Il sesto senso (1999) è stato non solo il punto di svolta per la carriera M. Night Shyamalan, ma anche per il genere tutto.
A fronte di un budget abbastanza importante – fra i 40 e i 55 milioni – è stato un enorme successo commerciale:672 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Il sesto senso?
Cole è un bambino molto timido e vittima di un continuo e crudele bullismo. Eppure, non è neanche quello il suo problema più grande…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il sesto senso?
Assolutamente sì.
Al tempo de Il sesto senso Shyamalan si trovava senza saperlo su un precipizio: un film veramente ottimo che lo lanciò come autore di punta del genere, ma che nel tempo si rivelò invece l’antipasto prima di crearsi una nomea non proprio felice, portando ad una serie di prodotti molto meno indovinati.
Anche in questo caso non mancano gli elementi che lo hanno reso più o meno felicemente celebre, che però, pur con qualche semplificazione sul finale assolutamente perdonabile, risultano incredibilmente funzionali a creare un horror indimenticabile.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Rimorso
Come si scoprirà solo nel finale, Malcom è tormentato da un profondo rimorso.
Raccontato come professionista che ha votato tutta la sua vita ad aiutare i suoi pazienti, anche a discapito della felicità del suo matrimonio, proprio nel momento in cui potrebbe finalmente vivere i frutti dei suoi sforzi, finisce invece vittima degli stessi.
E forse in questo contesto la sua angoscia più importante non è tanto il doloroso colpo in pancia per mano di uno dei suoi ex pazienti, ma piuttosto la consapevolezza di non aver aiutato un bambino che si era totalmente affidato a lui, facendo diventare un adulto inquieto.
E se quello sparo sembra solo una piccola macchina su un curriculum immacolato…
Finzione
Cole è vittima di una finzione di sua stessa fattura.
Essendo già di per sé un ragazzino molto timido ed insicuro, il peso del suo segreto lo spinge ancora di più a cercare di fingersi un bambino normale, anche per proteggere la madre, già abbastanza addolorata dalla perdita della genitrice e dall’abbandono del marito.
E proprio in questo contesto si inseriscono gli ingenui teatrini in cui, in cambio di denaro, il protagonista finge di avere alle spalle delle solide amicizie, e non di essere solo la vittima preferita del bullismo dei suoi compagni di classe.
E infatti, il vero orrore non è tanto il vedere i fantasmi…
Adulto
Cole deve crescere troppo in fretta.
Una grande eleganza della messinscena è di non abusare delle più classiche tecniche del jump scare o simili, spesso utilizzate per nascondere una scrittura poco pensata e incapace di riuscire effettivamente a spaventare lo spettatore.
Invece il senso di angoscia della pellicola è causato proprio dai problemi che questi fantasmi portano avanti, spesso questioni fin troppo impegnative persino per un adulto – suicidio, violenza domestica, abusi – figuriamoci per un bambino di appena nove anni.
E tanto basta per creare un orrore piuttosto raffinato, che riesce forse un po’ semplicisticamente a dissiparsi quando, grazie a Malcom, il protagonista finalmente affronta questi spettri e le loro richieste, in modo che possano morire in pace.
E proprio su questa china arriviamo allo scioglimento.
Dialogo
Entrambi i protagonisti devono riuscire a comunicare.
Malcom crede di vivere in un matrimonio ormai finito, in cui Anna gli è ormai indifferente, anzi si è già impegnata con altri uomini, che il marito cerca di scalzare senza mai intervenire direttamente, senza mai riuscire ad affrontare la questione faccia a faccia.
Ma la presa di consapevolezza della sua vera condizione, che rappresenta anche l’ottimo colpo di scena finale, chiude finalmente questo capitolo della sua vita, in cui è riuscito a salvare un altro bambino potenzialmente problematico e, per consiglio dello stesso, il suo stesso matrimonio.
Allo stesso modo, Cole vive nel costante timore di rivelare il suo sesto senso alla madre, per paura di non essere creduto o, ancora peggio, di ferirla irrimediabilmente e spezzare il loro importante quanto fragile rapporto.
Ma è proprio rendendo possibile il dialogo che Lynn non riesce ad avere con la madre defunta che Cole riallaccia i rapporti con la genitrice, che finalmente riesce ad accettare la perdita di un affetto tanto importante, e a ricostruire il rapporto con un figlio che credeva di poter più capire.
Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pearl?
Assolutamente sì.
Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa:Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.
Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.
Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.
Sogno
Pearl è una ragazza piena di sogni.
Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nelsuo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.
E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.
La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.
Perché della realtà Pearl vede solo una parte.
Fuga
La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…
…quello che le appartiene per diritto.
Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino –persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.
E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.
Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.
E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…
Brandello
Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.
Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…
…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.
Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.
Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.
Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.
Ma ormai nessuno può fermare Pearl.
Spettro
Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.
Non davvero.
Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.
Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.
E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?
Perdere
L’audizione non è una semplice audizione.
Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.
E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta…
E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.
E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…
…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.
Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.
A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.
Di cosa parla Il robot selvaggio?
ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?
Assolutamente sì.
Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.
L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.
Ma non per questo ve lo potete perdere.
Ostile
Roz precipita in un ambiente ostile.
Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.
Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.
E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.
E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…
Maternità
Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…
…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.
L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…
…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.
Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.
L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.
E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.
Ma, non per questo, risulta un una figura negativa.
Semplicemente, impreparata.
Imparare
La maturazione dei protagonisti è interconnessa.
L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.
E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.
Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.
Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.
Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.
Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.
Distacco
Roz e Beccolustro devono trovare il loro postonel mondo.
Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.
Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.
E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.
Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.
Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…
Unione
L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.
Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.
Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.
Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.
Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.
Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…
She’s the man (2006) di Andy Fickman è un teen movie con protagonista Amanda Bynes, ispirato all’opera shakespeariana La dodicesima notte.
A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 20 milioni di dollari – non ha avuto un grande riscontro al botteghino: circa 57 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla She’s the man?
Viola è una bravissima giocatrice di calcio, limitata da un unico fattore: essere una femmina. E per questo cercherà vie alternative per riscattarsi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere She’s the man?
Assolutamente sì.
She’s the man è uno di quei teen movie veramente da riscoprire, che riuscirono in tempi non sospetti ad aggiungere qualcosa di nuovo ad un genere che ha invece la tendenza a ripetersi, anticipando le tendenze future.
Infatti all’interno di una commedia molto leggera e spensierata, è inserita un’importante riflessione sui ruoli di genere, rimessi pesantemente in discussione, cercando il più possibile di evadere modelli e personaggi tipizzati che solitamente affollano questo tipo di film.
Insomma, da riscoprire.
Definizione
L’incipit di She’s The Man è fondamentale.
Fin da subito la protagonista è presentata come personaggio piuttosto peculiare, soprattutto in quel periodo: non la classica ragazza sfigata che deve trovare la sua identità, ma piuttosto un incontro fra diversi elementi che raramente si vedono integrati nella protagonista di un teen movie.
Ovvero, una ragazza piuttosto sicura di sé e già coinvolta in una relazione romantica – di cui tra l’altro sembra tenere le redini – e, al contempo, unmaschiaccio, in quanto più orientata verso interessi stereotipicamente maschili.
Una presentazione fondamentale per arrivare al primo punto di rottura della pellicola: non solo l’eliminazione della squadra di calcio, ma l’umiliazione di non essere considerata al pari della squadra maschile – sminuendo per estensione la stessa protagonista…
…e portando di conseguenza al distacco dal sistema e da Justin, da cui si sente ugualmente tradita.
Seminato
Sulla carta, la protagonista ha una sola alternativa possibile.
Ovvero, la proposta dalla madre, che nasconde molto goffamente il suo sollievo per la cancellazione della squadra, sperando che la figlia arrivi finalmente ad abbracciare invece un modello femminile piuttosto classico, che la protagonista sembra rigettare in toto.
Invece, il destino sembra essere dalla parte di Viola, suggerendole una strada alternativa, perfettamente apparecchiata per essere percorsa: assorbire in tutto e per tutto il modello maschile e colmare il vuoto lasciato dal fratello – altro personaggio in fuga da un modello imposto.
E già da qui la pellicola comincia un discorso piuttosto interessante…
Modello
Il modello maschile è fin da subito messo in discussione.
Come spesso questi film raccontano stereotipi femminili piuttosto ridondanti, in questo caso invece la situazione si ribalta, portando in scena una visione piuttosto ingenua e stereotipata del mondo maschile, ridotto ad uno uno stock di dinamiche incredibilmente stereotipiche.
Infatti la protagonista, nel suo allentamento per diventare un maschio credibile, cerca di imitare una serie di comportamenti che lei considera rappresentativi del mondo maschile, ma che invece via a via si riveleranno solamente la superficie di un una cultura machista unicamente dannosa.
Ma sono dei modelli fragili.
Infatti, fin dalla sua prima entrata in scena nelle nuove vesti, la protagonista risulta fuori luogo e forzata – in maniera molto ironica, visto che i primi personaggi maschili che incontra corrispondono perfettamente, almeno dal punto di vista estetico, allo stereotipo del maschio alpha.
E invece queste figure hanno molto da raccontare…
Successo
La chiave del successo di Viola è cangiante.
Da una parte, la protagonista risulta attraente agli occhi di Olivia proprio perché non rispecchia realmente il modello maschile che vorrebbe incarnare, ovvero del maschio potente, dall’emotività inscalfibile e che non può e non deve mai ammettere le sue debolezze.
Al contrario Viola, che rappresenta invece le aspettative sociali del femminile, può permettersi di mostrarsi deboli e di discutere di determinati argomenti stereotipicamente propri del genere di appartenenza, risultando nella sua diversità decisamente interessante.
Al contrario per il mondo maschile Viola risulta inizialmente solo respingente, anzi estremamente fuori luogo proprio per i suoi comportamenti eccessivi e forzati, che la riducono ad una macchietta con cui nessuno vuole avere a che fare.
E quindi infine l’unico modo per avere l’attenzione del microcosmo maschile è di mettere in scena un assurdo teatrino in cui non solo le sue amiche si prestano per interpretare le sua vecchie fiamme, ma in cui la stessa Monique diventa l’elemento di conferma per il nuovo status di dongiovanni di Viola.
Ma è solo la condizione necessaria per realizzare il suo sogno.
Traguardo
She’s the man riesce ad evitare un errore molto comune in questo tipo di film.
Ovvero, la fastidiosa tendenza a semplificare eccessivamente il percorso di maturazione della protagonista, presupponendo in un certo senso che la stessa non debba fare un particolare sforzo per raggiungere il suo obbiettivo.
In questo caso invece, per quanto Viola sia indiscutibilmente talentuosa, si deve comunque scontrare con un una realtà – il calcio maschile – in cui inizialmente non risulta vincente, venendo così relegata alle riserve.
Così la via del miglioramento si articola in una dinamica piuttosto classica: lo scambio di favori fra due personaggi – molto popolare nell’ambito enemy to lovers – in cui Viola aiuta Duke a conquistare Olivia in cambio di un allenamento intensivo.
E su questo punto c’è da fare un discorso a parte…
Interiore
Il tema della bellezza interiore non è niente di nuovo per il genere.
Solitamente però viene articolato in una narrazione piuttosto banale di competizione fra due modelli di femminilità: la mean girl superficiale ed egoista, e la ragazza sfigata e intelligente – un esempio molto classico è lo scontro fra Taylor e Laney in She’s all that.
Invece all’interno di She’s the man vengono presentati più modelli femminili possibili, e nessun personaggio viene condannato solamente per appartenere ad uno o l’altro, ma piuttosto per la propria insista natura di villain.
In questo senso, sia Monique e Olivia rappresentano due modelli di iperfemminilità…
…ma solamente la prima è un personaggio negativo, proprio perché si dimostra fin dall’inizio superficiale e arrogante, prendendo fra l’altro parte al duo maleficio con Malcom, che cerca infine di umiliare e punire la protagonista per il proprio tornaconto personale.
Aspetto
Viola non si innamora di Duke per il suo aspetto.
Solitamente in una dinamica in cui la protagonista emarginata si innamora di un ragazzo impossibile, l’attrazione in prima battuta è dovuta all’aspetto fisico, e solo in secondo luogo alla personalità effettivamente interessante dello stesso – come in Un compleanno da ricordare (1984).
Invece all’inizio Viola non è attratta da Duke, ma lo diventa nel corso della pellicola quando comincia a conoscerlo come persona, soprattutto al di là di quello stereotipo castrante che il ragazzo cerca in tutti i modi di evadere, mostrando invece il suo lato più fragile e sensibile.
Una fragilità che si può in questo senso direttamente ricollegare alla pesantezza delle aspettative sociali: come Duke sente di dover aderire ad un modello, così la sua difficoltà nell’accettarlo lo porta ad essere estremamente insicuro nell’approcciarsi alla sua ragazza dei suoi sogni.
Ma ci sono delle relazioni che semplicemente non sono fatte per esistere.
Equivoci
L’atto centrale mette in luce tutte le difficoltà relazionali.
Una classica commedia degli equivoci, che però intraprende anche nuove strade per raccontare e definire i personaggi, in particolare i due villain, Monique e Justin: entrambi dimostrano un atteggiamento possessivo e ossessivo, derivato dal loro non avere più il controllo su relazioni ormai finite.
Ed entrambi sono la miccia si risse scatenate per il medesimo motivo, che, per una volta, non sono esclusiva del maschile, ma coinvolgono nella scena immediatamente successiva anche il femminile, che si scontra nel bagno del country club.
Ma altrettanto immaturi sono anche i personaggi positivi.
Impossibilitati ad avere in breve tempo le relazioni dei loro sogni, i protagonisti ricorrono ad una serie di sotterfugi e illusioni autoindotte per ottenerli: così Viola cerca di spingere Duke lontano da Olivia e più verso sua sorella, mentre Olivia strumentalizza Duke per avere le attenzioni di Sebastian.
Ma la maturazione dei personaggi sta proprio nel comprendere i limiti di queste dinamiche – a cominciare dall’appuntamento fallimentare fra Olivia e Duke – scegliendo infine la via più diretta e semplice per mostrare il loro interesse nei confronti delle loro fiamme…
…anche se così si creano non poche incomprensioni che portano all’atto finale.
Rivelazione
L’atto finale è scatenato dall’arrivo di un elemento inaspettato.
Ovvero, il vero Sebastian che fa capolino in scena.
Così il momento dello scioglimento, solitamente dedicato al ballo scolastico, vede invece come protagonista la partita di calcio, in cui la commedia degli equivoci si scatena nella sua forma più pura, con Sebastian che prende involontariamente parte al match fondamentale per la sorella.
Un equivoco nell’equivoco che porta infine alle diverse rivelazioni, in cui i fratelli Hastings mostrano tutta la loro sfrontatezza nell’esibire l’unico elemento che sembra convincere effettivamente il pubblico del loro genere si appartenenza: i tratti sessuali primari e secondari.
Ma questo non basta per sciogliere tutti i nodi.
Le vere sfide per Viola sono ancora tutte da giocare: prima la vittoria morale nei confronti di Justin – e di tutto quello che rappresenta – non lasciandosi intimidire dalle parole di umiliazione con cui il suo ex-ragazzo cerca di farle sbagliare il gol decisivo.
E, infine, l’effettiva conquista di Duke, che accetta la lezione fondamentale del film: andare oltre le apparenze e ossessioni per avvicinarsi a persone che ci desiderano realmente per quello che siamo, e non per quello che rappresentiamo.
Joker: Folie à Deux (2024) di Todd Phillips è il sequel dell’acclamato Joker (2019), con protagonisti Joaquin Phoenix e Lady Gaga.
A fronte di un budget decisamente più importante rispetto al precedente – 200 milioni di dollari – ha aperto con un primo weekend ben poco promettente:144 milioni in tutto io mondo.
Di cosa parla Joker: Folie à Deux?
Dopo i suoi multipli omicidi, Arthur è segregato nel carcere di massima sicurezza di Arkham. Ma un incontro inaspettato gli cambierà la vita…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Joker: Folie à Deux?
Magari no.
Che piaccia o meno, è purtroppo assolutamente evidente che Joker: Folie à Deux non fosse né previsto né voluto in prima battuta: lo dimostra anche solamente il fatto che l’incipit vanifichi completamente il finale della prima pellicola.
Quindi non stupisce di trovarsi davanti ad un film con qualche buona idea alla base, ma gestita in maniera del tutto insufficiente, con una povertà di scrittura allarmante e l’inserimento dell’elemento musical che sembra nient’altro che una passerella per Lady Gaga.
Però, sentitevi liberi di farvi la vostra idea.
Ma io non sarò complice della vostra visione.
Annullamento
Joker: Folie à Deux riesce ad essere incoerente fin dalla sua prima scena.
Dopo un corto animato che dovrebbe anticipare il tema della pellicola – ma che ci riesce molto limitatamente – ci immergiamo immediatamente nelle lugubri atmosfere di Arkham, con una costruzione scenica che vuole farci desiderare vedere l’apparizione di Arthur Fleck, in un’ottima occasione per distinguerlo dallo squallore degli altri detenuti…
…e invece, risultando in un momento finalizzato acaricare il più possibile la scena di un pietismo che personalmente ho trovato davvero insopportabile – già presente comunque nella prima pellicola, ma in quel caso in maniera ben più contestualizzata e interessante.
Invece in questo primo frangente Arthur non sembra altro che un cane bastonato – non a caso, molti sono i riferimenti alla figura canina – dalle barzellette alla scena in cui viene legato ad un palo – andando così ad annullare l’importante punto di arrivo del precedente film.
Una scelta che, per quanto non mi convinca in principio, poteva essere salvata da un’adeguata contestualizzazione, che risulta invece del tutto mancante: sappiamo solo che Arthur si è spento e ha ripudiato il personaggio di Joker – e le gioie che gli aveva regalato.
Ma ci sono figure anche più fumose…
Identità
Chi è Harley Quinn?
È veramente spiacevole notare come, scena dopo scena, il personaggio di Lady Gaga riveli sempre di più la sua inconsistenza, finendo per essere nient’altro che un intermezzo musicale del tutto scommesso, un motore della trama totalmente pretestuoso e forzato.
Infatti, nonostante il film cerchi di giustificare il suo personaggio e le sue intenzioni, nulla è realmente spiegato: dovremmo credere che Lee si sia fatta internare apposta per conoscere Joker, così ossessionata dalla sua figura e dalla sua storia da volerne prendere parte…
…ma tutto ciò è raccontato solamente a parole, senza che le azioni in scena abbiano un minimo di credibilità che possa giustificare come il suo personaggio entri ed esca da Arkham a suo piacimento – stesso luogo, ricordiamolo, in cui vige il pugno di ferro.
In generale, Lee dovrebbe rappresentare la voce di quella folla che, alla fine di Joker, vedevamo acclamare il personaggio nel suo momento di massima follia – la stessa che, per il resto, è sostanzialmente assente dalla scena – ma senza inserire neanche un significativo disegno politico che la renda di qualche interesse.
Ma la sua inconsistenza ha radici ben più profonde…
Negazione
Joker: Folie à Deux è l’apoteosi della negazione del personaggio.
Volendo maliziosamente leggere fra le righe, il percorso del protagonista può essere letto come un racconto del malcelato sentimento del regista: dopo l’inaspettato successo della prima pellicola, Phillips è tornato alla regia evidentemente controvoglia e privo di idee.
Così, come Joker è costantemente trascinato nel ruolo, come nei suoi sogni musicali appare nelle sue fattezze più classiche – e, per quanto mi riguarda, desiderabili – del personaggio fumettistico, infine entra in scena come un villain da operetta, rappresentando la massima esasperazione del personaggio.
Ovvero, un mero pagliaccio.
E in questo contesto è anche più doloroso vedere un personaggio del genere prendere parte a momenti musicali così mal integrati nella storia da sembrare degli inserimenti fatti solamente perché andavano fatti, mancanti di qualunque riflessione in merito.
Infatti sarebbe veramente bastato pochissimo, sarebbe bastato mostrare la dicotomia fra il sogno musicale e la realtà, sarebbe bastato mostrare la totale dissociazione mentale di Arthur – come, d’altronde, era stato fatto nel primo film – financo la ridicolaggine delle sue azioni.
Invece, tranne la breve ma quantomeno funzionante scena della fuga, il tutto si perde in una pochezza devastante…
Fuga
Il Joker di Todd Phillips non ha un futuro.
E non vuole averlo.
Nel finale della pellicola Arthur è bruscamente riportato a quella realtà che l’aveva in prima battuta spento, subendo indicibili violenze da parte delle guardie che vogliono nuovamente rimetterlo al suo posto, preparandosi così per il patibolo.
Così il momento della difesa si trasforma il momento della confessione, della negazione del Joker – riuscendo in ultimo ad evitare l’angosciante opzione della personalità multipla – ancora più sottolineata dalla sua fuga da uno dei suoi tanti ammiratori che lo vogliono costringere ad un ruolo da cui vuole solo fuggire.
E invece, negando ulteriormente lo splendido finale del primo film in cui Joker abbracciava questa malata connessione fra follia e amore, vedendo infrangere i sogni insieme alla sua (immaginaria?) Harley Quinn, Arthur torna nuovamente a spegnersi.
E allora forse la morte in scena è la morte che il Joker di Philips infligge a se stesso per mano di un altro – vero? – pagliaccio sadico, risultandoincapace di soddisfare chiunque…
Janette è reduce da un matrimonio fallimentare che sembrava garantirle una vita di alto livello. Ma sarà capace di fare i conti con questo orrido presente?
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Blue Jasmine?
Assolutamente sì.
Blue Jasmine è per me una delle più interessanti sperimentazioni di Woody Allen: un sottile equilibrio fra dramma e commedia con risvolti quasi grotteschi, per raccontare una storia amarissima, pur senza toccare la tragicità di Match Point (2005).
Una pellicola fra l’altro che deve moltissimo alla splendida interpretazione di Cate Blanchett, capace di portare in scena con grande maestria un personaggio così fragile e complesso, tormentato dalle sue contraddizioni ed illusioni.
Insomma, da vedere.
Introduzione
Jasmine si racconta da sola.
Dopo aver sperimentato con le introduzioni fuori scena in Hollywood Ending (2002) e Scoop (2006), in questo caso Allen ribalta la situazione e affida la presentazione della protagonista alla protagonista stessa, in una situazione apparentemente normale – uno scambio di chiacchiere durante un viaggio aereo…
…che però diventa sempre più asfissiante minuto dopo minuto, portando alla tristissima scoperta che Jasmine stava semplicemente parlando da sola, in uno dei tanti momenti in cui sentiva il bisogno di snocciolare gli eventi del suo passato.
In generale, Jasmine manca di un contatto con il presente.
Contraddizioni
Jasmine vive di contraddizioni.
Così sicura della sua vita altolocata, per anni la protagonista ha scelto più o meno consapevolmente di essere del tutto cieca davanti alla realtà: i continui tradimenti del marito – noti a tutti tranne che a lei – e così anche i suoi affari criminali…
…entrambi potenziali fattori della distruzione del suo status.
Così anche nel presente Jasmine sembra del tutto sconnessa dalla realtà della sua recente povertà – come ben si comprende dallo scambio con la sorella, che le chiede stupita se abbia viaggiato in prima classe, nonostante le sue attuali condizioni economiche.
La stessa tendenza si nota anche in come parla del suo futuro: considerando il lavoro di receptionist del tutto indegno per la sua persona, Jasmine sogna di concludere i suoi studi e di rilanciarsi come professionista, nonostante non abbia le risorse per sostenersi nel frattempo…
Ma la sorella non sembra stare meglio…
Confronto
Ginger vive del confronto con Jasmine.
Vedendo la sorella come una vincente, inevitabilmente considera se stessa come una perdente, andandosi ad incastrare in relazioni evidentemente infelici, in particolare con il buzzurro Chili, che alla prima occasione le mostra la sua vera natura…
Ma neanche per lei non sembra esserci via d’uscita.
La breve ed intensa relazione con Alan sembra finalmente l’alternativa vincente alla sua turbolenta situazione sentimentale, ma si rivela infine solo l’ennesimo capolinea, che porta infine Ginger a convincersi nuovamente di non essere degna di avere relazioni appaganti – e, per questo, a tornare con Chili.
Ma c’è chi sta peggio…
Disconnessione
L’ultimo atto di Blue Jasmine definisce la totale disconnessione della protagonista dalla realtà.
Quando sembra finalmente aver trovato un’alternativa al suo triste presente – ovvero una copia della sua relazione precedente – Jasmine sceglie di nascondere i lati più vergognosi del suo passato, come a voler ridurre il tutto ad una insignificante parentesi da dimenticare.
Ma basta un incontro sbagliato, una scheggia impazzita per mandare tutto a gambe all’aria: e se la prima volta l’autrice della sua distruzione era stata lei stessa, in questo caso è una delle vittime delle malefatte dell’ex-marito a farla tornare al punto di partenza.
Ma Jasmine non lo può accettare.
La protagonista ritorna dalla sorella con grande arroganza, rimanendo ancorata ad un sogno ormai dissolto, per poi regredire ulteriormente all’ennesimo dialogo con il marito defunto, a cui rinfaccia di essere stata fin da subito consapevole della sua infedeltà, ma di aver consapevolmente fatto finta di nulla…
10 cose che odio di te (1999) di Gil Junger è un cult del genere teen movie Anni Novanta, ma che ha avuto la sua fortuna soprattutto nel decennio successivo.
A fronte di un budget medio per questo tipo di prodotti – fra i 13 e i 16 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 53 milioni di dollari in tutto il mondo.
Di cosa parla 10 cose che odio di te?
Un ardito piano per conquistare una ragazza porterà due caratteri apparentemente inconciliabili ad incontrarsi in maniera inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere 10 cose che odio di te?
Dipende.
10 cose che odio di te è forse il titolo più debole del genere trattato finora: pur riprendendo un canovaccio narrativo piuttosto standard, la pellicola prova a dargli un maggiore spessore riflessivo, lasciando però tutto in una tristissima superficie.
Infatti, nonostante fosse potenzialmente un film che superava di diverse lunghezze il contemporaneo She’s all that (1999), finisce per perdersi in se stesso, risultando un prodotto con poco mordente, che segue una serie di step preimpostati senza riuscire ad aggiungere molto.
Però è un classico, quindi se volete farvi una cultura…
Diversa
L’introduzione della protagonista è uno dei pochi aspetti che mi ha veramente convinto della pellicola.
Un’ampia sezione introduttiva accompagna lo spettatore all’interno della storia, mostrando in prima battuta un gruppo piuttosto standard di ragazzine che si godono il ritmo pimpante di One week dei Barenaked Ladies…
…per poi venire brutalmente interrotte dalla classica Bad Reputation di Joan Jett, con una breve carrellata che non solo ci mostra la protagonista, ma che ci racconta già moltissimo dellasua personalità programmaticamente alternativa rispetto alle altre ragazze.
Così, anche l’introduzione degli altri due protagonisti è piuttosto esplicativa.
I personaggi sono subito raccontati come immersi in un ambiente ostile ed incontrollato, in cui gli adulti sono spesso del tutto incolori e assenti – in particolare Ms. Perky, più interessata al suo racconto erotico che agli studenti che dovrebbe aiutare…
– …e in cui un adolescente può o gettarsi nella gabbia dei leoni senza protezioni – come il disorientato Cameron – o rispondere in maniera insubordinata e creandosi una reputazione quasi leggendaria – come Patrick, fin da subito individuabile come l’alter ego della protagonista.
E l’ambiente è davvero opprimente.
Competizione
Il clima della Padua High School è colorito quanto competitivo.
Tramite il racconto di Michael, veniamo accompagnati alla scoperta di un panorama con non pochi spunti interessanti – come i finti rapper neri e i cowboy – anche se non abbastanza esplorati come si meriterebbero – una dinamica ripresa e migliorata successivamente da Mean Girls (2006).
Ne emerge quindi un ambiente estremamente classista, in cui è fin troppo facile farsi escludere da un gruppo – come succede appunto al nostro cicerone – e in cui ragazzi più popolari sono talmente tanto influenti anche solo un loro saluto può diventare merce di scambio.
Questo bizzarro quadretto viene chiuso dall’introduzione degli ultimi personaggi di rilievo: il viscido Joey Donner, che fin dalla sua prima apparizione racconta il suo obbiettivo, ovvero conquistare l’impossibile Bianca giusto per divertimento…
…e, appunto, la più giovane delle sorelle Stratford, graziosa quanto ingenua, e per questo facile preda delle maliziose attenzioni del top guy della situazione.
Ma la via è irta di ostacoli…
Divieti
Walter Stratford è l’altro lato del mondo adulto.
Ormai abituato a vedere ogni giorno ragazzine che diventano madri troppo presto, e ancora ferito dall’abbandono della moglie, il suo personaggio cerca di comandare le sue figlie a bacchetta, nonostante siano entrambe molto meno ingenue di quanto pensi.
La situazione diventa sempre più paradossale nel raccontare una serie di limitazioni quasi da presa in giro: sicuro che Kat non avrà mai relazioni in vita sua, il padre mette come assurda condizione alla vita relazionale della figlia minore che la maggiore abbia un effettivo appuntamento.
Da qui parte l’intricato piano alle spalle della protagonista, che ha fra i punti di arrivo la confessione del padre, che ammette che i divieti derivino da una sua profonda insicurezza nel diventare solo spettatore della vita delle sue figlie, che invece vuole sempre più tenere legate a sé.
Uno dei tanti temi, purtroppo, lasciati a se stessi.
Ma il vero problema è altrove.
Relazione
Ogni racconto enemy to lovers di questo periodo segue una serie di step precisi.
Il confronto va ancora una volta a She’s all that, molto simile nelle sue dinamiche, ma che riesce molto meglio e in maniera molto più credibile – pur con tutti i suoi limiti – a raccontare lo sbocciare dell’amore fra i protagonisti e la parallela maturazione degli stessi.
Al contrario, forse anche per le capacità non eccellenti dell’attrice protagonista, l’intrecciarsi del rapporto con Patrick appare molto macchinoso, e del tutto incapace di integrare la loro relazione con un’esplorazione interessante dei caratteri dei personaggi.
Infatti, se almeno Kat gode di un momento di importante – quanto incolore – confessione sul perché è così scontrosa – interessantissimo spunto, ma lasciato a se stesso – il racconto della vera natura del personaggio di Heath Ledger è incredibilmente dispersivo e poco incisivo.
E si salva solo leggermente la poliedricità di questo interprete immortale, per quanto qui ancora acerbo.
E mi ha lasciato ancora più amareggiata la povertà di scrittura a fronte della ben più interessante maturazione di Bianca, che, per una volta, non ha bisogno di essere salvata dal personaggio maschile, ma arriva alla sua presa di consapevolezza in sostanziale autonomia.
Ma, ancora una volta, sono spunti che si perdono come lacrime nella pioggia…
Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.
A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Midnight in Paris?
Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Midnight in Paris?
In generale, sì.
Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…
…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.
Pioggia
I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.
Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.
Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.
Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.
Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.
Ma c’è una via di fuga.
Esclusiva
La magia di Parigi non è per tutti.
La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.
E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.
Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.
Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.
Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.
Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.
Consapevolezza
Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.
La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.
Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…
Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…
Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.
Scoop (2006) può essere considerato per certi versi una summa della carriera di Woody Allen fino a quel momento.
A fronte di un budget molto piccolo – appena 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale:39 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla Scoop?
Sondra è una giovane studentessa di giornalismo che si trova fra le mani lo scoop del secolo. Ma la fonte non è quella che vi potreste aspettare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Scoop?
Assolutamente sì.
Scoop è un film che porto particolarmente nel cuore: un po‘ Misterioso omicidio a Manhattan (1993), un po’ Criminali da strapazzo (2000), la pellicola risulta un ottimo incontro fra la linea comica piuttosto classica di Allen e il poco esplorato genere thriller.
Fra l’altro, scegliere nuovamente come protagonista un’interprete così versatile come Scarlett Johansson, ed affiancarla ad un ottimo Hugh Jackman, è stata l’idea vincente per creare una piacevolissima commedia investigativa, che non manca comunque di toni più cupi.
Insomma, da vedere.
Casuali
I personaggi in scena sono del tutto improbabili.
La pellicola si apre con il funerale dello scaltro Joe Strombel, con un vivace dialogo fra i suoi amici che, ricordandone le imprese, ci offrono una prima, fondamentale infarinatura sul personaggio prima ancora che entri in scena – tecnica già ben sperimentata inHollywood Ending (2002).
Così, non perdendo mai il vizio di rincorrere la prossima notizia da prima pagina, neanche da morto, il personaggio si interessa fin troppo all’indiscrezione della ex segretaria di Peter Lyman, tanto da scegliere di passare il testimone a qualcuno che possa farne buon uso.
Ma forse non il candidato che si aspettava…
Già frustata per aver scelto una carriera così diversa da quella prospettata dalla sua famiglia, la Sondra all’inizio del film sembra trovarsi ad un vergognoso capolinea, quando dal suo intervistato non riesce a ricavare nient’altro che una poco spendibile notte di fuoco.
Così il racconto dello spettacolo a cui partecipa sembra in prima battuta fine a se stesso, ma invece è del tutto fondamentale per introdurre l’ultimo membro di questo improbabile terzetto di investigatori, con il suo repertorio di trucchi magici di livello davvero infimo.
Eppure, proprio durante lo spettacolo le loro strade si incroceranno.
Principiante
La coppia di protagonisti si dimostra fin da subito fin troppo improvvisata.
Pur molto scettico all’inizio, Sid si lascia infine coinvolgere nei primi passi di una Sondra che procede a tentoni, arrivando persino a pedinare l’uomo sbagliato – riuscendo a non mandare a gambe all’aria i suoi piani solo grazie ad amicizie in comune.
Da qui prende piede la gustosissima trama comica della pellicola, costellata da infinite gag di un Woody Allen in splendida forma, che riescono nel complesso ben a dialogare con il personaggio della Johansson.
E paradossalmente, proprio nel suo essere chiassoso, Sid crea la faccia perfetta.
Infatti risulta del tutto credibile che la giovane Jade abbia al suo fianco un padre così strambo, che non può fare a meno di divulgare i più intimi ed improbabili dettagli dell’infanzia della figlia – anche perché, col tempo, comincia davvero a considerarla tale.
Fra l’altro, questo taglio quasi surreale del personaggio ben si accompagna al continuo dell’investigazione che sembra sempre sull’orlo della catastrofe, anche grazie anche ad un montaggio incalzante che accompagna splendidamente la costruzione della tensione.
Delle dinamiche che mi ricordano qualcosa…
Eredità
Scoop è, in ultima analisi, una riscrittura di Notorious (1946).
Così, se Alicia doveva stanare una famiglia di nazisti in fuga con un matrimonio combinato, allo stesso modo Sondra deve entrare nelle grazie di Peter per poter sciogliere il mistero del Killer dei Tarocchi, finendo però per innamorarsene e per cadere nella sua rete di inganni.
Il punto d’arrivo sembra la rivelazione del vero serial killer, che fa cadere ogni accusa nei confronti di Lyman, confermando la sua insospettabilità, con un Sid che però non ci crede e si intestardisce a tal punto da finire per passare da salvatore a vittima.
Fra l’altro, con una conclusione perfetta per il personaggio di Peter, il cui racconto di compagno fin troppo affettuoso e dal comportamento impeccabile, ma nondimeno piuttosto possessivo nei confronti di Sondra, infine ben si sposa con la rivelazione invece del suo oscuro segreto…
…con una chiusura a sorpresa in cui Sondra che, a differenza di Alicia, riesce ad ingannare Peter fino alla fine.
Zach e Laney sembrano due adolescenti totalmente agli antipodi: il ragazzo più popolare della scuola e la sfigata che vive rinchiusa nella classe d’arte. Eppure qualcosa li permetterà di ritrovarsi…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere She’s all that?
In generale, sì.
Ammetto che mi aspettavo decisamente peggio da questo classico della commedia adolescenziale, che in effetti è in tutto e per tutto uno spaccato degli Anni Novanta, con al centro un topos narrativo che ha fatto veramente scuola nel genere…
…ma che nondimeno risulta per nulla banale nella sua esecuzione, anzi riesce meglio nel suo lato più riflessivo, pur risultando un po’ debole negli snodi narrativi fondamentali e nel racconto di alcuni personaggi chiave.
Ma, nel complesso, vale una visione.
Scommessa
Tutto nacque con una scommessa…
Fin da subito She’s all that mostra il suo lato più ingenuamente crudele: il protagonista maschile, Zach, viene scaricato da Taylor, riducendolo a mero accessorio della sua vita ormai passato di moda, utile solamente per avere un compagno per il ballo scolastico.
E la scelta così superficiale delle relazioni si manifesta in senso più ampio nella considerazione che fin da subito Zach dimostra verso genere femminile, basato unicamente sul mero lato estetico, che definisce tutta l’importanza di un individuo.
Così nasce questa crudele scommessa in cui il protagonista si fa coinvolgere senza troppe remore, pur dimostrandosi piuttosto restio a dover fare un sostanziale miracolo nei confronti di una ragazza così apparentemente irrecuperabile come Laney.
Quello che succede dopo, però, mi ha stupito.
Dietro le quinte
Era per me assolutamente prevedibile che il film avrebbe cercato di riscrivere Zach in senso positivo, così da renderlo infine un compagno accettabile per lo scontatissimo esito romantico del finale della storia.
E invece She’s all that gioca d’anticipo.
Bastano poche scene per scoprire come in realtà il protagonista sia molto più di quella maledetta scommessa, nient’altro che l’ultima manifestazione di una peer pressure devastante proveniente ora dal padre, ora dai suoi compagni di scuola – particolarmente Dean.
Per questo l’inizio della relazione con Laney non è con la scommessa, ma bensì con lo spettacolo teatrale, in cui Zach viene un po’ maldestramente coinvolto, ma in cui dimostra la sua insospettabile verve interpretativa, e, di conseguenza, di essere meglio di quanto sembra.
Ma il secondo atto è quello decisivo.
Aprirsi
Il problema di Laney non è il suo essere brutta, ma piuttosto il suo arrendersi alla vita.
Del tutto convinta del suo destino di ragazza sfigata e isolata da tutti, vivendo rinchiusa ora nel contesto familiare – di cui prende totalmente le redini, andando a colmare il vuoto della madre defunta – ora nell’aula di arte, dove il suo unico modo per avere successo sembra la morte artistica.
Invece, proprio con la giornata in spiaggia, la protagonista scopre conto di poter essere molto più incisiva di quanto potesse credere: se sulle prime le ragazze sembrano intenzionate solo a prendere il sole, è proprio la scelta di Laney di giocare invece coi ragazzi a svoltare la giornata.
La stessa incisività si vede anche durante la festa di Taylor, che la bullizza e la fa scappare in lacrime, ma non prima che la protagonista le risponda a tono, sottolineando la cattiveria della regina del ballo ancora non spodestata.
In conclusione, è ora di aprire una parentesi dovuta.
Vendetta
Un elemento chiave di She’s all that è la vendetta.
Il film, forse neanche consapevolmente, ci insegna che l’unico modo per rispondere al bullismo è con altrettanta, se non maggiore, cattiveria: così Laney ha la sua rivalsa sulle umiliazioni di Misty, pitturandole la faccia come quella di un pagliaccio e umiliando davanti a tutti…
…e, soprattutto, così Zach si dimostra come salvatore degli ultiminon solo proteggendo il fratello di Laney dai bulli, ma sottoponendoli alla loro stessa medicina, in una scena rivoltante che anticipa ben più altre vette che vedremo nel cinema popolare negli anni successivi.
Di mio preferisco decisamente altri tipi di narrazioni che, per quanto più consapevolmente cattive nel mostrare certi temi, si concludono in ogni caso con visioni più positive, volte a spezzare questa catena del distruggersi a vicenda – specificamente,Mean girls (2004) e Heathers (1989).
Così anche il fatto che con tanta leggerezza Laney renda sostanzialmente sordo Dean per evitare uno stupro mi lascia qualche dubbio…