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Dune – Il prologo necessario

Dune (2021) di Denis Villeneuve è il primo capitolo della probabile trilogia di film tratti dal ciclo di romanzi cult di Frank Herbert.

Anche per via di una distribuzione criminale – negli Stati Uniti uscì allo stesso tempo al cinema e sul servizio streaming della Warner Bros – non fu un grande successo commerciale: a fronte di un budget di 165 milioni di dollari, ne incassò appena 433 in tutto il mondo.

Di cosa parla Dune?

Paul è il primogenito della famiglia Atreides, che viene resa improvvisamente il vassallo dell’Impero nel prezioso pianeta Arrakis, anche detto Dune…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Timothée Chalamet e Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Assolutamente sì.

Denis Villeneuve è riuscito dove persino David Lynch ha fallito: portare in scena un ciclo fantascientifico che già dal primo romanzo risulta estremamente complesso da rendere – per la mitologia, i significati e il taglio narrativo.

In questo senso, la scelta piuttosto ardita di rendere il primo film una sorta di capitolo introduttivo non solo è intelligente, ma assolutamente necessaria: prima di arrivare ai punti caldi della storia, è essenziale che il pubblico abbia una conoscenza robusta del mondo di Dune.

In ogni caso, non ve lo potete perdere.

Mitologia

Zendaya in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

La gestione della mitologia in Dune è impeccabile.

La sequenza introduttiva getta le basi fondamentali per la comprensione del complesso panorama politico, creando un climax narrativo sulla dualità di Arrakis: nelle parole di Chani Dune è un luogo splendido, incontaminato…

…ma è anche una fonte di inesauribile ricchezza, che ha portato al pugno di ferro della terribile famiglia Harkonnen, la cui dipartita non porta nessun sollievo al popolo dei Fremen, che invece già si chiedono chi sarà il loro prossimo oppressore.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Un’introduzione che si ricollega perfettamente al protagonista…

…e in ben due modi diversi.

Come infatti Chani è la ragazza misteriosa – che rimane senza nome fino sostanzialmente alla conclusione della pellicola – protagonista degli strani sogni di Paul, che sembrano anticipare un futuro ora sereno, ora profondamente drammatico…

…sia nei piccoli inserti esplicativi di vari elementi della mitologia, essenziali per la comprensione del film e inseriti come parte della formazione del protagonista, profondamente interessato a capirne di più della sua nuova casa.

Piccolo

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Dune viaggia a due velocità.

All’inizio il fulcro della storia sembra la piccola storia di gelosia politica che ha come protagonista il Duca Leto, un personaggio più volte definito come sacrificabile e poco importante nel grande schema delle cose.

Non è un caso che Leto sia l’unico raccontato come smaccatamente positivo, consapevole dell’inganno in atto, ma deciso a portare fino in fondo la sua missione, volendo distinguersi dal crudele cugino Harkonnen.

Oscar Isaac in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

A differenza infatti dei precedenti oppressori, Leto cerca un dialogo con i Fremen.

Mandando in avanscoperta il suo migliore guerriero – Duncan – accettando tutte le stranezze del popolo – come quando Stilgar sputa davanti ai suoi occhi – e accogliendo tutte le condizioni che gli indigeni gli impongono.

Questa suo tentativo di essere conciliante si dimostra infine fallimentare all’interno di un panorama politico dominato dall’inganno e dalla violenza, in cui la morte di Leto diventa sia lo sfogo della gelosia dell’Imperatore, sia la spinta necessaria per il concretizzarsi del destino di Paul.

Crudele

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il Barone Harkonnen è un villain incredibile.

Il film è riuscito perfettamente ad inquadrare un personaggio profondamente – a tratti quasi inutilmente – crudele, con la sua presenza imponente e terrorizzante, sempre intento ad intessere una trama di inganni e crudeltà, finalizzata unicamente al guadagno.

Particolarmente elegante ammorbidire un personaggio davvero impresentabile al cinema, ma nondimeno inserire indizi del suo terribile carattere: diciamo solo che i ragazzini che appaiono come servitori, in realtà lo servono soprattutto in altro modo…

Stellan Skarsgård in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In generale, il Barone incarna il senso di Dune.

Il mondo di Herbert è basato sull’inganno nell’ombra, la trama politica nascosta – di cui Vladimir Harkonnen è lo splendido protagonista – in cui l’attacco diretto, l’azione ne è solo l’ultimo capitolo – ed infatti i momenti dedicati alla stessa sono pochissimi.

Eppure, persino questo villain appare minuscolo nel grande schema narrativo: pure se per motivi totalmente diversi, anche il Barone è concentrato unicamente sul guadagno immediato, sul potere politico presente…

Dominio

Infatti, il vero potere è nelle mani delle Bene Gesserit.

Questa congrega centenaria di donne è riuscita a spingere oltre ogni limite le potenzialità dell’umanità, destinata a sostituire la macchina: secondo la religione dominante, le tecnologie sono ridotte all’osso, e l’umano stesso deve diventare un computer vivente.

In questa ottica, la preziosa spezia che per gli Harkonnen e l’Impero è solo una fonte di guadagno, per le Bene Gesserit è invece uno strumento che permette loro di costruire un piano spalmato su arco temporale di secoli, se non millenni.

Rebecca Ferguson in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

In questo schema, Jessica è solo una pedina.

Una pedina che, però, ha scelto di fare di testa sua.

La donna ha cercato di imporsi nello stringente piano della sua sorellanza, sfidando il potere delle Madri per intrecciare la sua linea di sangue con Leto e far nascere una figura mitologica dai tanti nomi – Kwisatz Haderach, Lisan al Gaib – che sarà protagonista dell’ambigua sorte di Dune.

Ma, soprattutto, Jessica ha scelto di sfidare il potere delle Bene Gesserit, formando un maschio ai poteri propri di una religione esclusivamente femminile, ponendo le basi per un destino ancora oscuro ed imprevedibile.

Imposto

Zendaya e Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Per questo, il destino di Paul è imposto.

Al riguardo, è stato piuttosto intelligente da parte del film inserire un elemento estraneo alla narrativa di Herbert: nel romanzo il protagonista accettava quasi passivamente, e con estrema freddezza, la sorte che era stata scelta per lui, come se fosse qualcosa di inevitabile.

Al contrario, nella pellicola Paul è costantemente tormentato da omen, visivi e vocali, che gettano i semi per la comprensione del suo fondamentale ruolo nella storia di Dune, che il personaggio vive ora con angoscia, ora con una genuina disperazione.

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Ma la vera evoluzione di Paul è uscire dal controllo della madre.

Per assumere il suo ruolo, il protagonista deve effettivamente immergersi nella realtà di Arrakis, basata sull’idea di adattamento, non l’imposizione: i Fremen sopravvivo su Dune perché hanno imparato a conviverci, a muoversi imitando i naturali movimenti del deserto…

…al contrario degli oppressori che si sono susseguiti, i quali, nella loro corsa al guadagno e al profitto, si sono lasciati in più momenti divorare dai veri dominatori di Arrakis, ovvero i Vermi della Sabbia, attirati proprio dai segnali di mutamento dell’ambiente.

Per questo, Paul deve imparare a farne parte.

Inizio

Timothée Chalamet in una scena di Dune (2021) di Denis Villeneuve

Il destino di Paul è incerto.

Più viene a contatto con il deserto, e quindi con la spezia, più il protagonista si rende conto che la sua vittoria passa attraverso il lasciarsi guidare dagli istinti, intendere gli stimoli che lo circondano…

…e non pensare che gli avvenimenti futuri siano già stati matematicamente decisi, ma piuttosto viverli come ancora del tutto definibili dalle sue azioni e delle sue scelte – in particolare, la scelta di diventare personaggio attivo della storia.

Infatti, Paul riesce a diventare effettivamente protagonista del suo destino quando sceglie di farsi ingoiare da Dune: immersi nella terribile bufera di sabbia che avrebbe ucciso chiunque, il protagonista capisce che non deve forzare la sua presenza in quell’ambiente…

…ma piuttosto lasciare che la sua navicella si immerga nel pianeta, ascoltandolo e così capendo quale direzione prendere per arrivare alla prima tappa del suo viaggio predestinato: l’incontro con i Fremen.

Ma anche in questo caso, è un evento ambiguo.

Infatti, quando finalmente Paul si trova davanti sia a Chani sia, soprattutto, a quello che dovrebbe essere il suo futuro alleato – il Fremen Jamis – capisce che il futuro è ancora tutto da scrivere.

Per questo accetta infine l’inevitabile morte dell’uomo che gli si è opposto, non forza la relazione con la misteriosa ragazza, ma piuttosto accetta di entrare a far parte dei nativi, muovendo i primi passi verso questo nuovo inizio.

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Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Grottesco Ingmar Bergman

Sussurri e grida – Parenti assenti

Sussurri e grida (1972) è una delle opere più tarde della filmografia di Ingmar Bergman.

A fronte di un budget contenuto – appena 450 mila dollari – fu nel complesso un buon successo, con 3,5 milioni di incasso.

Di cosa parla Sussurri e grida?

La povera Agnese sta morendo di un mare incurabile. In questa occasione le due sorelle, Karin e Maria, si riuniscono dopo molto tempo nella casa natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Sussurri e grida?

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Con Sussurri e grida Bergman ci regala ancora una volta la sua regia superba ed elegantissima, fra l’altro con una delle sue prime sperimentazioni con il colore, in particolare puntando sull’onnipresente e asfissiante rosso degli ambienti.

Una vicenda piuttosto angosciante, incentrata sulla totale indifferenza di due donne non solo davanti alla sofferenza e alla morte imminente della sorella, ma anche all’interno della glacialità dei loro rapporti, all’inconsistenza dei loro matrimoni…

Interno

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

La pellicola ci accoglie in un esterno silenzioso e anonimo…

…per poi condurci ad un interno asfissiante e doloroso.

Per gli spazi della casa Bergman ha scelto appositamente il colore rosso, proprio a rappresentazione delle interiora e, per estensione, della vera natura nuda e cruda dei suoi personaggi.

Così poche parole scritta da Agnese sul suo diario tratteggiano la situazione presente: la malattia dolorosa – sto soffrendo – e le due sorelle riunite al suo capezzale apparentemente per aiutarla – Anna e Karin si danno il turno.

Ma in un attimo Agnese volge lo sguardo verso il passato, inconsapevolmente la radice delle disgrazie presenti, che però la donna, immersa nel suo ingenuo sogno di riunione familiare, non riesce davvero a comprendere.

Madre

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Il ricordo della madre è il primo a venire alla mente.

Agnese racconta una genitrice fredda e scostante, che quasi si pente di non aver compreso al tempo nel suo carattere turbolento, più volto a sgridarla e punirla, che a darle quell’affetto che la donna, ancora in età adulta, continua a ricercare.

Invece, un breve e quasi felice ricordo dell’infanzia sembra bastare per riqualificare la madre ai suoi occhi: quel breve gesto muto, quella carezza tanto ricercata, in cui Agnese vede racchiusa una sorta di pietà, di tristezza della donna nei suoi confronti.

Un momento significativo in chiusura di un ricordo davvero infelice, in cui la protagonista ricorda quanto si sentisse esclusa dai più importanti momenti di gioia familiare, che dettano anche la sua ingenua felicità presente nei confronti delle sorelle.

Ma non è su di loro che Agnese può contare.

Pietà

La vera figura positiva nella vita di Agnese è Anna.

Infatti, le due donne sembrano in qualche modo completarsi a vicenda.

Come Agnese cerca un calore materno, un affetto familiare che le sue sorelle si rifiutano di offrirle, essendole totalmente indifferenti, lo stesso è lo trova invece in Anna, nelle diverse scene in cui la domestica sembra ora allattarla, ora ricreare la scena della Pietà di Michelangelo.

Kari Sylwan in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Anna è infatti l’unica figura che ha veramente a cuore Agnese, l’unica capace di dare ascolto ai sussurri della donna morente, di sentire il suo pianto proprio quando tutti la credono ormai morta e dimenticata.

Ed è anche l’unica che infine accetta di starle accanto quando entrambe le sorelle si rifiutano istericamente di darle anche solo un minimo di affetto, l’unica che ripercorre infine le parole della defunta nella sua ultima memoria felice…

Indifferenza

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Maria è indifferente.

Ma non solo con Agnese.

La donna è totalmente indifferente in primo luogo all’interno del suo stesso matrimonio, con il suo stesso marito, persino quando lo trova pugnalato e sofferente – con un interessante foreshadowing del suo stesso rapporto con la sorella.

Ed è tanto più meschina quando, invece che informarsi sulla salute di Agnese, sceglie di approcciarsi al medico per riaccendere la fiamma della passione che sembra ormai essersi spenta da tempo.

Liv Ullman in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Molto significativo in questo senso lo scambio fra i due personaggi, in cui il dottore sembra in un certo senso svalutare la qualità di Maria come donna che ha ormai perso la sua innocenza, ed è diventata indifferente, pigra e maliziosa.

La sua indifferenza la porta solo apparentemente, sul finale, ad avvicinarsi ad Agnese, ma poi invece distaccarsi, fuggire in preda al panico e alle urla quando la sorella effettivamente le richiede quell’affetto tanto desiderato.

Fredda

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Karin è fredda.

La sua freddezza ha origine dal suo stesso matrimonio, in cui il marito sembra mostrare un atteggiamento non dissimile da quello della sorella: indifferente davanti ad ogni mutamento, ad ogni casualità della vita della moglie.

Così internamente la donna medita furiosamente sulla falsità di questa facciata, incapace però di esprimere questi sentimenti, se non tramite il doloroso e risentito silenzio, che la porta a sua volta ad essere fredda, indifferente, distaccata da tutti.

Ingrid Thulin in una scena di Sussurri e grida (1972) di Ingmar Bergman

Un atteggiamento che non viene altro che confermato da Maria.

Proprio come farà in seguito con Agnese, Maria cerca di avvicinarsi alla sorella, da cui ormai sembra divisa da molto tempo, e fra le due esplode un dialogo concitato e apparentemente molto affettuoso, in realtà vuoto e vacuo come il silenzio della scena.

Così, dopo essersi di nuovo strappata dalle attenzioni della sorella morente, riprova solo timidamente a riavvicinarsi a Maria durante il loro congedo nel finale, ricevendo in risposta solo altra freddezza, altra indifferenza…

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West Side Story – Terrible time in America

West Side Story (2021) di Steven Spielberg è il remake dell’omonimo cult cinematografico del 1961, tratto dal musical di Leonard Bernstein.

Purtroppo, il progetto si è rivelato un grande insuccesso commerciale: a fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – ne ha incassati appena 76 in tutto il mondo…

Di cosa parla West Side Story?

New York, 1957. Tony e Maria sono due giovani innamorati, che però fanno parte di due gang rivali…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere West Side Story?

Rachel Zegler in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Steven Spielberg riesce non solo a superare tutti i limiti della produzione del 1961, ma anche riuscire a rendere incredibilmente più realistico un musical che parlava di conflitti sociali molto forti e reali – e ancora estremamente attuali.

Particolarmente indovinata la rappresentazione della comunità portoricana, non solo con un casting finalmente credibile, ma anche con l’inserimento di diverse battute in spagnolo, finalizzate a un senso di maggior realisticità alla vicenda.

L’unico difetto che si può forse imputare al film è il suo voler essere eccessivamente vicino, per alcuni elementi, all’opera di partenza, non sacrificando alcun numero musicale, persino quelli che inevitabilmente appesantiscono una pellicola di oltre due ore e mezza…

Dominio

I Jets in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

When you’re a Jet, you’re a Jet all the way!

La scena di apertura serve non solo a definire gli spazi, ma soprattutto l’intenzione dei Jets di appropriarsene.

Infatti, il gruppo comincia la sua traversata da una terra di nessuno, ormai destinata alla distruzione, per poi muoversi verso quei quartieri che evidentemente non gli appartengono – come si comprende dalle insegne dei negozi in spagnolo…

…ma che cercano di spogliare della presenza straniera, con passi di danza perfettamente integrati nella loro ricerca di dominio, sempre gettati in avanti, a braccia aperte, a pugni chiusi, per coprire più spazio possibile.

Guerra

¡La libertad, la libertad!

La libertà, la libertà!

Questa riappropriazione diventa un effettivo insulto alla comunità portoricana, quando viene infangata la loro bandiera – mentre nel West Side Story del ’61 semplicemente vi era una scritta sul muro molto meno grave, che recitava semplicemente Sharks stinks.

Dopo una lotta senza quartiere, all’arrivo dei poliziotti gli Sharks, ormai scacciati ed umiliati da una giustizia mai veramente a loro favorevole, esplodono in un canto tutto in spagnolo in cui rivendicato con fierezza le loro origini.

Ma ancora più significativo è il discorso del Tenente Schrank, che gli ricorda l’insensatezza della loro lotta: uno scontro fra disperati per un fazzoletto di terra, che fra poco sarà occupato da quelli che dovrebbero essere i loro veri nemici.

Ovvero, la classe dirigente che li ha lasciati ai margini.

Fuori

Ansel Elgort in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Somethin’s comin’ / I don’t know what it is / But it is gonna be great

Spielberg carica il suo protagonista maschile di nuovi sentimenti.

Diventa infatti significativo per Tony rivendicare il suo voler essere esterno alle lotte fra le gang, proprio per essere andato così vicino ad uccidere un ragazzino, ad un passo dal rendere questo evento tutta la sua personalità.

Ansel Elgort in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Per questo la sua canzone Something’s Coming assume un nuovo sapore nella bocca di un protagonista che è tornato a casa, ma vuole trovare all’interno della stessa qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso dall’odio che era tutta la sua vita fino a questo momento.

Per questo è fondamentale che il numero si svolga non in solitudine, ma davanti agli occhi speranzosi e quasi ammonitori di Valentina, mentre il ragazzo gli racconta che qualcosa sta per cambiare, che deve cambiare…

Diversa

Rachel Zegler e Ariana DeBose in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Ma il cambiamento più significativo è il personaggio di Maria.

Se nella versione del ’61 la protagonista femminile era una ragazzina superficiale e sciocca, che viveva ancora a casa dei suoi genitori, in questo caso presenta un carattere decisamente più irriverente, tanto da mettere più volte in discussione l’autorità del fratello.

Infatti, la sua ribellione, la sua unione con Tony è molto più che un semplice amore impossibile, ma piuttosto un modo in cui Maria decide di definire sé stessa come donna libera, senza che sia il fratello ad imporle un compagno così incolore come Chino.

Così la sua prima vera ribellione alla sua famiglia è proprio quel rossetto rosso che sceglie di mettersi prima di uscire per il ballo, che va in parte a riscrivere quell’aspetto puro e illibato che il vestito bianco dovrebbe conferirgli.

Nascosti

Rachel Zegler in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Tony e Maria sanno subito di dover stare nascosti.

Il prologo del loro dramma è proprio il ballo stesso, che perfettamente incorniciata all’interno di dinamiche da musical il bruciante contrasto fra le due gang, per cui qualunque tentativo di pace, persino un’innocua danza, appare assolutamente impossibile.

Infatti, a differenza dell’opera originaria, i due capiscono subito che il loro incontro si deve svolgere nelle retrovie della festa, con uno scambio articolato da alcuni passi di danza ripresi dallo spettacolo e un paio di battute ironiche che raccontano l’inizio dell’intrecciarsi del rapporto.

Rachel Zegler e Ansel Elgort  in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Rispetto al West Side Story del ’61, questo primo incontro è riscritto in più direzioni e con grande intelligenza: il primo bacio fra i due non è ricercato da entrambi in un commosso crescendo, ma piuttosto voluto dalla stessa Maria, che mostra ancora una volta la sua intraprendenza e sfacciataggine.

Inoltre, il fatto che i due rimangano nascosti per tutto il dialogo – a differenza del film originale, in cui erano in mezzo alla folla – rende ancora più grave la loro situazione: sembra come se Tony avesse preso da parte la giovane ragazza per approfittarsene…

Scoperta

Rachel Zegler e Ansel Elgort  in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Today, the world was just an address / A place for me to live in

La scena della balconata è semplicemente perfetta.

Spielberg riprende per lunghi tratti le dinamiche del prodotto originale, ma le impreziosisce con una gestione degli spazi magistrale, che racconta quanto la loro relazione sia impervia e apparentemente impossibile, come se ci fosse un blocco, una rete invalicabile fra loro…

But here you are / And what was just a world is a star

…ma che prontamente il baldanzoso Tony supera per raggiungere quella che ha capito essere per nulla una ragazzina indifesa, benché in quel momento appaia fortemente impaurita dalla presenza di Bernardo a pochi passi.

Purtroppo, per così dire, la sceneggiatura non sceglie di fare il passo decisivo per rendere effettivamente più credibile il loro rapporto: subito Tony le chiede di scappare insieme, subito si danno appuntamento per il giorno successivo e si dichiarano il reciproco amore eterno.

America

Ariana DeBose e David Alvarez in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Life is all right in America / If you’re all white in America

Una riproposizione decisamente interessante è America.

Come tipico della produzione del ’61, la regia della scena era estremamente statica e limitata ad un solo ambiente, con uno scambio piuttosto animato fra le ragazze della gang e le loro controparti maschili, con un sottofondo fortemente ironico.

Nel remake si sceglie invece di aprire la scena e di distribuirla in diversi ambienti, nonché di caricarla di un significato profondamente drammatico, mostrando quello che effettivamente i due stanno cantando – le proteste della comunità portoricana, l’antagonismo della polizia…

Ariana DeBose in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Terrible time in America / You forget I’m in America

Tuttavia, non sia arriva mai ad una vera conclusione.

Se da una parte Anita si rifiuta di lasciare l’America, in quanto unico luogo dove può effettivamente determinarsi come figura indipendente e lavoratrice, e non invece limitata al ruolo di madre con una prole ingestibile…

…dall’altra Bernardo, fra l’ammonimento e la provocazione, le ricorda che il sogno americano è tanto bello quanto esclusivo dei bianchi – o, in alternativa, delle persone capaci effettivamente di combattere come lui.

Intermezzo

Make of our hands, one hand

Avrei preferito che la parte centrale fosse più audace nella riscrittura…

…o, ancora meglio, nella selezione.

La sequenza dell’appuntamento fra Tony e Maria, soprattutto nella scena del matrimonio, si sposa in maniera poco convincente con quello raccontato finora dei loro personaggi, e mostra la già citata poca audacia nell’operare fino in fondo una riscrittura più credibile dell’opera.

Altrettanto fine a sé stessa è la scena della stazione di polizia, per quanto ottimamente portata in scena ed interpretata, non aggiungendo di per sé molto al racconto dei Jets e alla loro personalità.

Tuttavia, un elemento è davvero vincente.

Fra i personaggi meglio riscritti del film c’è sicuramente il personaggio senza nome (anybodys) interpretato dall’attore non binario iris menas, che vuole disperatamente far parte di Jets, nonostante sia costantemente bollato come una femmina, e pure piuttosto brutta.

Significativo riscriverlo in questa veste più moderna, sorpassando la banalizzazione dello stesso nel West Side Story del ’61, quando veniva raccontato come semplicemente come un tomboy – un maschiaccio.

Contrasto

Got a rocket / In your pocket / Keep coolly cool, boy

Con l’approcciarsi dello scontro, si definisce ancora più il contrasto interno alla pellicola.

In questo senso è stato particolarmente indovinato rimischiare le scene, usando la canzone Cool per raccontare il tentativo di Tony di far ragionare quel ragazzino di Riff, pronto alla lotta senza quartiere con una pistola che non è capace di utilizzare.

Allo stesso modo, vincente la scelta di porre la sequenza I Feel Pretty immediatamente dopo lo scontro fra i Jets e gli Sharks, proprio per raccontare un sogno d’amore ancora intatto e che, almeno sulla carta, dovrebbe superare ogni tipo di conflitto.

David Alvarez in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

All’interno di una regia decisamente più ispirata, lo scontro è tanto più drammatico quanto preceduto dai tentativi disperati di Tony di far ragionare Bernardo e di farsi per questo accettare da lui come compagno della sorella…

…ma arrivando inevitabilmente alla tragedia, all’autodistruzione fra i due maggiori mandanti della stessa, Riff e Bernardo, che si lasciano alle spalle vedove e amici dal cuore spezzato, oltre ad una lotta ancora più feroce e disperata.

Ripensamento

Rita Moreno in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

We’ll find a new way of living / We’ll find a way of forgiving / Somewhere

Se nel film del ’61 l‘angoscia dell’ultimo atto veniva in parte spezzata dalla canzone Cool, nella nuova versione la tragica dinamica è incorniciata dalla canzone Somewhere, cantata da Valentina, interpretata dalla vera star della prima versione del musical: Rita Moreno.

La scena più significativa di questo frangente è lo scontro fra Anita e Maria in A Boy like That, brano dai toni molto più malinconici nel ’61, in questo caso invece caricato di un inedito senso di conflitto, con cui la protagonista riesce a raccontare effettivamente l’importanza del suo amore per Tony.

Oh no, Anita, no / You should know better!

In particolare, decisamente indovinato il momento in cui Maria rinfaccia ad Anita la sua ipocrisia: anche se Tony ha ucciso Bernardo, la donna dovrebbe essere ben consapevole di come il suo amato sia stato il principale artefice della sua distruzione…

…ma nonostante questo, di averlo comunque amato.

Inevitabile

La tragedia sembra inevitabile.

Nonostante Anita si convinca ad aiutare Maria a scappare, si ricrede quando viene salvata all’ultimo da Valentina dal tentato stupro – con un dialogo aperto fra presente e passato, come se Anita salvasse sé stessa…

Rachel Zegler in una scena di West Side Story (2021) di Steven Spielberg

Conseguentemente, Tony si rende il bersaglio perfetto per la vendetta di Chino, che sceglie infine di sfogare la sua frustrazione per aver sia perso l’amore di Maria, sia per essere stato incapace di difendere Bernardo.

Il finale riprende sostanzialmente le stesse dinamiche del film del ’61, con anche l’ultimo colpo di coda di Maria, che mette le gang davanti alle colpe della loro stupida guerra, ma che infine si arrende, e si unisce silenziosa alla processione funebre che chiude la pellicola.

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Darren Aronofsky Dramma familiare Drammatico Fantastico Film Horror Thriller

Il cigno nero – Lineare

Il cigno nero (2010) con protagonista Natalie Portman, è fra le opere più note della filmografia di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 13 milioni di dollari – fu un grande successo al botteghino, con 330 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Il cigno nero?

Nina è una ballerina di grande talento, che però rischia di precludersi il successo per via della sua fragilità emotiva. Ma l’unico vero nemico è lei stessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il cigno nero?

In generale, sì.

Non mi sento di sbilanciarmi nel consigliare questa pellicola, in quanto personalmente la trovo molto meno brillante rispetto al precedente Requiem for a dream (2000), dove il regista statunitense riusciva meglio a bilanciare l’aspetto più surreale e fantastico con un profondo contenuto riflessivo.

In questo caso invece Aronofsky, forse anche per adattarsi ai gusti di un pubblico più ampio, sceglie una regia più contenuta, meno sperimentale, e più invece vicina al taglio tipico dell’horror commerciale, con, in non pochi casi, l’abuso del taglio dark fantasy.

Uovo

Nina è ancora nell’uovo.

La protagonista è costantemente sferzata dalla madre per ottenere una tecnica perfetta, rimanendo però confinata in un guscio inscalfibile – la camera da letto – un ambiente in cui è costretta a rimanere ancorata ad un’identità infantile e illibata.

Per questo, nel ruolo del cigno bianco, questa figura eterea cristallizzata in una realtà senza tempo, è l’interprete perfetta – come gli conferma lo stesso Thomas – quasi come una ballerina giocattolo che non sbaglia mai un passo.

Ma non basta.

Istinto

La tecnica di Nina manca di carattere.

La protagonista si limita a seguire pedissequamente la parte, a portare una performance impeccabile, ma senza riuscire ad entrare nell’essenziale dualità del suo personaggio, motivo per cui inizialmente sembra perdere la parte.

In realtà, fin dall’inizio Nina è spinta da una forza contraria a quella della madre.

Infatti, Leroy la spinge ad un cambiamento caratteriale, senza mancare comunque di approfittarsi in qualche misura di questa innocente quanto manipolabile ragazza, che spinge soprattutto alla scoperta sessuale, così da farla evadere da questo perpetuo carattere virginale.

Anzitutto la mette alla prova mentendole sull’aver ottenuto la parte, portandola a mostrare un lato della sua natura che fino a quel momento gli aveva nascosto: quel morso sul labbro per sottrarsi dalla sua stretta è solo il primo degli indizi di un istinto sotterraneo…

…ma pronto ad emergere.

Alieno

Nina è alienata.

La protagonista è alla disperata ricerca di un nemico per giustificare la sua ossessione, il suo fallimento, cercandolo proprio in quelle figure che sente così lontane da sé, ma al contempo così desiderabili: le sue compagne, ma, soprattutto, Lily.

Infatti, in questa fascinosa ragazza Nina vede la sua peggiore contendente, la principale causa della sua ossessione, sempre pronta non solo a rubarle il ruolo, ma anche ad essere vincente dove la protagonista si sente una perdente.

Ovvero, nella seduzione.

In realtà, Nina è in lotta contro sé stessa.

Anche se la protagonista crede il contrario, la donna che ride sommessamente, la presenza nell’ombra che la perseguita, non è altro che la rappresentazione di un altro lato della sua interiorità, che lei cerca ora di combattere, ora di far emergere.

Questi sprazzi di verità emergono tutte le volte in cui Nina vede il suo volto sui corpi di quella che crede le sue nemiche, fino ad arrivare a confrontarsi ripetutamente con sé stessa allo specchio, quando ormai la trasformazione è in atto.

Pelle

La metamorfosi di Nina non può essere che violenta.

Costretta in una pelle che non riesce più a sopportare, fin dall’inizio la protagonista si continua a ferire, a graffiare, persino a strappare la pelle, come per permettere a quell’altra sé di, finalmente, emergere.

Una ferita che è anche una crepa su quell’aspetto così perfetto e, appunto virginale, su quell’uovo così intoccabile, che Nina ha il continuo istinto di distruggere, per liberarsi della vecchia pelle e diventare qualcos’altro.

La trasformazione definitiva è la parte che mi ha meno convinto.

Dopo aver ampiamente giocato con i più classici topos dell’horror di largo consumo, Aronofsky spinge fortemente l’acceleratore sull’elemento dark fantasy, andando a rendere visivamente una simbologia che sarebbe risultata molto più elegante se più contenuta.

In questo senso, Il cigno nero si salva, per così dire, insistendo in più momenti su come queste visioni orrorifiche siano completamente interne all’immaginazione di Nina, così da non sporcare una pellicola in cui l’elemento fantastico funziona fino ad un certo punto.

Realizzazione

La realizzazione finale è fondamentale per la definizione del personaggio.

Nina riscopre anzitutto il personaggio di Lily, che, per l’ennesima volta, si dimostra tutto tranne che una sua nemica – incoraggiandola anzi per la sua ottima performance – e, di conseguenza, comprende la sua vera natura.

Una natura che, tuttavia, non è veramente pronta ad accogliere, ma piuttosto a distruggere, per poi prenderne almeno temporaneamente il posto, entrando a tal punto nel personaggio da portare in scena l’esibizione perfetta, ma la sua tragica conclusione…

Il cigno nero sesso

Osservando le scene di sesso de Il cigno nero si potrebbe sostenere che in questo film la sessualità femminile venga demonizzata, o che comunque l’atto sessuale venga ricondotto a qualcosa di sporco, oscuro.

In realtà, credo che il film intenda imbastire un discorso più complesso.

Nonostante sicuramente il sesso sia rappresentato in maniera disturbante, questa scelta risulta funzionale ad offrire un commento, forse persino una critica, alla dualità sociale a cui spesso la donna è sottoposta.

Ovvero, santa o puttana.

In questo caso, cigno bianco e cigno nero.

L’intento potrebbe essere quello di raccontare la condizione di una donna – Nina – che si ritrova intrappolata fra un archetipo e l’altro: da una parte la società le dice devi lasciarti andare, sei frigida, dall’altra la ammonisce, accusandola di essere una puttana.

Secondo questa linea di pensiero, le scene di sesso vengono mostrate in maniera disturbante proprio perché è la protagonista stessa a sentirsi sporca, ma senza che il film intervenga esplicitamente per confermare la sua visione.

In questo è indicativo come la regia non esprima un giudizio sulla sessualità della rivale Lily, più libera e sicuramente più matura – da ogni punto di vista – rispetto invece a Nina.

Invece, secondo alcuni Nina viene punita per la sua sessualità.

In realtà, benché il film resti volutamente ambiguo al riguardo, mi sento comunque di dissentire: seguendo la storia de Il Lago dei Cigni, capiamo che la protagonista, come Odette, nella morte ritrova la libertà.

Di fatto in quel momento, riuscendo ad incarnare entrambi gli archetipi di cui sopra, può finalmente considerarsi perfetta per la società patriarcale: ha assolto al proprio compito, ora è libera dalle pressioni sociali.

Il cigno nero sesso

Tuttavia, in quello stesso momento muore perché si tratta di un obbiettivo fondamentalmente impossibile da raggiungere.

È letteralmente impossibile essere una donna.

In conclusione, secondo questa visione la società – rappresentata dal suo insegnante, Thomas – la spinge ad incarnare la sua versione illibata – il cigno bianco – ma la vuole anche nel ruolo di seduttrice il cigno nero.

Quindi finisce per ingabbiare la donna in uno o nell’altro stereotipo, anziché lasciarla libera di scegliere come approcciarsi alla sessualità, e, soprattutto impedendole di abbracciare anche una sana via di mezzo.

Ovvero, al di fuori di quel sistema rigido e binario.

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L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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The Fabelmans – La magia del cinema povero

The Fabelmans (2022) è l’ultima opera di Spielberg, e quella più personale della sua produzione.

Più che un film, un commosso e sentito omaggio alla sua famiglia.

Purtroppo, a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 45…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Fabelmans (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale
Miglior attore non protagonista a Judd Hirsch
Migliore attrice non protagonista a Michelle Williams
Migliore colonna sonora
Migliore
scenografia

Di cosa parla The Fabelmans?

Un giovanissimo Sammy viene portato per la prima volta al cinema. Un’esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fabelmans?

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prima di vedere The Fabelmans, avevo dei grossi dubbi, dal momento che fa parte di un genere – quello del biopic – molto standardizzato nelle tematiche e nelle dinamiche, che gioca spesso su trigger emotivi facili e scontati, e che per questo non apprezzo particolarmente.

Non è il caso di The Fabelmans.

Vedendo questa pellicola si ha la costante sensazione di trovarsi davanti al racconto di una storia vera, che non cerca di farti piangere o emozionare per forza, ma piuttosto di coinvolgerti e intrattenerti attraverso dinamiche piacevoli, divertenti e genuine.

E con la splendida mano autoriale di Spielberg.

Una storia vera…

Paul Dano e Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Ovviamente non potremo mai sapere quanto Spielberg abbia inventato e quanto ci sia di vero in The Fabelmans.

Ma, se si è inventato tutto, ci ha ingannati perfettamente.

La pellicola è quasi una raccolta di aneddoti, senza focus così forte sull’aspirazione del protagonista di diventare un regista, né foreshadowing volti a celebrare il suo genio. Al contrario, un racconto vero e sentito della nascita della sua passione, ma all’interno di una storia più ampia e sentita su una famiglia imperfetta.

Per tutta la durata non sapevo cosa aspettarmi, perché non c’era niente di veramente scontato.

…per un cinema vero

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Nonostante appunto non sia del tutto il punto centrale della pellicola, il racconto dello sbocciare della passione del cinema per il protagonista è la parte più affascinante della storia.

Spielberg è riuscito a mostrarci, attraverso dinamiche credibili e interessanti, come riusciva a girare piccoli film muti, facendo leva sulla sua incredibile creatività e ingegnosità per creare degli effetti speciali caserecci, ma di grande effetto.

E mostrando già la sua capacità nel dirigere gli attori e l’occhio registico che stava sviluppando per i particolari da mettere in risalto, riuscendo a dare tridimensionalità e profondità alle scene e alle storie che portava in scena.

Fra l’altro con una perfetta corrispondenza fra la tecnica mostrata nei film amatoriali, e quella che caratterizza il film stesso.

Raccontarsi

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Raccontare sé stessi non è mai facile.

Tanto più quando sei uno dei più grandi maestri del cinema.

Tuttavia, mai nella pellicola ho sentito che Spielberg volesse in qualche modo autocelebrarsi. Al contrario, mi è sembrato che volesse mettere in scena proprio lo sbocciare della sua passione e di come effettivamente avesse cominciato a guardare il mondo con l’occhio della macchina da presa.

Davanti a questo ottimo risultato, non posso che fare un paragone con un’altra opera di taglio autobiografico di recente produzione: Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu. Per quanto mi renda conto che si tratta di due film molto diversi, in entrambi il regista si propone di mettere in scena la sua vita e la sua arte.

E, come Iñárritu si è decisamente troppo sbilanciato in una fragile – e pomposa – celebrazione della sua opera, Spielberg ha meglio raccontato la sua passione, lasciando al pubblico il giudizio.

A dimostrazione proprio di come raccontarsi in maniera genuina e senza stare sulla difensiva era non solo fattibile, ma auspicabile…

Una madre (troppo vera)

Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Come fondamentalmente tutto il film è assolutamente godibile, ho trovato leggermente più pesanti le sequenze dedicate a Mitzi, la madre del protagonista. Più che altro perché la stessa, ad uno spettatore esterno, appare un personaggio molto egoista e di fatto negativo, e non così facilmente perdonabile.

Al contrario, Sam – e di conseguenza il regista – la perdona totalmente.

Sicuramente un indizio del sentimento profondo e sincero di Spielberg verso la madre – fra l’altro venuta a mancare qualche anno fa. Tuttavia, una rappresentazione che ho trovato poco credibile e interessante, con uno scioglimento quasi troppo semplicistico.

Ridiamoci su

Paul Dano, Michelle Williams e Mateo Zoryon Francis-DeFord in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

The Fabelmans presenta diversi elementi di ironia che scherzano anche su tematiche non facilissime da gestire: la morte e l’ebraismo.

Si ironizza facilmente e in maniera molto genuina sulla morte della nonna a metà film, e altrettanto sulle tradizioni ebraiche e le loro stranezze – che appaiono tali a chi non ne fa parte. Sulla stessa linea, appaiono quasi grotteschi – ma molto credibili – i comportamenti dei compagni di scuola di Sam verso la sua religione, l’assurda relazione con Monica, l’esilarante personaggio del prozio Boris…

Oltre a questo, assolutamente indovinata la scena su del colloquio con John Ford, con una simpatica trovata metanarrativa a chiusura della pellicola.

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.

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2023 Dramma familiare Drammatico Film Giallo Legal drama Oscar 2024

Anatomia di una caduta – Dissezione

Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet è stato uno dei film più chiacchierati della Stagione dei Premi 2024, grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6,2 milioni di dollari – complessivamente è stato un successo commerciale: 26 milioni di incasso in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Anatomia di una caduta (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior regia
Migliore attrice protagonista a Sandra Hüller
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anatomia di una caduta?

Samuel muore per via di una misteriosa caduta. E tutto punta verso la moglie, Sandra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anatomia di una caduta?

Sandra Hüller e Swann Arlaud in una scena di Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet

Assolutamente sì.

Anatomia di una caduta è uno splendido legal drama che riesce dove molti film del genere di riferimento falliscono: essere una storia credibile, in cui molti spettatori possono potenzialmente riconoscersi.

Infatti, in qualche modo noi stessi diventiamo i giurati che assistono alla cinica e spietata dissezione della vita della protagonista e del suo rapporto col marito, tutto tranne che chiaro, anzi piuttosto fraintendibile…

Insomma, da non perdere.

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Avventura Darren Aronofsky Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror

Requiem for a dream – Dipendenti e soli

Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentale di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.

Di cosa parla Requiem for a dream?

Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Requiem for a dream?

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Sì, ma…

Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.

Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.

Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.

Sogno

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.

Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.

Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.

Ma è un sogno fragile.

Vuoto

Jared Leto in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.

Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…

…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Ma la caduta è progressiva.

Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.

Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.

Ma l’eroina non è l’unica droga.

Vincente

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.

O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.

In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.

E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.

Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culture e della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.

Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.

Aiuto

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.

Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…

…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomodo dal tessuto sociale.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.

Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.

Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…

…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.

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Dramma familiare Drammatico Film Ingmar Bergman

Persona – Divorare l’io

Persona (1966) di Ingmar Bergman, con protagoniste Bibi Andersson e Liv Ullmann, è una delle opere più profondamente sperimentali della produzione dell’autore svedese.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – incassò circa 90 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Persona?

Elisabeth Vogler è un’attrice che ha smesso improvvisamente di parlare. In compagnia della piuttosto loquace Alma, passa diversi giorni in una casa sul mare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Persona?

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Per quanto rispetto ai suoi precedenti prodotti – nello specifico Il settimo sigillo (1957) – Persona manchi totalmente dell’elemento ironico, non manca della regia precisa ed elegante che caratterizza ogni film di Bergman.

In questo caso il regista si imbarca in un progetto incredibilmente sperimentale, impreziosito da una simbologia piuttosto complessa e intraprendente, che ragiona sui temi dell’io, della famiglia e della nascita.

Insomma, da non perdere.

Idolatria

La sequenza del figlio raccoglie in realtà una delle tematiche più viscerali della filmografia di Bergman.

La ricerca di Dio.

In nuce, la totale mancanza di identità sia del personaggio che dell’ambiente che lo circonda, eppure la ricerca quasi idolatrica dell’immagine divina – la Madre, la Creatrice – non allontana questo bambino dallo struggimento dal protagonista della sua opera più famosa: Antonius Block.

Un tema che ben si incasella nell’identità stessa del film, nella sua ricerca dell’io e dell’autodefinizione, in questo caso ricercata in una figura sempre più profondamente incomunicante: la madre.

Una scena tanto più dolorosa quando si arriva all’atto finale, alla rivelazione di questa maternità non voluta, eppure presente e ineluttabile, che porta Elisabeth ad essere, proprio come Dio, totalmente assente dalla vita del figlio.

Persona

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Elisabeth non è più una persona.

Sul palco, proprio quando era nei panni di un’eroina tragica, la protagonista si dissocia prima dal suo personaggio – la dramatis persona – con un’azione del tutto fuori contesto – la risata – poi da sé stessa, calando in un intenzionale mutismo.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

In questa afasia programmatica Elisabeth è passata dall’essere un’attrice, un personaggio del mondo, ad una osservatrice dello stesso, intenta a studiare un’altra figura piuttosto attraente: Alma.

Con la sua condizione, la protagonista diventa infatti l’ascoltatrice perfetta per i profondi drammi interiori della sua compagna, la quale, proprio nell’essere così libera e aperta nel parlare, svela anche l’insvelabile.

Ma già nelle sue parole la dinamica del suo rapporto con Elisabeth è lampante.

Divorare

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

La donna si dilunga nel raccontare esperienze sessuali travolgenti, andando a mettere l’accento proprio sull’atto penetrativo, di apertura e fusione dei corpi ripetuta e ricercata, che racconta indirettamente la stessa dinamica in atto con Elisabeth.

Si accenna anche al tema della maternità, intesa in questo frangente come nascita di un corpo da un altro, proprio in scene in cui le due donne sembrano non solo sovrapporsi, ma proprio unirsi per creare una creatura nuova di zecca.

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infatti, Elisabeth vuole divorare Alma.

La progressiva sovrapposizione delle loro identità è raccontata già solo dalle splendide e simmetriche inquadrature di Bergman, in cui spesso i visi si sovrappongono, si tagliano, si annullano l’un l’altro.

Emblematico anche il primario utilizzo del bianco, come se entrambe le protagoniste fossero personaggi ancora da scrivere: in particolare Alma sembra uno spettro, che splende nella notte col volto pallido, oscurato solo dal corpo della stessa compagna.

Tradimento

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Il tradimento di Elisabeth ha due significati.

Ad un livello strettamente narrativo, rappresenta il risveglio dal sogno.

Leggendo la cinica e analitica lettera di quella che credeva ormai essere diventata la sua confidente – e potenziale amante? – Alma si risveglia improvvisamente dal torpore onirico con cui si era lasciata sedurre.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Questo svelamento si inserisce anche nel contesto simbolico della narrazione, in cui Alma è come se vedesse sé stessa – o quella parte di sé stessa che non voleva vedere – scritta su un foglio come il personaggio di una storia.

Al contempo, comprende la natura divorante di Elisabeth – che non a caso comincia a vestire di nero, il colore che assorbe tutti gli altri – e di come per lei sia solo uno strumento per riavvicinarsi al suo io.

Identità

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergmanv

Gli ultimi momenti della pellicola rappresentano la definizione.

Alma, proprio quando si accorge sempre di più di star perdendo la sua identità, facendola invece coincidere con quella di Elisabeth, esce dal personaggio e torna in un’altra veste: l’infermiera curante della protagonista.

E proprio in questa parte, ripaga la donna con la sua stessa moneta: prima la definisce malignamente con le più drammatiche e oscure verità del suo essere, poi la attrae e, quando questa cerca ancora di nutrirsi di un io che non è il suo, la punisce fisicamente.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infine, avviene l’annullamento.

Rivediamo Alma curare Elisabeth in un contesto nuovamente dominato dal candore del bianco, che in questa sequenza rappresenta il nulla, secondo le stesse parole che l’infermiera fa ripetere alla paziente, in un’azione definitivamente spersonalizzante.

A questo si aggiunge l’accenno metanarrativo: le due donne fanno i bagagli e disfano la scena, che appare ora come un palcoscenico, un set di uno spettacolo che era in corso e che ora si è concluso…

…con l’ultima inquadratura che chiude sul figlio di Elisabeth ancora alla ricerca di un personaggio che, forse, non è mai esistito.