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Us – Gli invisibili

Us (2019) di Jordan Peele è la seconda pellicola del cineasta diventato famoso già con la sua acclamata opera prima, Get out (2017). Purtroppo Us non ebbe lo stesso successo, nonostante degli incassi più che buoni: 255 milioni di dollari di incasso contro un budget di 20.

Il fatto che Us sia stato così poco considerato mi è davvero dispiaciuto: nonostante alcune indubbie ingenuità di sceneggiatura, si vede un importante passo avanti nella produzione del regista.

A voler essere polemici, si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che il film non parla più di razzismo come Get out, ma di un tema meno digeribile per il pubblico statunitense.

Di cosa parla Us?

1986, Santa Cruz. Durante una serata ad un luna park, giovane Andy si allontana dai genitori e entra in una Casa degli Specchi. Qui farà un incontro che le cambierà per sempre la vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Us può fare per me?

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

A differenza della precedente produzione, Us potrebbe farvi veramente paura. A me ogni visione trasmette un’inquietudine non da poco, e mi lascia un senso di terrore sotterraneo.

Questo perché, come spiegherò nella parte spoiler, Peele fa di tutto per evitare i jump scare, anche quando sarebbero ovvi da utilizzare. Così il film non ti trasmette una paura improvvisa, ma costruisce una tensione che colpisce molto più nel profondo.

Insomma, se riuscite a sopportare un certo tipo di inquietudine e volete continuare la scoperta della cinematografia di Peele e dell’horror autoriale contemporaneo, non potete perdervelo.

Emarginazione sociale

In Us si parla di emarginazione e dell’insuperabile divario sociale della società statunitense. Un tema caldo e onnipresente, in questo caso raccontato in una maniera molto articolata (e non sempre vincente).

Infatti le copie vivono in una realtà sotterranea, dove possono vivere le stesse esperienze di chi sta sopra (quindi dei ricchi e dei privilegiati), ma in una versione distorta e punitiva.

Piuttosto emblematico in questo senso il monologo di Red alla fine, quando si vede la stessa situazione del luna park di sopra con la scena delle copie di sotto: una situazione felice e spensierata, trasformata in un incubo.

La magnifica Lupita Nyong’o

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Ho avuto non pochi problemi con questa attrice, che ho visto acclamare per la sua interpretazione in 12 anni schiavo (2013), che non ho trovato così sorprendente (come il film in generale, del resto).

Per fortuna in questa pellicola mi ha permesso di riscoprirla: nonostante la sua interpretazione incredibile sia stata poco considerata nelle maggiori premiazioni, io l’ho trovata in uno delle migliori prove attoriali della sua carriera finora.

La sua abilità di interpretare non solo due personaggi diversi, ma soprattutto di riuscire a recitare strozzando la voce in maniera innaturale, così disturbante e drammaticamente credibile.

La rappresentazione delle copie

Ho trovato incredibilmente interessante la rappresentazione delle copie: individui che non hanno mai visto la luce del sole, che non sono né capaci di parlare né di muoversi in maniera umana, ma solo animalesca.

E infatti Red li tratta come degli animali, scatenando la loro furia vendicativa. Particolarmente emblematico come, nella prima scena in cui entrano in casa, Red li tenga intorno a sé come se fossero i suoi animali da compagnia.

Valorizzare i corpi neri

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Un elemento di assoluto interesse di questa pellicola è stata la capacità di Peele di valorizzare i corpi degli attori della famiglia protagonista.

Il regista infatti, cosciente del fatto che vi è un razzismo sotterraneo ad Hollywood che tende a privilegiare attori afrodiscendenti dalla pelle non troppo scura, ha scelto attori che solitamente sarebbero meno considerati come protagonisti.

E riesce a metterli in scena in modo che li valorizza, con il contrasto degli occhi bianchi che emergono nel buio con la pelle nera. Tanto che, a confronto, le copie interpretate da attori bianchi sembrano dei comuni zombie e sono molto meno di effetto, nonostante l’indubbia bravura degli attori.

Diciamo no ai jump scares

Lupita Nyong'o, Shahadi Wright Joseph e Evan Alex in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Una cosa che, se ci fate caso, non riuscirete più a non notarla, è quanto Peele giochi con i jump scares, al punto di evitarli sistematicamente anche nelle scene in cui lo spettatore, abituato alle dinamiche dell’horror commerciale, se lo aspetterebbe.

Una scena davvero emblematica è quella in cui Zora e Ombrae sono ai lati opposti della macchina e quest’ultima scompare all’improvviso. Zora quindi si accovaccia sotto ai piedi della macchina. E a quel punto in qualunque altro film Ombrae sarebbe apparsa all’improvviso davanti allo schermo.

E invece la tensione non viene spezzata, ma accresciuta dal cigolio che fa capire a Zora che la sua copia malvagia è in piedi sopra la macchina. E così la macchina da presa sale lentamente verso l’alto insieme allo sguardo di Zora, rivelando Ombrae che torreggia famelica su di lei.

Essere troppo entusiasti della propria storia

Lupita Nyong'o in una scena di Us (2019) di Jordan Peele

Questa pellicola, nonostante io l’abbia ampiamente apprezzata, ha degli importanti difetti. O, meglio, delle grandi ingenuità di sceneggiatura. Ammiro Peele per essersi imbarcato in un’opera decisamente più complessa di Get out, ma questo stesso coraggio ha rivelato quanto questo autore sia ancora acerbo.

Quando si scrive una sceneggiatura o una storia in generale bisogna arrivare da un punto ad un altro, cercando di far tornare tutto nel mezzo. E si può finire per essere troppo entusiasti per la propria creazione e non riuscire a definirla chiaramente in tutte le sue parti.

E questo è successo con Us, che solleva non pochi punti di domanda: come fa Red ad organizzare la rivolta? Dove ha trovato le forbici, la divisa? Perché improvvisamente le copie non sono più state legate a quelli di sopra?

Oltre a questo, purtroppo, quando si vedono le scene flashback della realtà sotterranea non rende l’idea di un gruppo di milioni di persone.

Us Folli dettagli degni di nota

Nella prima parte del film ci sono una serie di forshadowing veramente ben fatti, che si notano solamente alla seconda visione.

Ne flashback del luna park Andy passa accanto a due ragazzi che giocano a carta sasso e forbice e la ragazza si lamenta che l’altro stia barando facendo sempre il segno della forbice. Davanti al labirinto degli specchi c’è scritto find yourself e infatti lì Andy troverà l’altra se stessa. In spiaggia nel presente Andy dice a Kitty che ha difficoltà a parlare, come infatti Red non è capace. Sempre nella scena della spiaggia, Jason sta scavando un tunnel.

Rivelatorio è alla fine, quando Andy uccide Red, e fa dei versi simili a quelli della sua copia, a rivelare la sua vera natura e origine.

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Interstellar – La monumentalità guastata

Interstellar (2014) di Christopher Nolan è uno dei più ambiziosi progetti in ambito fantascientifico degli ultimi anni.

Non a caso è stato un grande successo commerciale: 703 milioni di dollari di incasso contro un budget di 165. Ed è infatti uno dei film più citati ed apprezzati del regista.

Di cosa parla Interstellar?

In una Terra al limite del collasso, l’ingegnere Joseph Cooper viene inaspettatamente coinvolto in una missione spaziale per salvare l’umanità. Questo però significherà abbandonare i figli per un numero indefinito di anni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perché Interstellar è un film imperdibile

Matthew McConaughey, Timotheè Chalamet e Mackenzie Foy in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Assolutamente sì.

Come detto, Interstellar è una delle produzioni più ambiziose degli ultimi anni, un film che si propone di portare il racconto dei viaggi nello spazio ad un altro livello. Paradossalmente, la storia di per sé è davvero semplice, ma viene arricchita da una serie di concetti scientifici e pseudo-fantascientifici non poco complessi.

Un film davvero monumentale, sia nell’estetica sia nella sua durata, assolutamente necessaria per raccontare un’avventura così importante e ricca di colpi di scena e concetti importantissimi.

Insomma, non potete assolutamente perdervelo.

E se alla fine sarete più confusi che altro, potete tornare qui e vedere la risposta a (spero) tutte le vostre domande.

Perché ho amato Interstellar

La bellezza (e bruttezza paradossalmente) di Interstellar è la sua complessità. E si tratta di una complessità voluta perché Nolan ama profondamente essere complesso, come Tenet (2020) ha ben dimostrato.

Tuttavia, a differenza di Tenet, la complessità è quasi dovuta per rendere credibile un’avventura così monumentale. Soprattutto perché basata su varie teorie scientifiche (come la Teoria della Relatività) e pseudo-scientifiche (il Wormhole), che sono la colonna portante della narrazione.

Matt Damon in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Al contempo Interstellar è una storia molto umana: i personaggi sono profondamente guidati dalle loro passioni e dai loro sentimenti. Ed è anche un tema del film: il Dr. Mann racconta proprio come l’uomo sia spesso guidato dell’interesse egoistico verso gli affetti vicini a lui e incapace di pensare sul lungo periodo.

Ma paradossalmente il dramma di Mann è anch’esso totalmente egoistico: sapendo di poter essere salvato solamente portando dei dati incoraggianti, li falsifica. Allo stesso modo inizialmente Cooper pensa principalmente a tornare dalla propria famiglia, Amelia a ricongiungersi con il suo amato.

E così gli stessi personaggi sono incredibilmente fallibili, e sono infiniti i drammi che devono affrontare e i complessi morali cui sono continuamente messi davanti. Ma sono comunque ricompensati da un finale positivo e fondamentalmente consolatorio.

Cosa non sopporto di Interstellar

Ci sono due elementi che poco sopporto di Interstellar: il facile dramma e la povertà di spiegazione.

Per me il dramma fra Cooper e Murph poteva essere facilmente evitato se questo avesse spiegato letteralmente alla figlia che stava andando a salvare il mondo. Ed era anche più giusto nei confronti di una bambina neanche tanto piccola, che avrebbe probabilmente meglio sopportato l’angoscia del mondo (evidentemente) al collasso piuttosto che l’abbandono del padre.

Allo stesso modo avrei preferito che le spiegazioni nel film fossero più ricche e chiare, e non volutamente nebulose. Insomma, non sopporto quando vengono lasciati così tanti punti di domanda, e non per dare spazio alle teorie, ma per volontà proprio di non dare spiegazioni (e a volte incapacità, anche se non in questo caso).

Tutto quello che non hai capito di Interstellar

Come funziona il tempo?

Per come è rappresentato il tempo in Interstellar, valgono due concetti fondamentali: il loop e la Teoria della Relatività. Il primo è il più semplice da capire: tutto il film è un loop in cui il Cooper del futuro influenza le azioni di Murph e di se stesso del passato.

Oltre a questo, il tempo è assolutamente relativo: il tempo è una dimensione che è da noi considerata lineare, ma in realtà non lo è. E, per questo, cambiando prospettiva e ambiente, il tempo ci appare scorrere in maniera differente.

Chi sono loro?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

I personaggi vengono aiutati dell’umanità del futuro, capace di vivere in cinque dimensioni e di permettere all’uomo del passato di viaggiare attraverso il wormhole da loro creato per raggiungere i nuovi pianeti abitabili.

Cos’è il wormhole?

Il wormhole di cui si parla nel film è una teoria scientifica che prevede il collegamento fra due luoghi anche molto distanti nello spazio. In questo caso appunto permette ai protagonisti di raggiungere in un tempo accettabile una nuova galassia con pianeti abitabili.

Cosa succede nel finale?

Matthew McConaughey in una scena di Interstellar (2014) di Christpher Nolan

Cooper attraversa il buco nero e si trova in uno spazio artificiale, il tesseract (o tesseratto) dove il tempo diventa una dimensione materiale. Così tutti i momenti di Murph sono visibili materialmente e Cooper può intervenire e mandare dei messaggi alla figlia.

Così le manda tramite il codice morse dei dati quantistici contenuti all’interno del buco nero che le permettono di avere le conoscenze matematiche per costruire le tecnologie con cui poter viaggiare attraverso il wormhole e raggiungere altri pianeti abitabili.

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Avventura Damien Chazelle Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Il racconto dello sbarco

First man – L’altro lato della luna

First man (2018) di Damien Chazelle è il terzo lungometraggio del regista famoso per La La Land (2016).

Purtroppo questo nuovo progetto non ebbe per nulla lo stesso riscontro, anzi fu sostanzialmente ignorato al di fuori del circuito dei festival.

E fatti fu un flop commerciale: appena 105 milioni di dollari di incasso contro un budget di 59.

Di cosa parla First man

1962, Stati Uniti. Dopo un importante lutto familiare, Neil Armstrong, il primo uomo che metterà piede sulla Luna, entra a far parte del progetto Gemini della NASA e la sua corsa disperata verso lo spazio.

Un viaggio per nulla semplice, e molto meno glorioso di quello che si potrebbe pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè First man è stato un flop e perché guardarlo comunque

Ryan Gosling in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Dipende.

Il flop di First man è facilmente spiegabile: Chazelle, invece che piegarsi al successo di La La Land, ha deciso di sperimentare con un genere diverso.

E ha prodotto una pellicola sublime, con una tecnica registica di altissimo livello, ma decisamente molto meno spendibile per il grande pubblico. Il film è infatti drammaticamente lento, ma con una lentezza voluta e necessaria.

E infatti va visto con calma, prendendosi il suo stesso tempo. E va vista perché è una pellicola spettacolare, con una tecnica e una scrittura che si avvicina a certi capolavori di Lars von Trier. Non a caso a me ha ricordato per certi aspetti Melanchonia (2011).

Quindi prendetevi il vostro tempo, ma guardatelo.

Storia di un fallimento

Ryan Gosling e Corey Stoll in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Soprattutto se non si fa parte della generazione che visse il periodo, è difficile immaginarsi il clima che circondò l’Allunaggio.

In piena guerra fredda, con questa isteria collettiva di contrasto alla Russia che si vede anche ne Il gigante di ferro (1999), e davanti ad una scia di morti e fallimenti che guastarono la credibilità del progetto. E, di conseguenza, un generale malumore dell’opinione pubblica.

Perché effettivamente per l’uomo comune statunitense esplorare lo spazio non era una grande scommessa.

E non lo è neanche per i contemporanei: basta solo pensare che gli astronauti che esploreranno altri pianeti oltre la Luna non sono, con ogni probabilità, ancora nati. E chissà quante generazioni passeranno prima che potremo vivere oltre la Terra o almeno sfruttare le risorse che gli altri pianeti ci offrono.

Fatte queste premesse, è più facile immedesimarsi nel sentimento popolare del tempo.

L’uomo sulla luna

Ryan Gosling e Claire Foy in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Il racconto di Neil Armstrong è drammatico ma necessario: non un eroe, ma un uomo come tanti, con una situazione familiare complessa, e, soprattutto, un uomo assolutamente fallibile.

Si evita insomma un tipo di narrazione di predestinazione, come si può vedere in film molto più commerciali come Captain America (2011). L’unico elemento di predestinazione in qualche misura è il fatto che il protagonista guarda sempre verso la Luna.

Ma perché Luna è un luogo lontano, quasi rassicurante, dove per un attimo Neil può davvero distaccarsi dai suoi problemi terreni, dove può finalmente dirgli addio. Toccante la scena in cui si lascia scivolare dalle dita il braccialetto della figlia, di cui non aveva mai più parlato, ma la cui morte l’aveva profondamente turbato per quasi dieci anni.

E infine si riconcilia con la moglie, che accetta la sua mano tesa.

Una regia perfetta

Quando parlo di una regia perfetta non credo di esagerare: non poteva esserci una tecnica migliore di questa per raccontare questo tipo di storia. Chazelle fa infatti grande uso della camera a mano, dando un taglio molto intimo alla maggior parte delle scene.

E, con il suo continuo e sublime uso dei primi piani stretti e strettissimi, il suo indugiare sui particolari, fa sentire lo spettatore come se fosse veramente in quella stanza, in quella astronave, ad osservare la scena.

Ancora più splendida la scelta della rappresentazione dello sbarco: sulla Luna non ci sono rumori e, quando si incammina, Armstrong non può sentire nient’altro che se stesso, il proprio respiro affannoso.

E, così, avere un momento di pace.

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Il gigante di ferro – Ubriachi di guerra fredda

Il gigante di ferro (1999) di Brad Bird è un lungometraggio animato che ebbe una storia particolare, analoga a quella di un altro piccolo cult Anni Novanta, ovvero In viaggio con Pippo (1995).

La pellicola fu infatti un flop disastroso (30 milioni di incasso contro 50 di budget), ma venne ampiamente rivalutato col tempo, divenendo un piccolo cult per la generazione dei millennial.

Di cosa parla Il gigante di ferro?

1957, Rockwell, Montana. Piena guerra fredda. Hogarth è un ragazzino fantasioso che si ritrova per caso ad imbattersi con un enorme gigante di ferro, dalla provenienza sconosciuta.

Ma Hogarth non è l’unico ad essere interessato…

Perché Il gigante di ferro è un cult?

Come anticipato, Il gigante di ferro fu un caso simile a In viaggio con Pippo: come era normale per il periodo, i lungometraggi animati erano pensati per un pubblico infantile.

E così venivano a loro indirizzati anche tramite la campagna marketing.

Tuttavia, Il gigante di ferro non è un film propriamente per bambini: vi è un ampio (e ottimo) utilizzo della comicità per stemperare la tensione di certe scene. Tuttavia, a conti fatti, nella pellicola ci sono non poche scene di violenza, si parla di morte, di morale, e di armi. A questo riguardo, la condanna schietta all’utilizzo delle armi potrebbe essere anche stato un motivo che allontanò il pubblico statunitense.

Al contrario col tempo il prodotto venne riscoperto proprio per la sua profondità dei personaggi e della trama, che affronta appunto diverse tematiche di grande importanza. Oltre a questo, il film presenta personaggi davvero irresistibili, e, a differenza di altri film di questo tipo come anche E.T., il gigante è molto più umano e lo spettatore riesce ad empatizzare più facilmente con lui.

Il gigante di ferro può fare per me?

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Assolutamente sì.

Il gigante di ferro è un ottimo prodotto di animazione, sia per la scrittura sia per l’animazione. Per me, che sono patita delle dinamiche di film per ragazzi di fantascienza, è stato un amore confermato anche dopo tanti anni che non lo vedevo.

Per questo se appunto apprezzate prodotti come E.T. (1982) e I Goonies (1985), o anche recuperi nostalgici come Stranger Things, molto probabilmente vi piacerà. Ovviamente se siete allergici a quelle dinamiche, non dico di non vederlo perché la pellicola non si appiattisce sulle stesse, ma potrebbe non entusiasmarvi.

I am not a gun

Il gigante di ferro in una scena de Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Splendida e inaspettata è la storia del gigante.

In realtà la sua backstory non viene raccontata in maniera approfondita: possiamo intuire che proviene da un pianeta alieno, che era parte di una produzione in serie di armi per una guerra che probabilmente è stata del tutto distruttiva.

Una macchina così intelligente che in poco tempo è capace di imparare una nuova lingua e assorbire concetti di grande profondità. E così arriva ad interrogarsi sulla sua natura e, alla fine, a sacrificarsi per salvare la comunità.

La sua morale è racchiusa in concetti semplici, come I am not a gun (non sono un’arma) e sul personaggio di Superman, figura di assoluta bontà (almeno negli Anni Cinquanta). Concetti semplici appunto, ma di grande effetto.

Il taglio narrativo

Kent Mansley,  Dean McCoppin, Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

Un aspetto che sinceramente non mi ricordavo e che mi ha davvero colpito è stato il taglio narrativo estremamente realistico. Si percepisce davvero il momento storico e il tipo di mentalità che lo dominava.

E non solo il villain, che ne è fondamentalmente ossessionato, ma anche i compagni di scuola di Hogarth pensano e parlano secondo il pensiero popolare, anche in maniera violenta per la loro età. Ma niente di strano per gli Stati Uniti della Guerra Fredda (e anche odierni, in realtà).

Oltre a questo, tutto il discorso sulle armi e sulla violenza è piuttosto forte ed incisivo, andando a criticare pesantemente l’utilizzo delle stesse, senza grandi possibilità di eccezioni.

Personaggi mai banali

Hogarth Hughes e il generale Rogard in una de  Il gigante di ferro (1999) diretto da Brad Bird

I personaggi de Il gigante di ferro sono tutti ben scritti e ispirano naturale simpatia.

Anzitutto Hogarth, un bambino molto fantasioso e che si entusiasma molto facilmente, ma anche un bambino capace di tenere testa ad un adulto molto più potente di lui. Ed è sempre lo stesso che, con tutta la sua semplicità, trasmette i giusti valori al gigante, portandolo verso una felice risoluzione.

Ma assolutamente irresistibile è Dean, artista sognatore che crea arte dai rottami. Questo personaggio aveva l’arduo compito di riempire un vuoto nel centro del film. E ci riesce in maniera molto simpatica, quando scopre che anche il gigante può creare delle opere d’arte per lui.

E poi c’è il villain.

Sempre un ottimo villain

Il regista e sceneggiatore di questo film è Brad Bird, lo stesso che pochi anni dopo diresse per la Pixar Gli Incredibili (2004), un altro di quei film che porto davvero nel cuore. E infatti Kent Mansley, il villain de Il gigante di ferro, presenta non poche somiglianze con Sindrome de Gli Incredibili.

A parte la scelta estetica simile (capelli rossi e inquietanti occhi azzurri), anche il carattere è analogo: sono entrambi guidati da un’ossessione e si sentono entrambi capaci e potenti più degli altri.

In particolare Kent Mansley è quello più ubriaco della guerra fredda: completamente ossessionato dalla minaccia russa, in questo caso rappresentata dal gigante, che deve essere eliminata a qualunque costo.

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Candleshoe – La mia infanzia

Candleshoe (1977) di Norman Tokar è un’avventura per ragazzi di produzione Disney con una giovanissima Jodie Foster. In Italia tradotto con un titolo piuttosto improbabile, ma nondimeno simpatico, ovvero Una ragazza, un maggiordomo e una lady.

Ma per me è molto di più: uno degli improbabili cult della mia infanzia, non appartenente neanche alla mia generazione, ma che avrò visto decine di volte. Lo trovai casualmente nella sezione bambini della mia biblioteca, e cominciai a noleggiarlo continuamente.

Un film fondamentalmente sconosciuto, ma che vale la pena di riscoprire.

Di cosa parla Candleshoe?

Casey, interpretata da una quattordicenne Jodie Foster, è un’orfana e una piccola delinquente che passa da una casa famiglia all’altra. Verrà inaspettatamente coinvolta in una truffa, per cui dovrà impersonare la nipote perduta di una vecchia nobildonna inglese, nella cui casa dovrebbe nascondersi un tesoro…

Candleshoe può fare per me?

Jodie Foster e Leo McKern in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Ovviamente essendo il film della mia infanzia è per me difficile essere oggettiva. Tuttavia secondo me Candleshoe è una deliziosa commedia avventurosa per ragazzi, con un bel mistero e una trama ben costruita.

Ha la durata standard di un film del genere (appena 100 minuti) ed intrattiene stupendamente, pur nella sua semplicità. Soprattutto se vi piacciono i film per ragazzi un po’ datati, come Stand by me e I Goonies, potrebbe facilmente piacervi.

Una protagonista diversa?

Jodie Foster in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Casey è un’ottima protagonista perché il suo personaggio ha un taglio molto realistico e sentito. Non è infatti scontato che la protagonista di un prodotto per ragazzi sia un personaggio così tanto grigio.

Una povera orfana che ha già visto il peggio dalla vita, che non ha mai avuto l’amore di una famiglia vera, e che ha preso facilmente la via della delinquenza.

Infatti, con stupore di Harry, Casey non è per nulla una marionetta nella sue mani, ma cerca invece subito di capire cosa può guadagnarci e riesce ad ingannare la Lady più di quanto Harry stesso fosse capace.

E allo stesso modo sembra infine rassegnata a non voler mentire ulteriormente alla sua presunta nonna, che la accetta come sua nipote, anche se non ha alcuna sicurezza che lo sia, in un bellissimo e toccante finale.

La lady e il maggiordomo: una irresistibile coppia

David Niven in una scena di Candleshoe (1977) di Norman Tokar

Della parte centrale del film la parte che ho sempre preferito era quella del maggiordomo e la lady, con la loro bellissima dinamica.

Infatti la loro linea narrativa non aggiunge nulla alla trama principale, ma riesce a dare una maggiore tridimensionalità ai personaggi e di fatto a rendere credibile e divertente la storia di Candleshoe.

Altrettanto splendida è la rivelazione finale della lady al maggiordomo, che non appiattisce il personaggio della prima alla sola vecchietta ingenua, ma da un tocco di romanticismo e commozione che ho sempre adorato.

Harry e Clara: che sagome!

Funzionano altrettanto bene i due villain, sia per l’ottima recitazione, sia per il loro phisique du role assolutamente perfetto. Sono due personaggi che già a pelle risultano sgradevoli, quasi grotteschi in alcune scene.

Il loro piano poi non lascia niente al caso, portando una simpaticissima scena di scontro sul finale che riguardo sempre con piacere.

In certi momenti i due fanno quasi paura, per come si gettano come arpie su Casey, una presenza minacciosa per l’intera pellicola.

Lode al budino di riso

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è il disgusto di Casey quando assaggia il budino di riso (rice pudding) la prima volta che arriva a Candleshoe.

In realtà per puro caso l’ho assaggiato recentemente, smentendo una convinzione che ho avuto per tutta la vita: il budino di riso è buonissimo.

Quindi, lode al budino di riso!

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Super 8 – Un film fuori dal tempo

Super 8 (2008) è un film prodotto, scritto e diretto da J.J. Abrams, autore e produttore che ha le mani un po’ ovunque quando si tratta di revival in ambito sci-fi.

Una pellicola che ebbe anche un buon successo, con 50 milioni di dollari di budget e 260 di incasso.

Di cosa parla Super 8?

1979, Joe Lamb è un quattordicenne che ha appena perso la madre in un tragico incidente e deve riallacciare i rapporti col padre. Lui e i suoi amici, mentre sono intenti a girare un film amatoriale, diventano testimoni di un tragico e misterioso incidente…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Super 8?

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Assolutamente sì.

Super 8 è un film piuttosto semplice, un’avventura sci-fi per ragazzi di stampo classico, che si rifà massicciamente ai topos degli Anni Ottanta.

Sia che siate appassionati dei classici, come Stand by me (1986) e E.T. (1982), sia dei revival nostalgici come Stranger Things, non potete perdervelo.

Una costruzione da manuale

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

La costruzione della trama è davvero da manuale, nel senso migliore possibile.

Tutti gli elementi che portano al finale sono sapientemente costruiti fin dall’inizio e in maniera funzionale al finale.

Così per esempio Donny, che alla fine accompagna i ragazzi alla scuola, si è dimostrato interessato alla sorella di Charlie fin dall’inizio. E così Joe sa dove è la tana della creatura perché in precedenza è andato al cimitero a trovare la madre.

E questa costruzione così intelligente non è per niente scontata, in quanto in prodotti di ben più grandi produzioni capita spesso che, per far arrivare i personaggi ad un punto, si scelgono soluzioni forzate e poco credibili.

Allo stesso modo il mistero è un continuo crescendo, partendo da una scena improvvisa, seguendo un sentiero di briciole che ci vengono snocciolate a poco a poco.

La creatura

Secondo lo stesso principio, la creatura viene svelata secondo precise tappe e con una costruzione molto abile. Prima è un’ombra, poi una figura sfocata sullo sfondo, poi ne scopriamo la sagoma, e nel finale ne vediamo il volto.

Molto furbo fra l’altro cercare di umanizzarla, svelandone a sorpresa gli occhi piuttosto espressivi, per dare quello slancio emozionale che ci permette di empatizzare.

Soprattutto perché si cerca di raccontare un nemico che in realtà è vittima degli stessi protagonisti e che, come E.T., vuole solo tornare a casa.

Un character design fra l’altro semplice, ma d’impatto.

Semplicemente Elle Fanning

Elle Fannings in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per via anche del suo budget limitato, il film ha puntato su attori giovanissimi e fondamentalmente sconosciuti. La recitazione non è esattamente brillante, ma comunque di livello accettabile.

Fra tutti però si distingue Elle Fanning, che interpreta Alice, al tempo ancora poco conosciuta, ma che ha lavorato negli anni con autori come Woody Allen e David Fincher.

In questa pellicola troviamo una recitazione ancora acerba, ma che sa comunque destreggiarsi in diversi momenti più complessi della narrazione.

E il fatto che una scena sia basata solamente sul mettere in evidenza le sue capacità recitative è tutto un programma.

Pallidi comprimari

Riley Griffiths  in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Un difetto del film è di non riuscire a far risaltare i comprimari del protagonista.

Come per il miglior film per ragazzi Anni Ottanta, Joe è infatti circondato da un gruppetto di personaggi che gli fanno da contorno, e che sono al contempo il comic relief della pellicola.

Purtroppo, gli stessi sembrano essere dimenticati nel corso del film, al punto che si utilizzano diversi stratagemmi per lasciarne il più possibile indietro in occasione dello scontro finale.

Allo stesso modo questi personaggi per la maggior parte non hanno una caratterizzazione precisa, ma limitata a pochi elementi.

Abrams e Gioacchino: che coppia!

Joel Courtney in una scena di Super 8 (2008) di JJ Abrams

Per quanto magari Abrams non possa essere considerato un grande autore, la sua regia è ben più di quella di un mestierante qualunque.

In questa pellicola è innamorato dei suoi personaggi: li inquadra spesso fra il mezzo primo piano e il primo piano, facendoli avvicinare alla macchina da presa mentre guardano misteriosamente all’orizzonte.

Così anche bellissime le sequenze in cui i personaggi sono coinvolti in discussioni concitate e la macchina da presa gli gira intorno, regalando una splendida dinamicità alla scena.

La regia è inoltre impreziosita da un’ottima colonna sonora, composta dall’iconico Gioacchino, autore di colonne sonore di grande successo e valore come quella di Up (2010) e della nuova trilogia di Star Trek.

Cos’è il Super 8?

Il super 8 millimetri che dà il titolo al film è un formato cinematografico, un tipo di pellicola utilizzata proprio per il cinema amatoriale.

Ed è infatti quello che i protagonisti utilizzano per girare il loro film.

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Avventura Dramma familiare Drammatico Film Giallo Horror Thriller Un Jim Carrey Diverso

Number 23 – Storia di un’ossesione

Number 23 (2007) è un film di Joel Schumacher con Jim Carrey che si imbarcò in un genere che non aveva mai sperimentato: il thriller psicologico.

L’attore ebbe infatti ancora una volta la fortuna di trovarsi sotto l’egida di un regista capace in un prodotto complesso e intenso. Schumacher è infatti un autore molto divisivo, soprattutto per l’assurdità di Batman & Robin (1997), cui viene sempre associato, ma è in realtà un regista con un’estetica profonda e potente.

Il film ebbe un riscontro economico decisamente deludente: anche se non fu un flop, incassò 77 milioni contro un budget di 30. Tuttavia, col passare degli anni, entrò nel cuore di molti cinefili.

Di cosa parla Number 23?

Walter è un accalappiacani che vive una vita tranquilla con la sua famiglia. Improvvisamente viene in possesso di uno strano libro, intitolato appunto Number 23. Il protagonista si ritroverà così stranamente ad identificarsi nella storia narrata, che sembra avere una strana vicinanza con gli eventi della propria vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Number 23?

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dipende.

Number 23 è un film per nulla semplice, sia per gli argomenti trattati, sia perché gioca anche con il genere horror, con alcune scene piuttosto sanguinose e non adatte a cuori sensibili. Oltre a questo, la regia è piuttosto particolare, anche se perfettamente in linea con l’estetica di Schumacher.

Insomma, se sguazzate nel genere gore e thriller, ma anche nel noir hard boiled, probabilmente vi piacerà moltissimo. Al contrario, se siete facilmente impressionabili e vi angosciate con poco, statene alla larga.

Un andamento inaspettato

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Devo ammettere che verso la metà del film ho cominciato ad annoiarmi, perché il film mi sembrava voler raccontare il climax ascendente del protagonista, che diventa definitivamente ossessionato dal libro e alla fine uccide la sua famiglia. Insomma, mi aspettavo un andamento piuttosto tipico.

Al contrario, sono stata sorpresa: verso la metà del film Walter comincia ad essere effettivamente supportato dalla sua famiglia, innescando un effettivo climax con una gustosa trama investigativa, per svelare infine il mistero dietro al libro.

E così si sfocia nella rivelazione finale, che chiude perfettamente il cerchio su una storia che sarebbe risultata altrimenti banale, con un twist che mi ha ricordato molto quello di Shutter Island (2010) e che per questo non ho potuto non apprezzare.

Schumacher: amore e odio

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Joel Schumacher è quel tipo di regista con un’estetica e una poetica così particolare che non può non essere divisivo.

Ed è anche lo stesso che ha girato Batman & Robin, film unanimemente criticato per l’ovvio motivo di essere tremendo, ma che esprimeva appieno l’estetica distintiva di questo regista, che gioca moltissimo col camp e col cattivo gusto voluto.

E in Number 23 non è da meno: io ho amato alcune inquadrature, che ho trovato estremamente scioccanti, come il volto della Bionda Suicida che si specchia nella pozza del suo stesso sangue dopo il suicidio (ed è uno fra tanti).

Al contempo non ho apprezzato il taglio eccessivo delle scene del racconto del libro, con queste inquadrature estremamente contrastate e scene di sesso e violenza quasi morbose, con un taglio eccessivamente realistico che mi ha disturbato.

Ma forse era anche quello l’obbiettivo.

Di certo, per me, senza questa regia, questo film non sarebbe valso un’unghia.

Jim Carrey: la maturità attoriale

Jim Carrey in una scena di Number 23 (2007) di Joel Schumacher

Dopo aver esplorato la maggior parte della filmografia di Carrey, per me la sua maturità artistica come attore comico si può trovare in Una settimana da Dio (2003), mentre in questo film mostra ancora le sue capacità sull’altro versante.

Non tanto in ambito drammatico, per cui aveva già dato prova in Eternal Sunshine of the spotless mind (2004), ma sperimentando con consapevolezza in un genere mai provato prima.

In questo film infatti Carrey riesce ad essere al contempo spaventoso, con un’occhiata riesce a trasmetterti un’infinità di sentimenti e passioni, e a destreggiarsi perfettamente nelle scene anche più estreme e intense.

In questo film non ci sono, come in altre pellicole di Carrey, attori diventati famosi dopo, ma comunque ritroviamo dei volti già noti.

Il figlio di Walter, Robin, è Logan Lerman, divenuto brevemente (e sfortunatamente) famoso per i film di Percy Jackson usciti fra il 2010 e il 2013.

Walter da bambino è interpretato da Paul Butcher, che se siete della generazione Anni Novanta lo ricorderete sicuramente per essere il fratello di Zoe in quella meraviglia (si fa per dire) di Zoey 101.

Il Dr. Miles, il professore a cui Walter chiede aiuto e che crede che lo tradisca con la moglie, è Danny Huston, già visto in diversi prodotti, in particolare come fratello della protagonista in Marie Antoinette (2006).

Cameo a sorpresa quello di Troy Kotsur, attore sordomuto che ha recentemente vinto l’Oscar come Miglior Attore non Protagonista per CODA (2021). Qui interpreta il padrone del cane che perseguita Walter, Ben.

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Captain Fantastic – Uno splendido errore

Captain Fantastic (2016) di Matt Ross è la deliziosa storia di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere al di fuori della società consumistica americana.

Una piccola produzione di appena 5 milioni di dollari, che però portò ad un buon incasso: 22 milioni di dollari ricevette diversi riconoscimenti a livello internazionale.

Di cosa parla Captain Fantastic?

Come anticipato, Captain Fantastic parla di una famiglia fuori dall’ordinario, che sceglie di vivere nei boschi ed educarsi autonomamente, tramite letture impegnate e un modo di ragionare atipico. Tuttavia, un evento improvviso li costringerà ad intraprendere un viaggio che cambierà la loro vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Captain Fantastic?

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

Assolutamente sì.

È difficile per me dare un’opinione oggettiva: Captain Fantastic è uno dei miei film preferiti. In generale secondo me per apprezzare questo film è praticamente necessario appassionarsi ed affezionarsi ai suoi personaggi, che sono bellissimi quanto imperfetti.

Infatti, se siete totalmente allergici a certi tipi di discorsi più hipster che criticano aspramente la nostra società (soprattutto quella statunitense), potreste odiarlo e arrivare a parteggiare per i villain del film.

Al contrario, se vi piacciono i film del genere road movie con drammi familiari, pur in un contesto generalmente molto leggero, guardatelo: potreste davvero innamorarvi.

Una famiglia particolare

La bellezza di Captain Fantastic è la particolarità della famiglia raccontata, dove ogni membro riesce ad avere la sua parte nella storia.

Nonostante le evidenti ribellioni e ingenuità di alcuni dei personaggi, sono davvero riuscita ad appassionarmi alla loro storia ed a commuovermi per il tipo di attaccamento che dimostrano l’un l’altro.

Così Ben, il padre, è duro ma amorevole verso i propri figli, insegna loro valori profondi e fondamentali, come la sincerità, la schiettezza e la capacità di ragionare con la propria testa. Un padre comunque fallibile, che alla fine deve ammettere i propri limiti e trovare una situazione di compromesso.

Al contempo sono i figli stessi ad insegnargli qualcosa, fermandolo quando si slancia verso decisioni problematiche, come andare a tutti i costi al funerale della moglie o abbandonare del tutto il suo progetto e lasciare la famiglia dai nonni. Un percorso che i personaggi fanno insieme, migliorandosi lungo la strada.

Una scelta sofferta

Viggo Mortensen in una scena di Captain Fantastic (2016) di Matt Ross

La scelta di vita di Ben e della sua famiglia è un interessante spunto di riflessione. Effettivamente le idee portate avanti non sono di fatto sbagliate, ma del tutto idealizzate, arrivando sostanzialmente a negare le dinamiche sociali odierne.

Alla fine Ben decide di trovare una soluzione di compromesso per i suoi figli, dargli una casa e mandarli a scuola, non tanto perché rinunci alla bontà delle sue idee, ma perché si rende conto che altrimenti non può proteggerli ed effettivamente prepararli al mondo esterno ed alle sue insidie.

In conclusione, sono tutti riusciti ad arricchirsi con questa esperienza: riescono comunque a vivere a loro modo, ma confrontandosi direttamente con il mondo esterno, e avendo tutti gli strumenti per giudicarlo.

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Il Padrino: Parte III – L’ultimo momento

Il Padrino: Parte III (1990) è l’ultimo capitolo dell’iconica trilogia omonima di Francis Ford Coppola. Un film arrivato a quindici anni di distanza dal precedente, con una produzione estremamente infelice.

Fra tutte le vicissitudini, la più amara fu sicuramente il fatto che Coppola non volle continuare con il terzo capitolo fin dall’inizio e negli anni si susseguirono diversi autori che vennero coinvolti nella produzione. E infine Coppola accettò probabilmente più per questioni economiche: al tempo era sommerso dai debiti per l’enorme flop di Un sogno lungo un giorno (1982).

Il successo al botteghino fu minore dei precedenti, ma soddisfacente: 136 milioni contro 54 di budget. Ricevette critiche positive, ma non entusiaste come per i precedenti capitoli. E non potrei essere più d’accordo.

Di cosa parla Il Padrino III

Ormai da tanti anni a capo dell’Impero Corleone, Michael Corleone cerca finalmente di traslare il suo business verso la legalità. Al contempo deve gestire la sua turbolenta famiglia, con la figlia ribelle Mary e cercando di riallacciare i rapporti con la ex moglie Kay.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Vale la pena di vedere Il Padrino: Parte III

Al Pacino in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

In generale, non è un film che vi direi di saltare, ma va approcciato nel modo giusto e con la consapevolezza di quello che ci si trova davanti. Per me Il Padrino: Parte III è un film che evidentemente Coppola non voleva inizialmente fare, dove ha cercato di dare il meglio, ma in cui non è riuscito a mettere la passione dei primi due.

Infatti l’ho trovato nel complesso un buon film gangster, che però non raggiunge la soglia del capolavoro come i primi due. Soprattutto, non aspettatevi un Michael Corleone come ve lo ricordate: a me è parso un personaggio diverso.

Nota a margine per la visione: non ho trovato lo stesso problema dei sottotitoli su Prime segnalato nel precedente capitolo, ma i sottotitoli in inglese nelle parti in italiano sono sbagliati. Insomma, come fanno, sbagliano.

Quando manca una storia

Andy Garcia in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

Nei precedenti capitoli ho trovato che la storia personale dei personaggi fosse molto più organica all’interno dell’intrigo politico: nel primo si rappresenta l’ascesa di Michael, nel secondo la sua intelligenza e spietatezza, anche davanti alle persone più vicine a lui.

In questo caso invece la trama l’ho trovata più concentrata sul dramma personale di Michael che cerca di tenere insieme la sua famiglia e i suoi affari, quest’ultimi però mi sono parsi più secondari, una sorta di scheggia impazzita che crea poi dei problemi nella sua sfera personale. Una dinamica in realtà abbastanza tipica per film di questo genere, ma da Coppola mi aspettavo di più.

Un film in parte forse più intimo, più pensato per chiudere una storia, pur riciclando dinamiche già viste in precedenza. Un film necessario? Forse no, ma non per questo inutile.

Michael Corleone in Il Padrino: Parte III

Michael Corleone è stata la parte che più mi ha deluso di questa pellicola. Per quanto sia stato abbastanza bistrattato, per me Al Pacino nei primi due film era mostruoso, riuscendo a portare un personaggio magnetico e intrigante in entrambi i capitoli.

Non ho trovato lo stesso in Il Padrino: Parte III: non so se Al Pacino volesse andare verso alla recitazione di Marlon Brando in Il Padrino (1974), ma per me non ci va minimante vicino. Ho visto un Pacino spento e incapace di rientrare nel personaggio, mancante della potenza che aveva portato in passato. E sicuramente il fatto di non aver ricevuto il compenso inizialmente richiesto per il ruolo non ha aiutato.

Manca fra l’altro per me una storia interessante riguardo al suo personaggio, che sembra solo che cerchi affannosamente di tenere insieme la famiglia e i suoi affari, fallendo tragicamente. Con un finale che mi è parso troncato e che ha cercato di mandare un messaggio simile al precedente capitolo, per me non riuscendoci.

Vincent Corleone in Il Padrino: Parte III

Vincent Corleone è interpretato da un attore di grande valore come Antony Garcia, che fu anche candidato all’Oscar per questo ruolo. Purtroppo, per quando l’attore assomigli anche nella recitazione a quella di Al Pacino nei primi capitoli, per me Pacino ha fissato un livello troppo alto e, di fatto, irraggiungibile. E per me Garcia non l’ha raggiunto.

Oltre a questo, non ho ritrovato la stessa crescita e trasformazione di Micheal, per quanto il film cerchi di citarla e riportarla in scena. Invece ho trovato Vincent più vicino al personaggio di Sonny, il padre illegittimo, soprattutto all’inizio, e non mi sono sentita coinvolta nella sua storia.

Un film più edulcorato?

Andy Garcia in Il Padrino: Parte III (1990) di Francis Ford Coppola

Ho ammirato Il Padrino e il suo seguito per la capacità di Coppola di creare una tensione da brividi e la violenza esplosiva, ma gestita con una mano attenta e raffinata. Nel Il Padrino: Parte III la violenza è molto più rara, molto impressionante in alcune scene, ma manca di quel tratto interessante di cui sopra.

Purtroppo questo film fu una delle prime pietre tombali di Coppola: dopo il flop di Raiman (1997), il regista lasciò il cinema per un decennio, per poi riapparire sporadicamente in progetti che non ebbero la risonanza dei suoi capolavori degli Anni Settanta e Ottanta.

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In viaggio con Pippo – Il mio terribile papà

In viaggio con pippo (1995) di Kevin Lima fu un caso incredibile di rivalutazione di un prodotto alla sua uscita in home video.

Il film infatti uscì nelle sale più per un obbligo contrattuale della Disney che per vera fiducia nel progetto, tanto che incassò pochissimo (37 milioni di dollari contro 18 di budget) e ricevette critiche poco entusiaste.

Tuttavia, con l’uscita in videocassetta, divenne un piccolo cult degli Anni Novanta e Duemila, in particolare per la generazione dei millennials.

Di cosa parla In viaggio con Pippo

Max è un giovane adolescente che vorrebbe solo essere popolare e conquistare la ragazza dei suoi sogni. Per uno strano caso di equivoci, finisce costretto ad un viaggio con il padre, Pippo, che vuole riallacciare i rapporti con lui.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere In viaggio con Pippo?

Assolutamente sì.

Per me ancora oggi è un film che vale una visione, anche per immergersi appieno negli Anni Novanta e in uno dei suoi maggiori cult. Una commedia davvero gustosa e divertente, la quale, nonostante qualche ingenuità, è ancora assolutamente attuale.

La consiglio soprattutto se apprezzate le dinamiche alla buddy movie in ambito familiare e il genere road movie.

Oltre a questo, ha una durata talmente breve, che passa in un attimo.

Un rapporto difficile

Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

In viaggio con Pippo è un road movie dal taglio buddy comedy, che racconta il tentativo di un padre di riallacciare i rapporti col figlio ormai cresciuto. Una storia di fatto molto semplice che però, per quanto dovrebbe essere comica, ha dei tratti molto drammatici, al limite dell’inquietante.

Già solamente il motore della vicenda, ovvero l’equivoco di Pippo che pensa che Max possa diventare un delinquente e finire in prigione, è terribilmente realistico e agghiacciante, anche per la messa in scena.

Pippo, da sempre convinto di avere un figlio con la testa a posto e che non farebbe nulla di male, viene terrorizzato dal preside della scuola, che scruta Max con fare poco rassicurante. E l’idea che il figlio prenda una brutta strada è una delle paure che colpiscono qualunque genitore, negli Stati Uniti anzitutto.

Così Max agisce con grande ingenuità, cercando di ingannare il padre per i propri fini ma sentendosi al contempo terribilmente in colpa.

Davvero straziante la scena in cui, con grande riluttanza, cambia il percorso del loro viaggio sulla preziosa mappa del padre. Lo stesso padre che cerca di ascoltare il figlio, dandogli in mano la mappa del loro viaggio e, di conseguenza, fornendogli la libertà di decidere come meglio ricostruire il loro rapporto.

Nonostante questi aspetti che lo rendono un film maturo e ancora interessante, la pellicola pecca in non pochi aspetti.

Un film imperfetto

Pippo e Max in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Un problema non indifferente del film è che sembra che manchi qualcosa.

Alcuni eventi della trama, soprattutto verso la fine, sembrano molto raffazzonati. Così Roxanne perdona immediatamente Max della sua bugia, così Max e Pippo si riconciliano troppo facilmente con una canzone e con altrettanta facilità riescono ad entrare al concerto, che era l’obbiettivo finale del film.

Se guardate qualsiasi prodotto analogo dello stesso periodo, la risoluzione finale richiede sempre un minimo di costruzione, anche improbabile, in cui i personaggi superano un ostacolo apparentemente insormontabile.

Per fare un esempio molto banale, in Quanto è difficile essere teenager! (2004) la protagonista vuole (come Max) recarsi ad un concerto, pur non avendo i biglietti. Questo elemento viene portato avanti per tutta la trama e ha un tipo di costruzione che poi porta effettivamente al finale.

Niente di tutto questo per In viaggio con Pippo.

Non è un sorprendente scoprire che ci furono diversi problemi produttivi, sia per il budget abbastanza risicato sia per problemi tecnici, col risultato che si dovette rifare da capo parte del film.

Oltre a questo, la pellicola fu approvata da Jeffrey Katzenberg, che fu a capo della Disney fino al 1994, per poi essere licenziato e diventare uno dei cofondatori della Dreamworks Animation.

Per questo i nuovi capi della casa di produzione di Topolino non ebbero evidente interesse nel progetto e lo rilasciarono, come detto, principalmente per obblighi contrattuali con Katzenberg.

Perché In viaggio con Pippo divenne un cult

Big Foot in una scena del film In viaggio con Pippo (1995) per la regia di Kevin Lima

Quindi, perché In viaggio con Pippo divenne un cult?

La bellezza del film risiede principalmente due aspetti: l’originalità di alcune trovate e il taglio narrativo.

Anzitutto, diversi elementi di questa pellicola diventarono immediatamente iconici, come il gorgonzola spray tanto amato da Bobby e la divertentissima gag di Big Foot. Elementi non del tutto comuni in piccoli film per bambini di questo tipo, e che oggi avrebbero sicuramente generato una quantità infinita di meme.

Oltre a questo, il taglio narrativo è piuttosto particolare, ed è anche il motivo del suo insuccesso: non parla per niente ai bambini, ma al contrario racconta in maniera credibile sia le ansie del protagonista adolescente sia le preoccupazioni di Pippo come padre.

Oltretutto il personaggio di Pippo in questo film è nel ruolo piuttosto atipico di padre, con anche dei tratti drammatici non indifferenti.

Perché fu un disastro al botteghino?

Anche in questo caso le motivazioni non sono più di tanto difficili da individuare.

Come detto, il taglio narrativo è eccessivamente adulto e rivolto ad un pubblico più adolescenziale che infantile, una problematica simile all’insuccesso de Il pianeta del tesoro (1998).

Al contempo, ci sono delle scene onestamente inquietanti, che possono colpire non nel modo migliore un pubblico di bambini, come è stato per Cup Head Show.

Fra queste, la bambina al negozio di foto di Pippo il cui posteriore viene incollato letteralmente al tavolo, così lo spettacolo degli Opossum, che ha un taglio al limite dell’orrorifico per raccontare la frustrazione di Max.

Una seconda possibilità

Proprio per il grande riscontro che ebbe con l’uscita in home video, la Disney decise, a cinque anni di distanza, di rilasciare un seguito, An Extremely Goofy Movie (2000), noto in Italia come Estremamente Pippo.

In questo caso ebbe un buon riscontro di pubblico e di critica, pur essendo rilasciato nella versione direct to video, ovvero direttamente in videocassetta. Gli fu dedicata una campagna marketing non da poco, con diversi gadget negli Happy Meal di McDonald’s in occasione della sua uscita.