Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.
A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Midnight in Paris?
Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Midnight in Paris?
In generale, sì.
Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…
…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.
Pioggia
I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.
Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.
Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.
Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.
Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.
Ma c’è una via di fuga.
Esclusiva
La magia di Parigi non è per tutti.
La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.
E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.
Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.
Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.
Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.
Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.
Consapevolezza
Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.
La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.
Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…
Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…
Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.
Due autori di teatro si sfidano a trovare la differenza fondamentale fra commedia e tragedia, partendo dalla stessa storia…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Melinda e Melinda?
In generale, sì.
Melinda e Melinda appare a suo modo una riflessione molto intima di Allen sulla sua carriera fino a quel momento, ricalcando dinamiche comiche ormai consolidate nella sua produzione, ma anche esplorando nuovi versanti drammatici…
…proprio alla soglia di prodotti più rivolti in questa direzione – Match Point (2005) e Blue Jasmine (2013), ma anche Scoop (2006) a suo modo – quasi come se il regista se sdoppiasse, portando in scena due tendenze opposte che sentiva in quel momento.
Melinda e Melinda prende spunto da due visioni diverse.
I due autori dibattono su quale sia il favore del pubblico, se verso la commedia o la tragedia, risolvendosi ad andare a cercare quell’elemento che effettivamente cambia il tono e il taglio di una storia, mettendola da l’una o l’altra parte.
Ma, fin da subito, la differenza di visione è quella fondamentale.
Visione
Il medesimo evento – il racconto del passato – assume un tono diverso a seconda del diverso punto di vista dell’autore: se la Melinda tragica porta in scena un doloroso monologo sul suo passato, il racconto della Melinda comica non appare per intero, ma riassunto solo nei suoi punti salienti.
Per lo stesso evento, cambia moltissimo anche la regia della scena: il monologo tragico appare particolarmente emotivo perché Melinda è l’unica protagonista della scena, mentre il racconto comico code di una visione più ampia su tutti i personaggi della scena.
Lo stesso discorso si può fare anche per il tentativo di suicidio.
Essendo un elemento proprio del racconto tragico, Max nella sua versione la abbraccia totalmente, mostrandolo come un evento inevitabile della sfortunata vita di Melinda, come ben sottolineato dalla voce fuori campo di Laurel che chiude la storia.
Al contrario, nel racconto comico, l’elemento del suicidio è relegato ad un personaggio di contorno, che sceglie di togliersi la vita in una bizzarra escalation del suo flusso di pensieri – che ha molti parallelismi col primo monologo della Melinda tragica.
E il riferimento agli stilemi classici non è casuale…
Destino
I due racconti sembrano rifarsi ai dettami classici dei due generi.
Infatti la Melinda tragica è come se fosse destinata ad avere una conclusione infelice, tanto più straziante quando nella sua vita si affaccia la possibilità di una seconda occasione relazionale, che fra l’altro gli viene sottratta da quella che credeva sua amica.
Al contrario, il racconto della Melinda comica sembra voler a tutti i costi avere una conclusione positiva, andando fortuitamente ad fare corrispondere la fine del matrimonio di Hobie con la nascita del suo interessamento per la protagonista.
Ma infine una domanda rimane…
Perché?
Perché Melinda e Melinda?
Pur non essendo la prima volta che Allen sperimenta con la metanarrativa – come nel già citato Crimini e misfatti – è la prima volta che Allen si affaccia al genere drammatico in senso stretto, ed è come se con questo film volesse riproporsi al pubblico in una veste nuova…
…e, al contempo, riflettere con sé stesso sul cinema, e chiedersi come e se potrebbe sperimentare con un racconto strettamente drammatico, arrivando alla conclusione che non sono i temi a definire il taglio di un film, ma la mano stessa dell’autore.
Non a caso, il successivo Match Point ha alla base un racconto più e più volte portato in scena da Allen…
Val è un regista in disgrazia, per via del suo carattere molto difficile. Eppure sarà proprio la sua ex moglie a dargli una seconda occasione…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Hollywood Ending?
Assolutamente sì.
Hollywood Ending è uno dei miei film preferiti di Allen in questo periodo, anche per la sua ottima performance comica, con cui evade la macchinetta che già al tempo rischiava di diventare, per invece impreziosire la sua performance con un irresistibile taglio surreale.
Oltretutto, se si considera il momento artistico del regista statunitense – al tempo si cominciava a pensare che la sua carriera fosse ormai sulla via del tramonto – il film assume ancora più significato, soprattutto visto che ci troviamo a pochi anni di distanza da uno dei suoi più grandi successi:Match Point (2005).
Disgrazia
Il personaggio di Val nasce fuori scena.
Uno dei lati che più apprezzo della scrittura di Hollywood Ending è proprio il modo in cui introduce il protagonista: un’animata discussione fra Ellie e gli altri produttori, in cui si abbozza già il carattere imprevedibile di Val, nonostante questo non sia presente.
Così scopriamo come Val sia un regista ormai caduto in disgrazia, nonostante tutti i presenti ne riconoscano l’innegabile verve artistica, che lo distingue dai più incolori yes man che invece dirigerebbero la pellicola in maniera molto meno ispirata.
E infine Ellie dà la punchline che chiude questa ottima costruzione:
Ed infatti vediamo un Val ormai costretto ad accettare i lavori più improbabili, nonostante non riesca ad a mantenere neanche quelli, rendendo l’offerta di Ellie davvero la sua ultima occasione per rilanciarsi – senza che questo, però, gli impedisca di continuare ad essere ingestibile…
Follia
Come prevedibile, Val è totalmente incontrollabile.
Ma non è solo.
La sequenza dedicata al breve incontro con la sua ex moglie è una delle migliori prove comiche di Allen dai tempi di Prendi i soldi e scappa(1969), mostrando un comportamento quasi bipolare, che passa da una serena discussione sulla sceneggiatura fino alle più aspre rivendicazioni sul suo matrimonio fallito.
Come se questo non bastasse, la follia sembra perseguitarlo.
Tutti i personaggi di cui si circonda nella fase di pre-produzione dimostrano a più riprese tutta la loro assurdità – addirittura nel voler ricreare interi palazzi di New York – che dimostra come Val scelga, forse inconsapevolmente, di lavorare con figure ancora più improbabili di lui.
Ma all’apice della follia, della realizzazione dei suoi capricci…
Isteria
La cecità di Val è frutto esclusivamente della sua isteria.
Pur essendo sano come un pesce, fra l’ipocondria galoppante, la vicinanza con l’odiata ex-moglie e una produzione assurda ancora prima di cominciare a girare, il protagonista esprime il suo disagio irrisolto in una malattia apparentemente incomprensibile.
Uno spunto comico che poteva facilmente essere sprecato in battute piuttosto scontate, ma che invece si articola in una serie di gag comunque piuttosto semplici, ma nondimeno anche brillanti e gustose nella loro esecuzione.
Fra l’altro, la cecità improvvisa è anche l’occasione per riflettere sulla propria vita, sul suo intestardirsi sulle sue manie, in particolare nell’essere un grande artista incompreso dalla sua stessa famiglia – con cui invece gradualmente riesce a riconciliarsi.
Quasi una…profezia?
Presagio
Come anticipato, Hollywood Ending è probabilmente uno dei film più autobiografici di Allen.
Così la già citata situazione della sua carriera – considerata ormai alle sue battute al tempo dell’uscita del film – e l’inizio dei finali più positivi e concilianti per le sue commedie – già in Criminali da strapazzo(2000) – che raccontano il recente matrimonio con Soon-yi Previn.
Allo stesso modo, questa pellicola è una previsione fin troppo lucida del suo destino registico: il suo progressivo allontanamento dal cinema americano per invece affacciarsi al panorama europeo, ben più pronto – proprio come nel film – ad accettare la sua arte.
E proprio a Parigi, meno di dieci anni dopo, avrebbe ambientatoMidnight in Paris(2011)…
Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes, noto anche come Sixteen candles, è un piccolo cult del genere teen movie, con protagonista la star del genere negli Anni Ottanta: Molly Ringwald, futura protagonista anche in The Breakfast club (1985) e in Pretty in Pink(1986).
A fronte di un budget piccolino – appena 6,5 milioni di dollari, circa 19 milioni oggi – fu un buon successo commerciale: 23 milioni di dollari in tutto il mondo, circa 65 oggi.
Di cosa parla Un compleanno da ricordare?
Sam è una ragazzina che ha appena compiuto sedici anni, ma a cui niente sembra essere cambiato. E invece sarà un compleanno pieno di sorprese…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Un compleanno da ricordare?
Assolutamente sì.
Mi sbilancio così tanto nel consigliarvi questa pellicola perché è un tuffo quasi alienante in una visione del mondo così ingenuamente stringente, con una classificazione dei personaggi – particolarmente quelli femminili – fra buoni e cattivi – e senza possibilità di replica.
Oltre a questo, Un compleanno da ricordare, nonostante voglia raccontarsi come una commedia romantica, è in realtà uno dei pochi teen movie che parla in maniera veramente poco edulcorata dell’esplosivo desiderio sessuale adolescenziale.
Insomma, vale la pena di riscoprirlo.
Desiderio
Per quanto il film cerchi di edulcorarlo, il desiderio della protagonista è chiarissimo.
All’inizio la sua sembra la più innocua fantasia di cambiamento, di crescita, di vedere davvero un mutamento così fondamentale, che ormai dovrebbe essere avvenuto, ma che invece sembra invisibile a tutti gli altri – tanto che nessuno sembra essersi ricordato del suo compleanno.
Poi, emergere il vero desiderio.
Tramite un piccolo questionario anonimo, ci immergiamo in tutti i dubbi più tipici della scoperta sessuale: la volontà di avere un rapporto, ma la paura di non riuscirci, di non sapere addirittura se qualcosa è già successo, nonostante l’oggetto del desiderio sia lampante.
E lo stesso ha dei risvolti quantomeno dubbi…
Interesse
Fin da subito Jake è il protagonista di una dinamica leggermente inquietante, ma che ben inquadra la forse involontaria ambiguità del personaggio: come Sam lo guarda piena di desiderio, lo stesso sembra ricambiare l’interesse, impossessandosi avidamente delle sue risposte rivelatorie al questionario.
Ma, forse anche complice la scarsa interpretazione di Michael Schoeffling, appare poco chiara la nascita del suo desiderio verso Sam: se da una parte appare ormai stufo del suo attuale rapporto, vuoto e inconsistente su una ragazza che, come vedremo, neanche rispetta…
…dall’altra, è davvero poco trasparente il motivo per cui Sam le interessi così tanto: anche se afferma di voler cercare altro oltre al semplice rapporto sessuale, davvero basta che la protagonista dimostri un minimo di interesse nei suoi confronti per farlo innamorare?
Oppure…
Vergine
Un compleanno da ricordare appare per certi versi un goffo manuale della castità.
Infatti la positività della protagonista non è spiegabile al di fuori della sua verginità: volendosi rivolgere ad un pubblico molto giovane, il film racconta un’adolescente piuttosto tipica, con le sue insicurezze e il suo facile indispettirsi quando non ha tutte le attenzioni per sé.
Al contrario, non tanto la sua illibatezza, ma il suo desiderio di conservarsi per una persona in particolare la rendono evidentemente migliore di tutti gli altri personaggi femminili: Caroline, la tanto disprezzata ragazza di Jake, e Ginny, la sconsiderata sorella della protagonista.
Due donne con una sessualità fin troppo libera e che, per questo, devono essere punite.
E come vengono punite…
Punizione
Ginny e Caroline sono due personaggi sostanzialmente sovrapponibili.
Ginny è anzitutto colpevole di distogliere l’importante attenzione della famiglia di Sam dal compleanno della protagonista, per focalizzarsi invece su un’occasione che non determinata il coronamento di un sogno d’amore, ma solamente la conferma dell‘incosciente condotta del suo personaggio.
Infatti in non poche scene appare chiaro come la scelta del compagno non derivi da un effettivo interesse nei suoi confronti, ma piuttosto da un desiderio di riposizionamento sociale: non più come donna che salta da un letto all’altro, ma come una moglie da rispettare – anche se di un uomo insulso…
Ed è inquietante quanto interessante come un momento in cui avrebbe dovuto essere estremamente presente, Ginny è invece totalmente in balia degli eventi proprio come Caroline, una donna di così poco conto da poter essere – a parole e nei fatti – violata più volte.
Il suo personaggio è infatti in assoluto il più bistrattato: preso sulle spalle come un sacco della spazzatura e portato in macchina di uno sconosciuto che non fa di fatto niente per evitare di essere colpevole di uno stupro – di cui, anzi, si compiace.
Perché, in verità, il personaggio maschile attivo sessualmente è sempre premiato.
Premio
Oltre alla protagonista, due sono i personaggi che ricercano attivamente il sesso.
Da una parte lo strambo Dong, rappresentazione ingenuamente razzista di un apparente geek incapace di relazionarsi con le ragazze, ma che invece viene coinvolto nel party di Caroline, in cui può rivelare la sua sessualità veramente esplosiva, diventando il comic relief della storia.
In particolare a lui si devono i momenti più esplicitamente sessuali della pellicola: dal rapporto vestito con la sua nuova fiamma, fino al lento del ballo, in cui Dong si appoggia letteralmente sul seno della ragazza e dà adito ad una sfilza di battute a sfondo erotico anche piuttosto intraprendenti visto il tipo di target.
L’altro geek premiato è Ted.
Il suo personaggio comincia una rincorsa impossibile verso Sam, in una maniera che lo definirebbe immediatamente comefuori dalla corsa del sesso, tanto sono viscidi e improvvisati i suoi tentativi di rimorchio, di rivalsa sociale – per cui è disposto a spendere fin troppo.
E, invece, assumendo il ruolo di aiutante della protagonista e di promotore della coppia, Ted non solo riesce ad ottenerela prova della sua vittoria sessuale, ma addirittura ad avere il suo primo rapporto con una ragazza apparentemente ancora più inavvicinabile di Sam.
E lo stupro è presto perdonato…
Sacro
La dinamica del finale è pregna di un simbolismo veramente rivelatorio.
Sam viene rivestita di abiti incredibilmente verginali e idilliaci, tanto da prendere in qualche modo il posto della sorella come sposa – anche per il fraintendimento dello stesso Dong – e quindi venir ricondotta ad uno status sociale totalmente accettabile, anzi desiderabile.
Di fatto, proprio per quanto detto sopra, Sam viene premiata con una sorta di unione sacra con Jake, un dolce bacio scambiato al lume di candela che chiude la pellicola – apparentemente non lasciando trasparire altro dal loro rapporto.
Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch, in Italia noto anche come Bella in rosa, è un classico del genere teen movie Anni Ottanta.
A fronte di un budget piccolissimo – appena 9 milioni di dollari, circa 25 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 114 oggi).
Di cosa parla Pretty in Pink?
Con un’estrazione sociale bassissima e l’emarginazione sociale continua nel suo liceo per ricchi, Andie si trova coinvolta in un innamoramento pericoloso…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pretty in Pink?
In generale, sì.
Pretty in Pink è un classico davvero in senso stretto: all’interno della pellicola ritroverete dinamiche piuttosto tipiche del genere, ma molto più all’acqua di rose, molto più con i piedi per terra, con pochi picchi drammatici davvero significativi.
Una visione che ci riporta agli albori del teen moviequando, positivamente o meno, queste pellicole erano molto più con i piedi per terra, e molto meno smaccati rispetto ai – forse – più godibili prodotti dei decenni successivi.
Però, dategli un’occasione.
Status
Andie vive in uno status quo da cui sembra impossibile evadere.
La protagonista è amaramente consapevole della sua disprezzabile estrazione sociale, del suo aspetto e abbigliamento stravagante – dovuto anche all’impossibilità di comprarsi abiti di prima mano – e al non avere un appuntamento per il ballo scolastico…
…ma, anche ampiamente spalleggiata da Duckie, mostra anche una certa superiorità nel non essere come quei ragazzi ricchi e viziati, che ora la punzecchiano per avere un appuntamento, ora la bullizzano apertamente.
Eppure, un’alternativa è possibile.
Il primo approccio con Blane deriva proprio dalla situazione sociale della protagonista: nonostante sia evidentemente interessata a questo nuovo ragazzo, Andie si pone fin da subito sulla difensiva, lanciandosi in qualche battuta classista molto goffa.
Ma questo non ferma Blane, che comincia un dolcissimo corteggiamento della protagonista, rispettando i suoi spazi e avvicinandosi a lei con delicatezza e nei giusti tempi, mostrandosi totalmente ignaro della aspra contesa sociale in atto.
Intrusione
Con il loro primo appuntamento, è come se Blane e Andie volessero mettere alla prova i loro rispettivi spazi sociali.
Già tutta l’attesa di Blane racconta la profonda insicurezza della protagonista, continuamente intimorita dall’idea di essere solo un interesse passeggero, di essere in realtà una vergogna per questo fin troppo dolce ragazzo.
Ma l’effettivo arrivo di Blane è il trigger emotivo inevitabile di Duckie: in questa fase il suo personaggio è insopportabilmente chiassoso, incapace di comunicare serenamente il suo disappunto per la nuova relazione, tanto da tirare ridicolmente in mezzo la stessa Iona.
E non è neanche la situazione peggiore.
L’intrusione nel party di Jeff è ingenua quanto disastrosa: non ancora consapevole del disprezzo del suo amico nei confronti della sua nuova fiamma, Blane introduce la protagonista in un panorama che le sta fin da subito stretto.
Così, il loro spazio intimo è da ricercare altrove: la conclusione del secondo atto è rappresentata dal picco drammatico e romantico della neonata coppia, con la confessione dolorosa quanto fondamentale di Andie, che infine porta al primo bacio.
Incubazione
Nell’atto finale, tutto si ribalta.
Al trionfo romantico della coppia si alterna invece al climax per l’inevitabile allontanamento, alimentato dai dubbi da entrambe le parti: le pressioni sociali di Blane da parte di Jeff e la concretizzazione delle paure di Andie dall’altra.
Un momento particolare della pellicola, che offre alla protagonista lo spazio per rinascere, per superare la sua quasi totale passività al quadro sociale – sopratutto alle sue recenti evoluzioni – e invece ritornando attiva proprio nella scelta di partecipare al ballo pure senza accompagnatore…
…ma non è la sola.
In questo momento di passaggio, anche altri personaggi trovano la conclusione della loro storia: anzitutto il padre di Andie, fin dall’inizio sferzato dalla figlia per migliorare la sua condizione lavorativa, che ammette finalmente il motivo del suo immobilismo.
Ma sopratutto assistiamo al punto di arrivo di un personaggio che ha vissuto sostanzialmente sullo sfondo: Iona, personaggio in cerca di un’identità che, pur in maniera un po’ discutibile, trova il suo punto di arrivo in un ragazzo con la testa sulle spalle, con cui trova finalmente la sua felicità.
Confronto
Lo scioglimento della vicenda è da manuale.
La ricomposizione della coppia è possibile solo se ognuno dei due personaggi risolva la situazione che in primo luogo ha rovinato la relazione: e se per Andie è una risoluzione costruttiva, con Duckie che finalmente accetta il nuovo fidanzato come un personaggio rispettabile…
…e invece per Blane è una risoluzione distruttiva, che segna il distacco definitivo da Jeff e dalla sua cricca, comprendendo le vere ragioni del disprezzo del suo ex-amico verso la sua amata, e chiudendo la pellicola con il più classico bacio risolutore dei due personaggi.
The Help (2011) di Tate Taylor è un dramma storico ambientato nel profondo sud statunitense negli Anni Sessanta – con tutto quello che ne consegue.
A fronte di un budget medio – 25 milioni di dollari – anche grazie alla visibilità data dall’Academy, è stato un ottimo successo commerciale: 216 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla The Help?
Aibileen e Skeeter sono due donne apparentemente divise, in realtà con un destino comune: scardinare un sistema sociale profondamente razzista che danneggia inevitabilmente tutti.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Help?
Dipende.
Per quanto The Help sia un film che abbia visto innumerevoli volte, ponendovi un occhio più oggettivo mi rendo conto che, con le aspettative sbagliate, potrebbe essere incredibilmente indigesto.
Infatti, per ammissione fra l’altro della stessa Viola Davis, il racconto del panorama sociale di riferimento è molto annacquato, reso digeribile per un pubblico ampio, e quindi, soprattutto se si ha qualche conoscenza sul tema, appare poco credibile.
Ma, se non avete di questi problemi, è un prodotto piacevolissimo.
Apparenza
L’apparenza di The Help è scintillante.
I protagonisti (bianchi) non hanno apparentemente nessun problema nel dover prendere scelte di vita, in quanto queste sono già state prese per loro: sposarsi giovanissimi, fare più figli possibili, e essere parte attiva di un sistema sociale costruito sulle apparenze.
Ancora meglio se si è uomini, il cui ruolo è trovare un lavoro d’ufficio che li porti fuori casa e che lascialle mogli il compito di tenere vivo il tessuto sociale, talvolta persino diventando delle marionette al servizio delle compagne – come nel caso del marito di Hilly.
Più faticoso per certi versi invece il ruolo femminile, ancorato ad un circolo sociale capitanato dall’ape regina di turno – Hilly – che le porta ad essere sostanzialmente tutte uguali, tutte con gli stessi pensieri ed ambizioni.
Eppure, la realtà è molto meno confortante.
Perdente
In The Help gli apparenti vincitori sono i veri perdenti.
La dannosità di questo panorama sociale è particolarmente evidente nel personaggio di Elizabeth, che cerca costantemente e disperatamente di nascondere la sua infelicità – proprio come nasconde il graffio del tavolo da pranzo…
Infatti in più momenti durante la pellicola intravediamo l’infelicità di un matrimonio di convenienza, di una probabile depressione post-partum, che ha portato Elizabeth a disprezzare totalmente la sua primogenita, e della costante paura di non essere al posto giusto.
Ma la vera perdente è Hilly.
Nonostante il suo personaggio pensi di avere tutti sotto scacco, in realtà è inghiottita dal sistema di sua invenzione: l’intera sua esistenza ruota intorno alla necessità di tirare i fili della comunità, creare coppie, gestire i pettegolezzi, ed emarginare gli indesiderati.
Ne consegue una fragilità emotiva così devastante da non riuscire nemmeno a sostenere l’idea di aver perso un compagno – Johnny – che probabilmente non si voleva sottomettere alle sue angherie, ma per cui provava un sincero affetto.
E, alla fine, essere ai margini non è così male…
Margini
Anche se i due personaggi non si conoscono direttamente, Skeeter e Celia vivono due esistenze parallele.
Entrambe infatti sono costrette in un sistema che li sta stretto: per Celia una vecchia casa impossibile da ammodernare, il totale isolamento sociale, senza neanche avere la compagnia di una negra, e con un matrimonio apparentemente destinato al fallimento.
Particolarmente drammatica in questo senso la vergogna sociale di non riuscire ad avere figli in tempo utile – passaggio fondamentale per cui la donna spera forse di rientrare nel circolo esclusivo di Hilly.
E il riscatto di Celia avviene, paradossalmente, grazie a Minny.
Inizialmente il suo personaggio si affida a Minny per compensare una delle maggiori lacune del suo matrimonio: l’incapacità di cucinare manicaretti perfetti per il marito, dovuta anche al suo turbamento emotivo interiore goffamente celato.
Invece, nel tempo i due personaggi si salvano a vicenda: Minny riesce a trovare un riscatto sia dal matrimonio violento in cui era intrappolata, sia dalle angherie di Hilly, che le rendevano di fatto impossibile trovare un’altra occupazione…
…mentre Celia comprende la ricchezza di un circolo sociale ristretto, ma di valore.
Ribelle
Pur partendo da una situazione analoga da Celia, Skeeter è una ribelle.
Non adeguandosi né esteticamente – scegliendo vestiti molto meno frizzanti, lasciando i capelli al naturale – né socialmente – non ambendo ad avere un marito, ma a realizzarsi lavorativamente altrove – Eugenia appare come una mina vagante.
Soprattutto, perché non è pronta a scendere a compromessi: anche se viene costantemente spinta a interessarsi alla sua carriera matrimoniale – unico apparente sbocco possibile – Skeeter accetta Stuart solo quando questo si piega alle sue condizioni.
E anche così non basta.
La ribellione di Skeeter è silenziosa, avviene nel dietro le quinte, ma riesce a scuotere lentamente tutto il costrutto sociale immobile in cui è cresciuta, soprattutto quando i suoi vari protagonisti vengono colpiti nel vivo – in particolare, le due madri, Charlotte e Missus.
Un percorso che però non tutti sono pronti ad accettare: se col tempo la madre di Skeeter si rende conto dell’inumanità a cui è stata portata, al contrario Stuart rivendica il suo diritto di controllare le scelte della fidanzata e la sua volontà di rimanere immobile in un mondo che va bene così.
E forse, a posteriori, era meglio per Eugenia essersi lasciata alle spalle l’unico elemento che la teneva ancora legata ad un sistema vetusto e limitante.
Differenti
Altre due ribelli tutte loro sono Minny e Aibileen.
Da una parte Minny porta avanti una ribellione piuttosto chiassosa e diretta, per cui si rivolta costantemente – e pure con sagace ironia a – contro cattiverie di Hilly – prima con lo statement dello scarico del water, poi con il terribile scherzo della torta.
Ma una donna nera non ha spazio per essere alternativa, pena l’essere comunque schiacciata sotto il peso di accuse del tutto inventate, ma tanto potenti da renderle impossibile trovare un’alternativa, perché ormai proprietà della sua ex-padrona.
La ribellione di Aibileen è diversa.
Fin da subito il suo personaggio mostra un carattere mansueto, e una totale volontà a sottomettersi al sistema – anche solo per il suo nascondere i suoi veri capelli con una parrucca da bianca – che si esprime soprattutto nella scena in cui consiglia timorosa all’amica arrestata di non lottare.
Invece, più il film prosegue, più la protagonista porta avanti una rabbia violenta che aveva covato da anni, che la porta prima ad essere la prima nera a poter parlare apertamente della sua situazione, poi a prendere di petto – e annientare – la stessa Hilly, mettendola per la prima volta davanti alle sue colpe…
…scegliendo, infine, un destino diverso da quello che aveva sempre creduto essere l’unico possibile.
The Iron Claw (2023) di Sean Durkin, in Italia noto anche come The Warrior, è un film sportivo dedicato alla vera storia della famiglia maledetta dei Von Erich.
A fronte di un budget abbastanza piccolo – appena 15 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:45 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla The Iron Claw?
Stati Uniti, 1979. Fritz Von Erich è un ex campione di wrestling che cerca di portare tutta la famiglia sul ring…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere The Iron Claw?
Assolutamente sì.
Nonostante la storia raccontata sia veramente angosciante, Sean Durkin è riuscito a mantenere un buon equilibrio di scrittura per non scadere nel dramma smaccato, ma invece costruendo ogni evento, anche il più tragico, in maniera ben pensata.
In generale la pellicola sembra voler raccontare una realtà alternativa a quella a cui siamo abituati per questa disciplina, meno teatrale e molto più legata ad un dramma reale e insostenibile – per certi versi simile all’ottimo The Fighter (2010).
Insomma, da riscoprire.
Sogno
The Iron Claw si apre con un sogno.
Il patriarca della famiglia Von Erich vuole vivere appieno il suo momento di gloria, incarnando più la figura dello showman che dell’atleta, proprio dando spettacolo sul ring, mettendo in mostra il suo artiglio di ferro e rischiando la squalifica solo per farsi acclamare dal pubblico.
Ma fuori dal ring la storia è diversa: una famiglia da crescere, un sogno impossibile da rincorrere per diventare il campione del mondo, la star del momento, facendo da subito un passo più lungo della gamba e noleggiando una macchina da star.
Altrimenti…
Maledizione
I figli di Von Erich sono il suo piano B.
Un terzetto di ragazzoni che incarnano tutta la spietatezza del wrestling, con i loro pettorali guizzanti, che in realtà nascondono una forte fragilità, un senso di profonda inadeguatezza che li rende sempre più relegati al palco– e solo a quello.
Tutto il resto è una maledizione.
Una maledizione che aveva già colpito il giovanissimo primogenito, portato via da una malattia improvvisa, che rende inabile alla disciplina il quasi isterico Kerry, che porta alla morte del futuro campione David e che infine porta fuori scena persino il figlio più simile a Fritz: Mike.
Ma è davvero colpa del fato infausto?
Fautore
La famiglia Von Erich è fautrice della sua stessa maledizione.
Ad eccezione della primissima morte familiare, tutti gli altri incidenti sono tutt’altro che casuali, ma bensì frutto dell’ossessione del padre, che porta i fratelli a contendersi il suo affetto, a non riuscire a vedere altro che la vittoria e a non curare sé stessi.
Infatti, ogni scelta che esce dal seminato viene subito troncata dal patriarca, in particolare l’innocente serata musicale di Mike che viene derubricata come una scelta inutile e che non può essere perseguita, proprio perché non appartiene al mondo del ring.
In particolare, Kerry è la principale vittima del disinteresse del padre, che ha il suo apice nel regalo della pistola, che il padre si rifiuta di utilizzare, che mette via in una teca quasi come ha messo da parte il suo stesso figlio, portando lo stesso ad usarla contro se stesso, non vedendo altro futuro possibile.
Ma l’alternativa esiste.
Alternativa
Kevin è l’unico che riesce a guardare oltre il ring.
Ed è anche quello che lo soffre di più.
La sua insofferenza per la situazione famigliare emerge in più occasioni: oltre alla sua preoccupazione per il benessere dei fratelli, che puntella diversi momenti della pellicola, Kevin è l’unico che sfida apertamente il padre, pur non riuscendo a tenergli testa.
Infatti, più la narrazione prosegue e la maledizione si fa sentire, più il futuro unico sopravvissuto della famiglia Von Erich vuole allontanarsi dal ring, che non riesce a vivere nelle atmosfere scintillanti del suo avversario, ma invece prima nella monotonia dell’allenamento, poi nella disperata furia del combattimento.
Ma un’alternativa è possibile.
Dopo aver seppellito l’ultimo dei fratelli, Kevin riesce a ricomporre gradualmente la sua sfera familiare, a diventare un padre presente e affettuoso, che ritrova la sua forza nei suoi figli, nella famiglia numerosa e felice che aveva sempre sognato, che riempie il vuoto che la tragedia del nome Von Erich gli aveva lasciato.
Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…
…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Blade Runner 2049?
Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?
Dipende.
Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner(1982) e per certi versi la riscrive…
…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.
Però, da riscoprire.
Obbediente
K è obbediente.
A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.
Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.
Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.
Eppure, K è anche umano.
Rifugio
K e Joi vivono esistenze parallele.
Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.
Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.
Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.
L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.
K, invece, cerca un altro tipo di validazione.
Umano
K vuole essere umano.
Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.
Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…
…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.
Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.
Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.
E la sua storia finisce qui.
Ma è davvero finita?
Oltre
Blade Runner 2049 è un film assai cauto.
Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.
Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain perforse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.
Ma è davvero una perdita non avere un sequel?
Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.
E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…
…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.
Wade ormai è un Deadpool in pensione che ha appeso il costume al chiodo. Ma forse un’occasione per contare è ancora possibile…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool & Wolverine?
Dipende.
Deadpool & Wolverine mi è sembrato come una grossa sbronza: sul momento appare tutto divertente e senza freni, un sogno lucido da cui non vorresti mai uscire, con un protagonista che torna più fedele a sé stesso che mai…
…ma, una volta uscita dalla sala, riflettendo sull’inconsistente passerella di personaggi, sulla trama fumosa e approssimata, e sulla costruzione non propriamente indovinata del rapporto fra il duo protagonisti, tutto è crollato come un castello di carte.
Però, se riuscite a tenere il cervello spentissimo, vi divertirete un mondo.
Dissacrare
Deadpool & Wolverine si apre con una dissacrazione.
La pellicola prende per i capelli il problema fondamentale su cui i fan si interrogavano da mesi – il Wolverine di questa pellicola è una variante? – e rende esplicitamente impossibile riportare sulla scena quel Logan la cui dipartita è entrata negli annali del genere.
Tuttavia, questa scelta nasconde un significato ulteriore.
Nonostante infatti si tratti di un film MCU, il grande protagonista della pellicola è l’ormai defunto Universo Fox, quasi come se Deadpool volesse riportare in vita una realtà ormai morta da tempo per concedergli l’ultima avventura…
…con risultati discutibili.
Ma andiamo con ordine.
Crisi
Tornando all’apice della storia, Deadpool è in piena crisi di mezza età.
Dopo aver ormai abbandonato le vesti da eroe, Wade cerca di portare avanti una vita più tranquilla come venditore di auto: ma il parrucchino serve a poco nel nascondere le cicatrici – fisiche e emotive – che hanno segnato per sempre la sua vita, portandolo ad un doloroso capolinea.
Infatti dopo essere stato rifiutato negli Avengers, Wade si è ritrovato incapace di trovare il suo posto nel mondo, intrappolato in limbo in cui non può né smettere davvero di essere il mercenario chiacchierone né ritornare in quelle vesti per mancanza di un effettivo riconoscimento.
In generale, il discorso di Happy su come diventare un Avengers sembra il qualche modo un more of the same del monologo di Colosso in Deadpool 2 (2018), con la differenza che in questo caso è forse più centrato e più adatto alla figura di Deadpool.
E qui cominciano i primi problemi.
Paradox
Paradox poteva essere l’unico villain.
Molto chiara anche in questo frangente l’intenzione di voler raccontare la TVA come la Marvel stessa, che vuole distruggere immediatamente l’ex Universo Fox, e portare un Deadpool nuovo di zecca dentro al suo universo, dimenticandosi di tutto il resto.
Tuttavia, anche qui troviamo una spiegazione non esattamente limpida del piano dell’antagonista – o presunto tale – che sembra quasi più un pretesto per cominciare l’avventura di Deadpool alla ricerca di un nuovo Wolverine per salvare il suo universo.
Per il resto, il viaggio nel multiverso alla scoperta delle varianti dell’artigliato è nel complesso piuttosto piacevole, anche se molto meno memorabile di quanto potenzialmente sarebbe potuto essere, proprio una serie di inside joke che potrebbero apparire piuttosto oscuri ai non appassionati.
Ma è solo l’inizio.
Vuoto
La vera partita si gioca nel Vuoto.
Comincia fin da subito a definirsi il rapporto di forte antagonismo fra i due protagonisti, con uno dei tanti scontri piuttosto sanguinosi – per certi versi il punto forte della pellicola – con coreografie particolarmente creative e che non si risparmiano sul lato splatter.
E nel Vuoto si trova l’ultimo dei camei che ho veramente apprezzato.
Riportare in scena Chris Evans dopo Endgame (2019) era un grande azzardo, soprattutto in vista di Captain America: Brave New World (2025): si rischiava di distogliere l’attenzione da quello che dovrebbe essere il nuovo Capitano.
Quindi sulle prime ero un po’ contraddetta da questa scelta…
…e invece infine ho amato tutta la costruzione del climax tramite le parole dello stesso Deadpool, che fomenta il pubblico nell’idea di star finalmenterivedendo uno dei personaggi più iconici dell’MCU…
…che invece si rivela uno dei personaggi forse più noti dell’Universo Fox, benché parte di film da sempre molto bistrattati.
Da qui in poi, il delirio.
Sovrappopolazione
In Deadpool & Wolverine c’è spazio per tutti…
…oppure no?
Dall’arrivo alla base di Cassandra Nova comincia una parata di personaggi – di cui io a malapena so il nome, figurarsi il pubblico più inesperto – che sono solo apparentemente figure sullo sfondo, in realtà si rivelano spesso protagonisti di diverse inquadrature ammiccanti.
La stessa Cassandra è un villain fin troppo improvvisato, con un minutaggio striminzito ed una costruzione drammatica piuttosto carente, soprattutto vista la portata dei suoi poteri – motivo per cui, nello snodo narrativo fondamentale fra secondo e terzo atto, deve essere piegata a necessità di trama.
Ma il peggio arriva dopo.
Lasciando da parte Nicepool – forse una provocazione brontolona di Ryan Reynolds verso la Gen Z? – mi ha lasciato piuttosto perplessa la gestione dei quattro camei di punta del film: se è anche comprensibile l’inserimento di X-23, visto l’insistenza con cui parla di Logan (2017) …
…meno convincente l’importanza data a Elettra e Blade – protagonisti di film che sono al più mormorati dagli appassionati del genere – fino al dimenticatissimo Gambit, niente più che una spalla all’interno di X-Men le origini – Wolverine (2009), che invece diventa personaggio di punta in questo sgangherato team d’assalto.
E così il sovraffollamento è inevitabile.
Spazio
In Deadpool & Wolverine i personaggi devono contendersi la scena.
Una dinamica che è sicuramente l’esito dei diversi rimaneggiamenti della sceneggiatura – che ha visto non meno di cinque mani al lavoro – portando così questo gruppo di personaggi ad essere importante in un primo momento, e ad esistere solo fuori scena un attimo dopo – senza che la loro missione sia neanche così chiara…
Allo stesso modo, Deadpool deve farsi mettere fuori gioco nel confronto fra Cassandra e Wolverine proprio per dare spazio a Logan di raccontare la sua storia e di creare un rapporto col la villain – che, purtroppo, ho trovato ancora una volta molto fumoso e poco convincente.
E, da questo punto in poi, il film comincia a contraddirsi.
Che l’anello di Doctor Strange fosse un mezzo della trama per risolvere fin troppe situazioni era purtroppo chiaro fin da No Way Home (2021), ma in questo caso risulta ancora più incomprensibile visto che Cassandra parla di come abbia annientato l’ex Stregone Supremo con fin troppa leggerezza…
…e unicamente per dare un modo a Deadpool & Wolverine di chiudere il secondo atto.
Intralcio
Per non concludere il terzo atto troppo velocemente, i due protagonisti hanno bisogno di un intralcio.
E lo stesso è il punto più basso del film.
Il susseguirsi improbabile di migliaia di Deadpool sullo schermo mi ha ricordato una delle mie storie fumettistiche preferite di Enrico Faccini, La Banda Bassotti e l’incredibile Multiplicator (2013), in cui un duplicatore creava copie infinite di Paperoga nei modi in modi strambi e grotteschi.
Ma, se in quel caso era una storia ben controllata, qui il film si perde in un intermezzo veramente insensato e fuori controllo, utile solo per portare in scena l’ennesima battaglia epica, talmente fine a se stessa da essere conclusa con una scusa veramente blanda – ma del tutto funzionale al proseguimento della trama.
Infatti, in questo modo i protagonisti hanno lasciato fin troppo spazio di manovra a Cassandra, che ha cominciato a fare il bello e il cattivo tempo all’interno della TVA, portando avanti un piano, ancora una volta, molto improvvisato e non particolarmente convincente nelle sue motivazioni.
E qui nascono i miei maggiori dubbi.
Rapporto
Deadpool & Wolverine doveva essere il coronamento della storica amicizia fra Reynolds e Jackman.
Per questo ho trovato piuttosto intelligente fare cominciare i due personaggi in un aspro antagonismo, proprio per dar loro occasione di maturare e di portare nella finzione cinematografica il rapporto che li lega al di fuori dallo schermo…
…peccato che manchi qualcosa.
Tutta la costruzione emotiva del finale l’ho trovata fin troppo brusca, mancante di un solido retroterra di evoluzione del rapporto fra i due protagonisti, che porta ad un momento epico che per questo risulta insapore – e risolto con una battuta altrettanto poco convincente.
Così, se in chiusura della pellicola il quadretto familiare si è felicemente ricomposto, rimane insistentemente presente un senso di mancanza, un senso di insoddisfazione, non solo per la costruzione mancata del loro rapporto, ma proprio per un film che ti ammalia con un umorismo anche molto coinvolgente…
…ma che, per il resto, risulta infine incredibilmente dimenticabile.
Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.
A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore:appena 734 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Deadpool 2?
Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Deadpool 2?
Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.
In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.
Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…
…che, di fatto, non vedremo mai.
Continuità
Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.
Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.
Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.
Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.
Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.
Solo un corpo da distruggere.
A pezzi
Deadpool deve essere rimesso insieme.
Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.
Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.
In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.
Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio…
…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.
Squadra
La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…
…pur andandole a vanificare un momento dopo.
La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.
Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.
Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.
Ma il team si deve ricomporre altrove.
Comporre
L’ultimo atto è un grande azzardo.
Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.
Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.
Poi tutto viene riscritto.
Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.
Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…