Categorie
Avventura Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Film sportivo La domenica cinematografica

The Fighter – L’ingiusta ombra

The Fighter (2010) di David O’Russell è un dramma familiare che racconta la vera storia del pugile Micky Ward.

A fronte di un budget di 11 milioni di dollari, è stato un ottimo successo commerciale: 129 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Fighter?

Micky, una potenziale stella del pugilato, deve vivere nell‘ingombrante ombra dello sgangherato fratello maggiore…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fighter?

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Assolutamente sì.

Mi sento di consigliarlo in maniera così sentita perché The Fighter non è altro che un dramma familiare con un pizzico di film sportivo – proprio i due generi che più difficilmente riescono a convincermi, a meno che non si tratti di film di particolare valore.

E la pellicola di O’Russell è riuscita a conquistarmi proprio per la sua scrittura azzeccata e mai eccessiva sul lato drammatico, ma che anzi racconta una appassionante storia di presa di consapevolezza nell’aspro sfondo della provincia americana.

Insomma, da riscoprire.

Eroe

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Dickie è un eroe?

Il suo personaggio riesce ad elevarsi dall’aridità del suo mondo proprio perché gli basta pochissimo: per un gruppo così sgangherato e senza speranza di redneck è sufficiente essersi anche di poco avvicinati alla fama per diventare delle leggende viventi.

E, di conseguenza, tutto il resto sparisce.

Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Spariscono così le evidenti dipendenze di Dickie, sparisce il suo essere scostante e scorretto nei confronti del fratello, e scompare anche la disordinata vita criminale che il personaggio porta avanti sotto gli occhi di tutti.

E, di conseguenza, sparisce anche Mickie.

Ombra

Christian Bale e Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Mickie vive nell’ombra del fratello.

Il protagonista non può essere altro che un’estensione, la versione depotenziata del fratello campione, che sta cercando timidamente di inseguire una fama già propria di Dickie, apparendo per questo un eterno secondo.

Oltretutto, seguire il fratello – e la sua famiglia in generale – lo fa partire già in svantaggio.

Mark Wahlberg in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Forti della convinzione di essere riusciti a conquistare quel briciolo di fama senza una particolare programmaticità, i parenti di Mickie continuano a spingerlo in situazioni in cui è inevitabilmente destinato a perdere…

…al punto da portarlo alla nomea di essere l’eterno perdente che diventa il pugile sacrificale per permettere ai suoi contendenti di salire di livello, proprio per la sicurezza che non potranno mai essere battuti.

Eppure, evadere il seminato è impossibile.

Intrusa

Amy Adams in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Charlene è un’intrusa.

La sua relazione con Mickie è l’occasione per il protagonista per cominciare ad aprire gli occhi, per capire quanto la sua famiglia sia inutilmente aggressiva ed ingiustamente convinta di poterlo far vincere secondo i propri metodi.

Ed è anche più grave perché la ragazza non si lascia mai mettere i piedi in testa, anzi prende la parola al posto di Mickie – in più occasioni ammutolito ed impotente – e arriva ad abbassarsi al livello della famiglia del suo fidanzato senza particolari remore. 

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

Ma la soluzione non è così semplice.

Ancora fin troppo legato alla figura mitica del fratello, a Mickie serve vederlo sbattuto in prigione per il suo ennesimo piano sgangherato per scegliere finalmente di smarcarsi dai suoi consigli, e prendere una strada apparentemente più vincente.

La situazione sembra arrivare ad un capolinea con la trasmissione del documentario, che depotenzia definitivamente la leggenda di Dickie, riducendolo a mero tossichello di provincia – e che viene usato dalla ex-moglie di Mickie per svalutarlo indirettamente agli occhi della figlia.

Compromesso

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

L’ultimo atto di The Fighter è splendido.

Arrivato sul ring sicuro di poter vincere grazie alla sua nuova tecnica, Mickie raggiunge una sorta di epifania, che lo porta a rendersi conto che non potrà mai veramente vincere senza seguire i consigli fondamentali del fratello, che rimane il convitato di pietra per tutto il tempo.

E, se il suo voler avere un piede in due scarpe non viene accettato da nessuna delle due parti, a sorpresa la presa di consapevolezza di Dickie è determinante per riuscire a portare il fratello alla vittoria, per riuscire finalmente a spalleggiarlo…

Mark Wahlberg e Christian Bale in una scena di The Fighter (2010) di David O'Russel

…e mettersi così da parte.

In questo ultimo atto Dickie infatti comincia a spogliarsi di quell’eroismo di cui sia la sua comunità, sia il fratello stesso si nutriva, a mettere in discussione le sue presunte vittorie – in realtà nient’altro che biechi colpi di fortuna.

Così il leggendario fratello maggiore rimane saldo ai lati del ring, accompagna e conferma la gloria del protagonista e, durante l’intervista doppia, esce volontariamente di scena, per lasciare tutto lo spazio necessario alla vera star che merita di essere celebrata.

Categorie
80s classics Avventura Azione Dramma familiare Drammatico Fantascienza Film Futuristico

RoboCop – L’alternativa insicura

RoboCop (1987) di Paul Verhoeven è il primo capitolo della fortunata quadrilogia omonima.

A fronte di un budget di 13 milioni di dollari (circa 35 oggi) è stato un grande successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 146 oggi).

Di cosa parla RoboCop?

Murphy ha appena cambiato distretto ed è pronto ad entrare in azione in una Detroit immaginaria distrutta dal crimine. Ma il suo destino si sta svolgendo nell’ombra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere RoboCop?

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Assolutamente sì.

Sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo cult della fantascienza Anni Ottanta, dal momento che mi aspettavo un prodotto molto più incolore, un classico action capace di accogliere i più diversi pubblici e diventare così un successo al botteghino.

Invece RoboCop si rivela fin da subito un film davvero graffiante, che arricchisce le più classiche dinamiche del genere con un world building non poco crudele, anzi profondamente violento – per cui gli si riesce a perdonare persino qualche inciampo narrativo lungo la strada.

Insomma, da riscoprire.

Caos

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La Detroit di RoboCop è nel caos.

In una situazione quasi post-apocalittica, che ricorda le ambientazioni di 1997: Fuga da New York (1981), in cui la criminalità è apparentemente impossibile da contrastare, gli stessi poliziotti non sono altro che carne da macello in un panorama del tutto sregolato.

Per questo appare del tutto normale che gli agenti scelgano più volte di scioperare, davanti ad un governo assolutamente incapace di offrirgli una reale alternativa che li faccia sentire al sicuro, e al contempo incalzati dall’opinione pubblica che non ne accetta le proteste.

Ma non è solo Detroit ad avere un problema.

Una scena di tv di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

I frangenti più graffianti della pellicola sono proprio quelli dedicati alla televisione: gli spettatori possono perdersi in un tubo catodico che riscrive il presente, in cui appare del tutto normale che un laser decimi un’intera comunità, in cui ogni tragedia diventa giocosa e scusabile.

Inoltre, in diversi momenti la televisione interrompe la narrazione o si pone come una grottesca alternativa alla stessa: anche nelle situazioni di più alta tensione, i personaggi non mancano mai di sedersi davanti alla tv e di ridere di programmi del tutto inutili e totalmente discostati dalla realtà.

E, allora, qual è l’alternativa?

Alternativa

L’alternativa proposta è pure più attuale se vista oggi.

Infatti, invece che cercare una soluzione più pensata che permetta agli agenti di vivere al meglio la loro professione, l’alternativa migliore sembra essere quella di sostituirli con delle macchine apparentemente invincibili, che però, quando messe alla prova, si rivelano fin troppo pericolose ed incontrollabili.

Così sembra un’idea migliore riconvertire un poliziotto morto in un ben più controllabile braccio armato, apparentemente imbattibile e del tutto sicuro, proprio perché vincolato da delle precise regole per garantire la pubblica sicurezza.

Eppure, anche RoboCop presenta un’insidia non da poco.

Illusione

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

La sicurezza di RoboCop è un’illusione.

Volendo distinguersi da Dick Jones e non fare un prodotto del tutto artificiale, Bob Morton si illude di poter ingabbiare una mente umana in un corpo robotico…mentre appare del tutto chiaro dalle eloquenti soggettive di Murphy che in lui alberghi ancora una mente dormiente, che potrebbe riemergere in qualunque momento.

Ed infatti basta poco al protagonista per recuperare degli scampoli di memoria che gli permettono di capire chi è il suo vero nemico, portando ad un coinvolgimento emotivo però non del tutto efficace, in quanto il film manca di un retroterra narrativo abbastanza robusto riguardo al passato e alla personalità di Murphy.

Una scena di RoboCop (1987) di Paul Verhoeven

Ma non è l’unica illusione.

La quarta direttiva nascosta per RoboCop è una delle più interessanti zampate della pellicola, che ci racconta come affidare la sicurezza comune a dei privati presenti un indubbio prezzo da pagare: una piccola clausola di contratto che rende di fatto Dick Jones inarrestabile.

Così, nonostante la simpatica trovata sul finale di licenziarlo sul posto e di poterlo quindi mettere nel mirino del protagonista, rimane comunque un’angoscia di fondo nel pensare che in realtà questo sotterfugio potrebbe ancora essere messo in atto in qualunque momento…

Categorie
Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Film sportivo La domenica cinematografica

La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

Categorie
2024 Animazione Avventura Comico Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Nuove Uscite Film Pixar Racconto di formazione

Inside out 2 – Posso essere una cattiva persona?

Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann è il sequel dell’omonimo film Pixar del 2015.

A fronte di un budget di 200 milioni di dollari, ha aperto benissimo al primo weekend americano: 155 milioni di dollari, prospettandosi uno dei maggiori incassi dell’anno.

Di cosa parla Inside out?

Riley ha finalmente tredici anni ed è pronta ad una nuova sfida: l’adolescenza.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out 2?

Gioia e Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Assolutamente sì.

Inside out 2 è probabilmente uno dei prodotti Pixar meglio riusciti dell’ultimo periodo, riprendendo lo scheletro narrativo del primo capitolo e ampliando la storia in un’esplorazione mai banale dell’adolescenza e di tutti i suoi profondi drammi.

L’unico elemento che non mi ha convinto del tutto è proprio questo senso di more of the same: la storia è molto simile a quella del precedente film, quantomeno nelle dinamiche, anche se poi si arricchisce di un impianto comico ben più travolgente e indovinato.

Ma, dopo quasi dieci anni di attesa, se lo può anche permettere.

Stabilità

Riley in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

All’inizio di Inside out 2 troviamo una Riley diversa.

Dopo aver superato il primo, comprensibile shock del cambiamento, la protagonista è riuscita gradualmente a costruirsi una nuova vita ed una nuova personalità, proprio ad un passo dal complesso passaggio alla pubertà.

Ma, anche in questi caso, Gioia ricade sempre nello stesso errore.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Nonostante la pellicola non si dimostri per nulla dimentica del suo passato – Gioia effettivamente include tutte le emozioni – l’emozione protagonista si impegna comunque nel cercare di scremare i diversi ricordi, per mantenere solamente quelli positivi, utili per creare la Riley perfetta.

In questo senso piuttosto interessante l’introduzione dei capisaldi della personalità della ragazzina protagonista, costruiti sulla base dei ricordi e delle esperienze più costruttive che fanno sbocciare una Riley che vive della consapevolezza di essere una persona buona.

E basta.

E proprio qui sta il punto.

Shock

Le emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Lo shock della pubertà sembra ingestibile.

Riley diventa emotivamente intoccabile, ogni emozione, che prima veniva vissuta in maniera ragionevole, sfocia in un’alternanza di sentimenti esplosivi ed incontrollabili, in cui Riley passa dall’essere furiosa a sentirsi impossibilitata a continuare a vivere…

Riley si sveglia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Così, anche le sue emozioni si evolvono: davanti all’ulteriore minaccia di cambiamento della vita della protagonista, Riley comincia ad ossessionarsi tramite Disgusto per i fantasmi di un tradimento all’orizzonte, ricadendo nella totale disperazione.

E, infatti, è ora di dare spazio a nuove emozioni.

Emozioni

Arrivo di Ansia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

La rappresentazione di Ansia è perfetta.

Già il character design suggerisce un sentimento di ossessione e di nervosismo – gli occhi che coprono la maggior parte del volto, la pelle tirata, i capelli ritti in testa… – e si completano nell’atteggiamento instabile e nevrotico che prende piano piano sopravvento nella testa di Riley.

Altrettanto azzeccata è Ennui, che, con la sua testa calata di lato e il suo accento francese, non rappresenta semplice la noia, ma bensì una sorta di nichilismo, di disinteresse totale per quello che ci circonda – fra l’altro, rappresentando una perfetta controparte dell’ansia pervasiva.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Inizialmente invece Imbarazzo rimane più sullo sfondo, proprio per una sua inguaribile timidezza e anch’essa, più in generale, non rappresenta solamente l’imbarazzo, ma proprio un senso di inadeguatezza, di non essere nel posto giusto – e per questo di voler sprofondare.

Forse meno incisiva Invidia, una versione quasi più maligna di Disgusto, che durante la pellicola ha un’impronta meno memorabile sulla storia, dovuto anche al suo lavorare continuamente a stretto contatto con Ansia, che la porta alla lunga nel confondersi con la stessa.

Ma questo ora è tutto il mondo di Riley.

Nuova

Ponendosi apparentemente come il villain della storia, Ansia conquista la mente di Riley…

… togliendo di mezzo tutto quello di positivo che c’era prima, per lasciare spazio ad un cambio di passo per creare una Riley nuova di zecca, spietata e egoista, con l’obiettivo – paradossalmente – di farla sentire al sicuro dall’angosciante futuro.

Le nuove emozioni in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

In questo senso Inside out 2 gioca molto bene nel raccontare quanto Riley ingigantisca ogni situazione all’inverosimile

…finendo per vivere senza più un contatto effettivo con la realtà, ma del tutto calata all’interno di un universo di incubi e di demoni, in una rete di ansie che sembrano minacciare un destino di la solitudine, di isolamento sociale, di disprezzo…

Ma non ci sono solo due Riley.

Consapevolezza

Gioia in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

Il punto di arrivo di Riley è il viaggio di Gioia.

Proprio come desidera una Riley perfetta e senza macchia, allo stesso modo anche Gioia sente su se stessa la pressione di perfezione e di risolutezza che si è auto-imposta, che la porta in più momenti a crollare, sopraffatta dalla situazione, soprattutto davanti al continuo confronto con Ansia.

Per questo la soluzione finale per tornare al Quartier Generale è in realtà una spia della sua stessa presa di consapevolezza: dando libero spazio a quei ricordi finora messi da parte, Gioia permette agli stessi di inquinare i capisaldi della personalità di Riley.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out 2 (2024) di Kelsey Mann

E per questo il finale è così importante.

Inside out 2 sceglie di distaccarsi da una narrazione molto semplicistica e tipica per i prodotti dell’infanzia, in cui il punto di arrivo è sempre rappresentato dal raggiungimento di una bontà indispensabile per il protagonista, aderendo ad una visione in bianco e nero della vita e delle relazioni.

Al contrario, questa pellicola ci racconta come sia del tutto normale vivere una via di mezzo.

Possiamo essere altruisti, creativi e intraprendenti, ma al contempo anche egoisti, bisognosi di attenzioni, sfiduciati, ricalcando e ampliando il concetto del cocktail di emozioni già introdotto nel precedente capitolo.

E c’è ancora spazio per crescere.

Categorie
Comico Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Film Film sportivo La domenica cinematografica

Tonya – La non-principessa

Tonya (2017) di Craig Gillespie è un film sportivo incentrato sulla controversa carriera della pattinatrice Tonya Harding.

A fronte di un budget molto contenuto – appena 11 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Tonya?

Tonya Harding è una giovane donna che ha cominciato a pattinare da giovanissima  – e che ha continuato nonostante il mondo fosse tutto contro di lei.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tonya?

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Assolutamente sì.

Come per uno dei miei film preferiti – American Animals (2018) – Tonya utilizza splendidamente la formula del mockumentary, mettendo al centro un gruppo di bizzarri personaggi, i cui commenti puntellano la narrazione in maniera davvero brillante.

La pellicola è inoltre impreziosita da un cast di primissimo livello, in cui spicca una Margot Robbie – che già cercava di smarcarsi dalla sua immagine di sex symbol – e due ottimi comprimari – Sebastian Stan e l’ottima caratterista Allison Janney.

Insomma, da non perdere.

Svantaggiata

Mckenna Grace in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Tonya parte già svantaggiata.

Anzitutto, la testardaggine della madre di farla allenare per diventare una campionessa del pattinaggio è un’arma a doppio taglio: investendo ogni centesimo in questo progetto, la donna si sente ancora più giustificata nell’essere sgradevole e violenta nei confronti della figlia.

E, anche se la protagonista si impegna, si fa crescere una bella pellaccia per sopportare gli insulti e la violenza che la circonda, il mondo le è comunque ostile solo perché non corrisponde abbastanza allo stereotipo della principessa sul ghiaccio – anzi…

Mckenna Grace in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Così un aspetto non particolarmente attraente, un trucco esagerato e chiassoso, i capelli crespi e fuori luogo, i vestiti così evidentemente messi insieme, sono tutti elementi che portano Tonya ad essere sempre messa da parte, sempre svantaggiata nonostante le sue ottime performance.

E non è neanche la parte peggiore.

Sfondo

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Il pattinaggio è croce e delizia.

Non avendo mai avuto alle spalle una famiglia forte e che la seguisse, che la incoraggiasse ad avere un’educazione, un piano B nel caso la carriera dell’atleta non avesse funzionato, Tonya è di fatto intrappolata nel suo sogno.

Per questo diventa così frustrante che la sua bravura, il segno indelebile che ha lasciato nel mondo del pattinaggio sul ghiaccio, venga messo in secondo piano di fronte a tutto il resto, di fronte al suo carattere sgradevole e al suo aspetto dimesso.

E il passato è anche la sua rovina.

Sebastian Stan e Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Passare da un madre assente e opprimente ad una relazione definita dalla violenza da entrambe le parti, ad un tira e molla continuo che alterna la passione incrollabile alla violenza ingiustificata e perpetua, ha più volte un’influenza determinante sulla carriera di Tonya.

Così, anche riuscendo ad arrivare alle Olimpiadi, Tonya perde la sua occasione di fare quel salto fondamentale per distaccarsi per sempre dal suo passato proprio perché lo stesso non può fare a meno di tormentarla – e di farla inevitabilmente fallire.

Ma anche la seconda occasione è abbastanza.

Occasione

L’unica persona che davvero credeva in Tonya era la sua prima allenatrice…

…che, nonostante fosse stata scacciata in malo modo, raccoglie quel quarto posto alle Olimpiadi, quella ragazza senza futuro, e la plasma per diventare effettivamente una campionessa, un Oro alle Olimpiadi.

Ma la vittoria non è davvero possibile.

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Non riuscendo davvero a distaccarsi da Jeff e dalla sua onda distruttiva, Tonya viene travolta da un piano bislacco e improvvisato, che avviene totalmente alle sue spalle, senza che possa averne nessun controllo, e che oscura tutto il resto. 

Un peso sempre più incontrollabile, sempre più insostenibile, che definisce il suo secondo, clamoroso fallimento, solamente il prologo dello scandalo mediatico per cui verrà ricordata più come un caso di cronaca nera che come una leggenda del pattinaggio.

E dopo?

Dopo

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

Cosa c’è dopo?

La conclusione della storia di Tonya Harding, di quella che non è stata altro che una parentesi della sua vita, è raccontata dalla sua stessa protagonista, spezzata dalla distruzione del suo sogno, ma che non si è mai davvero lasciata sconfiggere dalla storia.

Una giovane donna che ha cavalcato la sua leggenda nera per riproporsi come una spietata pugile, tenendosi abbastanza tempo al centro della scena per continuare a guadagnare dalla sua notorietà, per infine ricostruirsi una vita più tranquilla e lontana dai riflettori.

Margot Robbie in una scena di Tonya (2017) di Craig Gillespie

E allora nel finale una domanda perseguita la narrazione: cosa sarebbe stata Tonya Harding se fosse nata in una famiglia ricca e che la supportava, se non avesse dovuto subire un matrimonio violento che ha spezzato le gambe più a lei stessa che alla sua stessa avversaria?

Forse, una leggenda del pattinaggio.

E basta.

Categorie
Animazione Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Fantastico Film Futuristico Giallo Grottesco Humor Nero Racconto di formazione Thriller

L’isola dei cani – Una favola sanguinosa

L’isola dei cani (2018) è la seconda avventura animata in stop-motion di Wes Anderson, dopo l’ottimo Fantastic Mr. Fox (2009).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 35 milioni di dollari – fu un discreto flop commerciale, con appena 64 milioni di incasso.

Di cosa parla L’isola dei cani?

Giappone, 1938. A fronte di un’epidemia di influenza canina, il perfido sindaco di Megasaki ordina di mettere tutti i cani in quarantena su un’isola di rifiuti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’isola dei cani?

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

Assolutamente sì.

Dopo aver ampiamente apprezzato Fantastic Mr. Fox, ero sicura che avrei altrettanto gradito la visione del delizioso L’isola dei cani, in cui si trova tutto il meglio dello stile e della filmografia di Wes Anderson: una storia che gioca fra la favola e il grottesco…

…in una sorta di thriller politico impreziosito da splendide scelte estetiche e di scrittura, per un film incredibilmente trasversale, che raggiunge il pubblico più giovane per la dinamica favolistica, ma che riesce anche ad incontrare un’audience più adulta.

Insomma, da non perdere.

Guerra

Il sindaco in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’incipit de L’isola dei cani è uno dei miei momenti preferiti.

Riprendendo la tradizione nipponica della divisione in ere, si racconta una storia dal sapore quasi eroico, che funge sia da prologo, sia in qualche modo da foreshadowing della vicenda stessa – il piccolo samurai è sostanzialmente Atari, e così tutta la situazione di conflitto del passato è assai simile alle vicende raccontate dalla pellicola.

Tuttavia, il presente non è più consolante.

Anche se non è subito esplicitamente detto, appare chiaro come l’influenza canina non sia altro che una pallida scusa per liberarsi della tanto odiata popolazione canina, cominciando proprio colpendo al cuore del sindaco – e, come scopriremo poi, del suo figlio adottivo – esiliando il povero Spots.

Selvaggio

Chief in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

L’isola dei cani è un luogo selvaggio.

E Chief si sente a casa.

Fin da subito il protagonista respinge ogni tipo di contatto con l’umano invasore, ponendosi in una posizione di distanza dagli altri cani, accomunato da un’origine più o meno borghese, da un padrone a cui sentono di appartenere e da cui vorrebbero tornare…

Chief e gli altri cani in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…mentre Chief si è lasciato definire dal quel mondo che l’ha schiacciato ed isolato, rivendicano quella vergogna sociale – essere un randagio senza padrone – come invece un motivo di vanto, nonostante la grande tristezza che accompagna il doloroso racconto del suo passato.

Per questo, il viaggio con Atari è il suo più grande ostacolo.

Equilibrio

In L’isola dei cani Wes Anderson è (ancora) in stato di grazia.

Questa pellicola rappresenta dal mio punto di vista l’ultimo momento prima di una caduta di stile nella totale autoreferenzialità nei successivi The French Dispatch (2021) e Asteroid city (2023), in cui ancora Anderson riesce a giocare molto bene fra i due poli opposti della sua estetica.

Da una parte, un’estetica ricca e minuziosa, basata su una perfetta simmetria e su tinte pastello, che accompagnano anche un taglio narrativo che per la maggior parte abbraccia toni favolistici ed idilliaci…

… dall’altra, inserti più dark, che spaziano dal grottesco al crudo realismo – come la gabbia con dentro le ossa del presunto Spots – fino all’effettivo thriller politico con tinte quasi hitchcockiane.

Un equilibrio, insomma, che ricorda molto da vicino l’appena precedente Grand Budapest Hotel (2016).

Rinascita 

Chief e Atari in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

La rinascita di Chief, paradossalmente, passa per Atari.

Diventati improvvisamente compagni di viaggio, inizialmente il protagonista si dimostra piuttosto ostile all’idea di accompagnare questo giovane ragazzo – come d’altronde prima si era persino rifiutato di lasciarsi medicare da lui.

Così ne segue un apparente distacco definitivo…

Chief  pulito in una scena di L'isola dei cani (2018) di Wes Anderson

…che si conclude invece positivamente ad un ritorno di Chief sui suoi passi, lasciandosi progressivamente sempre più adottare da Atari, il cui rapporto raggiunge il suo apice grazie al bagnetto: un momento che sembra solo un piccolo quadretto intimo fra i due…

…ma che in realtà definisce la rinascita del protagonista: proprio come Richie in The Royal Tenenbaums (2001), anche Chief, liberandosi della sporcizia che l’aveva definito come un aggressivo randagio, si riscopre in una nuova veste.

Lieto fine

Il finale de L’isola dei cani è un altro esempio di ottimo equilibrio.

Tutta la dinamica politica alterna toni molto diversi: da una parte è effettivamente una storia piuttosto sanguinosa, in cui una sorta di governo ombra sceglie da dietro le quinte le sorti del Giappone e, soprattutto, della sua popolazione canina. 

Per questo non mancano tutti gli elementi tipici di un thriller fantascientifico: un’epidemia controllata, un’isola prigione, nemici politici misteriosamente tolti di scena per degli apparenti suicidi inspiegabili…

Eppure, tutta la vicenda è veramente a misura di bambino: accogliendo dei toni propri del cinema per ragazzi, la pellicola racconta la tipica storia di un gruppo di giovanissimi che comprende la vera portata della macchinazione in atto prima degli adulti stessi.

Proprio per questo il finale è quasi un lieto fine, in cui i ragazzini che tanto adorano i loro cani si sostituiscono ai più aspri adulti che li volevano eliminare, creando delle leggi anche fin troppo dure per punire chiunque si permetta di mettere le mani sui loro amati compagni di vita.

Categorie
Avventura Comico Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Racconto di formazione

I sogni segreti di Walter Mitty – Sognare con i piedi per terra

I sogni segreti di Walter Mitty (2013) è uno degli ultimi lavori da regista cinematografico di Ben Stiller – e anche uno dei più divisivi.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo: 188 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla I sogni segreti di Walter Mitty?

Walter Mitty è un impiegato di una rivista di fotogiornalismo, ed ha una particolarità: sognare costantemente ad occhi aperti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare I sogni segreti di Walter Mitty?

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati.

Dopo aver conquistato il pubblico prima con Zoolander (2001) e poi con Tropic Thunder (2008), I sogni segreti di Walter Mitty rappresentò la svolta di Ben Stiller come regista verso il genere drammatico – e questa idea potrebbe lasciarvi spiazzati.

Tuttavia, se accoglierete benevolente questa sua nuova narrativa, ne potrete rimanere facilmente incantati: Stiller gioca molto con il genere drammatico, riuscendo a portare in scena una storia apparentemente molto prevedibile, arricchendola invece con un taglio molto credibile e coi piedi per terra.

Insomma, da non perdere.

Sogno

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty è un sognatore…

…in un mondo ostile.

Non riuscendo neanche a chiedere un appuntamento alla donna dei suoi sogni, trovandosi nel mezzo di un ridimensionamento totale dell’azienda per cui ha dato la vita, Mitty si trova bloccato in un drammatico limbo...

…che può sfuggire solo tramite il sogno.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Un sogno che non rappresenta necessariamente una rivincita, ma più in generale uno scenario in cui, finalmente, il suo personaggio diventa estremamente attivo, in cui è finalmente il protagonista, l’eroe improbabile di una vita su cui, invece, non sembra di avere alcun controllo.

Eppure, nel mondo reale sembra destinato a rimanere solo sullo sfondo.

Sfondo

Ben Stiller e Adam Scott in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Mitty vive nelle retrovie.

Nonostante svolga un lavoro di primaria importanza, senza il quale la stessa rivista non sarebbe possibile, la sua figura è profondamente sottovalutata, considerata niente più che uno strumento per finalizzare la chiusura dell’azienda.

Anzi, Mitty è considerato proprio uno strambo, uno sfogo per i suoi colleghi quanto per Ted Hendricks, che lo deride a più riprese per il suo essere sempre sulle nuvole – al contempo, lasciandosi in più momenti gabbare da Mitty in maniera sempre più improbabile.

Ben Stiller in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Per questo, l’intervento di Sean è fondamentale per più motivi.

Anzitutto, perché permette a Mitty finalmente di relazionarsi faccia a faccia con Cheryl, intrecciando una relazione che, se nel suo sogno poteva sbocciare solo se il protagonista avesse assunto sembianze altre, in realtà riesce a concretizzarsi grazie al progressivo apprezzamento della donna per le doti nascoste di Mitty.

Allo stesso modo, il mistero della foto è la scusa per Mitty per – finalmente!partire per quell’avventura che finora aveva solamente sognato, che sembra costantemente metterlo alla prova, al contempo concretizzando delle fantasie che sulla carta parevano improbabili.

E proprio qui sta il gioco del film.

Sogno…

Per il primo atto, I sogni segreti di Walter Mitty ci abitua ad un’improvvisa escalation dei sogni del protagonista, che partono da situazioni in generale credibili, per poi andarsi a perdere in dinamiche sempre più improbabili – e proprie dei peggiori B-movie.

Proprio per questo, la sua partenza improvvisa alla caccia della foto impossibile sembra l’inizio di una di queste fantasie, anche per via dell’intrusione di elementi di familiarità che sembrano propri del sogno – la torta della madre, il ristorante dell’infanzia…

…ma anche di dinamiche spiccatamente fantasiose – come la serenata di Cheryl che convince Mitty a salire sull’aereo – che potrebbero persino fare credere allo spettatore di trovarsi in una sorta di fantasia nella fantasia di inceptioniana memoria – ma che invece si frantumano davanti agli innegabili elementi di realtà.

Infatti, proprio qui è la chiave di lettura fondamentale del film.

…e realtà

Ben Stillere Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

L’avventura di Mitty è costantemente riportata con i piedi per terra.

In questa apparentemente fantasia, vengono a più riprese inseriti elementi di disturbo, che suggeriscono sempre più insistentemente che l’avventura è (quasi) del tutto reale: così Mitty cade dalla bicicletta rubata, viene attaccato da uno squalo e sbaglia totalmente il salto dall’elicottero.

Si crea così un’indimenticabile alternanza di toni e di dinamiche, in cui progressivamente la fantasia di Mitty si spegne perché, in qualche modo, non più necessaria: l’avventura della vita reale, finalmente, diventa appagante e concreta.

E proprio in questa dinamica si trova una particolare finezza di scrittura.

Stiller sceglie consapevolmente di non caricare il film di momenti eclatanti, non volendo rendere i momenti chiave della pellicola smaccatamente a favore dell’emozione facile del pubblico, ma, al contrario, li vuole raccontare come altrettanto importanti e preziosi proprio grazie alla lezione fondamentale di Sean.

Sean Penn in una scena di I sogni segreti di Walter Mitty (2013) di Ben Stiller

Una figura tanto eroica che racconta come l’emozione più raccolta, vissuta senza un filtro nel mezzo, sia ancora più folgorante…

…e che, più di tutti i suoi soggetti della sua incredibile carriera, il suo preferito è sempre stato questo piccolo e timido sognatore che viveva dietro le quinte, che si riscopre infine protagonista di una realtà che sembrava averlo lasciato indietro.

Categorie
Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Film sportivo La domenica cinematografica

Rush – Cosa sei disposto a perdere?

Rush (2013) di Ron Howard è un film a tema sportivo dedicato alla in(amicizia) fra due leggende della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt.

A fronte di un budget medio per questo tipo di produzione – 38 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale: 95 milioni di dollari in tutto il mondo.

Cosa parla Rush?

Partendo come dei sostanziali sconosciuti di circuiti minori, James Hunt e Niki Lauda seguono strade diverse per raggiungere i campionati più importanti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rush?

Assolutamente sì.

Rush è considerato fra i più fulgidi esempi di film sportivo, fondamentalmente per due motivi: anzitutto la regia particolarmente indovinata, ben ritmata, che riesce a orchestrare una messinscena di ampio respiro e particolarmente coinvolgente…

…e, soprattutto, una morale di fondo per nulla banale, ma che permette di gettare una luce diversa sia sulla storia specifica dei due protagonisti, sia in generale sulla realtà tutta particolare delle corse in auto, in cui la gloria quanto la morte sono dietro l’angolo.

Origine

L’origine del mito è minuscola.

Infatti, i protagonisti nascono come stelle locali e prendono strade del tutto diverse per scalare il successo.

James Hunt è il più classico eroe americano, che basa il suo crescente successo semplicemente sul suo talento per la corsa, in prima battuta non volendosi sporcare col degli squallidi sponsor.

Al contrario, Niki Lauda parte sostanzialmente come un perdente, e si spiana la strada verso la Formula 1 nelle retrovie, facendosi forte delle sue capacità non tanto come pilota, ma piuttosto come ingegnere, capace di portare in pista la macchina destinata a vincere.

Eppure, la loro rivalità si basa sul nulla.

Soldi, soldi, soldi

La Formula 1 è, prima di tutto, soldi.

Per quanto James Hunt si lamenti dell’ingresso comprato del rivale nella Formula 1, in realtà ben presto si rende conto di quanto sia fondamentale avere alle spalle un patrimonio – e degli sponsor – capaci di assicurare effettivamente un posto in pista.

Per questo, nonostante i primi sfavillanti successi, questi non bastano per scalzare la posizione di assoluto primo piano di Lauda…

…dovuta anche alla fama più benigna che lo accompagna, mentre Hunt è perseguitato dalla nomea di bad boy che ha effettivamente molto successo con le donne, ma invece molto meno con gli investitori.

Ma non è finita.

Vittoria

La sete di vittoria di Hunt non ha limiti.

Vivendo la costante umiliazione di eterno secondo – persino quando dovrebbe essere al primo posto – in occasione della pericolosissima gara in Germania, Hunt si dimostra ancora più spericolato, ancora più sfrontato nel voler inseguire il successo.

E proprio per colpa di questa sua avventatezza, Lauda finisce vittima dell’incidente che segnerà la sua carriera in maniera davvero incisiva, rimanendo impotentemente confinato ad un letto di ospedale mentre guarda Hunt che gli sfila la vittoria di mano, impunito.

Ma il suo rientro in pista è forse più fondamentale per Hunt.

Colpa

Hunt sente il peso della colpa.

E la colpa è duplice.

Anche se non direttamente, Lauda libera apparentemente Hunt dalla sua colpa di averlo messo in pericolo per la sua sfacciataggine, ma lo carica di una responsabilità nuova: con le sue sfavillanti vittorie, James ha convinto il suo eterno rivale a tornare in pista troppo presto.

Tormentato da sentimenti contrastanti, Hunt diventa incredibile il difensore della dignità del suo nemico, andando a punire con la forza il giornalista che si è permesso di infangare la sua professionalità attaccandolo sul suo aspetto.

Allo stesso modo, Lauda sceglie di prendersi la sua colpa.

Calato in una situazione analoga a quella che ha portato al suo doloroso incidente, Lauda infine capisce che non vale la pena di correre questo ulteriore rischio, forse di rischiare la propria stessa vita, e si prende la responsabilità di scegliere di ritirarsi.

Ma, allora, cosa rimane?

Eredità

La regia di ampio respiro di Rush ci permette di calarci in prima persona nella gara e nei dettagli del dietro le quinte: Ron Howard sperimenta con una messinscena frammentata, costruita su piccoli momenti, dettagli, passando da diverse inquadrature…

…che non si focalizzano, come avrebbe fatto un regista meno ispirato, sulle soggettive dei piloti, ma ci portano anche in mezzo al pubblico, fra i meccanici, nei particolari delle mani che giocano sui comandi dell’auto.

Quindi la vittoria di James Hunt è anche un po’ nostra: un momento di riscatto per un personaggio che ha voluto, come spiega lo stesso Lauda, dimostrare al mondo il suo valore, di essere al pari del suo nemico-amico.

E, se più amaramente Lauda sprona l’altro a non appendere i guanti al chiodo, in realtà forse è proprio così che Hunt ha compreso la sua lezione: non spingersi più in là di quello che serve…

…e concludere la sua carriera (e vita) da campione.

Categorie
Avventura Comico Commedia Disney Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Pixar

Inside out – Il diritto all’infelicità

Inside out (2015) di Pete Docter è uno dei film Pixar che negli anni sono più entrati nei cuori degli spettatori.

Non a caso, alla sua uscita, con un budget di 175 milioni di dollari, incassò quasi 900 milioni in tutti il mondo.

Di cosa parla Inside out?

Riley è una ragazzina di 11 anni con una vita molto felice. Eppure qualcosa di strano sta succedendo nella sua testa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Inside out?

Gioia, Tristezza, Disgusto e Rabbia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Assolutamente sì.

Inside out è uno dei migliori prodotti Pixar usciti dopo la piccola parentesi di produzioni meno indovinate fra il 2011 e il 2013, tornando ai grandi fasti dei primi, indimenticabili film, portando in scena un piccolo cult molto popolare ancora oggi.

E, soprattutto, la pellicola riesce nell’equilibrare la narrazione per renderla accessibile ad un pubblico infantile – in particolare, con i vari accenni comici – ma ampliando la platea per raccontare una storia incredibilmente trasversale.

Origine

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

All’inizio c’era solo Gioia.

Il suo personaggio rappresenta l’emozione dominante fin dall’inizio della storia, che combatte e tiene a bada gli altri sentimenti, che appaiono per lo più negativi ed incontrollabili – e che, per questo, necessitano di una guida che sappia mettere un freno ai loro slanci.

In particolare, Tristezza viene costantemente messa da parte, considerata un’influenza unicamente negativa che deve il più possibile essere tenuta fuori dal bilancio giornaliero di Riley e dalla sua vita idilliaca.

Eppure, proprio qui sta il problema.

La ragazzina ha una personalità piacevole e frizzante, derivata dai suoi Ricordi Base,  esclusivamente gioiosi, e non ha sostanzialmente nulla di cui lamentarsi: una famiglia accogliente e supportiva, amicizie fraterne e solide, una vita sostanzialmente felice…

…che in un attimo viene stravolta da un brusco cambio di scenario, in cui Riley tenta con tutte le sue forze di vedere il lato positivo, ma che, fra il dormire in una stanza spoglia, la pizza con gli odiati broccoli e l’ansia per la nuova scuola, sembra davvero impossibile.

Ma Riley è costretta ad essere felice.

Deriva

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Quando Gioia sembra ormai costretta a farsi da parte in una giornata disastrosa, la madre interviene in un modo apparentemente molto positivo, in realtà assolutamente disastroso per il benessere emotivo della protagonista:

si congratula con lei per riuscire ad essere felice, nonostante tutto.

Così Riley si trova sostanzialmente costretta a nascondere le sue vere e complesse emozioni, e, appena messa al centro dell’attenzione con una delle sue più grandi paure – essere chiamata dalla maestra – crolla totalmente su sé stessa.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, anche se Tristezza è stata programmaticamente messa da parte, non riesce a trattenersi dall’intrufolarsi in questa delicata situazione, andando ad inquinare quei ricordi felici che hanno definito la personalità di Riley fino a questo momento…

…e a creare così un ricordo fondamentale del tutto infelice.

Ma questo è solo l’inizio di una grande e fondamentale avventura.

Percorso

Gioia in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Il viaggio di Tristezza e Gioia funziona in due direzioni.

Da una parte, mostra l’intricato quanto spesso divertente dietro le quinte della testa di Riley, che ricorda in qualche modo i fasti di Esplorando il corpo umano (1987 – 88) in cui la mente della protagonista è una piccola fabbrica con le sue diverse sezioni e regole.

Dall’altra, racconta ancora più esplicitamente il rapporto fra le due emozioni, in condizione di totale antagonismo, dovuto anche ad una sostanziale superficialità di Gioia, che ha sempre considerato in maniera esclusivamente negativa Tristezza.

E proprio per questa non la ascolta.

Gioia e Tristezza in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

Infatti, Gioia si intestardisce verso una conclusione dell’avventura semplice e positiva, non riuscendo ad accettare il crollare progressivo dei capisaldi della personalità di Riley – in particolare, la famiglia – e rimanendo sostanzialmente indifferente ai consigli di Tristezza.

Una tendenza che si nota molto chiaramente quando, nonostante gli avvertimenti della sua compagna di viaggio, Gioia sceglie di seguire Bing Bong nella sua disastrosa scorciatoia, e così anche quando si intestardisce che l’unico modo per svegliare Riley sia con immagini gioiose e assurde, invece che con la più semplice paura.

In senso più generale, Gioia non capisce l’oblio.

Oblio

Gioia, Tristezza, e Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La memoria è fondamentale quanto l’oblio.

Vivendo in un momento di passaggio, è del tutto normale per Riley dimenticarsi di alcuni ricordi inutili – come nozioni puramente scolastiche – o lasciarsi alle spalle elementi fin troppo legati alla sfera infantile – come il castello delle principesse…

…o lo stesso Bing Bong.

Bing Bong in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

L’amico immaginario di Riley è privilegiato da Gioia perché legato ad una fase della vita della ragazzina più semplice ed immediata, definita da emozioni chiare e divise a compartimenti stagni.

E, soprattutto, Bing Bong è legato ad emozioni del tutto positive.

E proprio Bing Bong è una delle vittime dell’autodistruzione disastrosa – quando necessaria – dei capisaldi della sua personalità di Riley, ormai in balia di istinti immediati ed emozioni esplosive ed incontrollabili.

Insomma, per Riley è ora di crescere.

Crescere

Riley in una scena di Inside out (2015) di Pete Docter

La crescita è equilibrio e varietà.

Possiamo notare che la mente della madre di Riley l’emozione di punta sia la Tristezza, nonostante la donna si dimostri in più momenti propositiva ed accogliente, per nulla quindi dominata da un unico sentimento, ma capace di mantenere solido un equilibrio emotivo fondamentale per l’essere adulti.

Proprio per questo Gioia, che in un primo momento aveva cercato di mettere da parte Tristezza, capisce come questo sentimento sia in realtà presente anche nei momenti che pensava fossero esclusivamente felici, e come sia anzi necessario per plasmare la personalità della protagonista.

Per questo infine Riley si sente rinata, torna dalla sua famiglia e accetta finalmente che i suoi ricordi positivi le trasmettano invece una forte malinconia, capendo al contempo come gli stessi possano essere anche l’occasione per ripartire come una persona diversa e più consapevole.

Così la sua mente è ora aperta a nuove reazioni ed emozioni, a ricordi non più definiti da un unico sentimento, ma resi significativi perché nati dall’unione di più di questi, sia positivi che negativi, per definire una nuova, variegata personalità.

E ora manca solo la pubertà.

Categorie
2024 Avventura Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Giallo Grottesco Humor Nero La musa Nuove Uscite Film Surreale Yorgos Lanthimos

Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.