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Kinds of Kindness – Le maschere della dipendenza

Kinds of Kindness (2024) è una raccolta di mediometraggi ad opera di Yorgos Lanthimos, uscita a poca distanza da Poor Things (2023).

Di cosa parla Kinds of Kindness?

Attraverso tre storie con un terzetto di attori che si scambiano di ruolo, il regista porta in scena storie di dipendenza emotiva: un uomo che cerca la sua indipendenza, una crisi matrimoniale piuttosto carnale e una donna bloccata fra due ossessioni.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Kinds of Kindness?

Assolutamente sì.

Mi permetto di sbilanciarmi nel consigliarvelo, perché Kinds of Kindness rappresenta tutto quello che avrei voluto vedere da Lanthimos dai tempi de La Favorita (2018): una commedia grottesca che porta in scena storie surreali ma, al contempo, verosimili.

Proprio per questo, se vi aspettate qualcosa di simile a Poor Things, ne rimarrete assai delusi: il regista greco torna sotto la direzione del suo sceneggiatore storico per lanciare – dopo tanto tempo – una zampata provocatoria che ricorda molto lo splendido Alps (2011).

Insomma, arrivare preparati.

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Il libro della giungla – La naturale evoluzione

Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman è il diciannovesimo Classico Disney e l’ultimo uscito sotto la supervisione di Walt Disney, che venne a mancare proprio l’anno prima.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu un incredibile successo commerciale: 73 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il libro della giungla?

Mowgli è un orfano abbandonato nella giungla, che crescerà sotto la protezione (e minaccia) di diversi animali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il libro della giungla?

Mowgli, Baloo e Baghera in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Assolutamente sì.

Il libro della giungla è un ottimo esempio di racconto di formazione mascherato, la cui prospettiva cambia se visto con un occhio più adulto, capace di cogliere i sottili sottintesi presenti nella pellicola.

Inoltre, pur facendosi portatore di una mentalità molto distante dallo spettatore contemporaneo, è uno splendido spaccato della stessa, impreziosito da personaggi iconici, anche se spesso niente più che protagonisti di siparietti comici quasi fine a sé stessi.

Il libro della giungla dietro le qunte

Noi possiamo fare personaggi animali più interessanti

Queste le parole di Bill Peet, sceneggiatore di moltissimi Classici a partire da Biancaneve e i sette nani (1937), che propose l’opera di Rudyard Kipling come punto di partenza per il nuovo prodotto targato Disney.

La prima idea di sceneggiatura, che cercò di semplificare molto il romanzo originale – dove, per esempio, Mowgli faceva avanti e indietro dal villaggio – e aggiungere personaggi – soprattutto Re Luigi – fu considerata poco vendibile da Disney.

Per questo, Bill Peet abbandonò la Disney nel 1964.

A questo punto Walt Disney assunse Larry Clemmons come nuovo sceneggiatore, dandogli il libro e intimandolo più o meno scherzosamente di non leggerlo, intervenendo a più riprese nella gestione della sua ultima storia.

La sceneggiatura eliminò molte scelte di Bill Peet, ma mantenne i caratteri dei personaggi, che dovevano essere l’asse portante del film: la sceneggiatura era più un modello di scene da cui partire, poi riempite dagli sceneggiatori di gag e battute.

Il casting vocale fu essenziale.

Molta della personalità e dell’aspetto dei personaggi fu modellato sui suoi doppiatori – sopratutto per Shere Khan, doppiato da George Sanders – e inizialmente si pensava ad una partecipazione dei Beatles per gli avvolti – da cui le particolari capigliature – ma che non andò mai in porto.

L’animazione fu fatta con la xenografia e con un’animazione più grezza rispetto ad altri prodotti precedenti – specificatamente Dumbo (1941) – e gli sfondi vennero dipinti a mano.

Famiglia

La famiglia di Mowgli è usa-e-getta.

Bagheera – il padre spirituale del protagonista – non volendosi prendere in toto sulle spalle la formazione del neonato, sceglie di lasciarlo nelle amorevoli – ma potenzialmente anche pericolose – zampe di una neonata famiglia di lupi.

Un punto di partenza che però funge più da prologo: il quadretto familiare viene dopo poco vanificato dall’intrusione della missione del protagonista e dall’introduzione – seppur solo a parole – dell’antagonista.

I lupi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Per questo le poche – e uniche – battute del padre lupo di Mowgli lasciano leggermente spiazzati: il suo personaggio esprime un affetto per il protagonista che in scena è stato appena accennato, e accetta senza troppe proteste la decisione del clan di allontanarlo.

E, in questo modo, rimane l’unico personaggio a scomparire totalmente dalla scena.

Crescere

Mowgl in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Di cosa parla veramente Il libro della giungla?

Questa prima fase della vita di Mowgli è, molto banalmente, l’infanzia – e su più livelli: vivendo sotto la protezione di un branco di lupi, il protagonista è rimasto fin qui all’oscuro della vera natura della giungla – e, per estensione, della vita.

Per questo Mowgli non capisce perché Bagheera voglia condurlo in un villaggio umano, non capisce perché non può vivere in una realtà in cui fino a quel momento era stato amorevolmente accolto.

Mowgli e l'elefante in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Eppure, la sua natura indifesa è in più momenti rivelata.

Nonostante, infatti, cerchi a più riprese di imitare gli altri animali – il giovane elefante Hathi Jr., e poi Baloo – in realtà Mowgli manca proprio degli strumenti essenziali per sopravvivere in quell’ambiente – banalmente, quando si lamenta di non avere gli artigli per arrampicarsi al sicuro su un albero.

E, non a caso, mentre tutti i personaggi animali combattono con le loro risorse naturali – e sfruttando l’ambiente che li circonda – Mowgli affronta e sconfigge Shere Khan con armi squisitamente umane – il bastone e poi il fuoco.

Ma le tentazioni sono molteplici.

Tentazioni

Mowgli e Khaa in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Le tentazioni della giungla sono rappresentate da un ventaglio piuttosto variegato di personaggi

…e che si aprono a diverse letture.

Il primo – e più insidioso – è sicuramente Khaa: questo maligno serpente vive di una doppia natura, risultando infido, ma anche piuttosto fallace – vista la facilità con cui si lascia stanare da Shere Khan.

Il suo personaggio racconta molto banalmente le tentazioni che deviano l’umano dalla retta via – sempre all’interno della stringente idea sociale degli Anni Sessanta – con tentazioni appetibili e mortali insieme – droga, alcol, gioco d’azzardo…scegliete voi.

Mowgli e Re Luigi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ancora più significativo è Re Luigi.

Se considerato come villain, l’orango è l’esatto opposto di Shere Khan: così innamorato dell’umano da voler usare Mowgli per comprendere ancora meglio quel passaggio evolutivo che gli sembra negato.

Al contempo, rappresenta il potenziale smarrimento del protagonista, che, intestardendosi nell’essere un animale, nel vivere nella giungla, rischia di perdere la sua vera natura umana – e, di conseguenza, non crescere mai.

Baloo in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Infine, l’icona del film: Baloo.

Il simpatico orso rappresenta forse la figura più lontana dall’immaginario contemporaneo: come il suo personaggio sceglie una vita semplice, fatta di poche, indispensabili risorse, del vivere alla giornata e senza una particolare programmaticità…

…nella visione del tempo Baloo rappresenta una vita caotica e senza certezze – la stessa di Biagio in Lilli e il vagabondo (1955) – un’eterna giovinezza mancante del passaggio dovuto e necessario alla vita adulta (e matrimoniale).

Paura

Shere Khan in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Shere Khan è la vera minaccia.

Un villain davvero straordinario, che rimane nell’ombra per molto tempo, raccontandosi come un antagonista su più livelli: non immediatamente aggressivo, ma in primo luogo macchinatore, che ascolta quello che lo circonda e medita sul momento giusto per attaccare.

Al contempo, sembra un villain imbattibile: Shere Khan supera in violenza e forza tutti gli altri personaggi, ed è insidiato solamente dagli strumenti umani che Mowgli utilizza contro di lui – motivo per cui voleva eliminarlo preventivamente.

Shere Khan e Mowgli in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

Ma il confronto con Mowgli è ancora più rivelatorio.

Shere Khan rimane piuttosto stupito dall’arroganza di questo bambino, che non sembra per nulla minacciato dalla sua presenza, ancora una volta dimostrando di non avere idea dei pericoli della giungla dove vorrebbe tanto vivere.

Di fatto, l’utilizzo di armi umane segna il passaggio fondamentale del protagonista – che comincia ad abbracciare la sua umanità e capisce come deve rapportarsi con la giungla – che lo porta alla scelta fondamentale.

Mowgli e gli avvoltoi in una scena de Il libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman, il diciannovesimo Classico Disney

E la scelta appare ancora più stringente per l’incontro con gli avvoltoi.

Questo piacevolissimo siparietto comico racconta in realtà un sottofondo piuttosto lugubre: tutta l’interazione si basa sul doppio significato di being down essere giù di morale, ma anche essere giù, per terra – e di being around stare insieme, ma anche intorno, come gli avvoltoi su un cadavere…

Quindi la giusta scelta di Mowgli, se non vuole andare incontro ad un destino mortale, è scegliersi una buona moglie, che, mentre raccoglie l’acqua al fiume, racconta esplicitamente quale sarà l’appetibile vita del protagonista se deciderà di seguirla.

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantastico Film George Miller

Tremila anni di attesa – Un qualunque desiderio

Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.

A fronte di un budget di ben 60 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, con appena 20 milioni di dollari di incasso…

Di cosa parla Tremila anni d’attesa?

Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Assolutamente sì.

Dopo Fury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…

…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.

Insomma, da riscoprire.

Aspettative

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…

…soprattutto nel tentativo di essere originali.

Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…

…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.

La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…

E, per questo, deve essere convinta del contrario.

Vittima

Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.

Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.

E, al contempo, il djinn dimostra la sua impotenza.

Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…

Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.

Occasione

Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.

Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.

 Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…

…fra cui la sorte dello stesso djinn.

Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…

Legame

L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.

Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.

Ma proprio questo è la sua rovina.

Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.

Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.

Allora è questa la volta buona per il djinn?

Desiderio

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Cosa desidera veramente Alithea?

A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.

Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.

Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…

…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.

Per questo il finale è così calzante.

Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.

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Avventura Azione Comico Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Star Wars - Trilogia sequel

L’ascesa di Skywalker – La vendetta di Abrams

Star Wars – L’ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams, anche conosciuto come Episodio IX, è l’ultimo capitolo della cosiddetta trilogia sequel.

A fronte di un budget davvero enorme – 416 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale – poco più di 1 miliardo di dollari – ma anche la conferma del progressivo abbandono del pubblico, incassando meno del precedente.

Di cosa parla L’ascesa di Skywalker?

Il ritorno di Palpatine risveglia i più grandi timori della Ribellione, mentre Rey si appresta ad affrontare il suo destino…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ascesa di Skywalker?

Rey, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

No…?

L’ascesa di Skywalker è un disperato tentativo di mettere una pezza a Gli Ultimi Jedi (2017) e all’importante cambio di rotta di Rian Johnson, cercando il più possibile di annullarlo e, apparentemente, di dare al pubblico quello che vuole.

Ne risulta un film incredibilmente pasticciato, in cui i personaggi si muovono come marionette, spinti da un posto all’altro da meccanismi della trama e dalle totali inconsistenze della stessa, per un risultato veramente desolante…

Insomma, non mi prendo la responsabilità di consigliarvelo.

Cristo

Leia e Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Uno dei limiti maggiori di L’ascesa di Skywalker è il tentativo di fare due film in uno…

…e, sostanzialmente, di annullare Gli Ultimi Jedi.

Una tendenza che si vede chiaramente fin dalla primissima scena di allenamento di Rey: vengono – per motivi di minutaggio – saltati a piè pari i momenti di effettivo incontro e scontro di Rey con la Forza, mostrandocela fin da subito come una Jedi incredibilmente capace.

Ed è solo l’inizio.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Rey – ma anche Kylo – viene premiata con dei poteri veramente eccessivi – ma del tutto necessari per riuscire a portare avanti la trama – che avrebbero avuto un incredibile bisogno di essere introdotti e giustificati

Ne consegue che la protagonista non solo è capace di controllare i fulmini – tecnica incredibilmente complessa, soprattutto per un Jedi – ma di possedere anche poteri curativi al limite del cristologico, programmaticamente introdotti nella scena dell’incontro col serpente.

E non è neanche l’aspetto peggiore.

Soluzioni 

Ray, Poe e Finn in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

La trama e i personaggi vivono di deus ex machina.

Tutto il loro viaggio è puntellato da continui salvataggi e soluzioni servite su un piatto d’argento, ottenute veramente con poca fatica – Lando aveva sempre da parte il pugnale, C3-PO riesce a leggere la lingua Sith, la spia all’interno del Primo Ordine si rivela e li aiuta…

E ogni tentativo di rendere anche solo più drammatica o un minimo avvincente la loro ricerca cade inevitabilmente nel vuoto, in quanto tutti i possibili errori vengono risolti felicemente in pochissimo tempo, anche contro ogni logica.

Così Chewbacca per qualche motivo era su tutt’altra navicella, così Zorii Bliss passa dal voler uccidere Poe Dameron a regalargli la sua unica possibilità di costruirsi una nuova vita, per non parlare di come un pugnale riesce a corrisponde perfettamente alle rovine distrutte dal mare della Seconda Morte Nera…

Ma c’è un meccanismo della trama ancora più gustoso.

Presentimento

Ray e Poe in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Ogni qual volta che in L’ascesa di Skywalker non sanno come giustificare un momento della trama, si usa il presentimento.

Rey e Finn sono pieni di presentimenti e sensazioni del tutto ingiustificate, che permettono loro di prendere la scelta giusta – e il momento più alto è indubbiamente l’epifania di Finn su come distruggere la flotta di Palpatine e su quale fra le diverse navi prendere si mira.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Questa dinamica è particolarmente e tragicamente rivelatoria di un’incapacità di scrittura già presente in Il risveglio della Forza (2015), ma che in questo caso diventa ancora più evidente per il suddetto desiderio di incastrare due film in una sola pellicola.

Oltretutto, questo elemento è anche più tragico nel finale, in cui si mostra tutta l’incapacità di costruire in maniera convincente l’alleanza dell’intera Galassia con la nuova grande minaccia di un morto redivivo…

Confusione

Palpatine in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Proprio come questo film, Palpatine non sa cosa vuole fare.

Lasciando anche da parte l’assurdità della sua rinascita dopo la sua morte in Il ritorno dello Jedi (1983), questa pellicola riesce a rendere il principale antagonista della saga un personaggio inconsistente, non riuscendo a dargli un chiaro piano di azione.

Probabilmente l’idea sulla carta era di portare in scena un villain nell’ombra, che cercava di manipolare Kylo per fare in modo che gli portasse la sua erede, così da farle prendere il suo posto come nuova Imperatrice del Final Order.

Ray in una scena di Star Wars - L'ascesa di Skywalker (2019) di J.J. Abrams

Nel concreto, Palatine è totalmente confuso.

Parte dal voler – senza alcun motivo – eliminare Rey – cosa che poteva tranquillamente accadere – per poi dirle esplicitamente di ucciderlo per poterla possedere, per poi ricordarsi stupito – nonostante fosse il suo stesso piano – della Dualità della Forza.

Insomma, un villain introdotto all’ultimo dopo che Johnson aveva distrutto il vero cattivo della saga – Snoke – andando quindi a ripiegare su quello che Abrams sa fare meglio – e peggio: il fanservice esasperante.

Ombra

Ma il vero villain nell’ombra è Kylo.

Dovendo forzatamente riportare in scena Palpatine, il film finisce per mettere in ombra quello che dovrebbe essere il vero antagonista – e protagonista – di questo film, che finisce solo per rincorrere Rey e rimanere drammaticamente in secondo piano.

Un problema che si vede molto chiaramente nella scena della sua redenzione: un arco evolutivo che avrebbe dovuto svolgersi durante i tre film, ma che viene invece ridotto a pochi, patetici momenti.

Sembra insomma che basti una voce dall’etere della madre – con cui finora Kylo non aveva avuto nessun contatto – e il confronto con il fantasma del padre – oppure, secondo i produttori, il ricordo interattivo di Han Solo – per fargli cambiare idea.

E così diventa ancora più inconsistente il suo sacrificio, che ricalca quello di Anakin, per raccontare la storia di un villain vuoto e pasticciato, che non ha mai avuto un minimo di profondità…

…la stessa che manca al finale, in cui Rey si appropria di un nome che, evidentemente, non le appartiene.

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Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Grottesco L'età dell'oro

Lilli e il vagabondo – I terribili cani borghesi

Lilli e il vagabondo (1955) di registi vari è il quindicesimo Classico Disney e il primo uscito sotto la Buena Vista Distribution.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu il più grande incasso per la Disney dai tempi di Biancaneve e i sette nani (1937), con 6.5 milioni di dollari al botteghino.

Di cosa parla Lilli e il vagabondo?

Inghilterra, 1909. Lilli è una cocker amata e coccolata dalla sua famiglia. Ma sta per arrivare un intruso nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lilli e il vagabondo?

In generale, sì.

Lilli e il vagabondo non è il più indimenticabile prodotto della Disney di questo periodo, ma è comunque una visione piuttosto piacevole, rimasta nella memoria degli spettatori per diverse scene iconiche –  di cui una piuttosto inquietante…

I suoi più importanti difetti sono rappresentati da una trama che funziona più ad episodi, con dei collegamenti fra i diversi momenti del film non sempre centrati e del tutto credibili, ma che possono nel complesso essere perdonati.

Lilli e il vagabondo Produzione

La storia di Lilli e il vagabondo fu ispirata ad una dinamica reale.

Già nel 1937 Joe Grant propose una prima idea della storia, facendo riferimento a come la sua cocker fosse stata messa da parte con l’arrivo del figlio, e negli anni sviluppò diverse idee e concept…

…ma nessuna che soddisfò Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino era infatti scettico proprio sulla protagonista e sulla sua storia, troppo poco intrigante e con poca azione.

L’idea vincente arrivò all’inizio degli Anni Quaranta, quando Disney lesse su un quotidiano la breve storia Happy Dan, The Whistling Dog e propose a Grant di inserire il personaggio di Biagio.

Il lavoro continuò anche dopo l’abbandono di Grant dello studio, ma la pellicola prese forma solamente nel 1953, sulla base degli storyboard di Grant e sul racconto sopra citato.

Uno dei cambiamenti più significativi – o potenziali tali – fu la scena iconica degli spaghetti: Walt Disney era deciso fino all’ultimo a tagliarla, considerandola troppo sciocca e poco efficace.

Ma uno degli animatori, Frank Thomas, era talmente convinto di volerla inserire che la animò senza sceneggiatura, riuscendo a stupire Walt Disney che infine si convinse a mantenerla all’interno della pellicola.

Lilli e il vagabondo fu anche il primo film Disney girato col Cinemascope, quindi con un taglio dello schermo più ampio.

Questo cambiamento pose diversi problemi agli animatori, che potevano contare meno sui primi piani e avevano problemi a rendere i personaggi dominanti in una scena che altrimenti sarebbe apparsa piuttosto vuota.

Quadretto

La pellicola si apre con un quadretto familiare agrodolce.

L’arrivo di Lilli nella nuova casa è definito da un primo tentativo dei suoi padroni di addomesticarla, costringendo la cucciola a dormire nella cuccia in fondo alle scale che è stata preparata apposta per lei, con una dinamica che mi ha davvero stretto il cuore...

Ma questo è solo il primo passo della conquista di Lilli del cuore dei suoi genitori.

Come ogni bravo cane domestico, fin dal suo risveglio Lilli definisce lo spazio della casa e lo protegge, fungendo da sveglia forzata per i suoi padroni, doppiato il giardino e scacciando gli intrusi, per poi tornare con il giornale fresco di giornata in bocca.

E questa simpatica gag del quotidiano stracciato in realtà rivela molto di più: la presenza di Lilli ha illuminato la vita della famiglia, spogliandola di molte preoccupazioni e riuscendo finalmente a comporre un quadro famigliare appagante e genuinamente felice…

…ma è davvero così?

Seme

Biagio è, nel suo simpatico modo, un sobillatore.

La pellicola ci regala una breve introduzione del suo personaggio, uno spirito libero che nessuno è riuscito ad ingabbiare, che si rifiuta di far parte di una sola famiglia, ma di averne una per ogni giorno della settimana, arrivando non poco sottilmente a disprezzare l’alternativa.

E l’alternativa è proprio Lilli.

Il randagio si intrufola nella vita della protagonista nel momento di maggiore fragilità, dando voce e concretezza ai suoi dubbi e perplessità: un figlio in arrivo, per cui verrà inevitabilmente messa da parte e ridotta a mera presenza in una fredda cuccia nel giardino.

Questa inquietudine viene in prima battuta sventata dall’effettivo comportamento dei genitori, solo all’inizio piuttosto irrazionali nei loro comportamenti, ma che infine riescono infine a includere Lilli nella nuova realtà familiare senza troppi problemi.

Ma è una calma apparente…

Intruso

Per quanto iconico, lo snodo narrativo della zia Sara mi ha poco convinto.

La famiglia di Lilli abbandona su due piedi cane e figlio e li lascia alle cure di questa donna velenosa e piena di pregiudizi nei confronti dei cani, che si introduce in casa con una nuova minaccia nel taschino.

Così il siparietto inquietantissimo dei gatti siamesi che fanno a pezzi la casa e fanno ricadere la colpa su Lilli è evidentemente un meccanismo della trama per spingere definitivamente la protagonista nelle zampe di Biagio.

Tuttavia, la parte centrale è anche la più piacevole.

Nel loro scorrazzare, Biagio e Lilli prendono diverse vesti: rubagalline, venditori improvvisati e infine una coppia di innamorati nell’indimenticabile scena della pasta da Tony, una breve parentesi romantica prima del picco drammatico della pellicola.

Borghese

Il finale mi convince a tratti.

Mi hanno leggermente tediato le dinamiche del risentimento di Lilli nei confronti di Biagio, che si rifiuta di essere solamente la sua prossima conquista, e che già cerca di condurlo verso un suo snaturamento, da cane di strada a docile animale domestico.

Al contrario, piuttosto avvincente ed incalzante la scena del diabolico ratto che insidia la casa ed il bambino, e che permette alla coppia di rafforzare la fiducia nei confronti di Lilli, e infine di accogliere il randagio come nuovo membro della famiglia.

E proprio questa chiusura soffre di un taglio netto e sbrigativo.

Biagio ha presenta un cambio di carattere e di vita senza che venga mostrato alcun tipo di rimpianto, alcuna effettiva motivazione, se non l’affetto nei confronti di Lilli, che comunque non è abbastanza esplorato per giustificare questo cambiamento.

Eppure, questo finale che oggi fa sorridere, probabilmente per il pubblico degli Anni Cinquanta era la conclusione perfetta: un personaggio un po’ scapestrato, una mina vagante, che finalmente metteva la testa a posto e diventava un padre di famiglia squisitamente borghese.

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Gli Ultimi Jedi – Farò il mio Star Wars…

Star Wars – Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson, anche conosciuto come Episodio VIII, è il secondo capitolo della saga sequel.

Fin da subito si rivelò un prodotto assai divisivo: nonostante fu un grande successo commerciale – 1.3 miliardi di dollari di incasso per un budget di 300 milioni – il risultato al box office fu decisamente inferiore rispetto al precedente – e probabilmente influì sul flop del successivo Solo – A Star Wars Story (2018).

Di cosa parla Gli Ultimi Jedi?

Dopo aver ritrovato Luke Skywalker, Rey continua nella sua scoperta della Forza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Ultimi Jedi?

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Ancora una volta, dipende.

Considero questa pellicola leggermente migliore de Il risveglio della Forza (2015): a livello di gusto strettamente personale, ha un umorismo che, per quando non ci azzecchi nulla con la saga, io personalmente apprezzo, e che almeno mi ha strappato qualche risata.

Ma, soprattutto, Episodio VIII riesce a risolvere un problema del capitolo precedente: rendere un minimo più credibili gli archi narrativi dei protagonisti, pur essendo peggiore per il resto nella gestione della storia, con un eccesso ingiustificato di personaggi e situazioni che, in ultima analisi, si rivela incapace di gestire.

Ma come avventura a sé stante potrebbe anche intrattenervi.

Posizione

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Con il primo confronto fra Luke e Rey, Rian Johnson spiega chiaramente le sue intenzioni.

Ovvero, gettare dalla finestra il lavoro di Abrams.

In questo senso è veramente difficile capire quali parti della pellicola possano essere ricondotte alle poche direttive lasciate dal regista del primo film – il fanservice esasperante? Lo scheletro narrativo della storia di Finn? – ma tendenzialmente è chiaro che il nuovo regista ebbe sostanzialmente carta bianca.

E questo è un problema a tratti.

Leia Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Di fatto, Johnson fece il suo Star Wars, che, soprattutto per l’avventura di Finn e Rose, ricorda molto più Solo che qualsiasi altro film della saga – e nel senso più negativo possibile: per me, semplicemente, spesso non sembra di star vedendo una storia ambientata nella Galassia Lontana Lontana.

Tuttavia, col senno di poi, alcuni spunti erano potenzialmente interessanti.

In particolare, Rey.

Oscuro

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Rey poteva essere nessuno.

La tendenza generale di Johnson era di aprire nuovi orizzonti alla saga con protagonisti dal passato oscuro, cercando finalmente di smarcare Star Wars dalla famiglia Skywalker, per evitare che diventasse una soap opera.

In questo modo la saga avrebbe potuto aprirsi a nuovi personaggi e nuove storie, senza dover sempre ricollegare tutto in maniera forzata, finendo per minare le possibilità di una storia che altrimenti si sarebbe potuta espandere in tantissime direzioni.

Rey in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

Infatti, Rey viene raccontata semplicemente come un personaggio predestinato a diventare l’altra metà della Forza, nonostante non abbia nessun effettivo legame con la famiglia di Kylo, apparente antagonista che cerca disperatamente di salvare, ricalcando la storia di Luke in Il ritorno dello Jedi (1983).

Nonostante sia sicuramente un’idea ridondante, tutto sommato nella sua esecuzione tenta quantomeno di rendere più tridimensionali i suoi protagonisti, anche con il continuo confronto fra Luke, Rey e Kylo, che lascia molto più spazio di evoluzione ai personaggi di quanto non avesse fatto Episodio VII.

Genuino

Luke Skywalker in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

La gestione di Luke mi convince a metà.

Da una parte non mi dispiace l’idea di decostruire il personaggio, portandolo totalmente al suo opposto: da eroe che non si fermava davanti a nulla, a figura decaduta ed estremamente sfiduciata nei confronti del futuro della Forza e degli Jedi.

D’altra parte, capisco che questa non era – comprensibilmente – l’intenzione né di Abrams né di Mark Hamill stesso, che avrebbe voluto probabilmente raccontare il personaggio come un novello Yoda, che addestrava Rey per portarla ad essere pronta a scontrarsi con la sua nemesi.

Luke Skywalker e Leia in Star Wars - Gli Ultimi Jedi (2017) di Rian Johnson

E, anche se mi dispiace vederlo tolto di scena nel giro di un film, mi convince tutto sommato il ruolo che ha nel finale, in cui gabba un Kylo così immaturo e accecato dalla frustrazione da rendersi neanche conto di star combattendo contro un fantasma.

Non forse la fine migliore, ma non sono sicura che Abrams avrebbe fatto meglio…

Discordanze

Fra Gli ultimi Jedi e L’ascesa di Skywalker (2019) c’è stato un inevitabile dialogo discordante.

Passando da film in film, i due registi presero e disfarono costantemente il lavoro dell’altro: se nel primo capitolo Kylo si mostrava per la maggior parte a volto coperto, nel sequel Johnson lo costringe a distruggere la maschera, la stessa che Abrams gli farà riparare…

…allo stesso modo Snoke, che nel primo capitolo poteva godere di una presenza scenica particolarmente minacciosa – sovrastava sempre il resto dei personaggi ed era quasi evanescente – sotto la gestione Johnson viene riportato con i piedi per terra e reso sostanzialmente sacrificabile.

E, come vedremo, questo sarà il più grande sgarbo a Abrams.

Ma il personaggio ancora una volta sacrificato è Finn.

Nel sequel vengono rimischiate le carte in tavola: il personaggio è più o meno forzatamente allontanato da Rey e fornito di un nuovo interesse amoroso, Rose, uno delle tante new entry portate alla ribalta da Johnson ed immediatamente ridotte alle retrovie poi da Abrams.

Oltretutto la sua storia sembra del tutto indipendente da quella di Rey per finalità e per taglio narrativo, deviando ancora una volta dal seminato di Abrams, costruendo una trama che viaggia ma su due strade parallele che a malapena si incontrano nel finale…

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Le avventure di Peter Pan – L’ombra dell’infanzia

Le avventure di Peter Pan (1953) di Hamilton Luske, Clyde Geronimi e Wilfred Jackson è il tredicesimo Classico Disney basato sull’opera teatrale Peter & Wendy (1904) di J. M. Barrie.

A fronte di un budget di 4 milioni di dollari, fu nel complesso un discreto successo commerciale, con 8 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla Le avventure di Peter Pan?

Wendy e i suoi fratelli vivono nel sogno di Peter Pan. Ma i sogni sono belli quando rimangono tali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le avventure di Peter Pan?

Assolutamente sì.

A differenza di quello scandalo di Peter Pan & Wendy (2023), il Classico del 1953 è un’ottima trasposizione dello spettacolo di J. M. Barrie, riuscendo a smussare gli angoli quando serve, senza però evadere la profonda critica e morale che pervade l’opera originale.

Infatti non mancano, come d’altronde tipico della Disney del primo periodo, note fra il drammatico e persino l’inquietante, in maniera però più sottile e meno esplicita rispetto ad altri prodotti di quest’epoca, con significati ulteriori comprensibili forse solo ad una rilettura più adulta…

Peter Pan Produzione

Le avventure di Peter Pan doveva essere il secondo film di Walt Disney.

Il fondatore della casa di Topolino aveva un particolare amore per l’opera di J. M. Barrie, ma poté acquisire i diritti solo nel 1939, e, a cavallo fra i due decenni, esplorò diverse idee di trasposizione.

Inizialmente la storia doveva essere molto più vicina all’originale, molto più cupa, e si pensò persino di scrivere la trama dal punto di vista di Nana, che seguiva i bambini nell’Isola che non c’è, oppure di lasciare indietro John quando questo si dimostrava troppo cinico e noioso per partecipare all’avventura.

La produzione fu interrotta con l’arrivo della guerra, che costrinse la casa di produzione a creare solo film propagandistici, mettendo in pausa non solo questa idea, ma anche quella di Alice nel Paese delle Meraviglie (1951).

Nei primi anni del dopoguerra la Disney era in crisi finanziaria e non cominciò a ripensare all’opera fino al 1947, nonostante le perplessità di Roy Disney, fratello del fondatore, sull’attrattiva dell’operazione.

A differenza di molti prodotti precedenti, le scene in live action non furono ricalcate, ma solamente utilizzate come riferimento, perché altrimenti le animazioni sarebbero state troppo rigide ed innaturali.

Crescere

Wendy non ha (più) bisogno dell’infanzia.

A differenza dell’altra ottima traspirazione del 2003, Wendy è solo a parole turbata dalla volontà del padre di farla crescere, dal forzato abbandono della camera dell’infanzia: i suoi comportamenti raccontano una ragazzina già sulla via di abbandonare l’ingenuità infantile.

Infatti, fin da subito si dimostra piuttosto intraprendente nelle sue decisioni, andando persino a scavalcare l’autorità paterna, mostrandosi anche in seguito e a più riprese per nulla sprovveduta né ingenua come invece i suoi fratelli.

Non a caso la sua travolgente accoglienza sconvolge sulle prime Peter, venuto solo per recuperare la sua ombra, ma che invece cede quasi subito alle cure di Wendy, e turba solo parzialmente la serena crescita della protagonista

…cercando di trascinarla con sé verso il terribile sogno dell’infanzia infinita.

E in questo senso, la figura di Peter ha tutto un altro sapore.

Ombra

Peter Pan è, per certi versi, il vero antagonista della sua stessa pellicola.

Proprio come J. M. Barrie l’aveva concepito come spirito e rappresentazione dell’infanzia più caotica e distruttiva, quando Wendy svela alla madre che sta aspettando l’arrivo del ragazzo eternamente giovane la stessa è colta da un senso di inquietudine – e a ragione…

Infatti, Peter è un’ombra che penetra l’infanzia della protagonista proprio quando questa sta per abbandonarla, conducendola in luogo dove tutto è permesso, persino una vita feroce, selvaggia e, soprattutto, fuori dal controllo e dalle pressioni degli adulti per crescere al più presto.

Di fatto Disney scelse di annullare quasi ogni tipo di connessione romantica fra i due personaggi…

…mettendoli anzi in costante contrasto, proprio a partire dalla scena delle sirene, in cui più volte Peter si dimentica di Wendy, e lascia senza troppe preoccupazioni che sia maltratta dalle dispettose donne pesce.

Ma il mondo di Peter è pura finzione.

Finzione

Passando da un quadro all’altro proprio come a teatro, la missione di John e di Michael è estremamente rivelatoria.

Nonostante la lotta con gli indiani sia piuttosto violenta, la stessa viene subito rivelata come parte di un eterno gioco delle parti, proprio come se gli stessi fossero solo parte di una delle tante fantasie infantili dei bambini sperduti, senza che la realtà debba mai venire a bussare alla porta…

…o forse sì? 

L’unico che può davvero spezzare la finzione è Uncino.

Fin da subito il suo personaggio è caricato di un nutrito numero di gag con un umorismo piuttosto dark – dai vari assassini ingiustificati alla dinamica della presunta testa mozzata durante la rasatura – che si concretizzano infine in un effettivo tentativo del pirata di farla finita con Peter Pan.

Ed infatti è proprio Uncino quello che causa per la prima volta un cambio delle carte in tavola: il rapimento di Giglio Tigrato spinge il capo tribù a minacciare di uccidere in maniera anche piuttosto violenta i bambini sperduti, e così di mettere anche lui un punto al gioco eterno. 

E i giochi sono fatti di ruoli…

Ruolo

Wendy non vuole sottostare ad un ruolo.

Questo elemento si vede molto bene nella scena della festa con gli indiani, quando una donna della tribù cerca di costringerla a sottostare ad un ruolo – la figura femminile dedita alla cura del focolare – e, proprio in quel momento, Wendy, come Uncino, decide che il gioco è finito.

A questa improvvisa realizzazione segue un’opera di persuasione nei confronti dei bambini sperduti e soprattutto dei fratelli, riportati alla ragione, riportati nelle braccia accoglienti quanto educative della madre – ruolo che, comprensibilmente, Wendy non vuole ancora ricoprire.

Ma, davanti a questo picco di drammaticità, il finale è un po’ buttato via.

A questo punto era abbastanza comprensibile che Disney volesse deviare dal seminato dell’opera in maniera significativa.

La chiusura del Classico è infatti un lieto fine pieno di speranza, in cui il sogno di Peter non è infranto, che anzi viene ricordato con commozione dagli stessi genitori, che forse un tempo erano stati sull’Isola che non c’è…

Ma l’idea di J. M. Barrie era ben diversa…

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Il risveglio della Forza – The Fast Wars Saga

Star Wars – Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams, anche chiamato Episodio VII, è il primo capitolo della cosiddetta saga sequel.

A fronte del budget più alto mai investito fino a quel momento per un film di Star Wars – ben 447 milioni di dollari – incassò 2 miliardi di dollari, posizionandosi – al tempo – al terzo posto fra i film col maggiore incasso di sempre.

Di cosa parla Il risveglio della Forza?

Diversi anni dopo Il ritorno dello Jedi, la Galassia è di nuovo sconvolta da una nuova realtà tirannica nata dalle ceneri dell’Impero: il Primo Ordine. Ma c’è ancora speranza…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il risveglio della Forza?

Dipende.

La mia prima e ingenua visione di Il risveglio della Forza di ormai diversi anni fa mi lasciò complessivamente soddisfatta, anzi piacevolmente sorpresa da un prodotto da cui onestamente non mi aspettavo nulla – del tutto ignara di quello che sarebbe successo dopo…

E invece, ad una nuova visione più consapevole, mi sono resa conto che quello che consideravo l’unico capitolo davvero salvabile della nuova trilogia, è in realtà un film scritto in maniera estremamente approssimativa, che non funziona né come film di Star Wars né come film autonomo.

Ma se siete fanatici della saga al punto da emozionarvi anche per un remake così blando, probabilmente vi divertirete molto.

Introduzione

Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Come primo capitolo Il risveglio della Forza aveva principalmente il fine di introdurre i nuovi personaggi.

Eppure, è proprio su questo fronte che fallisce.

L’elemento più eclatante in questo senso è la gestione di Rey, la nuova eroina della saga, che risulta nient’altro che un contenitore vuoto, piegato alle esigenze della trama, incapace di esistere come personaggio autonomo, e incapace di anche il più blando confronto con la sua controparte: Luke.

E la mancanza di una caratterizzazione si nota particolarmente nel rapporto con BB-8.

Tutta la dinamica col piccolo droide fa evidentemente il verso all’analogo incipit di Una nuova speranza (1977), ma manca ingenuamente dello stesso respiro che definisca il rapporto fra i due personaggi, al punto che il picco drammatico – il tentativo di comprare BB-8 – risulta del tutto inefficace.

Ma Rey non è da sola…

Mancanza

John Boyega in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Se Rey tutto sommato può godere di un minimo di minutaggio introduttivo, il personaggio davvero più ingiustamente sacrificato è Finn.

Memore anche di Clone Wars, sarebbe stato potenzialmente molto interessante approfondire la storia di un clone ribelle, che però manca totalmente di un’introduzione – se non molto tardiva – portando in scena un personaggio con un arco evolutivo improvviso e, ancora una volta, inefficace.

Ma il suo personaggio ha un trattamento anche peggiore se si pensa al rapporto con Rey.

John Boyega e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Nelle intenzioni probabilmente si voleva creare un classico pattern di compagni di avventure che diventano anche innamorati, ma la gestione è stata un vero disastro – e neanche del tutto per colpa di Abrams…

L’unico momento vagamente credibile è quando si ritrovano nel finale sullo Star Destroyer, ed effettivamente Rey si dimostra decisamente riconoscente nei suoi confronti – ma perché a questo punto il film presuppone che loro abbiano già stretto un rapporto.

Ma parliamo di Han Solo.

Solo

Harrison Ford e Carrie Fisher in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

La gestione di Han Solo è quella che, nel complesso, mi ha convinto leggermente di più.

Ovviamente non per il rapporto con Rey, per cui diventa sostanzialmente una figura paterna nel giro di una fuga sul Millennium Falcon, ancora una volta negando ai personaggi il giusto respiro per sviluppare un rapporto…

…ma per la dinamica con Leia e con Kylo, per cui il film poteva contare sull’eredità di una storia d’amore iconica e su due attori di particolare valore – che comunque recitavano veramente al minimo delle loro possibilità.

Harrison Ford e Adam Driver in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Per questo, nel complesso, l’incontro fra padre e figlio funziona, e non solamente perché vediamo morire sullo schermo uno dei personaggi più amati della saga, ma perché nel complesso la dinamica è efficace e coinvolgente, grazie a due personaggi che, per diversi motivi, non sono totalmente da buttare.

Eppure, con Kylo ci provano in tutti i modi…

Eredità

Sulla carta riportare in scena sostanzialmente la storia di Anakin non era del tutto disastrosa.

Una scelta che si inserisce nell’idea di un soft reboot della trilogia classica, e che ancora una volta può contare sull’affezione del pubblico verso un personaggio estremamente rivalutato nel tempo, e che trova nelle capacità attoriali di Driver una nuova incarnazione complessivamente dignitosa.

Sicuramente in questo senso non aiuta la caratterizzazione di un villain che si comporta come un ragazzino ribelle, che però si rivela più interessante nella scena del primo confronto con Rey, quando Kylo cerca di penetrarle la mente, ma viene battuto al suo stesso gioco, mandando a pezzi il suo già fragile ego.

Adam Driver e Daisy Ridley in una scena di Star Wars - Il risveglio della Forza (2015) di J.J. Abrams

Ma, ancora una volta, Rey è il crocevia di tutti i problemi.

Probabilmente l’idea era di definire fin da subito le diverse tendenza dei personaggi, uno verso il Lato Chiaro, l’uno verso il Lato Oscuro, con anche un labile tentativo di Kylo di portare la ragazzina dalla sua parte, quando questa dimostra le sue incredibili capacità di dominare la Forza.

Ma, per l’ennesima volta, non solo manca un’adeguata costruzione di questo rapporto, ma ci sono proprio degli effetti buchi di trama: Rey sembra comprendere immediatamente e senza alcuna spiegazione il funzionamento della Forza e di come controllarla…

…riuscendo fin da questo film ad incarnare il modello della Mary Sue per eccellenza.

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Avventura Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Il sogno americano Yorgos Lanthimos

Il sacrificio del cervo sacro – Un pretenzioso rituale

Il sacrificio del cervo sacro (2017) è la seconda collaborazione di Yorgos Lanthimos con Colin Farrell, nonché il suo secondo film hollywoodiano dopo The Lobster (2015).

A fronte di un budget di 3 milioni di dollari, è stato nel complesso un buon successo commerciale, con 10 milioni di incasso.

Di cosa parla Il sacrificio del cervo sacro?

Steven Murphy è uno stimato cardiologo con una famiglia apparentemente felice. Ma nasconde un importante segreto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sacrificio del cervo sacro?

Nicole Kidman e Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Dipende.

Purtroppo ho veramente poco apprezzato questa pellicola: mi è sembrata così piena di idee interessanti, ma al contempo davvero così poco efficace nel realizzarle, non riuscendo sostanzialmente mai a raccontare in maniera credibile i personaggi e le loro dinamiche.

Una situazione che ho trovato a tratti esasperante, nello specifico nei momenti in cui sembrava che Lanthimos volesse stupire lo spettatore, più che riuscire a creare delle scene che riuscissero a suscitare dei sentimenti sinceri e naturali nello stesso.

Peccato.

Tensione

Colin Farell in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Le dinamiche del primo atto sono quelle che ho trovato più pretenziose.

Per lunghi tratti Lanthimos cerca di costruire un certo tipo di tensione ed inquietudine, con alcuni trucchi registici purtroppo necessari: dalla musica lugubre e tesa, fino ai personaggi che parlano senza che si senta la loro voce, tutto serve a creare un’inquietudine di fondo che altrimenti da sola la messinscena non riuscirebbe a sostenere.

E in effetti molti elementi che avrebbero potuto nutrire meglio la scena e renderla più viva e credibile sono del tutto mancanti: mancando l’antefatto, mancando la costruzione del rapporto e la sua esasperazione, lo spettatore viene catapultato nell’atto finale di un rapporto ormai sviluppato.

E per questo il colpo di scena è poco funzionale.

Disturbo

Nicole Kidman in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Più che un effettivo plot twist, è come se Martin dovesse raccontare in che direzione deve andare la trama.

Ed è veramente un peccato.

L’idea centrale della trama poteva essere davvero interessante, e in generale l’atto centrale è quello che funziona meglio e senza troppe sbavature, grazie proprio all’unico personaggio che effettivamente riesce a rendersi sufficientemente tridimensionale.

Infatti il protagonista è l’unico che sembra avere delle reazioni credibili, al contrario degli altri personaggi – compreso il personaggio di Barry Keogan – che sembrano davvero delle banderuole che si piegano ogni volta alle necessità della trama.

Dio

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Martin è un dio?

A differenza del resto della produzione di Lanthimos, in questo caso è presente un elemento fantastico che dovrebbe reggere l’intera trama, e che evidentemente Lanthimos non voleva spiegare, e che proprio per questo risulta così poco funzionante nell’economia narrativa.

Barry Keogan in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Di fatto non sarebbe stato effettivamente necessario raccontare come fosse possibile che Martin potesse piegare gli eventi a suo favore, ma sarebbe bastato costruire un minimo il perché fosse capace di tali atti – mentre così ne risulta una voragine narrativa che azzoppa la storia.

Oltretutto la presenza di questo personaggio è terribilmente scostante, e anche in questo senso si sarebbe potuto fare molto di più per mostrare un personaggio che osserva dall’esterno gli avvenimenti, e che ricorda costantemente al protagonista la minaccia che sta vivendo.

Estetica

Raffey Cassidy in una scena di Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

I personaggi tuttavia peggio caratterizzati sono i figli.

In questo senso nel terzo atto il film vive di un taglio grottesco molto fine a sé stesso, in cui i personaggi si muovono a carponi per finalità puramente estetiche, con una dinamica che si inserisce proprio all’interno dei loro comportamenti funzionali solo alla trama e alla volontà di stupire lo spettatore.

Così queste figure sono a tratti disperate, arrivando a pregare il padre di non ucciderli, ora sembrano invece immersi in un sogno, in particolare Kim, che ora sembra succube di Martin, ora sembra sicura di non essere uccisa, ma che infine arriva nuovamente a pregare il padre di risparmiarla.

Così questi personaggi occupano fin troppo la scena e tolgono invece respiro all’evoluzione del dilemma morale di Steven, che si riduce infine ad una sorta di roulette russa per evitare che la sua famiglia venga sterminata, con una chiusura che non racconta di fatto nulla sulle conseguenze della sua scelta…

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Bambi – Crescere con la natura

Bambi (1942) di David Hand è il quinto classico Disney, nonché una delle produzioni più travagliate della casa di produzione in questo periodo.

Tuttavia, dopo i timidi risultati di Dumbo (1942) e Fantasia (1940), il lungometraggio fu il più grande successo commerciale dell’annata: con un budget di meno di un milione di dollari, ne incassò 3 in tutto il mondo.

Di cosa parla Bambi?

La storia segue la crescita e l’evoluzione del protagonista, Bambi, un giovane cervo nel suo primo anno di vita.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Bambi?

In generale, sì.

Nella riscoperta dell’Età dell’Oro, finora Bambi è il Classico che mi ha meno coinvolto, forse anche per il fatto che non è tanto un film che vuole raccontare una storia, ma più mettere in scena delle atmosfere.

Infatti, i siparietti comici degli animali della foresta sono sostanzialmente la colonna portante dell’opera.

Non mancano ovviamente i momenti più strettamente drammatici – uno dei quali è fra i più citati di casa Disney – che riescono nel complesso a costruire una trama che, pur prevedibile e molto semplice, è al contempo puntuale e organica nella sua esecuzione.

Bambi Produzione

La produzione di Bambi fu travagliata.

La genesi del progetto non è chiarissima: l’unica cosa certa è che Walt Disney lesse il libro di grande successo Bambi, la vita di un capriolo (1923) dello scrittore ungherese Felix Salten, e forse fu influenzato da Sidney Franklin, che aveva tentato un adattamento in live action anni prima, senza successo.

Sicuramente la presenza di Franklin, da cui erano stati acquisiti i diritti, fu incisiva nelle difficoltà produttive: nel 1937 rigettò la prima bozza di sceneggiatura, in quanto la considerava povera di gag e poco fedele al libro di Salten.

E infatti, sia Pinocchio (1940) che Fantasia (1940), nonostante fossero cominciati dopo, vennero completati più in fretta e uscirono prima.

Una scelta particolare nella revisione della sceneggiatura fu l’essere più vicini all’opera originale, destinata ad un pubblico adulto e ricca di momenti drammatici, e in cui l’antropomorfismo degli animali è ridotto al minimo.

Infatti, si scelse di rendere i personaggi il più realistici possibile, rendendoli più umani solo nel contesto di alcune gag.

Questa scelta fu un ulteriore rallentamento della produzione, che venne ripresa in più momenti fra il 1939 e il 1940, anno in cui si cominciò definitivamente ad animare la pellicola, che venne ultimata solamente l’anno successivo grazie al successo di Dumbo (1941).

Bambi Design

 Nel libro di Salten, Bambi è un capriolo, nel film Disney divenne un cervo, accentuando anche le dimensioni del muso e degli occhi, in modo che avesse un’aria più innocente e infantile.

Un grande ostacolo era il personaggio del Principe della Foresta, che aveva un minutaggio ridottissimo, ma doveva essere la guida del protagonista: per questo gli si scelse di conferirgli una voce profonda ed impersonale, ed un modo di porsi molto incisivo e severo.

Infine, nonostante i numerosi tagli dovuti alla nuova situazione politica, uscì nelle sale statunitensi nel 1942, per poi essere ridistribuito diverse volte negli anni e pure ridoppiato, arrivando in Italia solo nel 1948.

Atmosfere

Bambi è un film di atmosfere.

La pellicola si apre con diversi quadretti naturali: dal topolino che di rinfresca con una goccia d’acqua fino ai piccoli uccellini che si contendono il cibo, il tutto serve ad incorniciare l’entrata in scena del protagonista, il grande evento cardine della storia.

I primi passi di Bambi sono anche i momenti più dolci e deliziosamente ironici: il piccolo cerbiatto impara a camminare ed è oggetto delle prese in giro degli altri animali – soprattutto da Tamburino – ed entra poi in contatto col secondo comprimario, la puzzola Fiore.

Per tutto il film i personaggi di sfondo sono quasi i veri protagonisti della scena, in un sistema di scatole cinesi, in cui le piccole avventure di Bambi e dei suoi amici sono incorniciate da momenti di quotidianità essenziali per rendere viva la scena.

Fra l’altro, raramente gli stessi sono effettivamente connessi con la storia dei personaggi principali, pur con qualche piccola eccezione – come l’anatroccolo che durante la pioggia viene travolto dalla corsa di Bambi.

Pericolo

La foresta è accogliente…

…ma anche pericolosa.

Il primo momento di effettivo pericolo è l’avventurarsi di Bambi e della madre nel prato, con importanti ammonimenti della stessa sulla pericolosità di questi spazi avvincenti quanto insidiosi, indirettamente facendo riferimento al pericolo dei cacciatori in agguato…

Tuttavia, come tipico di tutti i prodotti Disney di questo periodo, questa tragicità è fortemente ammorbidita dalla dinamica giocosa fra Bambi e Faline, in cui la giovane cerbiatta scherza e stuzzica il protagonista.

Si ritorna poi ad una certa serietà con l’incontro, pur da lontano, con l’effettivo Principe della Foresta.

Lo stesso diventerà la guida per il protagonista quando Bambi perderà la madre in uno dei frangenti più tragici eppure più intelligentemente portati in scena della storia della Disney: basta il rumore di uno sparo per raccontare tutto…

Tuttavia, ancora una volta, questa scena è fortemente ammorbidita.

Natura

Un aspetto curioso di Bambi è come la scena più drammatica è anche superata molto in fretta.

Dopo la morte della madre, Bambi ritorna in scena senza troppi rimpianti e in una veste più matura – probabilmente adolescenziale – e rientra in contatto con i suoi vecchi amici, che discutono increduli sulle dinamiche dell’accoppiamento, sicuri di non caderci mai.

E invece la natura fa il suo corso.

Oltre ad essere tutti catturati dal giogo dei primi amori, Bambi diventa protagonista di un inaspettato scontro corna a corna con il suo contendente nel corteggiamento di Faline, con un intrigante quanto inaspettato uso del chiaroscuro per caricare drammaticamente la scena.

E infine la storia si chiude come era cominciata.

La nascita di una coppia di cerbiatti, i nuovi principini della foresta, mentre lo sguardo vaga verso la figura di Bambi in lontananza, pronto a prendere il suo posto come il nuovo Principe della Foresta.