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Knives out – Not a classic whodunit

Knives out (2019) di Rian Johnson fu una piccola scoperta di qualche anno fa: un classico giallo whodunit, che però era molto meno scontato di quanto si potesse pensare.

Un genere che ormai si vede molto raramente al cinema, e che ebbe un successo inaspettato, tanto da portare Netflix ad acquistarne i diritti e ordinare due sequel, di cui uno in prossima uscita.

Infatti, a fronte di un budget tutto sommato contenuto di 40 milioni di dollari, incassò molto bene: 312 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Knives out?

Davanti all’apparente suicidio di Harlan Thrombey, il detective Benoit Blanc è chiamato a risolvere un mistero ben più complesso di quanto sembri…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Knives out?

Assolutamente sì.

Come genere è un po’ di nicchia, ma può facilmente essere apprezzato anche dai non appassionati. Aspettatevi un piccolo giallo pieno di colpi di scena, ma che gioca con lo spettatore in maniera molto corretta. Infatti solitamente questo tipo di prodotti ci sbattono in faccia una serie di false piste, per depistarci e sfruttare i colpi di scena.

Una tecnica che Scream parodizzava già negli Anni Novanta, per intenderci.

Ma per fortuna niente di tutto questo in Knives out, che invece offre allo spettatore tutti gli indizi per risolvere il mistero, diventando parte attiva della storia.

E non dirò di più.

Cosa significa Knives out?

Capire l’espressione knives out rende la pellicola ancora più godibile.

Letteralmente significa Fuori i coltelli, ma è corrispondente alla nostra espressione italiana Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli, ad indicare quindi una situazione familiare piuttosto spinosa e in cui tutti si vogliono pugnalare alle spalle.

Ma fate anche caso a quanti coltelli effettivi sono presenti in scena, proprio a raccontare una situazione sempre sul filo del rasoio…

La falsa pista del falso inetto

L’unica effettiva falsa pista della storia è quella di Blanc come un detective inetto che non si rende conto che Marta lo stia costantemente ingannando.

Tuttavia, se lo spettatore è abbastanza attento, si rende conto subito della discrepanza fra il suo comportamento all’inizio e per il resto della pellicola. Se infatti all’inizio il detective appare piuttosto sottile e capace nelle sue deduzioni, al contrario per il resto del tempo è così evidente, sopratutto ad una seconda visione, che stia fingendo di non vedere cosa sta succedendo.

Quindi è una falsa pista tanto per dire, che in realtà racconta un personaggio molto intrigante con un interprete d’eccezione, che non vedo l’ora di rivedere in azione.

Un cast esplosivo

Oltre al fantastico Daniel Craig, la pellicola gode di un cast stellare.

Fra tutti i personaggi secondari, per me spiccano due attrici che sono meravigliose praticamente in ogni ruolo – e non a caso sono fra le mie interpreti preferite: Jamie Lee Curtis e Toni Collette.

Da una parte Jamie Lee Curtis nel ruolo della ricca ereditiera che vive nella favola della self made woman, dall’altra Toni Collette come l’arrampicatrice sociale e approfittatrice. Entrambe incredibilmente in parte, oltre ad uno spettacolo visivo e interpretativo.

Menzione d’onore alla povera Katherine Langford, che a me era tanto piaciuta nella prima stagione di Thirteen reasons why (e non oltre), ma che dopo questo film è praticamente scomparsa dalle scene.

Ma, anche qui, fa il suo.

Una stella nascente

Ovviamente parlando di Knives out non si può non parlare di quella che al tempo era una stella nascente e che fu un po’ lanciata proprio da questo prodotto.

La splendida Ana De Armas.

Perfetta nella parte della ragazza tormentata dagli eventi, genuinamente impaurita e di assoluta bontà, che si trova messa in mezzo in una situazione che è emotivamente e fisicamente troppo da sopportare, ma che comunque si rivela capace di tirarsi fuori da sola.

Come attrice ha un volto che si presta benissimo a questo tipo di ruoli, come infatti anche nel recente Blonde (2022).

Da parte mia spero che non si affossi in questo tipo di ruoli, ma ne esplori anche di diversi.

Una nuova strada

Knives out fu veramente un vivaio di stelle nascenti: fu anche la prima volta che Chris Evans si smarcò veramente dal personaggio di Captain America.

So che molti non sono d’accordo, ma, anche con film beceri come The Gray Man (2022), io sto profondamente apprezzando la nuova strada che ha preso questo attore, preferendo i personaggi negativi e sarcastici, a volte anche molto sopra le righe.

In questo caso il suo personaggio è tenuto in caldo per quasi la metà della pellicola, per poi essere tirato fuori a sorpresa in una scena in cui, alla seconda visione, mi stavo veramente sbellicando.

E i cui indizi della sua colpevolezza sono quanto mai evidenti…

Il tema attuale

Un elemento che mi è molto piaciuto di questa pellicola è la sua vicinanza con la stretta attualità.

Anzitutto per il discorso riguardo all’immigrazione, tema sempre molto caldo negli Stati Uniti, e sopratutto quando uscì il film, ovvero nell’America trumpiana.

E infatti la famiglia protagonista è la stessa che si scandalizza davanti alle pratiche disumane di gestione dei migranti da parte del governo in carica, ma rivela tutta la sua ipocrisia nel suo rapporto con Maria.

Infatti per tutta la pellicola continuano a trattarla con sufficienza, evidentemente considerandola a loro inferiore, e cercando di circuirla sulla questione dell’eredità che spetta loro di diritto, nonostante siano stati dei totali parassiti verso il padre.

E diventa al limite del grottesco quando si scopre che la cara casa di famiglia non ha neanche delle radici così antiche…

Il trucco del Tenente Colombo?

Un piccolo appunto in vista dell’arrivo del sequel, Glass onion (2022).

Come detto, una delle false piste di questa pellicola è come il detective Blanc si finga incapace e inetto, così da farsi sopravvalutare e manovrare i personaggi a suo piacimento.

E non vorrei che nel sequel, con un cast rinnovato, si rinnovi questa falsa pista, non a favore dello spettatore, ma dei personaggi.

Proprio come era tipico della serie de Il tenente Colombo, che veniva costantemente sottovalutato dai personaggi.

Nel caso, sarà interessante vedere come la gestiranno…

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Frozen – Il mediocre di successo

Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee è uno dei lungometraggi animati più redditizi della storia della Disney. Un prodotto che ebbe infatti un successo immenso, tanto che alcune parti del film sono ancora oggi assolutamente iconiche.

Per capire il tipo di riscontro che ebbe, a fronte di un budget di appena 150 milioni di dollari, incassò quasi 1,3 miliardi in tutto il mondo.

Se avete vissuto nel periodo della frozen-mania saprete fino a che punto eravamo bombardati dalle infinite riproposizioni di Let it go e affini, da cui io stessa fui coinvolta. Tuttavia, andando a guardare il prodotto con un giudizio più analitico, e non di pancia, emergono tutte le crepe.

Di cosa parla Frozen?

Elsa e Anna sono due sorelle in un regno immaginario dal sapore germanico, e vivono un’infanzia spensierata. Se non fosse che Elsa possiede dei poteri apparentemente incontrollabili…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare Frozen?

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

No.

E potremmo chiuderla qui.

Ammetto di avere un malcelato fastidio per questa pellicola, che mi portò al tempo a vederlo due volte al cinema, non riuscendo per nulla a capire l’entusiasmo che aveva suscitato. Lo trovai un film assolutamente normale, anzi molto difettoso, una brutta copia di Rapunzel (2010), da cui pescava a piene mani, in maniera anche piuttosto maldestra.

Col tempo, mi resi conto di quanto questo prodotto dovesse il suo successo a pochi elementi di vincenti, che oscurarono tutto il resto. Per me è un film mediocre, mediocrissimo, ma se proprio volete vederlo, non aspettatevi gran che.

Sicuramente i bambini lo ameranno.

Elsa: un’adulta irrequieta

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Elsa non è un bel personaggio.

E con questo intendo dire che la sua figura è stata particolarmente esaltata come un grande passo avanti per la Disney a livello di rappresentazione dei personaggi femminili, dal momento che è forse la prima che non abbia una storia romantica all’interno del suo percorso.

Tuttavia questo non significa che sia un passo veramente avanti né un buon esempio per il target di riferimento.

Infatti il problema non è tanto avere o meno un interesse romantico, ma essere definito dallo stesso: protagoniste come Mulan e Rapunzel vivono indipendentemente dalle loro storie romantiche, e hanno una crescita emotiva molto più interessante.

Elsa è infatti un’adulta irrequieta, prigioniera (per motivi che poi affronteremo) della sua stessa famiglia, e che non è capace di vivere serenamente la sua vita e che, da un momento all’altro, perde la testa e lascia totalmente a briglia sciolta i suoi poteri.

E tutta la sua storia manca di un’evoluzione emotiva degna di questo nome.

I problemi non risolti

Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

L’evoluzione emotiva di Elsa dovrebbe portare alla risoluzione di un profondo conflitto interiore che la rendeva incapace persino di uscire dalla sua stanza.

Tuttavia questo prende anzitutto una strada del tutto negativa, dove lei sembra quantomeno risolvere (senza che questo abbia una chiara spiegazione) il valore distruttivo dei suoi poteri, rendendoli invece positivi e costruttivi.

Ma nulla si risolve dal punto di vista emotivo.

E infatti la troviamo ancora piuttosto tormentata sia quando Anna la va a trovare, sia dopo, con intere scene in cui mostra la sua irrequietezza. E la risoluzione di tutti i suoi problemi sembra l’accettazione dell’amore della sorella e, per estensione, l’accettazione di tutti gli altri.

Ma senza che di fatto ci sia stata una vera evoluzione o un vero percorso, se non una sorta di terapia d’urto con la morte della sorella. Senza che sappiamo nulla sull’origine dei poteri, di come infine riesca a controllarli.

Nulla.

Anna: il bilanciamento drammatico

Anna (Kristen Bell) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Anna è di fatto la vera protagonista della pellicola.

E non è di per sé un personaggio problematico, ma è piuttosto appiattita nella figura della principessa ingenua e ingiustificabilmente positiva, che riesce facilmente a farsi circuire da un personaggio assolutamente ridicolo come Hans.

Ma c’è un chiaro motivo.

Elsa è un personaggio troppo drammatico per un prodotto con target infantile, troppo tormentato per essere effettivamente digeribile ed essere effettivamente protagonista del film.

Per questo ha bisogno di un bilanciamento drammatico da parte di Anna, nonostante il suo comportamento sia totalmente poco credibile, in quanto dovrebbe avere almeno la metà dei drammi emotivi di Elsa.

Invece Anna sostiene tutto il peso emotivo della sorella, la va a cercare e in ultimo la salva effettivamente. E si salva da sola.

Insomma, un personaggio che poteva essere ben più interessante di come è stato scritto.

L’anello debole

Anna (Kristen Bell) e Kristoff (Jonathan Groff) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

La storia romantica di Anna e Kristoff è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Complice anche lo screentime veramente scarso che gli è stato concesso.

Di fatto, Anna e Kristoff si devono innamorare, e devono intraprendere una relazione perché la trama lo richiede. Dal punto di vista emotivo, Anna non ha effettivamente imparato così tanto, perché capisce di amare il suo compagno di viaggio dopo non tantissimo tempo che stanno insieme e dove non sembra che ci sia un’effettiva evoluzione del loro rapporto.

E questo è così tanto diverso dall’apparente rapporto idilliaco con Hans?

Banalmente, basterebbe confrontare l’eccellente costruzione del rapporto fra Flynn e Rapunzel in Rapunzel: i due partono da una relazione incredibilmente antagonistica, vivono una precisa e interessantissima evoluzione, con una relazione romantica va molto oltre il semplice amore, ma che ha un significato ben più profondo.

Possiamo dire lo stesso per Anna o concludiamo che si tratta dell’ennesima principessa che si innamora perché deve innamorarsi?

Alla faccia del passo avanti…

Una relazione quasi grottesca

Inoltre, relazione fra Anna e Kristoff è talmente forzata da risultare quasi grottesca.

Il punto più drammatico è quando i due si recano dai troll per curare Anna, ma la scena si trasforma in una sequenza senza senso, anzi piuttosto fastidiosa, in cui i troll pensano che Kristoff voglia sposare Anna e li costringono quasi a farlo.

Per concludere con la più classica paraculata Disney del vero amore che vince su tutto.

E a questo punto Anna viene riportata a palazzo per essere salvata da Hans, per poi inseguire in maniera anche abbastanza disturbante Kristoff per farsi baciare. E per fortuna questa idea è sventata dal film stesso, in cui mostra che il vero amore è quello fra Anna e Elsa.

Elemento che, però, va ancora più a svalutare la relazione fra Anna e Kristoff.

Un viaggio dispersivo

Anna (Kristen Bell), Kristoff (Jonathan Groff) e Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Altro elemento problematico di Anna è la gestione del suo viaggio.

Anna intraprende il viaggio per andare da Elsa, non risolve assolutamente niente, e si lascia inutilmente trasportare da Kristoff verso un siparietto agghiacciante (di cui sopra), e infine si mette in trappola da sola.

Quindi sostanzialmente Anna diventa vittima degli eventi stessi, riesce a salvarsi sul finale, ma di fatto, da circa metà del film in poi, si dimentica del problema principale della pellicola, ovvero sua sorella, e mette (anche comprensibilmente) al centro della trama la sua salvezza personale.

E tutto viene risolto magicamente negli ultimi minuti.

I genitori: i veri villain

La conclusione più surreale di questa pellicola è rendersi conto che i genitori sono i veri villain.

Non stiamo parlando certo di popolani che devono proteggere la figlia dal linciaggio della massa, ma regnanti che potenzialmente potevano rendere la loro figlia una figura di culto, persino un’arma, e modellare l’opinione pubblica a loro uso e consumo.

Invece, giustamente, non solo non cercano neanche di provare ad aiutarla a capire i suoi poteri, magari cercando una persona che potesse darle una mano, ma la fanno sempre più rinchiudere in sé stessa, traumatizzandola definitivamente.

Un meccanismo della trama senza alcun costrutto.

O piuttosto una forzatamente versione positiva del rapporto distruttivo fra Rapunzel e Madre Gothel…

Olaf: un disastro estetico

Olaf (Josh Gadd) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

So che molti non saranno d’accordo, ma io detesto Olaf.

Le sue canzoni sono veramente di cattivo gusto a livello estetico, plasticose e totalmente fuori contesto, non mi piace l’ironia e il punto chiave della sua personalità, ovvero amare un elemento contrario alla sua natura.

Ma soprattutto detesto il suo character design, che trovo molto abbozzato e sinceramente brutto, secondo solamente a quella mostruosità del mostro marshmallow che caccia Anna e Kristoff dal palazzo di Elsa.

Ed è un problema anche più ampio.

L’unica cosa che funziona

Anna (Kristen Bell) e Elsa (Idina Menzel) in una scena di Frozen (2013) di Chris Buck e Jennifer Lee

Nonostante tutti i difetti, la relazione fra Anna e Elsa è l’elemento più solido della trama, e forse anche quello che tutto sommato la tiene insieme.

Un elemento emotivo molto forte, forse anche più importante da raccontare ad un pubblico infantile piuttosto che replicare nuovamente la questione del vero amore romantico. E infatti una delle canzoni più iconiche della saga è Wanna build a snowman?, con tutto il carico emotivo che si porta dietro.

E la scelta di rendere il salvataggio della protagonista per mano della sorella e non di un uomo appena conosciuto, nonostante si incastri male nel contesto, era una buona idea, almeno sulla carta.

Perché Frozen ha avuto tutto questo successo?

Il successo di Frozen, ovviamente, è stato veicolato dal pubblico infantile che si è innamorato del prodotto, e in particolare del personaggio di Elsa.

Perché, nonostante tutte le mie analisi, è indubbio che Elsa sia un personaggio intrigante e sicuramente diverso dal solito. Ma soprattutto il suo character design è davvero incredibile, ben pensato e davvero vendibile.

E infatti per me ancora rimane un mistero come abbiamo fatto un lavoro creativo così ottimo con questo personaggio e così pessimo col resto.

Stesso discorso vale per Let it go, canzone che personalmente apprezzo, sia per la scena, sia perché è stata cantata da un’artista di grande talento come Idina Menzel, sia per il valore emotivo che l’accompagna.

Un altro elemento molto iconico, in un mare di canzoni, con l’eccezione di Wanna build a snowman?, piuttosto mediocri e dimenticabili.

Insomma, un prodotto con pochi elementi vincenti e iconici in un oceano di mediocrità.

Frozen 2 – La rivelazione

Mi sono fatta delle grassissime risate con Frozen II (2019).

Sia perché il film si presta molto di più (volontariamente o involontariamente) alla risata, sia perché sono state confermate tutte le mie ipotesi sul successo del primo film, di cui sopra.

Se ci avete fatto caso, questo prodotto, nonostante un incasso sempre straordinario, è stato accolto molto più tiepidamente dal pubblico non in target, che invece aveva tanto lodato la prima pellicola.

E questo perché, secondo me, Frozen II è un film che mostra la stessa mediocrità del primo, con la differenza che manca degli elementi iconici che avevano definito il successo del precedente film.

Tuttavia un ottimo modo per vendere nuovi giocattoli, indubbiamente.

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Ritorno al bosco dei 100 acri – Una favola di concetto

Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster è un prodotto ispirato ai racconti per l’infanzia di Winnie the Pooh e Christopher Robin.

Un film che cercava fare breccia nella nostalgia degli adulti, sia di agganciare un nuovo pubblico di bambini. Riuscendoci in parte: davanti ad un budget intorno al 70 milioni, ebbe un buon riscontro di 197 milioni di incasso.

Tuttavia, forse non era quello che si aspettavano. Infatti, in quel periodo uscirono due film analoghi, Paddington (2014) e il seguito, Paddington 2 (2017), costati pure meno e che per questo furono decisamente più redditizi: rispettivamente 282 milioni e 227 milioni.

Di cosa parla Ritorno al bosco dei 100 acri?

Christopher Robin deve abbandonare i suoi amici del bosco dei 100 acri per andare in collegio, esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ritorno al bosco dei 100 acri?

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

In generale, sì.

La pellicola ha molti punti forti, che lo rendono un film molto piacevole da guardare, con diversi momenti strappalacrime, oltre ai dolcissimi personaggi del bosco. Un film con una trama semplice e lineare, quasi prevedibile, ma che in molti punti scalda davvero il cuore.

Tuttavia, è un film che consiglio di guardare senza pensarci troppo: ad un’analisi più approfondita il film risulta difettoso in più punti, in particolare con una struttura narrativa un po’ traballante e tematiche più adatte ad un pubblico molto adulto che di bambini…

Inghiottiti dal lavoro

Ewan McGregor in una scena di Ritorno al bosco dei 100 acri (2018) di Marc Forster

Il racconto del padre di famiglia che non si occupa adeguatamente dei figli e che li stressa per raggiungere il loro meglio è un topos narrativo molto tipico di questo tipo di film, fin da Mary Poppins (1964).

Tuttavia, in questo caso è raccontato in maniera forse più pesante del necessario: solitamente si associa questo tipo di racconto alla perdita dei sogni infantili e della spensieratezza una volta giunti alla vita adulta, ad uso e consumo del target infantile.

Invece in Ritorno al bosco dei 100 acri il protagonista è schiavo della retorica capitalista del col duro lavoro raggiungerai tutto quello che vorrai. Un tema drammaticamente attuale, che può essere facilmente comprensibile per un pubblico molto adulto, mentre potrebbe aver solo confuso un pubblico infantile.

Il bambino non protagonista

Forse un altro malus per la ricezione di questo film è stata proprio la mancanza di un protagonista infantile. Per due terzi della pellicola il personaggio principale è l’adulto che vuole tornare bambino, non il bambino stesso.

E, come detto, un adulto con dinamiche adulte, poco interiorizzabili da un pubblico infantile.

Infatti, il film e le sue tematiche dialogano non tanto con il sogno infantile della spensieratezza, ma al contrario con l’idea di dover tenere insieme un’azienda, fare il proprio lavoro e non rovinare la vita agli altri. E infatti, la risoluzione del problema, che cerca di scardinare un classismo di fondo della società, è un elemento poco chiaro per un bambino,

E poco importa se in parte la figlia del protagonista porta l’idea risolutiva.

Perché lei stessa è l’elemento più difettoso.

Il personaggio infantile

Quella che dovrebbe essere la protagonista del film, è in realtà catapultata al centro della scena sul finale per risolvere la situazione, senza che però il suo personaggio sia stato adeguatamente costruito, dando allo spettatore la possibilità di essere coinvolta con la sua storia.

Infatti, Madeline dovrebbe avere un’evoluzione durante il film per ritrovare la sua spensieratezza infantile, ma succede tutto troppo improvvisamente e senza dare il tempo al personaggio di respirare.

E questo è dovuto ad una struttura narrativa traballante, che sembra voler rispettare una serie di step obbligati di questo tipo di film, ma mancando di una robusta struttura che li tenga insieme.

Una scelta ottima…ma poco credibile

Personalmente ho davvero apprezzato la scelta di rendere i personaggi del bosco come bambole di pezza, realizzati in maniera molto credibile e che riescono a riprendere i caratteri dei personaggi originali, ma riuscendo anche ad adattarli al tono del film.

E la maggior parte dei loro discorsi toccano veramente nei punti giusti, e mi hanno sinceramente commosso.

Tuttavia, questa scelta è purtroppo poco credibile quando i personaggi del bosco dei 100 acri escono dal bosco stesso. La dinamica dovrebbe essere alla Toy Story, ovvero che si fingono delle bambole di pezza rimanendo immobili.

Ma questo succede troppo poco spesso e così troppo poco spesso gli altri personaggi umani si rendono conto della loro vera natura. I momenti in cui succede sono funzionali alla narrazione, ma per molto tempo del film io non riuscivo a credere a quello che vedevo in scena.

Perché Ritorno al bosco dei 100 acri non fu un grande successo?

Fra il 2014 e il 2018 sembra che fosse il grande momento dei buddy movie con un adulto e un orsetto.

Eppure, nessuno di questi fu un grandissimo successo: come detto quello che ne uscì meglio fu proprio la duologia di Paddington, che fu anche quella che costò di meno.

Anche peggio fu la produzione di Vi presento Christopher Robin (2017), che fu un flop al botteghino.

Nel caso de Ritorno al bosco dei 100 acri si trattò di un film ben più ambizioso, con un attore capace e quasi il doppio di Paddington. Un prodotto che però non riuscì particolarmente a distinguersi, azzeccando poco il target di riferimento e forse definendo la conclusione di un trend che era ormai saturo.

Lode a Ewan McGregor

Ewan McGregor è un attore che apprezzo moltissimo.

Soprattutto perché è uno di quegli interpreti magnifici che in ogni produzione ci mettono veramente impegno. Anche quando si trova in produzioni che non richiedono particolari doti interpretative e che, negli ultimi tempi, hanno portato a risultati spesso deludenti.

Partendo dal tentativo di rilancio di Trainspotting, che ha avuto un riscontro economico non particolarmente entusiasmante, il flop di Doctor Sleep (2019) e poi quello di Birds of prey (2020).

In particolare quest’ultimo è stato per me un film mediocrissimo, oltre che con la campagna di marketing e la distribuzione meno azzeccata nella storia del cinema. E comunque anche in quello McGregor ha fatto del suo meglio.

E così anche ne Ritorno al bosco dei 100 acri ha recitato per la maggior parte delle scene da solo in scena, riuscendo a dare un’interpretazione sempre convincente.

Non proprio una cosa da tutti.

Ed è veramente un peccato che il maggior successo che questo attore abbia avuto recentemente è stato con quella mediocrata di Obi-Wan...

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Everything everywhere all at once – Forse troppo

Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche è un film totalmente surreale, che riesce ad unire il genere fantascientifico e fantastico con il dramma familiare.

Un prodotto tanto creativo e profondo tanto, per certi versi, difettoso.

Il film è stato un successo di pubblico incredibile, sopratutto al botteghino statunitense: a fronte comunque di un budget non irrisorio di 25 milioni di dollari, è arrivato ad incassare ben 140 milioni in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Everything everywhere all at once (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale

Miglior attrice protagonista a Michelle Yeoh
Miglior attore non protagonista a Ke Huy Quan
Migliore attrice non protagonista a Jamie Lee Curtis

Migliore attrice non protagonista a Stephanie Hsu
Miglior montaggio
Migliori costumi
Migliore colonna sonora
Miglior canzone originale

Di cosa parla Everything everywhere all at once?

Evelyn è una donna immigrata che si spacca la schiena dietro alla gestione della sua lavanderia a gettoni e della sua complicata famiglia. Un giorno viene improvvisamente contattata da un uomo che dice di venire da un altro universo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Everything everywhere all at once?

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Dipende.

Everything everywhere all at once è uno di quei classici film che spaccano il pubblico: è in effetti un prodotto particolarissimo, neanche facilissimo da seguire, ma che, se siete ben disposti, vi entrerà nel cuore.

Insomma, se state cercando un film che è un’esplosione di creatività e di pura estetica, che cerca di trasmettere dei profondi messaggi sulla vita e sulla famiglia, riuscendo anche ad essere discretamente divertente, potrebbe fare per voi.

Se invece non siete propensi ad accettare un film che dà più valore al messaggio e all’estetica che alla trama di per sé, potreste genuinamente odiarlo.

Essere disastrosamente creativi…

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

La creatività e l’estetica di questo film è non solo ammirabile, ma davvero sensazionale.

Sopratutto con i diversi costumi e aspetti di Joy, riesce a sperimentare e a portare in scena veramente di tutto, con una varietà e una cura del suo personaggio che mi ha fatto veramente impazzire.

Al contempo, anche se le idee raccontate magari non sono il massimo dell’originalità, ma anzi pescano a piene mani da cult come Matrix, i registi riescono comunque a sbizzarrirsi parecchio.

Sopratutto particolarmente divertenti sono i trampolini, anche se ammetto che ho riso meno dei miei compagni in sala (e forse anche di voi), per certe battute.

Insomma, per me l’umorismo è vincente fintanto che non scade nello slapstick.

…ma dimenticarsi del resto

Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Per quanto un film possa essere incredibilmente creativo e artistico, non può dimenticarsi di avere una struttura narrativa, a meno che non voglia lanciare una corrente cinematografica che si ribella alle strutture narrative stesse (e non credo sia questo il caso).

Penso sia più probabile che questa coppia di fantasiosi ma anche talentuosi registi si sia trovata con un’ottima idea fra le mani, ma non sono stati in grado di esplicarla efficacemente in una struttura narrativa.

Infatti sembra che la trama parta in un certo senso immediatamente, senza neanche una introduzione effettiva che porti ad un secondo atto, che si espanda disordinatamente fino ad un finale che è pure efficace, ma che non arriva in maniera organica.

Non del tutto da buttare, ma un pochino più di ordine e di idee chiare avrebbe indubbiamente giovato al film.

La spirale dell’autodistruzione

Stephanie Hsu in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Uno dei punti fondamentali del film è il racconto di questo senso di fallimento e del volersi del tutto annullare.

Volendo andare a leggere più drammaticamente il black bagel, è possibile che si volesse raccontare in maniera anche un po’ più scanzonata la depressione e probabilmente anche il suicidio.

Joy sembra infatti volersi lasciare totalmente travolgere da questo senso di inadeguatezza e di fallimento.

È invece la madre, Evelyn, che accetta infine il suo fallimento, di essere la sua versione peggiore possibile, ma comunque di riuscire ad apprezzare la bellezza di quel poco che ha e di tutto il valore che può avere anche solo stare con suo marito, cosa che in altri universi di successo non ha.

Un finale quasi da commedia, ma ben contestualizzato e che ti scalda il cuore.

Contro il sogno americano

Michelle Yeoh in una scena di Everything everywhere all at once (2022) di Daniel Kwan e Daniel Scheinertche

Due elementi mi hanno particolarmente colpito della pellicola: la scelta della protagonista e il racconto del sogno americano.

Anzitutto, particolarmente raro vedere come protagonista di un film con elementi anche action una donna di mezza età, con anche la sua controparte di Deirdre, interpretata da un’esplosiva Jamie Lee Curtis.

Altrettanto dissacrante il fatto che la realizzazione personale della protagonista, almeno in potenza, non avvenga negli Stati Uniti, la terra promessa, ma in patria. Anzi, la scelta di immigrare negli Stati Uniti è quello che l’avrebbe portata più alla povertà e alla poca realizzazione.

Una certa novità in un panorama recente che racconta di come gli immigrati negli Stati Uniti che hanno solo da guadagnare nella nuova situazione: basta guardare Shang-chi e la leggenda dei dieci anelli (2021) e Red (2022) per capire la tendenza.

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Lamb – Una favola gotica

Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson è un film islandese presentato anche a Cannes nel 2021 e agli Oscar 2022 nella categoria Miglior film straniero, con un certo riscontro anche nel cinema internazionale.

Il budget del film è ignoto, ma sicuramente è stato abbastanza risicato, effetti speciali permettendo. In tutto il mondo ha incassato 3,1 milioni.

Di cosa parla Lamb?

María e Ingvar sono due fattori in un luogo sperduto dall’Islanda, che vivono la loro vita per giorno. La situazione cambia improvvisamente con la nascita di uno strano cucciolo da una delle loro pecore…

Vi lascio qui il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo: il primo atto del film è molto più godibile senza sapere nulla.

Vale la pena di vedere Lamb?

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

In generale, sì.

Lamb è un prodotto di alto valore artistico, ma con ritmi e un linguaggio non del tutto comprensibile nell’immediato, soprattutto per quanto riguarda il primo atto, quello più dominato dai silenzi e dalle inquadrature enigmatiche.

Gli ultimi due terzi di film sono quelli più digeribili: le dinamiche in scena, tolto l’elemento fantastico, il film si segue con abbastanza facilità. Come prodotto mi ha in parte ricordato The Witch (2015), senza però l’elemento orrorifico, molto meno presente di quanto è stato pubblicizzato.

Insomma, se cercate un prodotto di cinema fantastico che gioca molto con l’elemento favolistico e folkloristico, potrebbe davvero sorprendervi.

La costruzione del colpo di scena

Una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Il primo atto è complessivamente quello più riuscito dell’intera pellicola: ti racconta lo sbocciare dell’amore per Ada e la rinascita della relazione matrimoniale, al contempo capace di nasconderti sapientemente la vera natura della figlia adottiva.

Infatti io, che conoscevo principale colpo di scena del film, ho avuto un cortocircuito mentale in cui pensavo di essermi sbagliata nel capire il punto centrale della storia, in quanto mi aspettavo che il vero aspetto di Ada fosse rivelato immediatamente.

In un certo senso all’inizio forse i due protagonisti nascondono la natura della figlia anche a loro stessi: mentre il suo essere una creatura ibrida può apparire grottesco, vedere solo la testa di agnello ispira una naturale simpatia e dolcezza.

Oltre a questo, questa scelta della rivelazione più tardiva non distrae dal punto centrale della scena: la crescita del rapporto d’amore per la bambina.

La maternità rubata

Noomi Rapace in una scena di Lamb (2021) di Valdimar Jóhannsson

Marìa si appropria quasi egoisticamente di una maternità che non le appartiene, ribadendo la sua superiorità umana contro quella bestiale della vera madre di Ada. E se ne riappropria definitivamente utilizzando un’arma umana contro di lei.

La scelta è dovuta ai suoi incubi ricorrenti riguardo a questa maternità rubata: la donna è di fatto cosciente di essersene appropriata ingiustamente, ma non può permettere che di nuovo un’altra figlia le sia tolta. Si vede infatti che Marìa visita la tomba della figlia umana morta, con lo stesso nome della figlia adottiva.

E, come una sorta di contrappasso dantesco, questa violenza le si ritorce contro: alla fine sarà il vero padre di Ada, che ha tutte le capacità umane di rivalersi contro i rapitori della figlia, proprio nella stessa maniera umana che loro stessi hanno utilizzato.

Il simbolismo di Lamb

Lamb sembra trarre da diverse simbologie: quella più immediata è indubbiamente il mito del Minotauro, un racconto di hybris sempre legato ad una maternità mostruosa.

Con anche una sorta di ribaltamento: al contrario del Minotauro, che è un essere repellente, Ada è associata ad un animale spesso simbolo di delicatezza e dell’infanzia.

Un altro mito meno immediato è quello di Ganesha, l’aspetto più ricorrente del Dio della religione induista, nella forma di uomo con la testa di elefante. Secondo uno dei miti più diffusi riguardo alla sua nascita, il Dio sarebbe stato originariamente un fanciullo ingiustamente decapitato, la cui testa sarebbe stata sostituita da quella di un animale, l’elefante appunto.

In Lamb si ricollegherebbe al tentativo di Marìa di ricostruire la figlia che le è stata ingiustamente tolta.

Come è stata fatta Ada?

Ada ha dalla sua parte il fatto di essere un personaggio sostanzialmente muto, che non richiedeva quindi di essere interpretata da un attore professionista. E infatti è stata portata in scena da diversi bambini locali coinvolti nella produzione.

I bambini coinvolti indossavano una sorta di casco con il green screen, su cui poi è stata creata la testa, ideata usando come modello delle vere pecore di allevamenti locali al luogo della produzione.

La risoluzione e la credibilità del risultato è senza eguali per un film che è di fatto una produzione indipendente.

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The Royal Tanenbaums – Iconici e acerbi

The Royal Tenenbaums (2001) è uno dei primi film di Wes Anderson, quando era ancora un regista molto di nicchia. Infatti in questa pellicola si nota come non fosse ancora il Wes Anderson che conosciamo oggi, per così dire.

Un piccolo film prodotto con un budget non minuscolo: fra i 21 e i 28 milioni, con un incasso di 71 milioni di dollari, rendendolo un buon successo commerciale.

E diventando per certi versi involontariamente iconico.

Di cosa parla The Royal Tanenbaums?

I Tanenbaum sono una famiglia imperfetta: i figli crescono con un’infanzia molto particolare, additati fin da subito come piccoli geni, dilaniati dai traumi e dal padre assente, che decide improvvisamente far capolino nella loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare The Royal Tenenbaums?

Gwyneth Paltrow e Bill Murray in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Oltre ad essere complessivamente un film molto gradevole e con una durata assolutamente digeribile, è sicuramente un prodotto da riscoprire se siete appassionati di Wes Anderson.

Infatti in questa pellicola si trova un Anderson ancora acerbo e alle prime armi, ma che già mostrava i primi semi dei suoi temi più cari, ripresi in film successivi, e della sua estetica.

Tuttavia, è dovuto indicare dei trigger alert: è fra i prodotti più dark della sua produzione, quindi si parla in maniera abbastanza esplicita del suicidio e della morte in generale.

Pur contenute all’interno del genere della commedia, non mancano le scene d’impatto, una in particolare piuttosto forte.

A parte questo, vale assolutamente la pena di recuperarlo.

Involontariamente iconici

Oggi, davanti alle commedie con finali e risvolti agrodolci di Wes Anderson, consideriamo questi aspetti come un suo tratto autoriale.

Tuttavia in The Royal Tenenbaums questo taglio decisamente drammatico e dark sembra più raccontare il sentimento della generazione proprio del periodo in cui la storia è ambientata, in cui discorsi sul suicidio (veri o presunti) erano quasi all’ordine del giorno.

Quindi il racconto di questi ragazzi così tormentati e pieni di traumi, che non riescono a vivere serenamente la propria vita familiare e soprattutto sentimentale, era del tutto riconoscibili dai giovani di quella generazione.

In particolare nel personaggio di Margot.

Un’icona imperfetta

Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Margot, ad una lettura più superficiale, potrebbe apparire come la classica adolescente di quel periodo.

La matita nera sotto agli occhi, l’atteggiamento distaccato e misterioso…insomma la ragazza enigmatica che era il sogno di tanti adolescenti, che avrebbero voluto essere anche solo la metà interessanti quanto lei.

E non a caso il suo personaggio è diventato iconico ed è stato per molto tempo citato continuamente, anche solo per le GIF che la ritraevano, anche da persone che probabilmente non avevano visto il film.

Ma in realtà Margot è molto di più.

Una giovane donna con davvero un’infanzia traumatica, che ha esplorato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di sé stessa, con azioni anche piuttosto estreme che nessuno ha provato a frenare, anzi è stata in un certo modo incoraggiata per l’aura di mistero e ammirazione che la circondava.

Ma questo l’ha portata anche a non saper avere relazioni sane e soddisfacenti, tradendo la fiducia di più e più persone. In ultimo si è trovata sola, in un matrimonio poco soddisfacente, andando ancora a rincorrere un amore adolescenziale…

L’assenza involontaria?

Gene Hackman in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Royal Tenenbaum è una figura nel suo piccolo piuttosto complessa.

Un padre assente per la maggior parte della vita dei suoi figli, senza neanche saperne veramente il motivo. In un certo senso sembra che si sia lasciato trascinare dagli eventi e dal suo istinto, facendo quello che in quel momento gli sembrava più giusto, senza starci troppo a pensare.

Per questo si è però col tempo totalmente allontanato dalla propria famiglia, a cui comunque voleva bene, facendo nel corso della pellicola una serie di sforzi più o meno maldestri (e neanche del tutto giusti) per riavvicinarsi a loro.

Il tutto sopratutto per riacquistare la propria posizione con la moglie, alla fine rendendosi conto di quanto si fosse perso senza di loro.

Con un ultimo momento di felicità prima di morire, per davvero.

Raccontare i traumi

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

The Royal Tenenbaums è un film che parla soprattutto di traumi.

Anzitutto Richie, che ha vissuto tutta la vita all’ombra di Margot, tanto da rinunciare al suo talento per il tennis proprio perché ferito dal suo non aver scelto lui come partner.

E per lo stesso motivo decide anche di provare a togliersi la vita, con un atto estremo in cui si spoglia della sua identità. Tuttavia questo gli permette in un certo senso di fare la muta, di ricominciare a vivere con una persona almeno un po’ più consapevole di se stessa.

Non da meno è anche Chas, totalmente traumatizzato dalla morte della moglie, tanto da fare di tutto per continuare a tenere il più possibile al sicuro i propri figli da qualunque pericolo, anche il più assurdo.

E, a sorpresa, ritrova la sua tranquillità e accetta il suo trauma proprio grazie al padre.

In tono minore, ma comunque con un personaggio molto tipico da Wes Anderson, è Eli Cash, il cui problema più evidente è la sua dipendenza dalla droga, ma in realtà altrettanto problematico è il suo non riuscire ad affermarsi ed essere un artista fallito, che non trova mai la sua vera strada nella vita, anelando sempre di essere quello che non è: un Tenenbaums.

I semi di Wes Anderson

Luke Wilson in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson

Come detto, in questa pellicola si trovano molti temi cari e i caratteri che già definiranno l’estetica di Wes Anderson negli anni a venire.

Oltre al tipo di estetica vintage, ispirata alle atmosfere degli Anni Sessanta, spicca molto anche l’utilizzo delle luci piene e aranciate, oltre alla cura già piuttosto centrale per i dettagli della scena.

Il tipo di personaggi sono molto tipici di Wes Anderson, a partire dal padre imperfetto, che si vide poi in Fantastic Mr Fox (2008) e la donna enigmatica, come poi in Moonrise Kingdom (2012).

Così anche le ambientazioni: prima di tutto dell’hotel, che sarà il grande protagonista in Gran Budapest Hotel (2016), e le atmosfere marine che poi saranno al centro di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004).

Ma soprattutto le prime avvisaglie della sua ossessione per la simmetria delle scene si vedono molto bene in questa inquadratura:

Luke Wilson e Gwyneth Paltrow in una scena di The Royal Tenenbaums (2001) di Wes Anderson
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Don’t Worry Darling – È ora di essere felici?

Don’t worry darling (2022) è l’ultima pellicola di Olivia Wilde con protagonisti Harry Styles e Florence Pugh. La seconda pellicola della regista, dopo l’ottimo Booksmart (2019), in Italia noto con l’infelice titolo di La rivincita delle sfigate.

Una pellicola circondata da moltissimi pettegolezzi (che non ho intenzione di approfondire) e la cui presenza di Harry Styles potrebbe essere un boomerang (di cui bisogna parlare).

Per ora ha aperto molto bene nel primo weekend, con 30 milioni in tutto il mondo. A fronte di un budget di 35 milioni di dollari, è possibile che ci sia un buon rientro economico.

Di cosa parla Don’t worry darling?

Alice e Jack sembrano vivere una vita perfetta, in una perfetta comunità esclusiva degli Anni Sessanta. Ma le anomalie del mondo che li circonda sono sempre più evidenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Don’t worry darling?

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Davanti ad una pellicola complessivamente interessante e godibile, non è un film che considero personalmente imperdibile. Non mi verrebbe per nulla di bocciarla (come tanti hanno fatto), ma neanche di esaltarla.

Nonostante la regia sia dinamica e la storia abbastanza interessante, presenta una sceneggiatura in non pochi punti difettosa, arrivando ad una conclusione non banale, ma neanche del tutto soddisfacente.

Insomma, se volete dargli una chance, dategliela. Ma non aspettatevi qualcosa di alto livello o davvero originale come era stato per il precedente film della regista.

Harry Styles ha attirato il pubblico sbagliato?

Anche senza aver visto il film, appare del tutto evidente che non stiamo parlando di un filmetto da pomeriggio di Italia 1, nè di un prodotto esattamente per tutti i palati.

Tuttavia, dalla mia esperienza in sala, ho scoperto che questa pellicola ha attirato non pochi spettatori non abituati alla sala e sopratutto attirati solamente dalla presenza di Harry Syles.

Ed è un peccato.

Perché a parte tutto posso dirvi che Harry Styles non è un attore di richiamo messo lì apposta e senza nessun talento, ma un neonato attore che in questa pellicola ha davvero dato il suo meglio.

Tuttavia, visto anche il riscontro tiepido (se non peggio) della pellicola, la presenza di questo interprete potrebbe renderlo un successo economico, ma essere bocciato da un pubblico che è corso in sala per un film che non era pensato per lui.

Fuggire la realtà

Florence Pugh in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

La rivelazione finale è stata da parte mia non poco apprezzata, in quanto riesce ad aggiornare ai giorni nostri un film con una dinamica piuttosto tipica, con piccoli cult come La donna perfetta (2004). E infatti io mi aspettavo un finale simile.

E invece mi ha sorpreso.

Da questo punto di vista racconta un problema sociale che, con le dovute differenze, è assolutamente presente, ovvero il fuggire dal mondo reale in quello virtuale. Come Jack porta all’estremo questo concetto rinchiudendo la compagna in una realtà virtuale, così non poche persone ritrovano una vita alternativa e più soddisfacente online che offline.

Il che può essere una cosa positiva come molto negativa.

Jack, perché?

Harry Styles in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Per quanto le motivazioni di Jack non siano più di tanto approfondite, bastano poche battute per comprendere il suo personaggio. Jack di fatto si incasella in quella pressione sociale maschile di sostenere la sua donna, nonostante la stessa sia perfettamente capace di farlo da sola.

Emblematico in questo senso quando, in uno dei flashback, Jack dice ad Alice E ora come farò a prendermi cura di te?, proprio a sottolineare proprio questo tipo di esigenza. La stessa trova poi sfogo nell’idea mondo virtuale dove di fatto rinchiudere le donne, probabilmente anche con l’idea di renderle più controllabili.

E non è un caso che il mondo sia ambientato in un contesto storico per nulla favorevole per l’emancipazione femminile.

Di fatto Jack non è un villain, ma un personaggio molto diviso con se stesso e che sente dentro di sè di star veramente facendo la cosa giusta.

Troppo poco (ma non sempre)

Olivia Wilde e Nick Kroll in una scena di Don't worry darling (2022) di Olivia Wilde

Uno dei grandi difetti della pellicola è il poco approfondimento che viene dato a certi aspetti della storia. In particolare viene dato tanto, forse troppo, spazio alla scoperta del mistero da parte di Alice (cosa non per forza negativa) e la rivalsa finale è invece molto più rapida e, di fatto, carente.

Il film lascia troppe domande senza risposta: perché se si muore nel mondo virtuale si muore anche in quello reale? L’areoplano che vede Alice è un bug del sistema? Perché effettivamente la moglie di Frank lo accoltella? E si potrebbe andare avanti…

Al contrario mi sento del tutto di approvare la scelta di un finale aperto, che ci salva da quei noiosissimi finali consolatorio dove il protagonista, una volta che si è salvato, riesce a recuperare la sua vita.

Questo finale è invece proprio quello che serviva per non appesantire la narrazione.

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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.

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First man – L’altro lato della luna

First man (2018) di Damien Chazelle è il terzo lungometraggio del regista famoso per La La Land (2016).

Purtroppo questo nuovo progetto non ebbe per nulla lo stesso riscontro, anzi fu sostanzialmente ignorato al di fuori del circuito dei festival.

E fatti fu un flop commerciale: appena 105 milioni di dollari di incasso contro un budget di 59.

Di cosa parla First man

1962, Stati Uniti. Dopo un importante lutto familiare, Neil Armstrong, il primo uomo che metterà piede sulla Luna, entra a far parte del progetto Gemini della NASA e la sua corsa disperata verso lo spazio.

Un viaggio per nulla semplice, e molto meno glorioso di quello che si potrebbe pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè First man è stato un flop e perché guardarlo comunque

Ryan Gosling in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Dipende.

Il flop di First man è facilmente spiegabile: Chazelle, invece che piegarsi al successo di La La Land, ha deciso di sperimentare con un genere diverso.

E ha prodotto una pellicola sublime, con una tecnica registica di altissimo livello, ma decisamente molto meno spendibile per il grande pubblico. Il film è infatti drammaticamente lento, ma con una lentezza voluta e necessaria.

E infatti va visto con calma, prendendosi il suo stesso tempo. E va vista perché è una pellicola spettacolare, con una tecnica e una scrittura che si avvicina a certi capolavori di Lars von Trier. Non a caso a me ha ricordato per certi aspetti Melanchonia (2011).

Quindi prendetevi il vostro tempo, ma guardatelo.

Storia di un fallimento

Ryan Gosling e Corey Stoll in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Soprattutto se non si fa parte della generazione che visse il periodo, è difficile immaginarsi il clima che circondò l’Allunaggio.

In piena guerra fredda, con questa isteria collettiva di contrasto alla Russia che si vede anche ne Il gigante di ferro (1999), e davanti ad una scia di morti e fallimenti che guastarono la credibilità del progetto. E, di conseguenza, un generale malumore dell’opinione pubblica.

Perché effettivamente per l’uomo comune statunitense esplorare lo spazio non era una grande scommessa.

E non lo è neanche per i contemporanei: basta solo pensare che gli astronauti che esploreranno altri pianeti oltre la Luna non sono, con ogni probabilità, ancora nati. E chissà quante generazioni passeranno prima che potremo vivere oltre la Terra o almeno sfruttare le risorse che gli altri pianeti ci offrono.

Fatte queste premesse, è più facile immedesimarsi nel sentimento popolare del tempo.

L’uomo sulla luna

Ryan Gosling e Claire Foy in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Il racconto di Neil Armstrong è drammatico ma necessario: non un eroe, ma un uomo come tanti, con una situazione familiare complessa, e, soprattutto, un uomo assolutamente fallibile.

Si evita insomma un tipo di narrazione di predestinazione, come si può vedere in film molto più commerciali come Captain America (2011). L’unico elemento di predestinazione in qualche misura è il fatto che il protagonista guarda sempre verso la Luna.

Ma perché Luna è un luogo lontano, quasi rassicurante, dove per un attimo Neil può davvero distaccarsi dai suoi problemi terreni, dove può finalmente dirgli addio. Toccante la scena in cui si lascia scivolare dalle dita il braccialetto della figlia, di cui non aveva mai più parlato, ma la cui morte l’aveva profondamente turbato per quasi dieci anni.

E infine si riconcilia con la moglie, che accetta la sua mano tesa.

Una regia perfetta

Quando parlo di una regia perfetta non credo di esagerare: non poteva esserci una tecnica migliore di questa per raccontare questo tipo di storia. Chazelle fa infatti grande uso della camera a mano, dando un taglio molto intimo alla maggior parte delle scene.

E, con il suo continuo e sublime uso dei primi piani stretti e strettissimi, il suo indugiare sui particolari, fa sentire lo spettatore come se fosse veramente in quella stanza, in quella astronave, ad osservare la scena.

Ancora più splendida la scelta della rappresentazione dello sbarco: sulla Luna non ci sono rumori e, quando si incammina, Armstrong non può sentire nient’altro che se stesso, il proprio respiro affannoso.

E, così, avere un momento di pace.