale confusione.

Mi sembrava che mi mancasse qualcosa, o che stesse per succedere qualcosa che avrebbe dato un senso a tutta la narrazione e a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento. Invece mi sono trovata ancora una volta davanti ad una messinscena veramente interessante, ma che di fatto portava il film ad essere una sorta di narrazione tematica sulla paura della morte.

Elemento che era anche accennato all’inizio, ma che appariva complessivamente l’elemento meno interessante di tutto il racconto.

E la mia confusione si può ben raccontare da una battuta del film stesso:

What’s the point I want to make?

Anderson, sei tu?

Se anche voi avete avuto una strana sensazione di déjà-vu, la motivazione è semplice: per alcuni elementi sembra un film di Wes Anderson.

In particolare, i bambini molto più intelligenti e avuti per la loro età.

E non è così strano se si pensa che Noah Baumbach è stato sceneggiatore di due film di Anderson – Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) e Fantastic Mr. Fox (2009). Non un aspetto che mi ha dato fastidio di per sé, però un altro elemento utile alla tram fino ad un certo punto…