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The Holdovers – Il club dei soli

The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.

A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior sceneggiatura originale
Migliore attore protagonista a Paul Giamatti
Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph
Miglior montaggio

Di cosa parla The Holdovers?

Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Holdovers?

Dominic Sessa e Paul Giamatti in una scena di The Holdovers (2023) di Alexander Payne

Assolutamente sì.

The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…

Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente (1989).

Insomma, da non perdere.

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2021 Avventura Dramma familiare Drammatico Film i miei film preferiti

Il potere del cane – Storia di un uomo fragile

Il potere del cane (2021) di Jane Campion è stato uno dei protagonisti della stagione degli Oscar 2022, pur venendo sistematicamente derubato proprio in quell’occasione…

Il film ha ricevuto una distribuzione limitata nelle sale, con un incasso stimato di circa 270 mila dollari, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Di cosa parla Il potere del cane?

1925, Stati Uniti. Rose è disperata dopo la perdita del marito, dovendo gestire da sola un ristorante e con un figlio da crescere. Ma una novità sta per bussare alla sua porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il potere del cane?

Assolutamente sì.

Purtroppo sono estremamente di parte, perché Il potere del cane è uno dei miei film preferiti in assoluto.

Jane Champion confeziona un’opera di una rara eleganza registica e di scrittura, intrecciando una trama enigmatica e complessa, eppure chiarissima da leggere una volta compresi i simboli principali interni alla narrazione.

Una riflessione ambientata in un passato molto oscuro e lontano, ma nondimeno estremamente vicino al presente per molte delle sue dinamiche, in una pellicola che, pur in maniera diversa, presenta una riflessione sulla fragilità del maschile simile a Men (2022).

Insomma, da non perdere.

Opposto

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il primo atto è tanto oscuro quanto diretto.

Si definiscono immediatamente gli opposti – Phil e Peter – nonostante inizialmente il giovanissimo figlio di Rose appaia come personaggio di contorno: il ragazzo sulle prime sembra delicato, fragile, proprio come i fiori di carta che usa per decorare la tavola.

Tuttavia, nonostante Phil cerchi immediatamente di derubricare i suddetti fiori all’identità del personaggio – un maschile femmineo e, per questo, deplorevole – in realtà gli stessi raccontano i tentativi di cura di Peter nei confronti della madre, proprio cercando di abbellire quel mondo sporco e selvaggio in cui sono costretti a vivere.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma proprio nei fiori Phil ricerca la sua definizione.

Il suo atteggiamento al riguardo rappresenta il rapporto del personaggio con quello che considera debole – e, spesso, anche femminile: Phil si impadronisce dei fiori, passa il dito all’interno del bocciolo come se fosse una vagina e, infine, li distrugge.

Parallelamente l’uomo addita insistentemente il vero autore del centrotavola, proprio per delineare la fondamentale distanza fra i due: da una parte l’uomo forte e selvaggio – Phil – dall’altra il ragazzino effeminato e fragile – Peter.

Fragile

Benedict Cumberbatch e Jessi Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Il rapporto fra Phil e George si può leggere in due direzioni.

Phil si comporta col fratello in parte con lo stesso atteggiamento che aveva nei confronti di Peter: cerca continuamente di sminuirlo – soprattutto all’inizio lo chiama sempre fatso, grassone – ma, al contempo, anche di avvicinarlo a lui.

Innumerevoli sono infatti i tentativi di riportare la memoria – e il presente – ad un’epoca più felice, più semplice, con dei ruoli di genere molto chiari e stringenti – particolarmente spicca la battuta riguardo alla donna che non si poteva scopare se non aveva un sacchetto in testa.

Jessie Plemons in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma George non ci sta.

Il più delle volte risponde al fratello e alle sue provocazioni con un disinteressato silenzio, scegliendo piuttosto di parlargli per condurlo verso un mondo più civile e contemporaneo, con un atteggiamento piuttosto sereno, ma nondimeno ammonitore.

Anzi, George in più momenti cerca proprio apertamente di insidiare il comportamento distruttivo del fratello: proprio in quest’occasione, Phil dimostra tutta la sua fragilità, particolarmente quando non riesce poi ad essere così gradasso quando il fratello lo ammonisce, dicendogli che ha fatto piangere Rose.

Tramonto

In generale, Phil rappresenta evidentemente un mondo ormai sulla via del tramonto: il mondo dei cowboy, dell’avventura, della vita semplice e materiale, in cui la definizione del vero maschile era incredibilmente semplice ed immediata.

E infatti il suo modo di vestire è l’ultimo baluardo di quell’età d’oro perduta: il suo personaggio predilige un abbigliamento pratico, che non si orna che di pochi vezzi, la cui usura e sporcizia sottolineano ancora di più il suo lato più selvaggio e indomabile – o presunto tale.

Jessie Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Al contrario George, pur andando a cavallo e lavorando all’interno di un contesto rurale, sceglie un abbigliamento molto più elegante e borghese, più urbano, in un contesto storico in cui la modernità rampante stava sempre più strozzando il sogno del far west.

E proprio per questo sceglie di accogliere in questo mondo anche Rose, nella quale trova un’affinità di spirito, mostrandogli un’inedita gentilezza e cura, scegliendo fra l’altro di agire alle spalle del fratello, sfuggendo al suo insostenibile giudizio.

Integrazione

Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma Rose non ha la stessa forza d’animo.

La donna viene insidiata da più parti: anzitutto da Phil, che la disprezza apertamente, che la chiama cheap schemer squallida calcolatrice – e che respinge i suoi tentativi di avvicinamento, di fatto bullizzandola.

L’uomo trova infatti in questa donna così fragile la preda perfetta della sua meschinità, da cui la vedova è incapace di difendersi, in particolare nella splendida scena del pianoforte, in cui subdolamente Phil risponde alle sue note incerte con la sicura melodia del suo banjo.

Jessi Plemons e Kirsten Dust in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma, al contempo, Rose non riesce neanche ad integrarsi nel mondo del marito.

Nonostante infatti George cerchi più volte di spingerla – in maniera a tratti quasi assillante – a mostrare il meglio di sé e a diventare la moglie perfetta, Rose respinge più volte e timidamente questi tentativi, particolarmente con la già citata dinamica del pianoforte.

Al punto che, alla cena col governatore e i suoceri, nonostante sia stata tirata a lucido, appare fuori posto sia nel momento in cui servono i drink – rimanendo con in mano il vassoio come una squallida cameriera – sia quando è così insicura da non riuscire a suonare alcunché.

Apparenza

Quando Peter arriva al ranch, sembra essere la nuova preda di Phil.

In realtà fin da subito intravediamo le prime crepe in quell’apparenza del giovane introverso e fragile, in particolare per la dinamica del coniglio: sulle prime sembra che Peter lo catturi per voler far divertire la madre…

…in realtà bastano poche scene per mostrare come il vero interesse del ragazzo per quell’animale fosse di studiarne le interiora, capire cosa nasconde veramente dentro di sé, fra l’altro in maniera brutalmente asettica.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E, proprio come il coniglio, Peter osserva Phil.

Infatti, nella sua apparente timidezza, il giovane nasconde in realtà la sua vera natura da osservatore e macchinatore: assiste prima con amarezza alla condizione ormai delirante della madre, per poi intrufolarsi nel cuore di Phil.

Così scopre le riviste pornografiche omosessuali che l’uomo nasconde, scopre il suo rifugio segreto dove veramente il personaggio si mette a nudo, l’unico luogo dove veramente può ripensare al suo rapporto indubbiamente sessuale col compianto Bronco Henry.

Questa rivelazione sembra così alterare gli equilibri.

Corda

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per la definizione del rapporto fra Phil e Peter, la corda è l’elemento chiave.

La cima sulle prime rappresenta la minaccia subdola nei confronti del ragazzo: nel loro enigmatico dialogo, Phil sembra giocare con la sua preda, senza attaccarla direttamente, ma facendole intendere di star meditando il modo in cui eliminarla.

In realtà è lo stesso Peter che sta giocando con lui: dopo essersi reso protagonista di una piccola passerella per farsi vedere dal resto del gruppo nella sua apparente fragilità, il ragazzo si avvicina a Phil e comincia a compiacerlo in maniera particolarmente subdola.

Benedict Cumberbatch in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, sulle prime gli mostra un rispetto artificioso e irreale, con un tipo di atteggiamento ossequioso del tutto estraneo ai modi rozzi di Phil, non cedendo subito alla richiesta di chiamarlo per nome, ma invece insistendo con questo cerimoniale il tanto che basta da fargli credere di essere totalmente ingenuo ed incapace.

Poi, al momento giusto, comincia invece a cedere ed accettare di chiamarlo Phil, riuscendo così a compiacerlo, facendogli credere di avergli insegnato qualcosa e di aver fatto un passo in più verso il suo mondo.

In questo senso, l’intreccio della corda rappresenta anche l’intreccio del rapporto.

Caccia

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Per comprendere il finale, sono due i momenti fondamentali.

Il primo è quando Phil e Peter vanno a fare una cavalcata insieme, e l’uomo lo coinvolge in questo gioco infantile e lugubre dello stanare il coniglio, quasi come se volesse metterlo alla prova.

Proprio in quell’occasione, Peter racconta tutto della sua personalità e delle sue intenzioni, senza che Phil se ne renda conto: prima afferra il coniglio e lo rassicura, poi, con un colpo secco, gli spezza il collo.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Quel coniglio, con la zampa ferita, è esattamente la rappresentazione di Phil che si è ferito la mano, ma che è talmente rozzo e disattento da scegliere di non curarla adeguatamente, lasciando aperto il fianco all’attacco di Peter.

E così, nonostante il ragazzo gli dica anche esplicitamente di essere ben meno fragile di quanto sembri – sia per aver gestito da solo la morte del padre, sia ricordando le parole dello stesso genitore Phil continua superficialmente a non vedere.

Ruolo

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Peter sta ricreando il sogno di Phil.

Prima osserva attentamente l’atteggiamento dell’uomo, ne assorbe i racconti e i significati, e, soprattutto, capisce quello che nessun altro è riuscito prima a capire, a vedere: l’ombra feroce del cane sulle colline.

Un’ombra che può essere letta in due direzioni: il comportamento di Phil, che si nasconde dietro ad un’apparenza fragile e vorace, e il passato di Bronco Henry che l’uomo porta sempre con sé, ma con un significato che non vuole che nessun altro conosca.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

E così, quando Peter riesce a vedere quell’ombra che era solo negli occhi di Phil, l’uomo diventa definitivamente la preda della sua macchinazione.

In questo senso, Peter opera per ricreare le condizioni del rapporto con Bronco, in cui prende il ruolo che un tempo era stato del giovane Phil – non a caso lo stesso gli dice che al tempo aveva la sua stessa età – mentre l’uomo diventa il compianto maestro.

Cacciatore

Da bravo cacciatore, Peter deve procurarsi un’arma.

Dall’osservazione di Phil, gli salta subito all’occhio come, nella sua disattenzione, si rifiuti di utilizzare i guanti quando tocca gli animali – si vede in particolare quando castra il toro a mani nude – una scelta particolarmente pericolosa con una profonda ferita sulla mano…

Così, dopo essersi informato sulla causa più comune della morte del bestiame – l’antrace, una malattia infettiva degli animali, che può essere anche trasmessa all’uomo – si avventura per ricercare le carcasse di uno dei bovini infetti.

Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Ma un cacciatore deve soprattutto cogliere le occasioni.

In questo senso Rose finisce inconsapevolmente per offrire a suo figlio la chiave per la sua stessa salvezza, regalando le tanto amate pelli di Phil agli indiani, rendendo in questo modo l’uomo furioso ed isterico, e, per questo, ancora più manipolabile.

Così Peter si inserisce abilmente in questa situazione, prima ricercando il primo vero contatto fisico con Phil, poi proponendogli un’alternativa – le pelli che ha tagliato per lui – che sancisca il definitivo stringimento del loro rapporto.

Morte

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Negli ultimi momenti de Il potere del cane, la corda si arricchisce di significati.

Per Phil ormai la stessa non è più simbolo della morte di Peter, come era nelle sue intenzioni iniziali, ma piuttosto del suggello del loro rapporto, inevitabile nel momento in cui il ragazzo sembra rivelare i suoi veri sentimenti – voglio diventare come te.

Così segue una scena notturna, in cui probabilmente il loro rapporto finalmente si consuma sessualmente, con un Peter piuttosto lusinghiero e ammiccante, che distrarre Phil mentre lo stesso sta fabbricando il suo cappio.

Benedict Cumberbatch e Kodi Smit-McPhee in una scena de Il potere del cane (2021) di Jane Champion

Infatti, una rapida inquadratura sulle mani di Phil immerse nell’acqua rivela come l’uomo stia armeggiando con delle pelli infette quando ancora la ferita della sua mano è aperta e addirittura perde sangue…

Così giorno seguente si apre con un Phil ormai totalmente sconfitto, preda della sua malattia, che veste per la prima volta abiti borghesi – gli stessi che indosserà nella sua bara – e che cerca disperatamente Peter per dargli la corda, simbolo del loro rapporto.

E così finalmente il nemico è stato sconfitto: Phil, il cane, è sottoterra, la corda è riposta sotto al letto, Rose potrà vivere una vita più serena ed integrarsi nella buona società, con un Peter che osserva felicemente dalla finestra della sua stanza la ritrovata felicità della madre.

Il potere del cane significato

Il titolo del film fa riferimento ad un passo dei Salmi:

Erue a framea animam meam et de manu canis unicam meam

Salmi, 22,20

La prima parte nella Vulgata Latina è piuttosto intuitiva: Sottrai Eruela mia animaanimam meam dalla spada a framea.

Più complessa invece la seconda parte, in particolare nel significato di unicam meam: letteralmente significa la mia unica, e può far riferimento sia all’anima – l’unica che ho – sia ad un affetto – l’unica donna, affetto, amore che ho.

Immediato invece il significato del passo fondamentale: de manu canis, ovvero dal potere mănŭs ha una marea di significati, da azione fino, appunto a potere e violenzadel cane.

Tuttavia, Jane Champion fa indubbiamente riferimento alla traduzione in inglese del passo – anche citata nel film – che prende una strada interpretativa ben precisa:

Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog.

Salmi, 22,20

In questo senso quindi si intende che Peter vuole liberare my darling, ovvero la sua amata e cara madre dal potere del cane, che nella visione biblica rappresenta le pulsioni irrefrenabili dell’animo, proprie di un animale che al tempo era considerato sporco, caotico ed imprevedibile.

Quel cane è infatti proprio Phil stesso, che applica la sua forza, il suo potere prevaricatore su Rose per annientarla – e, senza l’intervento di Peter, ce l’avrebbe anche fatta – con il suo atteggiamento violento e caotico.

Ma, all’opposto, l’uomo viene sconfitto non tramite la stessa forza subdola che lui è solito applicare, ma piuttosto diventando vittima del sottile inganno psicologico di Peter, che lo rende sempre più debole e incapace di difendersi e che, infine, ne determina la morte.

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Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Ingmar Bergman

La fontana della vergine – L’occhio complice

La fontana della vergine (1960) rappresentò il ritorno di Ingrid Bergman all’ambientazione medievale, dopo il poco precedente Il settimo sigillo (1957).

A fronte di un budget sconosciuto, incassò 700 mila dollari nei soli Stati Uniti.

Di cosa parla La fontana della vergine?

Nel contesto della Svezia medievale, il fattore Christian Per Töre manda la giovane figlia Karin a consegnare le candele per la celebrazione della messa. Ma la strada è piena di pericoli…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La fontana della vergine?

Dipende.

Per quanto La fontana della vergine sia un film splendidamente diretto e ottimamente scritto, è anche un prodotto che parla di una tematica piuttosto impegnativa – la violenza sessuale – all’interno di un mondo crudele e violento, senza lasciare nulla all’immaginazione…

Infatti, anche se la regia elegantissima di Bergman incornicia perfettamente i suoi personaggi e non scade mai nella violenza quasi pornografica di altri film con tematiche analoghe, nondimeno la profonda tragicità delle scene trasmette un’angoscia piuttosto intensa…

Insomma, vi ho avvisato.

Selvaggia

A primo impatto ne La fontana della vergine sembrano esserci due modelli femminili completamente opposti.

Il primo è Ingeri, la principale protagonista del primo atto, talmente ribelle da essere più vicina alla cultura pagana – prega Odino – che a quella cristiana – tipica invece degli altri personaggi.

Ad una visione più superficiale la sua figura appare radicalmente anarchica, sprezzante delle regole e delle buone maniere, tanto che il suo aspetto disordinato e i suoi atteggiamenti selvaggi non sembrano altro che un’estensione della sua personalità.

Ma il personaggio in realtà si definisce nella sua drammaticità.

La sua personalità rappresenta in una certa misura un foreshadowing del destino di Karin: prima una ragazza con un aspetto ordinato e verginale, poi, a seguito della violenza, una donna disperata, scostumata e molto più simile appunto alla sua compagna.

Infatti la personalità così dirompente di Ingeri è dovuta anche e sopratutto all’esperienza traumatica che ha vissuto, di cui sente in ogni momento il peso, cercando al contempo di mettere in guardia l’ingenua Karin da un destino che però sembra inevitabile.

Ingenua

La verginità di Karin va molto oltre la sua esperienza sessuale.

La ragazza è vergine sopratutto perché non è mai stata toccata dalle brutture del mondo violento in cui vive, con un’esistenza protetta e coccolata fra le braccia dei genitori, che persino si sfidano per averne il favore.

Karin è quindi una giovane donna più simile ad una bambina, al punto da essere quasi capricciosa, totalmente ingenua davanti alle dinamiche dello stupro di Ingeri, liquidandolo con affermazioni piuttosto sempliciotte su come lei, al suo posto, sarebbe stata capace di difendersi.

Così la sua ingenuità è anche la sua rovina.

Vivendo di una totale idealizzazione del mondo esterno, Karin percepisce la colazione sul prato con i pastori come un quadretto bucolico sotto il segno della cristianità, nonostante lei sia l’unico personaggio del gruppo che rientra in questo ideale.

Al contrario, gli uomini fin da subito si muovono come bestie, addocchiandola da lontano e puntandola come dei lupi affamati, per poi cominciare ad avvicinarsi sempre di più al suo corpo, provocando così il primo vero senso di inquietudine e pericolo nella ragazza…

Ma il paesaggio è già di per sé eloquente.

Sporca

Il paesaggio alle spalle dei protagonisti dovrebbe essere semplice e pulito…

…e invece è sporco e ostile.

Karin cerca di ricreare un quadretto ideale sul prato, ma la presenza ingombrante dei rovi alle sue spalle continua a sporcare la scena, rendendola ben più drammatica, più grottesca e molto meno accogliente ed invitante di quanto lei vorrebbe.

Allo stesso modo la dinamica dello stupro e del conseguente omicidio è improvvisata e disordinata, con i due uomini, le due bestie che si gettano contemporaneamente sulla loro preda, in una scena drammaticamente realistica quando estremamente elegante nella regia.

Così il quadro della sua morte ribadisce il contrasto fra la sua figura martirica, bianca e innocente, incorniciata nel paesaggio aspro e ostile dei rovi, che in un certo senso anticipa la dinamica della vendetta del padre.

E così persino una figura apparentemente innocente come quella del bambino non basta per risolvere il contrasto: prova a cibarsi del cibo abbandonato di Karin, ma lo rigetta, e così cerca di seppellirla, ma finisce solo per sporcarla ulteriormente.

Osservatrice

La drammaticità di Ingiri è la sua impotenza.

Dopo aver già vissuto il suo dramma fuori scena, la donna, al contrario della compagna, è piuttosto consapevole dell’orrore del mondo esterno, e per questo riesce effettivamente a sottrarsi ad un’ulteriore violenza.

Ma non può evitare quella di Karin.

Pur con tutti i suoi tentativi di salvarla, la donna non riesce ad impedire alla giovane di vivere il suo stesso dramma, di cadere inconsapevole nella trappola che i pastori hanno ordito per lei, per approfittarsi della sua innocenza.

E neanche riesce ad intervenire, rimanendo per tutto il tempo impotentemente ai margini della scena, pur avendo in pugno l’arma – il sasso – con cui, pur rispondendo alla violenza con altra violenza, avrebbe almeno salvato una vita.

Vendetta

Il padre, Töre, è l’assoluto protagonista del terzo atto.

In prima battuta la pellicola racconta per lunghi tratti la sua personalità saggia e generosa, tanto da invitare alla sua tavola persino il terzetto di buzzurri, e, nonostante il bambino deturpi la stessa, accoglierlo comunque nelle cure della moglie.

La prova della violenza avvenuta avviene inconsapevolmente con un oggetto della scena – l’abito sottratto a Karin – che viene drammaticamente offerto alle braccia tremanti della madre, che lo passa immediatamente al marito, che diventerà l’autore della vendetta.

La vendetta è lenta e meditata, derivata dal contrasto interno all’animo di Töre.

Infatti, da buon cristiano, l’uomo dovrebbe abbracciare l’ideale della pietà cristiana e perdonare gli assassini e violentatori della figlia.

Invece, Töre sceglie di perseguire un rito squisitamente pagano di vendetta, prima flagellandosi – o sferzandosi, a seconda della lettura – per poi avventarsi con dolore e rimorso sui pastori che poco prima aveva accolto nella sua casa.

Un atto terribile e imperdonabile, con una furia quasi incerta, ma al contempo radicalmente selvaggia, che si abbatte persino su un innocente come il bambino, che finisce comunque per essere punito per il delitto dei suoi parenti.

Redenzione

Alla vendetta segue la redenzione, che si articola in due personaggi.

La redenzione di Töre è definita sopratutto da un suo riappacificarsi con Dio, per essere perdonato dalla violenza terribile che ha usato verso i suoi ospiti, mostrandosi incapaci di perdonarli come forse la cristianità avrebbe voluto.

Un ricongiungimento tanto più doloroso, quanto l’uomo deve accettare che il suo dio è rimasto indifferente davanti alla violenza della figlia, diventandone quasi complice, in una dinamica di profondo struggimento che ricorda molto un altro personaggio di Max von Sydon, Antonius Block in Il settimo sigillo.

La redenzione di Ingiri è invece dovuta alla sua impotenza.

La donna soffre per non essere stata capace di salvare la sua compagna, avendola osservata mentre veniva inevitabilmente violata e uccisa, mantenendo dentro il suo animo un terribile segreto che viene in prima battuta quasi assolto dall’atteggiamento benevolo di Töre.

Ma la vera redenzione proviene in qualche modo da Karin, dalla cui morte sgorga una fonte, una fontana benefica attraverso la quale la donna può depurarsi – secondo il doppio significato di kalla nel titolo Jungfrukällan, che significa sia fonte che primavera, quindi giovinezza e verginità.

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Jojo Rabbit – Una risata vi seppellirà

Jojo Rabbit (2019) è probabilmente il film più iconico e amato della filmografia di Taika Waititi.

A fronte di un budget di appena 14 milioni di dollari, fu un ottimo successo commerciale, con 90 milioni di incasso.

Di cosa parla Jojo Rabbit?

Germania, 1945. Jojo è un ragazzino di appena 10 anni che sta per entrare nella gioventù hitleriana. E il suo amico immaginario è tutto un programma…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jojo Rabbit?

Assolutamente sì.

Jojo Rabbit è stata una ventata di freschezza nella trattazione di un tema piuttosto impegnativo – l’olocausto – da parte di un regista di origine ebraica che ha scelto di rispondere forse nella maniera migliore possibile al mito di uno dei più crudeli dittatori della storia umana:

con una risata.

Così, pur senza mancare di pennellate piuttosto drammatiche, Jojo Rabbit è una splendida satira sociale che deride in maniera brillante una parentesi storica per certi tratti ancora piuttosto incomprensibile, svelandone la grottesca assurdità.

Coniglio

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Jojo è figlio del nazismo.

Una pagina bianca che è stata scritta fin dalla più tenera età da una spietata mitologia che raccoglieva gli umori disillusi di una Germania spezzata dal primo conflitto mondiale, e li orientava verso un nemico semplice, immediato, e facilmente demonizzabile.

Un’occasione anche per permettere di sfogare una certa violenza sopita, ma piuttosto spietata, che nel contesto nazista veniva anzi incoraggiata al fine di portare alla vittoria sia della razza ariana, sia, più in generale, di un intero paese bramoso di dominare finalmente il mondo.

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

In questo contesto, Jojo è una flebile speranza.

Nonostante il bambino sia stato allevato per la guerra, si atteggia solamente a parole come un fedele soldato, dicendo anzi di adorare l’idea di uccidere, ma ritrovandosi del tutto incapace alla prova dei fatti, quando non riesce a togliere la vita neanche ad un animale – figurarsi ad un altro essere umano…

E così, volendo essere reintegrato nella sua comunità, lancia in prima linea per dimostrare il suo valore, regalandosi in realtà la più grande conquista a cui un cittadino europeo poteva ambire in quel momento storico: diventare sostanzialmente un invalido, non potendo così essere ulteriore carne da macello nel campo di battaglia.

Padre

Roman Griffin Davis e Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Hitler è una figura paterna.

Nella mente di Jojo il dittatore tedesco è comico e paradossale – anche nell’aspetto, soprattutto per quegli occhioni blu – e nello stesso Jojo ritrova quel padre ormai assente da tanti anni, ma che, a differenza del suo vero genitore, lo incoraggia amorevolmente ad unirsi al club dei nazisti.

Ma la bellezza di questo Hitler immaginario è proprio il definire l’evoluzione del protagonista e la sua graduale presa di coscienza verso la verità sul nazismo, diventando gradualmente sempre più simile alla figura storia e meno al migliore amico dei sogni.

Roman Griffin Davis e Scalett Johansson in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

A questa figura si contrappone Rosie, la madre, che per nulla si integra nel modello di donna ariana sognato del nazismo, ma anzi è una donna amorevole quanto determinata, nonché profondamente ribelle, anche se quasi arresa davanti al pensiero radicale del figlio.

Infatti il suo personaggio cerca solo timidamente di far cambiare idea a Jojo, consapevole di come questo comportamento sia solo una fase dovuta al periodo storico sbagliato in cui è nato e, al contempo, alla mancanza di una figura paterna.

Adulto

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Elsa è fondamentale per la maturazione di Jojo.

La splendida sequenza introduttiva del suo personaggio in chiave horror ricalca proprio il pensiero deviato del protagonista – e di molti altri tedeschi – nei confronti di questi esseri mostruosi e sempre più incomprensibili, di cui Jojo sulle prime ha genuinamente paura.

Roman Griffin Davis e Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Tuttavia, la scelta di non denunciare la presenza della ragazza in casa sua è la prima decisione matura del protagonista, che preferisce infine proteggere la sua famiglia piuttosto che essere effettivamente fedele ad Hitler, cominciando così la sua maturazione.

Così i primi contatti pacifici fra Jojo e Elsa sono i numerosi e divertenti scambi riguardo alla vera natura del popolo ebraico, in occasione dei quali il protagonista cerca di sembrare adulto e severo, facendosi in realtà facilmente deridere dalla ragazza e dal suo assurdo racconto.

Sorella

Thomasin McKenzie in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Rosie cerca in più momenti di trasmettere al figlio sentimenti più gentili e estranei alla propaganda nazista…

…a cui Jojo in realtà arriva in autonomia.

La dinamica intorno alla dispettosa lettera di rottura di Nathan è infatti solo l’ulteriore dimostrazione di quanto questo ragazzino sia un animo gentile e ancora non veramente corrotto, proprio dimostrando di pentirsi immediatamente per aver ferito persino un’ebrea come Elsa.

Così fra i due comincia ad intrecciarsi una sorta di gioco delle parti, prima con le finte lettere di Nathan – con cui indirettamente Jojo esprime i suoi sentimenti per la ragazza – poi con Elsa che prende progressivamente il posto della sorella perduta.

Il picco drammatico in questo senso è la splendida scena dell’ispezione a sorpresa della Gestapo, che alterna momenti genuinamente comici – la gag del Hail Hitler! – a sequenze di profonda tensione, soprattutto quando, con grande coraggio, Elsa si traveste da ragazza ariana per non farsi scoprire.

Ma questa scena è soprattutto rivelatoria per un altro personaggio.

Alleato

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Lo strambo Capitano Klenzendorf è il più grande alleato di Jojo.

L’uomo, al pari della madre, è un emarginato nascosto all’interno del nazismo, un personaggio che svela progressivamente la sua vera identità tramite una serie di indizi sempre più importanti, apparendo infine del tutto lontano dalla figura del militare indottrinato che pareva inizialmente.

La pellicola fa infatti intendere che in realtà il capitano sia un personaggio queer, e che abbia con ogni probabilità una relazione con il fidato Freddy Finkel – non a caso, i due sono quasi sempre in scena. insieme.

Sam Rockwell in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Ma, soprattutto, l’uomo è alleato di Jojo perché cerca costantemente di proteggerlo.

La bici di Rosie che si porta dietro quando arriva durante l’ispezione, insieme alla raccomandazione al bambino di restare a casa, ci racconta in maniera piuttosto eloquente come non solo il capitano fosse stato testimone dell’impiccagione della madre di Jojo, ma come probabilmente sapesse anche di Elsa.

Ma ancora più importante è il momento in cui il suo personaggio salva Jojo dalla sicura morte, in un momento di isteria di fine guerra in cui gli Alleati – rappresentati sorprendentemente in maniera non troppo benevolente – avrebbero giustiziato persino un bambino solo perché indossava i simboli del nemico.

Nemico

Taika Waititi in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Negli ultimi momenti della pellicola Jojo è disperso.

Per questo si concede un’ulteriore cattiveria nei confronti di Elsa.

Infatti, dopo la tragedia della morte della madre – nella toccante quanto brillantemente diretta scena delle scarpe – il protagonista vive un’ulteriore angoscia: la possibilità che ora, finita la guerra e la persecuzione antisemita, persino Elsa, la sua neoacquisita sorella maggiore, lo lasci solo.

Jojo quindi si perde in un vagare disperato fra le rovine, accompagnato da una graduale consapevolezza della vacuità del nazismo e della guerra stessa…

…a partire da quella splendida uniforme di carta che rappresentava il successo dell’amico Yorki, ma che invece alla fine, proprio come i giovani soldati che tornano abbattuti dalla trincea, racconta tutta la fragilità e la vacuità della propaganda bellica.

Roman Griffin Davis in una scena di Jojo Rabbit (2019) di Taika Waititi

Infine, la scoperta della morte del suo mito rappresenta la definitiva presa di coscienza di Jojo, che vede finalmente Hitler per quello che veramente era – un fanatico dittatore – e di cui decide finalmente di liberarsi con una puntuale defenestrazione.

La chiusura del film racconta infine quanto il protagonista sia cambiato in così poco tempo, accettando l’altro grande insegnamento della madre: il ballo che celebra la ritrovata libertà e lo sguardo verso un futuro più promettente.

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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Salvate il soldato Ryan – La guerra delle lacrime

Salvate il soldato Ryan (1998) è una delle opere più note della filmografia di Steven Spielberg, che gli valse il secondo Oscar per la regia.

A fronte di un budget medio – 70 milioni di dollari – fu un grandissimo successo commerciale, con 481 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Salvate il soldato Ryan?

La pellicola è una riscrittura piuttosto fantasiosa della vera storia dei Fratelli Niland, concentrandosi sul salvataggio dell’ultimo fratello rimasto.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Salvate il soldato Ryan?

Dipende.

A me personalmente questa pellicola ha profondamente infastidito, in quanto è ubriaca di una mentalità tutta statunitense – la guerra degli eroi, l’idea di star combattendo per liberare il mondo… – che non posso sopportare.

Come se non bastasse, il film manca di una qualsiasi riflessione sul tema.

E, dal momento che in quegli anni uscirono ripensamenti splendidi come La sottile linea rossa (1998) e Vittime di guerra (1989), per quanto mi riguarda è una mancanza difficilmente perdonabile.

Ma se cercate un classico film statunitense sulla guerra, è il prodotto per voi.

Sensazionalismo

La sequenza di combattimento iniziale vorrebbe essere incredibilmente scioccante…

…e per me non è nient’altro che questo.

Questa narrazione così dolorosa e intensa non mi è parsa altro che la rappresentazione di una costante della pellicola: il continuo tentativo di sconvolgere e, soprattutto, di strappare la lacrima facile allo spettatore, sviscerando il più possibile il dolore dei personaggi.

Tuttavia, cos’altro posso trarre da suddetta sequenza?

Un incipit che manca totalmente di un retroterra riflessivo, addirittura di una qualunque introduzione dei personaggi che mi faccia empatizzare con loro, rendendoli delle mere vittime di un bagno di sangue in cui lo spettatore statunitense vede i suoi ragazzi sacrificarsi per la patria comune.

E, anche senza andare a scomodare la ben più efficace scena analoga de La sottile linea rossa, anche solo ricordando il più semplice Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), io in questa scena vedo solamente dei giovani pieni di sogni resi carne da macello per il primo capitolo della virtuosa liberazione del mondo statunitense.

Famiglia

La famiglia è il nucleo emotivo di Salvate il soldato Ryan.

Il senso stesso della storia – ricordiamolo, del tutto inventata – è quello di conservare una famiglia americana che altrimenti sarebbe del tutto distrutta dalla guerra, come una sorta di favore che lo stato concede ad una madre che ha già sacrificato tre figli sull’altare della libertà.

Di fatto la pellicola ingentilisce una legge effettivamente esistente, la Sole Survivor Policy, promulgata a seguito della disastrosa vicenda dei Fratelli Sullivan, e a cui il cappellano Francis Sampson si appellò per far rimpatriare l’ultimo dei fratelli Niland – il soldato James Francis Ryan nel film.

Così il film regala smaccatamente al governo statunitense un merito immeritato, inventandosi una storia poco credibile, unicamente per portare avanti l’idea della bontà dell’operazione bellica, tanto da rendere il Generale Marshall un padre generoso che riporta alla madre l’ultimo dei figli che è riuscito a non mandare al macello.

La famiglia è anche presente nella scena in cui i soldati salvano una bambina dal campo di guerra, momento che ha ben poco significato nell’economia narrativa del film, ma che serve ad aggiungere un ulteriore elemento di emotività in una scena che già di per sé vorrebbe essere piuttosto toccante.

Oltretutto, la madre è richiamata in più momenti della pellicola nelle ultime parole dei vari soldati caduti in combattimento, volendoli proprio rendere il più possibile i figli del pubblico stesso…

… ma mancando ancora una volta di una seria riflessione riguardo alle dinamiche del fronte e dei giovani ingannati da una propaganda pensata unicamente per motivi politici.

E non è neanche la parte peggiore.

Merito

L’elemento a mio parere più genuinamente agghiacciante è il concetto del merito.

Il capitano Miller afferma chiaramente che il salvataggio di Ryan è il suo modo per meritarsi di tornare a casa, come a dire che, senza un sacrificio che determini il valore del singolo, questo non si meriti effettivamente di uscire da questo incubo, questo impegno che si è preso verso la propria patria benevola e verso il mondo intero.

In questa specifica circostanza storica – a differenza degli eventi bellici successivi – risulta in effetti incredibilmente semplice prendersi dei meriti per aver salvato il mondo, soprattutto giocandosi la carta sempreverde della lotta contro il nazismo

…nonostante ridurre le intenzioni statunitensi solamente a quello – soprattutto avendo in mente il come hanno concluso la guerra – è incredibilmente naif.

Così vediamo i soldati venire progressivamente macellati, con una pellicola che tocca solo superficialmente il concetto di umanità che, in determinate circostanze, gli permette di evitare di ammazzare altri uomini solo perché con una divisa di un altro colore, senza mostrare mai l’effettivo dramma del fronte e senza di fatto mai rifletterci con onestà.

E, allo stesso modo, il Capitano Miller è solo l’ultima vittima che muore per Ryan, il quale, in un senso più generale, può essere letto come gli Stati Uniti stessi osservano pensosi i loro morti, chiedendosi infine nelle lacrime, se la loro morte è servita a qualcosa, se si sono meritati questa tragedia umana e se hanno vissuto una vita onesta e che meritava di essere salvata.

Lascio a voi la risposta.

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The Last Duel – La verità

The Last Duel (2021) di Ridley Scott è un dramma storico ambientato nel XIV sec., basato sulla vera storia dell’ultimo Duello di Dio.

A fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – è stato un flop clamoroso al botteghino: appena 30 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla The Last Duel?

Francia, XIV sec. Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono amici e compagni d’armi. Ma una serie di stravolgimenti politici e relazionali metteranno a dura prova il loro rapporto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Last Duel?

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

The Last Duel è una delle opere più ambiziose di Ridley Scott, che riesce a portare in scena con precisione e realismo vicende piuttosto lontane, ma per molti versi anche incredibilmente vicine…

Infatti, il tema centrale è la violenza sessuale e, più in generale, una comparazione più o meno indiretta fra le più classiche dinamiche sessiste che si intersecano nella trattazione del tema, ieri come oggi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Jean The Last Duel

Jean vorrebbe in tutti modi essere l’eroe della storia.

La sua ferocia e intraprendenza viene raccontata fin dalle primissime battute della sua sezione, quando cede all’istinto di vendetta nei confronti del nemico, cadendo così nella sua trappola e perdendo clamorosamente la battaglia.

Nonostante questo, non perde mai la sua boria e supponenza, prima di tutto nei confronti di Robert de Thibouville – il padre di Marguerite – noto traditore della sua patria, rifiutandosi in prima battuta di stringergli la mano e portargli il dovuto rispetto.

Matt Damon e Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma la borsa vale più dell’onore.

Sull’orlo della disgrazia economica, Jean accetta persino di sposare la figlia di un fedifrago, pur di sanare le sue esigue ricchezze, anche solo per riuscire a pagare i nuovi debiti emersi per via suo nuovo padrone, il conte Pierre.

Dal matrimonio in poi comincia una corsa spericolata per ristabilire la sua immagine, del tutto vanificata dalla sua perpetua paranoia e della sua scarsa intelligenza e maturità, che lo rendono accecato dalla rabbia ed incapace di muoversi nella mutata scena politica.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La sua furia è alimentata da due fattori.

Il primo – il più evidente – è la malcelata invidia nei confronti del compagno d’armi e amico Jacques Le Gris, i cui meriti derivano esclusivamente dalla sua capacità di entrare in maniera proficua nelle grazie di Pierre, sfruttando più il potere della penna che della spada.

In questo modo, tuttavia, Jacques rende sempre più isterico Jean, che sente come se l’ex compagno d’armi gli stesse sottraendo sistematicamente i simboli che lo renderebbero un cavaliere onorevole – dai possedimenti alla moglie.

Jean Marguerite The Last Duel

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Il rapporto con Marguerite è l’aspetto su cui più Jean inganna sé stesso e lo spettatore.

Se infatti nella sua visione si racconta come un marito piacente ed affettuoso, che si preoccupa costantemente della felicità della moglie, e che anzi diventa il maggiore artefice della punizione nei confronti di Jacques…

…in realtà nel terzo atto scopriamo come Jean avesse sempre trattato la donna con sufficienza, scegliendola solo per il suo valore economico e per la possibilità di ottenere un erede, la maggior parte delle volte aggredendola ed umiliandola.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Appare in questo senso piuttosto chiaro che il duello con Jacques non abbia niente a che fare con Marguerite.

Ancora una volta, Jean utilizza la moglie unicamente come vettore per i suoi scopi – vendicarsi dei diversi torti subiti dall’ex-amico – al punto che, quando ha infine vinto il duello, è lo stesso re che deve ricordargli della presenza della moglie e del perché – almeno in teoria – ha combattuto.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Insomma, Marguerite non era altro che un bene prezioso da ottenere e conservare con cura, come racconta molto bene il foreshadowing della violenza sessuale, con il cavallo bianco che viene aggredito dallo stallone nero senza che Jean possa farci nulla…

La stessa cavalla, dopo essere stata aggredita, verrà messa sottochiave.

Esattamente come Marguerite.


Jacques The Last Duel

La verità di Jacques è quella che più si avvicina alla verità effettiva.

Nonostante ovviamente le sue sequenze siano filtrate dal suo punto di vista, appare quantomai credibile che il rapporto con Jean si sia guastato non per sua volontà: come detto, l’uomo ha raccolto semplicemente i frutti della sua abilità intellettuale.

Viene infatti mostrato chiaramente come Jacques sia molto di più di un bruto cavaliere, ma anche un intellettuale – non a caso fa parte anche di un ordine clericale minore – capace di sistemare i conti di Pierre e di leggere in latino.

Ben Affleck in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, come Jean ha una relazione distruttiva con il conte, Jacques ne ha invece una costruttiva.

Appena vede l’occasione per mettersi in mostra agli occhi del suo nuovo padrone – soprattutto dopo i fallimenti bellici e dopo le continue difese nei confronti di Jean – Jacques si propone con ardore e veemenza come salvatore dei conti di Pierre.

In questo modo, questo dotto cavaliere riesce a salire con una velocità vertiginosa la scala sociale, diventare così il protetto del conte e poter avere – almeno apparentemente – tutto quello che desidera: il denaro e, soprattutto, le donne.

Adam Driver Ridley Scott

Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma, se la colpa di Jean è la testardaggine e la boria, Jacques è da parte sua ubriaco di una concezione amorosa del tutto deviata.

Infatti, la sua cultura lo rende vittima della tradizione trobadorica – ormai al tramonto – e di quella concezione amorosa tardo-medievale basata principalmente su una visione romantica e idilliaca delle relazioni con le donne.

Oltretutto Jacques si trova immerso in un mondo del tutto ingannevole – quello della corte di Pierre – in cui può avere accesso a tutte le donne che desidera, in particolare all’interno del gioco erotico che le rende solo lievemente restie all’essere violentate.

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Queste due tendenze si incrociano nella figura di Marguerite.

Da quei pochi e sparuti incontri e sorrisi della donna, Jacques costruisce un complesso castello mentale in cui assume il ruolo di liberatore amoroso della donna, quando questa si è limitata ad essere semplicemente gentile nei suoi confronti.

Così, il disperato tentativo di Marguerite di sfuggire dalle sue attenzioni nella sua visione è ammorbidito e reinserito all’interno della suddetta dinamica erotica – l’unica che Jacques concepisce – rendendo la donna solo educatamente restia ad unirsi a lui.

Per questo, Jacques non capirà mai le sue colpe.


Marguerite The Last Duel

La sezione di Marguerite ci rivela molto più di quanto ci aspetteremmo.

Marguerite è una giovane moglie all’apparenza piuttosto mansueta, ma che in realtà cova dentro di sé un certo tipo di ribellione sopita, che emerge proprio quando si sente chiaramente usata come oggetto – sessuale o di scambio.

Così, anche se non detto, la protagonista aveva altre aspettative nei riguardi del suo matrimonio: quando il padre e il futuro marito discutono sulla dote – riducendo la donna a mera quota economica – il suo sguardo guizza alla statua della Madonna – l’emblema della femminilità e del matrimonio.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, la relazione sessuale con Jean fa sbocciare diversi dubbi.

Viziata dalle promesse di una sicura piccola morte – l’orgasmo – Marguerite si trova più volte insoddisfatta degli intercorsi con il marito, ma del tutto incapace di concretizzare questo pensiero, proprio per mancanza di termini di paragone.

Allo stesso modo, il desiderio di maternità continua per molto tempo ad essere un miraggio lontano, forse dettato non tanto dal desiderio di avere un figlio, ma più che altro di ottenere l’unico simbolo che le darebbe valore come donna all’interno della società in cui vive.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Infatti, il suo vero riscatto è quello intellettuale.

In assenza del marito, Marguerite riesce a riprendere in mano la caotica situazione economica della tenuta proprio grazie al suo intelletto – con un parallelismo puntuale fra la sua vicenda e quella di Jacques.

Così la donna si rivela piuttosto abile nel gestire la sua tenuta, proprio dove il marito ha dimostrato più volte di fallire. Ma serve a poco: agli occhi di tutti gli uomini è ridotta al mero ruolo di moglie e madre, e nient’altro.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La relazione con Jacques è piuttosto problematica.

Sarebbe stato molto più semplice per Marguerite raccontare in maniera netta il suo rapporto con il cavaliere, se non avesse avuto dei pensieri intrusivi al riguardo: indubbiamente la donna trova Jacques attraente, forse prova anche una certa attrattiva nei suoi confronti…

Ed infatti tutti questi dubbi le vengono rivoltati contro – in una dinamica drammaticamente attuale – in fase processuale, mettendo pure in dubbio il fatto che non abbia un minimo goduto durante la sua violenza sessuale.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Tuttavia, il suo personaggio è incredibilmente coi piedi per terra.

Tutti i dubbi riguardo a Jacques scompaiono nel momento in cui l’uomo penetra la sua casa con l’inganno, la carica di sentimenti e aspettative che la donna aveva solo lontanamente sfiorato, e, infine, la prende con la forza in una sequenza genuinamente straziante.

E la sua vendetta nei confronti di Jacques non è un tentativo di cercare una rivalsa sociale, ma piuttosto dettata dal desiderio di avere quel minimo di riscatto in una società che cerca invece costantemente di schiacciarla.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Eppure, la stessa Marguerite si dimostra restia a portare avanti la sua denuncia quando scopre che in questo modo la sua vita sarà ancora una volta in mano a quegli stessi uomini che hanno costantemente cercato di violarla, col rischio di essere duramente punita.

Infatti, la vera vittoria di Marguerite non è il trionfo del marito – quella è un successo proprio unicamente di Jean – ma piuttosto il riuscire infine a liberarsi della presenza castrante dell’uomo, e così ritagliarsi una vita tutto sommato felice e, finalmente, libera.

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Hook – Ti ricordi, Peter?

Hook (1991), in Italia conosciuto anche con il sottotitolo Capitan Uncino, è uno dei film per ragazzi più iconici non solo della filmografia di Steven Spielberg, ma in generale di tutta la produzione cinematografica degli Anni Novanta.

Nonostante il buon riscontro commerciale – circa 300 milioni di dollari a fronte di 70 milioni di budget – incassò ben al di sotto delle aspettative, e lo stesso Spielberg si dimostrò insoddisfatto del risultato.

E i motivi non sono difficili da immaginare…

Di cosa parla Hook?

Peter Banning è un avvocato aziendale, del tutto assorbito dal suo lavoro e incapace di passare del tempo con i suoi figli. Ma il passato sta venendo a bussare alla porta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hook?

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

L’insuccesso commerciale di questa pellicola è spiegabile proprio per il tono del film, che si allontana quasi immediatamente dal target infantile, inserendo alcuni elementi non solo poco adatti ad un pubblico di bambini – come la violenza e la morte – ma temi proprio non pensati per loro.

Infatti, Hook è una rilettura intelligente e consapevole della fiaba di Peter Pan, ma il cui protagonista rappresenta non un bambino troppo cresciuto, ma un adulto, un padre che deve riscoprire la meraviglia dell’infanzia e la bellezza del calore familiare.

Insomma, da adulti probabilmente lo apprezzerete di più.

Oblio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nell’incipit di Hook Peter è immerso nell’oblio.

Una caratteristica del protagonista che denota una profonda conoscenza dell’opera letteraria – l’oblio rappresenta l’altro lato dell’infanzia perpetua della sua controparte letteraria – e che permette di mettere in scena un primo atto per molti tratti agrodolce.

Il lato più drammatico è l’incapacità di Peter di rimanere bambino, arrivando fino a disprezzare proprio il concetto di infanzia, in particolare adirandosi davanti ai comportamenti infantili del figlio maggiore, mostrandosi interessato – anzi ossessionato – unicamente alla sua noiosa vita adulta.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Un gustoso paradosso che spesso sfocia anche nella comicità.

Particolarmente spassoso in questo senso il terrore del protagonista all’idea di salire su un aereo – il quale, ad un livello più profondo, racconta la totale perdita di spensieratezza che caratterizzava il vecchio Peter – e che gli permetteva di volare.

Al contempo, il protagonista è circondato dai suoi simboli identitari: oltre alla costante dimenticanza dei nomi dei personaggi che lo circondano, la sua ombra rivelatoria è sempre in agguato, la moglie prende il nome dalla nonna – Moira – col primo apice drammatico nella realizzazione di Wendy:

So Peter you became a pirate!

Peter, sei diventato un pirata!

Rivelazione

La rivelazione di Peter avviene in due parti.

Anzitutto tramite Wendy, che rappresenta una riscrittura piuttosto arguta del personaggio, togliendole il peso di quella maternità piuttosto costrittiva che la caratterizzava nel romanzo, e trasferendolo all’interno di tema più generale e meno opprimente – l’accoglienza degli orfani.

Il suo personaggio è un elemento chiave per un primo riavvicinamento di Peter alla verità sulla sua natura, prima sottilmente nelle diverse punzecchiature, poi più esplicitamente, mostrando direttamente al protagonista quello che è stato.

Ma ancora più fondamentale è l’intervento di Trilli.

Anche nel romanzo la fatina è sempre stata una compagna essenziale nella storia di Peter Pan, nonostante i numerosi contrasti fra i due, ed è emblematico che sia lei stessa a riportarlo nell’Isola che non c’è…

…andando così a risolvere un problema di fondo che altrimenti avrebbe rovinato la narrazione: ricordarsi come si vola è un passaggio fondamentale dell’arco evolutivo del protagonista, e come tale può arrivare solo nell’atto finale.

Annullamento

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

L’Uncino di Dustin Hoffman è un personaggio profondamente drammatico.

Nonostante non si tocchino i toni più tragici del personaggio di Jason Isaacs in Peter Pan (2003), anzi si cerchi in più momenti di ammorbidire la sua figura, il Capitano presenta una personalità malinconica, a tratti persino autodistruttiva.

Infatti, sotto alla patina di umorismo che il film propone, intravediamo un adulto disilluso e avvilito, che si rifugia nell’assurdo desiderio di vendetta nei confronti di Peter Pan – che rappresenta quello non è e che non può essere – nonostante lo stesso non ne abbia più interesse.

Per questo è tanto più interessante quando inconsapevolmente cerca di rubare a Peter il suo sogno.

Tramite una dinamica anche piuttosto tipica, con un tono ancora fortemente agrodolce, Uncino cerca di mettere Jack contro il padre, proprio andare a fare leva sulle mancanze del protagonista come genitore, cercando in qualche modo di prenderne il posto.

Un’idea che si traduce nell’iconica e meravigliosa sequenza della partita di baseball – uno dei momenti di più intelligente attualizzazione dell’opera letteraria – e nelle divertentissime lezioni con cui il villain avvelena la mente del ragazzino.

Dustin Hoffman in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ancora più interessante il fatto che il suo personaggio non si affezioni mai veramente a Jack, dimostrando ancora più profondamente la sua incapacità di amare, la quale gli impedisce di trovare un riscatto – l’essere padre – nella sua realtà adulta.

Un totale annullamento che porta – a quanto pare più volte – Uncino a decidere di farla finita, non trovando più nessuna soddisfazione nella sua condizione attuale, ma ricercando nella morte, l’unica avventura a cui può ancora ambire.

Riscoperta

Il secondo atto di Hook è geniale.

Particolarmente intelligente anzitutto reimmaginare il covo dei Bimbi Sperduti, trasformandolo in niente di più che un quartiere periferico di New York, e riuscendo così a rappresentare la multiculturalità già propria del periodo di uscita del film.

Così si alternano momenti profondamente commoventi – come quando uno dei bimbi sperduti riconosce Peter – e sequenze più comiche, in particolare quando si cerca di far volare il protagonista, con delle dinamiche tipiche dei film per ragazzi del periodo.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Ma il primo momento di rivelazione è ancora più significativo.

La maggior parte dell’opera di Peter Pan si basa sulla finzione giocosa che scandisce i rapporti fra il protagonista e i Bimbi Sperduti, particolarmente per la cena immaginaria, che nel film è il primo momento in cui Peter riesce effettivamente a capire il potere dell’immaginazione.

Ma l’epifania è rappresentata dall’effettiva riscoperta del suo passato, in particolare della figura di Wendy, e del motivo che gli aveva fatto infine abbandonare l’Isola che non c’è, ovvero una felicità ignota, ma incredibilmente appagante: la paternità.

Ma è una rivelazione rischiosa…

Insidia

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Il ricordo del passato è il primo passo per un ulteriore oblio.

La condizione di totale spensieratezza di Peter Pan nell’opera letteraria rappresentava proprio il perdersi totalmente nei sogni d’infanzia, dimenticandosi di tutto il resto: così in Hook Peter Pan rischia di dimenticarsi della sua stessa famiglia.

Ancora fondamentale, quando struggente, è l’intervento di Trilli, che rappresenta l’altro lato della scoperta felice di Peter: come il protagonista prende il posto della Wendy letteraria – che riscopre il valore di una condizione che aveva finora disprezzato…

…allo stesso modo la fata prende il posto del Peter letterario, sentendosi esclusa dalla nuova vita del suo compagno di avventure, nonostante nella stessa sperava forse di trovare la maturità sentimentale che gli avrebbe permesso di condividere una vita insieme.

Una maturità che la stessa Trilli trova, anche solo per un momento, diventando abbastanza grande per poter contenere nel suo corpo un sentimento così importantele fatine sono troppo piccole per contenere più di un sentimento alla volta – ma inutilmente…

Equilibrio

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Nonostante lo straripante entusiasmo del protagonista, il suo punto di arrivo è all’insegna dell’equilibrio.

Nell’ultimo atto Peter non ha alcun altro interesse se non ricomporre la sua famiglia, mostrandosi del tutto indifferente davanti alle richieste di Uncino, che vorrebbe invece trovare sfogo per la sua personale ossessione.

Robin Williams in una scena di Hook (1991) di Steven Spielberg

Così, mentre Peter è già sulla via di casa e gli volta le spalle, Uncino lo trascina in un duello che inevitabilmente perde, rivelandosi come nient’altro che un vecchio ridicolo, che non riesce a trovare nessuna piacevolezza nella sua vita – e mai la troverà.

Infine, nel suo ritorno a casa, il protagonista mantiene la sua ritrovata felicità e eccitazione, ma senza cadere nel totale oblio che viveva in giovane età, ma trovando una buona via di mezzo.

Ovvero, essere un adulto, ma anche un padre affettuoso, non dimenticandosi della creatività e dell’immaginazione che teneva in vita il suo personaggio.

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Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2024

Maestro – Virtuoso

Maestro (2023) è la seconda opera, dopo A Star Is Born, in cui Bradley Cooper si cimenta come regista.

Il film è stato distribuito limitatamente negli Stati Uniti, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Maestro (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore attore protagonista a Bradley Cooper
Miglior attrice protagonista a Carey Mulligan
Miglior sceneggiatura originale
Migliori fotografia
Migliore trucco
Migliore sonoro

Di cosa parla Maestro?

La pellicola ripercorre per sommi capi la vita di Leonard Bernstein, importantissimo direttore d’orchestra e compositore di brani iconici, fra cui spicca West Side Story.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Maestro?

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

In generale, sì.

Bradley Cooper si cimenta in una regia ambiziosa, con interessanti tocchi e sperimentazioni artistiche, a fronte di una storia non particolarmente interessante, anzi che rappresenta dinamiche piuttosto comuni di un classico dramma familiare.

Oltre alla regia, l’attore statunitense si impegna anche in un‘interpretazione estremamente varia e coinvolgente, che riesce a portare sullo schermo in maniera verosimile un uomo dal carattere esplosivo quando estremamente imprevedibile.

Il sogno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il primo atto di Maestro è il momento del sogno.

Il protagonista si sveglia improvvisamente, appena visibile nelle tenebre della stanza, e comincia a parlare sommesso e ansioso al telefono, immerso in un’atmosfera quasi lugubre, che farebbe pensare a tutto tranne che ad una buona notizia…

…e invece la scena si rianima improvvisamente, immersa in una luce e in un’atmosfera festosa in cui il Leonard comincia a parlare concitato ed eccitato, correndo verso l’occasione della vita: condurre la sua prima orchestra in pubblico.

Bradley Cooper e Carey Mulligan in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Questa atmosfera festosa si trascina fino all’incontro con Felicia.

Per le loro sequenze Cooper sperimenta in maniera piuttosto equilibrata con l’elemento metanarrativo, per cui il protagonista e la futura moglie entrano ed escono più volte come dal palcoscenico…

…fino al momento in cui Leonard prende parte ad uno dei suoi brani più famosiNew York, New York – che racconta proprio il futuro che gli si apre davanti agli occhi e la crescente creatività ed emozione che accompagna la sua arte.

Ma non mancano gli elementi di disturbo…

Il risveglio

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il secondo atto è visivamente contraddittorio.

Negli ultimi momenti della prima parte già si intravedevano le prime ombre sia del personaggio, sia del suo rapporto con Felicia – il discorso sul desiderio di morte del padre e la malinconica chiusura della relazione con David.

Degli elementi che ben si integravano all’interno del rigoroso e romantico bianco e nero, ma che risultano davvero fuori posto nelle tinte piene della seconda parte, con un protagonista ormai incanutito, ma ancora del tutto incapace di rimanere fedele alla moglie.

Infatti, Leonard si sente in una gabbia.

Da un lato non è del tutto sicuro della sua prossima avventura artistica, sentendo la passione e la creatività che si spengono, vedendo che l’estate che non gli parla più come un tempo, mentre si districa in un mare di appuntamenti e riconoscimenti da cui non si sente rappresentato.

Al contempo, per quanto il protagonista cerca di chiudere gli occhi davanti alla ruggine che emerge con Felicia, la donna è sempre più evidentemente stanca ed insoddisfatta, quasi esasperata dal comportamento infantile del marito.

L’apice è raggiunto dall’angosciante confronto con la figlia, dopo essere stato comandato a bacchetta dalla moglie di non rivelare il suo segreto, una parte di sé che si sente sempre più esasperato nel dover nascondere…

Ritorno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

A questo punto, si apre una breve parentesi di smarrimento.

Con il concerto successivo, finalmente Leonard si apre al mondo e si sottrae alla sua famiglia, diventando sempre più assente con gli affetti e incontrollato nei comportamenti, cercando ancora costantemente di scappare dai suoi legami.

Ma il ricongiungimento è possibile ancora tramite la musica: pur essendosi convinta di star bene da sola, in realtà Felicia cova una profonda tristezza nell’essersi separata dal marito, rianimandosi quando lo vede condurre con incontenibile passione l’orchestra che tanto ama.

Così, finalmente, capisce e apprezza il lato buono della sua personalità.

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

I momenti conclusivi sono profondamente malinconici.

La chiusura di Felicia è la sezione più drammatica, con la regia che indugia costantemente sul suo volto provato, e non ci nasconde il suo struggimento, il suo desiderio di isolarsi, ormai inevitabilmente pronta alla morte.

Leonard dal canto suo riflette mestamente sugli ultimi anni della sua vita, in cui non si è mai veramente lasciato alle spalle le avventure sentimentali, riuscendo anche al contempo a mettersi da parte e a lasciare il posto ai futuri talenti.

Ma nel suo discorso commosso capiamo che l’unica parte della sua vita che ricorda davvero con felicità è quella con Felicia.

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2023 Biopic Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film

Ferrari – L’incontrollabile

Ferrari (2023) di Michael Mann è un biopic dedicato ad uno specifico momento della vita di Enzo Ferrari, storico fondatore di una delle aziende italiane più famose al mondo.

A fronte di un budget piuttosto ingente – 95 milioni di dollari – è probabile che si rivelerà un importante flop: nella prima settimana ha incassato appena 9 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Ferrari?

Modena, 1957. Alle porte dell’importantissima Millemiglia, Enzo Ferrari deve fare i conti con la bancarotta prossima dell’azienda e con diversi problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ferrari?

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

In generale, sì.

La particolarità di Ferrari è la scelta di non portare in scena tutta la storia personale e imprenditoriale del protagonista, ma piuttosto di concentrarsi su uno specifico momento della sua vita, risultando una sorta di spaccato della stessa.

Così Mann evita di cadere in molte banalità tipiche del genere, regalandoci invece una pellicola con una regia precisa e curiosamente anche piuttosto claustrofobica, che riesce a bilanciare i due lati della personalità del suo protagonista, grazie anche alle ottime interpretazioni di Adam Driver e Penelope Cruz.

Sotto controllo…

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

In prima battuta Ferrari vuole farci credere che il suo protagonista abbia tutto sotto controllo.

Anche troppo.

Nonostante diversi personaggi cerchino di trascinarlo altrove, Enzo Ferrari ha gli occhi costantemente puntati in una sola direzione: la pista dove le sue macchine correranno, districandosi fra le diverse insidie e imprevedibilità sempre in agguato.

Patrick Dempsey in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Così la sua personalità sfuggente dedica il giusto tempo ad ogni elemento esterno alla pista: i nuovi e fin troppo intraprendenti piloti, i giornalisti sciacalli da comandare a bacchetta, il giro di soldi sempre più vorticoso…

E, sorprendentemente, Mann riesce a portare in scena un’Italia del boom economico piuttosto credibile, facendo muovere Enzo in ambienti familiari e autentici, in cui il cibo è un accessorio onnipresente e assolutamente fondamentale per rendere le situazioni verosimili.

…e fuori controllo

Patrick Dempsey in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Ma Ferrari non può controllare tutto.

Come anticipato, Mann riesce a mantenere costantemente una regia attenta al risultare il più possibile claustrofobica, persino nelle scene teoricamente aperte della corsa: le poche inquadrature ampie e ariose sono schiacciate dalla quantità di soggettive su panorami stretti e angoscianti, alternati da primi piani strettissimi e tormentati.

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Questa regia si accompagna perfettamente a questa costante e angosciosa urgenza che scandisce le dinamiche della pellicola, che raccontano come gli eventi sulla pista siano di fatto fuori dal controllo del protagonista: Enzo può solamente dare dei fulminei ammonimenti ai suoi piloti…

…ma non può controllare la loro intraprendenza e l’imprevedibilità della strada.

E, soprattutto, non può evitare la tragedia.

Fra due mondi

Penelope Cruz in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

La vicenda familiare del protagonista è raccontata con peculiare equilibrio.

Il punto di partenza della pellicola stessa è il panorama bucolico e apparentemente rilassante – in realtà ancora estremamente chiuso e angosciante – della seconda moglie, in una realtà in cui Enzo sembra star ricostruendo una vita familiare alternativa.

Ma tanto più preoccupante è la relazione con Laura, interpretata da una magnetica Penelope Cruz, che porta in scena una donna avvelenata, del tutto incapace di accettare la rottura del suo matrimonio e della sua vita familiare…

Adam Driver e Penelope Cruz in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

…che cerca di tenere sotto controllo il marito con l’unico strumento che le rimane: i soldi.

L’unico esito positivo della pellicola è la risoluzione del loro rapporto, con la drammatica rivelazione della seconda vita di Enzo, che non poteva passare per sempre inosservata ad una donna così attenta e calcolatrice come Laura…

…la stessa che mostra in più momenti un’insostenibile testardaggine e incapacità di relazionarsi col marito.

Così, anche se i loro continui scontri appaiono leggermente didascalici, riescono a raccontare in maniera piuttosto tridimensionale il loro dramma relazionale – in cui la morte del figlio ne è stato solamente l’apice – che infine si risolve con l’ultima richiesta di Laura:

Finché lei resterà in vita, Enzo non avrà altro figlio se non quello defunto.