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David Cronenberg Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film L'ultimo orrore di Cronenberg Mistero

The Shrouds – Dialogo morto

The Shrouds (2024) di David Cronenberg è un dramma fantascientifico incentrato sul tema dell’elaborazione del lutto.

Di cosa parla The Shrouds?

Karsh affronta la morte della moglie in maniera piuttosto particolare: continuando ad osservare il contenuto della sua tomba. Ma non tutti sono d’accordo con questa tecnologia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Shrouds?

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

In generale, no.

Purtroppo con The Shrouds Cronenberg si perde totalmente in uno spunto che poteva anche essere interessante – quanto tipico della sua produzione – ma che è fatto a pezzi da una trama confusionaria, una trattazione tematica pasticciata, e un didascalismo sconcertante.

A questo si aggiunge un racconto di non poche tematiche con ben poca lucidità, ai limiti dell’imbarazzante…

Spunto

L’incipit di The Shrouds poteva a suo modo essere interessante.

Karsh vive nel sogno – o incubo – della moglie morta, e progetta uno speciale sistema per poter essere con lei anche nell’oltretomba, circondandosi di fotografie che ne raccontino il lugubre presente, ma anche la sicurezza della sua condizione, piuttosto che uno sfumato passato.

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Così la figura di Becca è onnipresente, sia nella tomba digitale – che allontana possibili nuove partner – sia nella realtà fittizia, ora del sogno – in cui la moglie è costantemente fatta a pezzi – ora della sua assistente virtuale, che ne mantiene le fattezze.

Altrettanto interessante poteva potenzialmente essere l’atto di vandalismo ai danni del cimitero, che ci portava sulla strada di un giallo fantascientifico, proprio grazie alla presenza delle misteriose protuberanze sullo scheletro di Becca…

…e invece, nessuna strada è veramente percorsa.

Scioglimento

Vincent Cassel e Jennifer Dale in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

È onestamente difficile seguire la via tracciata da Cronenberg in The Shrouds.

Non perché si tratti di un racconto enigmatico ed inafferrabile come l Videodrome (1983), ma bensì perché il regista sembra prima voler rendere il mistero centrale alla vicenda, per poi spingerlo ai margini della scena, intrappolandolo in uno scioglimento piuttosto confuso ed estremamente didascalico.

Infatti, non vi è alcuna costruzione del mistero e della tensione, ma la soluzione viene semplicemente espressa tramite i dialoghi dei personaggi, ma senza che vi sia un retroterra narrativo significativo, ma piuttosto perché gli stessi o sentono improvvisamente di volersi confessare…

…oppure perché arrivano alle soluzioni senza doverci davvero pensare.

E così bastano pochi passi falsi per fare perdere ogni tipo di interesse verso la storia, rendendo lo scioglimento della vicenda un calderone dove buttare molti concetti senza comprenderne veramente nessuno, pescando vari temi di stretta attualità, nemici vecchi e nuovi – i cinesi quanto i russi – finendo per perdersi in un ingestibile caos.

E non è neanche la parte più problematica della pellicola.

Attualità

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

E piuttosto comune per il genere fantascientifico collegarsi ad argomenti di attualità. 

Ma non è un obbligo.

Durante la sua produzione cinematografica Cronenberg non ha mai voluto avere un collegamento così stringente con la sua contemporaneità, spesso spaziando invece in possibili futuri grotteschi o in revisioni del presente più sui toni dell’onirico o persino del fantastico.

Per The Shrouds Cronenberg ambienta la vicenda in un futuro non troppo lontano, inserendo alcuni concetti di strettissima attualità – macchine che si guidano sole, Intelligenza Artificiale – ma senza riuscire ad indovinarne in realtà nessuna, ma anzi spesso perdendosi nelle stesse. 

Vincent Cassel e Sandrine Holt in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Particolarmente strana è la questione dell’Intelligenza Artificiale, che sulla carta sembra voler denunciare il nostro ingenuo abbandono ad una tecnologia che non è altro che un burattino, una facciata per metterci a nudo e manipolare le nostra vite…

…ma in conclusione non si comprende chiaramente in quale direzione voglia andare, dimostrando effettivamente la tesi di cui sopra, ma senza che sia chiaro quale sia il motivo – o effettivamente il modo, dal momento che le paure di Karsh si erano concretizzate con quell’aspetto solo in sogno.

E, allora, di cosa vuole parlare The Shrouds?

Focus

Vincent Cassel in una scena di The Shrouds (2024) di David Cronenberg

Se mettiamo da parte la questione fantascientifica e morale, cosa rimane a The Shrouds?

Forse, quello di cui veramente voleva parlare.

Osservando l’andamento della vicenda e l’importanza che viene data ai personaggi, Cronenberg sembra in realtà voler parlare dell’elaborazione del lutto, particolarmente della difficoltà del protagonista di allontanarsi fisicamente dalla figura della moglie defunta…

…ma volendo al contempo farla a pezzi, quasi sezionarla, e infine punirla per essersi in parte concessa ad un altro uomo – un importante convitato di pietra che entra in scena solamente da morto – per una punizione che è solo un modo per liberarsi dalla sua presenza.

Tuttavia, l’aver arricchito una narrazione con così tanto potenziale di elementi che non sono riusciti ad incastrarsi fra di loro, l’averla conclusa sempre tramite la bocca del protagonista e senza un minimo di pathos effettivo, ha per me privato l’opera di tutto il suo potenziale interesse.

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Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

I Vitelloni – Costretti alla vita

I Vitelloni (1953) è uno dei film più noti della fase neorealista della filmografia di Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, la pellicola è stata un successo internazionale, riuscendo ad arrivare molto oltre i confini italiani, dove comunque incassò più di 28 mila euro.

Di cosa parla I Vitelloni?

La vicenda si incentra sulle vicende di un gruppo di bambini troppo cresciuti, incapaci di abbracciare la vita adulta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Vitelloni?

Assolutamente sì.

Come era stato per il precedente Lo sceicco bianco (1952), anche in questo caso Fellini porta in scena un racconto dissacrante della società italiana, della fragilità del sogno piccolo borghese intrappolato in una serie di codici che non riesce a sostenere…

…ben rappresentato dai cinque protagonisti che si fanno largo in una vita dove vogliono essere capifamiglia, inguaribili dongiovanni, artisti incompresi…per ritrovarsi ad essere solo dei bambinoni (o Vitelloni, appunto) incapaci di diventare adulti e di prendersi anche solo la minima responsabilità sulle spalle.

Incidente

Riccardo Fellini e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

L’incipit è un perfetto spaccato della condizione iniziale dei protagonisti.

La simpatica occasione di incontro paesano ruota intorno all’incoronazione della reginetta di bellezza, ultimo momento del racconto di un sogno di giovinezza che sembra non avere mai fine, in cui i Vitelloni ne sono il degno contorno…

…ma che viene spezzato da un temporale improvviso e inarrestabile, quanto è inarrestabile l’incidente della gravidanza di Sandra, che, soffocata dal peso della responsabilità, sviene in mezzo alla folla rivelando così il peccato giovanile che la forzerà immediatamente alla vita adulta.

Franco Fabrizi e Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

In questo senso Fausto è l’apoteosi dei Vitelloni, che sogna una vita al di fuori di ogni responsabilità, soprattutto quella di una donna fissa al suo fianco, che cerca di fuggire alla prima occasione, ma che viene subitamente riportato coi piedi per terra dall’arcigno patriarca.

Ed è solo l’inizio.

Fuga

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

I Vitelloni vivono in una continua fuga.

Fausto cerca ogni occasione per fuggire dalle responsabilità del suo matrimonio, non scegliendo una particolare alternativa allo stesso, ma semplicemente avventandosi su ogni donna gli sembri anche vagamente interessante, incapace di rimanere fedele alla dolce e innocente Sandra.

E per lui è ancora più straziante rimanere bloccato in un limbo costrittivo e soffocante, in cui è tecnicamente un adulto – in quanto sposato – ma deve sottostare ai controlli pressanti di una famiglia che non è neanche la sua e che lo trattiene come in un bozzolo, in attesa che possa sbocciare – o maturare.

Franco Fabrizi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

E la sua immaturità non è solo nel suo continuo e testardo rifuggire la trappola matrimoniale, ma nel comportarsi senza aspettarsi nessuna conseguenza – che sia per le donne o per gli stupidi furti – finendo anzi continuamente punito e sconfitto.

E gli altri?

Ruolo

E se il sogno fosse troppo?

Nessuno dei Vitelloni è capace di affrontare davvero la vita adulta: persino il sognatore Leopoldo, che vede finalmente le sue notti di studio maturare i primi frutti nelle lodi e promesse entusiastiche del commediografo, con la promessa di evadere la realtà provinciale in cui è costretto…

…fugge spaventato davanti ad una realizzazione del sogno non così idealizzata come si immaginava, in cui la via per la gloria può essere lastricata di insidie e di attenzioni non richieste, come quelle ambigue che gli rivolge il drammaturgo sulla spiaggia.

Alberto Sordi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Ma quello più bloccato in un limbo paradossale è Alberto.

Fra tutti, è il protagonista che abbraccia di più il suo lato infantile, che ha il suo apice nella festa di Carnevale, in cui si traveste scioccamente da donna, ma che si manifesta anche nelle stupide scommesse di cavalli e nelle ubriacature deliranti che gli impediscono di assumere quel ruolo tanto ricercato.

Infatti Alberto vorrebbe essere il patriarca di una famiglia senza padre, vorrebbe proteggere la sorella, anzi decidere della sua vita, quando la stessa è ormai economicamente indipendente, e sceglie consapevolmente di evadere ogni norma sociale con il suo amante…

…e infine fuggendo da una realtà che ormai gli sta troppo stretta.

Ma il lieto fine è possibile?

Futuro

Come spesso nei film di Fellini, il finale de I Vitelloni è volutamente ambiguo e amaramente ironico.

Il punto di arrivo dovrebbe rappresentare finalmente la maturazione di Fausto, messo davanti alle conseguenze delle sue malefatte, rischiando di perdere la moglie che diventa finalmente il suo unico desiderio, tanto da scacciare la femme fatale su cui aveva messo avidamente gli occhi qualche mese prima.

Eppure, le parole di chiusura di questa scena sono estremamente eloquenti:

La storia di Fausto e Sandra finisce qui, per ora.

Così Fellini non prospetta un finale lieto in cui il sogno borghese si è ricomposto, ma piuttosto ci lascia con una chiusura provvisoria che non esclude che nel futuro Fausto possa ricadere nei medesimi comportamenti, né risolve di fatto nessuna delle vicende dei suoi protagonisti.

Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Nemmeno la fuga di Moraldo è risolutiva, anzi è significativa per confermare il limbo in cui i protagonisti sono intrappolati, immaginandoli come passeggeri del medesimo treno con una destinazione ancora incerta, e infine in bilico su una rotaia solitaria, fra due vite, senza appartenere a nessuna delle due…

…proprio come Gaetano nella chiusura della pellicola.

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Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Il medioevo

Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.

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2024 2025 Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Musical Oscar 2025 Surreale

Emilia Pérez – La bizzarra seconda occasione

Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard è un musical con protagoniste Zoe Saldana e Karla Sofía Gascón.

A fronte di un budget discreto – 21 milioni di euro – è stato un pesante insuccesso commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Candidature Oscar 2025 per Emilia Pérez (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior film internazionale
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Karla Sofía Gascón
Migliore attrice non protagonista per Zoe Saldana
Migliore sceneggiatura non originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore canzone originale
Miglior trucco e acconciatura
Migliore sonoro

Di cosa parla Emilia Pérez?

Rita è un’avvocata praticante sistematicamente sfruttata dal suo studio legale. Ma un’occasione di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emilia Pérez?

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

In generale, sì.

Emilia Pérez è stato, fra le altre cose, ampiamente discusso per il taglio narrativo, che presenta non pochi inserti musicali piuttosto bizzarri, che rendono la narrazione al limite del fantastico, del teatrale, pur raccontando tutto sommato una storia molto semplice.

Infatti, se riuscirete a digerire la particolarità del lato musical, potreste arrivare ad apprezzare una pellicola che infine non è altro che un dramma piuttosto toccante sulla seconda occasione di personaggio insospettabile: un boss di un cartello della droga messicano.

Insomma, dategli una chance.

Spaesamento

Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Personalmente, ho mal digerito l’elemento musicale di Emilia Pérez.

Ma forse è proprio questo il punto.

Fin dalle sue primissime battute la pellicola gioca su questo peculiare contrasto fra un racconto piuttosto amaro e angosciante, che esplode improvvisamente in numeri musicali più propri forse del teatro che del cinema, soprattutto per le sue coreografie decisamente bizzarre.

Selena Gomez in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

L’elemento musicale è inoltre uno strumento fondamentale per definire la protagonista, che ci appare in prima battuta come una spietata boss del crimine, ma che nel cantato esprime i suoi più intimi sentimenti di cambiamento, di cui la transizione è solo il primo passo.

E proprio qui si sviluppa il discorso cardine della pellicola.

Rinascita

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia vuole rinascere.

La nuova vita che la protagonista regala a Rita è solamente il primo passo della sua sistematica ridefinizione del sé, che la porta a ripercorrere le strade già battute della scena criminale messicana, ma in una veste del tutto nuova: non più aguzzina, ma salvatrice di un popolo di oppressi.

E la protagonista vuole raccontarsi in questa nuova identità anche nei confronti della famiglia che ha di fatto abbandonato, ma con cui cerca di ricongiungersi proprio nella sua immagine di salvatrice di un nucleo affettivo profondamente colpito dall’abbandono del padre.

Un tentativo di riappacificazione piuttosto disordinato e disattento, in cui Emilia sembra incapace di mantenere intatta questa nuova identità, dimostrandosi cambiata di aspetto ma non di atteggiamento, continuando a comportarsi con i suoi figli e, soprattutto, con la moglie, come se nulla fosse successo.

Infatti, il suo linguaggio è rivelatorio.

Passato

Karla Sofía Gascón in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Emilia può davvero rinascere?

Nonostante i buoni sentimenti del suo progetto, la protagonista ricade ripetutamente in comportamenti che l’avevano definita nel passato, con il linguaggio della violenza domina costantemente la scena, persino in opere di bene come il salvataggio della vedova…

Karla Sofía Gascón e Zoe Saldana in una scena di Emilia Pérez (2024) di Jacques Audiard

Un comportamento che si riflette in grande nella scelta dei benefattori per la sua causa umanitaria, in piccolo nel rapporto con la sua famiglia, da cui si rifiuta di separarsi, vivendo il nuovo matrimonio della moglie – e la sua personale rinascita – come un profondo ed imperdonabile tradimento.

Ma violenza è da entrambe le parti.

La stessa Jessi è cresciuta in un contesto in cui la violenza è la moneta di scambio, rispondendo colpo su colpo ai beceri tentativi di Emilia di limitare la sua libertà, la sua autodeterminazione, in un disordinato ultimo atto che porta tutti i protagonisti all’inevitabile autodistruzione.

E la chiusura della pellicola è assolutamente emblematica nel suo essere volutamente grottesca mentre mostra Emilia Pérez definitivamente consacrata nel suo ruolo di salvatrice, con tratti volutamente cristologici, raccontando come un cambiamento, tutto sommato, sia effettivamente avvenuto.

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2024 Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2025

The Brutalist – L’impossibilità della costruzione

The Brutalist (2024) di Brady Corbet è un dramma storico con protagonista Adrien Brody.

A fronte di un budget di circa 10 milioni di dollari, è già un buon successo commerciale: 25 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per The Brutalist (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior regista
Migliore attore protagonista per Adrien Brody
Migliore attore non protagonista per Guy Pearce
Miglior attrice non protagonista per Felicity Jones
Migliore sceneggiatura originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore montaggio
Miglior scenografia

Di cosa parla The Brutalist?

László Tóth è un architetto ebreo che, salvatosi dallo sterminio nazista, emigra negli Stati Uniti. Ma l’accoglienza è solo apparentemente calorosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Brutalist?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

In generale, sì.

Purtroppo non riesco ad unirmi al coro di entusiasmo riguardo a questa pellicola, che ho sentito, per via delle tematiche raccontate, profondamente lontana da me, oltre che per certi versi inutilmente prolissa nella narrazione di un tema che mi sembrava già ampiamente esplorato già a metà della visione.

Tuttavia, non ne posso che riconoscere l’importanza artistica e soprattutto storica, che si collega drammaticamente alla contemporaneità con un taglio narrativo a tratti straziante, genuinamente disturbante, anche grazie agli ottimi attori protagonisti. 

Salvo

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

László è salvo…?

L’arrivo negli Stati Uniti è accompagnato da un sincero entusiasmo, che sembra confermato anche dalla calorosa accoglienza da parte di Attila, che si accompagna alla felice notizia della sopravvivenza della moglie, che ormai il protagonista pensava perduta.

Tuttavia, già qui troviamo degli elementi discordanti.

Nonostante la coppia sembri accogliere László con grande altruismo, lo stesso Attila racconta l’inevitabile cambio di passo della comunità ebraica, costretta a mutare faccia e natura per farsi accettare dagli Stati Uniti, solo apparentemente accoglienti nei confronti dei rifugiati.

Un’insofferenza sotterranea che esplode in concomitanza con l’incidente della famiglia Harrison, e che si aggrava con le accuse infondate da parte della moglie del cugino, che porta il protagonista ad essere definitivamente messo ai margini.

Ma una redenzione è forse dietro l’angolo…

Discrepanza

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Il crescendo del rapporto con Harrison è solo un’ulteriore conferma della discordanza che domina la vita di László.

La stessa rappresenta in piccolo l’atteggiamento occidentale nei confronti della comunità ebraica, verso la quale riconosceva un’importante responsabilità, e che era effettivamente desiderosa di riscoprire per il capitale intellettuale racchiuso nella stessa, ma senza mai renderla sua pari.

Non a caso, il progetto può essere riletto come una rappresentazione della fondazione della stessa Israele, ma che si accompagna ad una sostanziale marginalizzazione degli ebrei: come László è a parole elogiato e premiato, nelle retrovie già solo la sua rozza sistemazione è indice del vero sentimento della famiglia che lo ospita.

E l’arrivo della moglie è l’inizio dell’ecatombe.

Rimorso

Adrien Brody e Felicity Jones in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Più mi avvicinavo alla seconda parte del film, meno riuscivo a raccapezzarmi della sua storia.

E vorrei dire che l’elemento che più mi ha confuso sia a moglie, ma la stessa alla fine è del tutto comprensibile nel contesto del film: per me è abbastanza immediata l’associazione metaforica fra la Erzsébet e il peso delle radici che il protagonista deve portarsi sulle spalle in maniera piuttosto opprimente.

La lettura può proseguire anche in altre direzioni: un’eredità mutilata e che, nonostante le speranze, non potrà mai veramente rimarginarsi, e al contempo il sentimento di imposizione rappresentato, in maniera più o meno condivisibile, tramite lo stupro da parte di una donna – e di un simbolo – che è diventato insopportabile.

È tutto il resto che mi confonde terribilmente.

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

L’andamento della seconda parte l’ho trovato per molti versi superfluo, inutilmente prolisso nel raccontare, anzi nel sottolineare una narrazione simbolica che mi sembrava già conclusa un’ora prima, un’esasperazione di quanto già visto con un’ulteriore scena di violenza sessuale.

Quello che mi è risultato chiaro è quanto personale ed identitaria fosse diventata la costruzione per László, tanto da investirci finanze proprie per concludere un progetto rappresentativo della sua riaffermazione sociale, tramite la ricostruzione di uno spazio che gli era stato sottratto negli anni della guerra…

…che mi allontana ancora di più dalla pellicola.

Universale?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

La mancanza di interesse nei confronti di una tematica non è un difetto dell’opera…

…ma non posso che sottolinearla.

Nonostante il regista abbia tentato di ricondurre la narrazione ad un tema più universale e contemporaneo – il dramma dell’immigrazione – purtroppo proprio per specificità sopra descritte, l’ho trovata al contrario una narrazione su una tematica estremamente specifica e definita dal periodo storico.

Guy Pierce in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

A questo si aggiunge un racconto che, nel suo ultimo atto, non è mai riuscito a coinvolgermi, anche perché la narrazione mi appariva un continuo avanti e indietro, che porta ad un finale enigmatico per più motivi: Harrison viene assorbito dalla costruzione di László, e per estensione, da lui stesso? E se sì, perché?

E, ancora di più, cosa intende raccontarci il finale? Che nonostante il turbolento percorso, alla fine László è l’unico che ne è uscito vittorioso?

Concludo la visione con più domande che risposte, e poco interesse a scoprire quest’ultime.

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2024 Commedia Dramma romantico Drammatico Film Oscar 2025

Anora – Sotto una superficie triviale

Anora (2024) di Sean Beaker è un film drammatico con protagonista Mikey Madison.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 6 milioni di dollari – è stato nel complesso un ottimo successo commerciale: 36 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Anora (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attrice protagonista per Mickey Madison

Migliore attore non protagonista per Jurij Borisov
Migliore sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anora?

Anora è una spogliarellista che sembra aver trovato la sua gallina dalle uova d’oro: un giovanissimo ereditiere russo che sembra innamorato perso di lei…?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anora?

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Assolutamente sì.

Anora è uno di quei film che sembrano percorrere strade già ampiamente battute, ma che invece riesce ad ogni passo a sorprenderti con un rapporto molto più crudo e reale di quello che potrebbe sembrare ad una prima occhiata.

Infatti la pellicola è definita da una trama più superficiale, in cui la protagonista è una ragazza senza alcun tipo di vergogna e di remora nello sfruttare le situazioni a suo vantaggio, e una trama più sotterranea e toccante tutta da scoprire.

Sorriso

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Anora affronta la sua vita con il sorriso.

La prima inquadratura ci trasporta in un panorama umano piuttosto desolante, in cui ragazze giovanissime diventano prede di un gruppo di uomini allupati, che per un semplice balletto erotico le riempiono di centoni come se nulla fosse.

Ma già da questo frangente emergono le prime crepe.

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Nonostante la protagonista sfoggi sempre un sorriso smagliante, già dalla sua intensa ricerca del prossimo cliente emerge come il suo non sia un lavoro di piacere, ma di sopravvivenza, dove le sue entrate dipendono da quanto riesce a raccogliere ogni sera.

E, per comprendere la relazione con Vanja, è importante considerare anche un altro elemento.

Potere

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Non sono i clienti ad avere potere su Ani, ma il contrario…

…o almeno è quello che lei vorrebbe far credere a se stessa.

Appare evidente fin dal primo incontro con il suo futuro marito che Ani giochi molto con le aspettative dei clienti e con il loro gusto per il proibito, proprio per come racconta furbescamente il suo strusciarsi sul loro pacco come una cosa speciale e vietata che fa solo per Vanja.

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

E tutte le interazioni successive fra i due mostrano come la protagonista illuda se stessa di avere il totale controllo della situazione, in cui lascia che sia il ragazzo a far di lei quello che vuole, mentre lei ridacchia sommessamente per quanto lo trova ridicolo.

E la situazione si complica solo apparentemente nella settimana di esclusiva, in cui Ani diventa la fidanzata trofeo del giovane miliardario, che però non si limita alle prestazioni sessuali, ma ad un intenso periodo di frequentazione in compagnia dei suoi amici.

Ma è il matrimonio che rovina tutto.

Sogno

Mikey Madison e Mark Eydelshteyn in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Dall’esterno, Ani vuol far credere a tutti di essere semplicemente felice di aver trovato un riccone da spennare a suo piacimento…

…ma i suoi comportamenti raccontano altro.

La protagonista cerca di rimodellare la loro relazione così che non sia più un rapporto di clientela, ma di sincero affetto che Ani è convinta che il ragazzo provi nei suoi confronti, partendo proprio dalla sfera erotica.

Infatti fino a questo momento Vanja, anche senza malizia, si era avventato su di lei quasi come se volesse esibirsi, probabilmente ubriaco di un immaginario pornografico del tutto fuorviante…

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

…e infine Ani cerca di educarlo perché entrambi si godano veramente l’atto sessuale.

In linea generale, per lungo tempo la protagonista continua a trattare il suo compagno come un bambino che deve essere guidato, forte anche del fatto che Vanja non abbia mai comportamenti predominanti nei suoi confronti, e che il suo innamoramento sembra sincero.

Sembra…

Prova

Mikey Madison in una scena di Anora (2024) di Sean Beaker

Anora ha una visione univoca del mondo.

Abituata a farsi sfruttare da ogni uomo della sua vita – con l’apparente eccezione di Vanja – è drammaticamente comprensibile la sua reazione all’arrivo dei sicari della famiglia Zacharov, nonostante gli stessi siano tutto sommato innocui.

In questo frangente il film mostra nuovamente le sue carte nel riportare il racconto sul piano del reale, spogliando i personaggi di ogni tipo di minaccia e di crudeltà a cui il cinema statunitense ci ha ampiamente abituato, dando alla scena tutto un altro sapore.

Oltre alla sua genuina paura, Anora reagisce in maniera così isterica perché il terzetto – e, soprattutto, Toros – diventa portatore di una verità inaccettabile: per Vanja la protagonista non è altro che l’ennesima avventura che può permettersi di intraprendere senza alcuna conseguenza.

Ma Ani lotta fino all’ultimo per smentire questa realtà sempre più pressante.

Cancellare

Ani non si vuole arrendere.

Durante il rocambolesco inseguimento di Vanja, la protagonista si spegne progressivamente, perdendo sempre di più la sua apparenza brillante e desiderabile, con un aspetto che riflette la sua graduale angoscia.

Infatti praticamente fino all’ultimo Ani si batte per dimostrare che Vanja non l’abbia abbandonata, che il suo amore, le sue promesse erano sincere, e che lei non è solamente una parentesi vergognosa nella storia della famiglia del marito.

Un tentativo così disperato che si scontra costantemente anche con le prove più evidenti dei veri sentimenti di Vanja, totalmente passivo alla situazione e, soprattutto, alla sua famiglia, che entra prepotentemente in scena con lo specifico obbiettivo di cancellare Anora.

E allora è il momento di riscrivere la storia.

Riscrivere

Ani deve di riscrivere la storia a suo favore.

Davanti alla ormai innegabile realtà della vera natura di Vanja, la protagonista ribalta la situazione e la risputa in faccia alla madre, chiosando come suo figlio sia solamente una fighettina incapace di affrontare la situazione senza farsi proteggere dalla sua famiglia.

Una riscrittura che passa anche per le ultime battute del film, quando Ani ha uno scambio piuttosto emblematico con Igor, che la protagonista vorrebbe riscrivere come uno stupratore che si sarebbe approfittato di lei alla prima occasione.

Al contrario, il silenzioso mercenario è l’unico che sembra veramente aver compreso Ani, l’unico che è stato capace di guardare oltre alla facciata che la ragazza ha messo in piedi, e l’unico che vorrebbe avere un rapporto genuino con lei, senza secondi fini.

Per questo, quando le regala l’anello, Ani sente di dover ricambiare il gesto con l’unica arma nel suo arsenale – il sesso – ma rimane raggelata quando l’uomo cerca di baciarla, e quindi di rendere più personale e affettuoso il loro incontro…

…finendo per scoppiare in lacrime davanti alla consapevolezza di essere stata per tutta la sua vita – e ancora una volta – unicamente usata per il proprio corpo.

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La ballata di Buster Scruggs – Un affettuoso saluto

La ballata di Buster Scruggs (2018) è – per ora – l’ultimo film codiretto dai Fratelli Coen, prima di prendere strade artistiche separate.

Il film è stato prodotto e distribuito da Netflix direttamente in piattaforma.

Di cosa parla La ballata di Buster Scruggs?

Partendo dalle mirabolanti avventure di Buster Scruggs, il film si snoda fra sei storie ambientate nel selvaggio West, accomunate da un elemento lugubre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La ballata di Buster Scruggs?

In generale, sì.

Nella lunga carriera dei Coen, forse questo è uno dei loro film più riusciti dopo anni di produzioni molto meno indovinate: avendo ormai da tempo manifestato il loro amore per il genere western – già in Il Grinta (2010) – La ballata di Buster Scruggs rappresenta il punto di arrivo ideale per la loro carriera di coppia.

E i toni del film sono veramente molto variegati: si passa da episodi dal taglio comico, surreale, quasi grottesco, per sfociare in brevi storie invece decisamente più drammatiche, che tratteggiano un ritratto piuttosto disincantato del Vecchio West.

Insomma, vale la pena di dargli un’occhiata.

La ballata di Buster Scruggs si può leggere a suo modo come un sunto degli alti e bassi della carriera del duo registico.

E proprio in questo modo la voglio leggere.

Morte

Il leitmotiv di La ballata di Buster Scruggs è la morte.

Il trapasso infatti ci coglie di sorpresa fin dalla primissima storia, in cui lo sgargiante personaggio che dà il nome al film si destreggia fra diverse avventure che si concludono tutte con la sconfitta del suo avversario e il plauso del pubblico.

Questo attacco così peculiare può essere letto come uno spaccato dei primi anni del duo: forti di due successi di ampissimo respiro come Fargo (1996) e Il grande Lebowski (1998), al tempo di Fratelli Coen sembravano la nuova promessa di Hollywood.

E invece negli anni successivi i due hanno ottenuto un successo di pubblico sempre più tiepido, prima con i più incolori Fratello, dove sei?  (2000) e L’uomo che non c’era (2001), fino al totale decadimento registico con Prima ti sposo, poi ti rovino (2003).

Eppure, fu solo la prima volta…

Prima volta?

La seconda storia è tanto emblematica in quanto racconta la seconda risalita e discesa del duo.

Come il protagonista della storia si trova a dover affrontare le fortune alterne della sua carriera criminale, con un insperato salvataggio dall’impiccagione per poi finire nuovamente sulla gogna, allo stesso modo i Fratelli Coen ritrovarono un nuovo scoppio di popolarità con Non è un paese per vecchi (2007)…

…per poi tornare nel dimenticatoio già col film successivo, Burn After Reading (2008), l’anticamera di una serie di produzioni molto meno apprezzate, fra cui forse spicca il simpatico Il Grinta (2010), che però non gli valse un nuovo successo.

Infatti, gli umori del pubblico sono molto altalenanti.

Buio

Gli episodi centrali sono quelle che meglio raccontano le fasi più buie della loro carriera.

L’angoscia di fondo si fa particolarmente sentire nella terza storia, in cui i personaggi rimangono sostanzialmente in silenzio per la maggior parte del tempo, e in cui il grande protagonista è la recitazione dello sfortunato Harrison, che riecheggia ripetutamente per la scena.

In questo frangente il duo sembra voler raccontare una fortuna molto passeggera – ottenuta grazie ai suddetti titoli di successo – ma che ha portato gradualmente il pubblico ad abbandonarli, nonostante la loro opera – almeno ai loro occhi – avesse sempre lo stesso valore.

Insomma, si racconta un panorama selvaggio e senza pietà, in cui il circense – o il produttore – si affida al partito che gli è in quel momento più comodo e più redditizio, scaricando il suo protetto quando questo non riesce più a brillare come un tempo.

Una tendenza piuttosto amara che si conferma anche con il successivo episodio, che racconta la crudele caccia all’oro, in cui un vecchio cercatore riesce finalmente ad individuare un filone aureo, ma viene scalzato dal giovane approfittatore di turno…

…ma rimettendosi subito in piedi e risultando infine vincitore.

Infatti, la speranza è un altro tema persistente.

Futuro

Nonostante la carriera da duo artistico sia arrivata al capolinea, i due registi non sembrano perdersi d’animo.

Le lunghe riflessioni per ricominciare su una nuova strada partono proprio dal penultimo episodio, in cui diverse coppie si creano e si sfaldano: prima Alice e suo fratello, poi Alice e Knapp, il quale sceglie di scegliere una vita diversa rispetto al suo storico compare.

Un racconto su un futuro ancora incerto, una consapevolezza un po’ amara di intraprendere una nuova avventura partendo da un passato agrodolce, punteggiato da momenti di buio e quanto da gioie passeggere, come ben si riassume nell’ultimo episodio.

Infatti, la giocosa complicità del duo dei cacciatori di taglie è probabilmente un ritratto che i due registi fanno di sé stessi: piuttosto strambi e fuori dalle righe, non sempre apprezzati e non sempre capiti, ma che arrivano a fine giornata – e di carriera – sempre con il sorriso sulle labbra.

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Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, Piccole Donne non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi – io, personalmente, mi sono lasciata agganciare.

Infatti si tratta di una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, riuscendo, pur con qualche sbavatura, a riscrivere in chiave contemporanea la storia di Louisa May Alcott.

Luce

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Greta Gerwig è perdutamente innamorata della sua protagonista.

L’ottima Saroise Ronan era stata la sua attrice feticcio già fin dai suoi esordi registici in Lady Bird (2017), e qui diventa la protagonista assoluta della scena, sempre premiata sia dalla scrittura piuttosto compiacente, sia dalla fotografica disegnata sul suo personaggio.

E per me è stato tanto più difficile – non ai livelli di The Whale (2022), ma poco ci manca – abbracciare questa visione, che mi è parsa a tratti quasi forzata nel voler raccontare una protagonista che si ribella alle convenzioni sociali.

E, per quanto il suo comportamento sia più volte problematizzato, non lo è mai fino in fondo: Jo prima si lega profondamente a Laurie, poi lo respinge e scappa per trovare fortuna altrove, per finire in un dovutissimo bagno di realtà.

Di fatto, pur con le sue ingenuità, Jo racconta il passaggio dalla spensierata infanzia alla durezza della vita adulta, in cui il successo non è scontato, in cui le altre persone non vivono in nostra funzione, ma anzi la posizione di predominanza si ottiene fra insuccessi e dolorosissime fatiche.

Ma la vera vittima è un’altra.

Seconda

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è l’eterna seconda…

…anche metanarrativamente parlando.

Come Saoirse Ronan è la grande protagonista della scena, al contrario Florence Pugh è costantemente penalizzata da trucco e costumi: dalla frangetta improbabile nella giovinezza ai vestiti stretti fino alla gola in età adulta, tutto sembra imbastito per imbruttirla.

E così anche i suoi capricci giovanili, nonostante siano decisamente meno gravi rispetto ai comportamenti di Jo, infestano costantemente il suo personaggio, che sia presente in scena o meno – ovviamente, tramite la durezza delle parole della sorella meritevole.

Florence Pugh e Thimothee Chalamet in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

E invece io personalmente mi sento più vicina alla mediocrità di Amy, che cerca di disegnarsi il suo spazio nell’ingombrante ombra della sorella maggiore, che si arrende davanti al suo non-genio, davanti al triste destino di una donna del suo tempo – ben più consapevole di discorsi analoghi della stessa Jo. 

Per questo esce vittoriosa infine ottenendo una piccola felicità personale, ricambiata dal suo amore segreto, costruendosi una vita familiare con una persona con cui potrebbe davvero avere una esistenza complessivamente serena, forse non dovendo del tutto abbandonare le sue passioni…

…che escono ovviamente dalla scena in favore della ben più meritevole Jo.

Ma non è l’unica femminilità possibile.

Accontentarsi

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Nonostante il totale protagonismo di Jo, Piccole donne lascia spazio anche ad altre femminilità.

Meg è rappresentazione a suo modo di un’eroina romantica che abbraccia la nascente tendenza del matrimonio non più per motivi politici, ma per un sincero innamoramento, che la costringe ad abbandonare ogni prospettiva di ricchezza e di vita mondana a favore di una più frugale esistenza.

Infatti, nonostante le preoccupazioni di Jo siano nei confronti del matrimonio di per sé – proiezione dei suoi stessi timori – la vera angoscia di Meg riguarda il dover rimanere in un’amara povertà, di doversi privare delle bellezze di una vita più frivola e con meno preoccupazioni economiche.

Insomma il suo personaggio è tormentato dall’idea di lasciarsi tentare da un mondo più attraente, per quanto più insidioso, dove un giorno sei la favorita dell’ape regina di turno – il suo pet, il suo animaletto da compagnia – in un altro sei vittima di pettegolezzi che rappresentano il fulcro della sua esistenza.

Per questo per me è tanto più soddisfacente vedere la maturazione di Meg, che capisce quanto può essere più felice in una vita anche più modesta, ma con a fianco una persona che davvero può fare la sua felicità, anche se nella ristrettezza inevitabile dei mezzi.

Ma manca un fondamentale pezzo a questo puzzle.

Tragedia

L’ultima faccia della storia è Beth.

Personaggio apparentemente di contorno, apparentemente solo il nucleo tragico della vicenda, è in realtà il perno fondamentale della vicenda intorno a cui ruota tutto il passaggio fra passato e presente, nella continua angoscia per la malattia che potrebbe strapparla dal mondo ancora così giovane e innocente.

In questo senso Beth è in tutto e per tutto un’eroina tragica che, nonostante la sua bontà, non può pensare al suo futuro, ma solo ad un limitato presente, in cui viene premiata proprio per la sua innocente bontà e curiosità verso una passione che è anche indice della sua innata capacità musicale.

E così, per quanto lacrimevole, il momento sia della salvezza che della morte è anche il punto di arrivo di una ricongiunzione di un nucleo familiare che si rimette in discussione in tutte le sue parti e che infine si ritrova felicemente nella medesima eredità dell’arcigna zia March…

…dove ognuno sembra aver trovato il suo posto.

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Avventura David Lynch Dramma romantico Drammatico Film Surreale

Mulholland Drive – La storia sparsa

Mulholland Drive (2001) è da molti considerato il capolavoro di David Lynch – ed è anche il penultimo della sua produzione dopo la lunga pausa tutt’ora in corso.

A fronte di un budget come sempre molto piccolo – appena 15 milioni di dollari – nonostante sia stato un pesante insuccesso commerciale – 20 milioni in tutto il mondo – nel tempo è diventato un incredibile cult cinematografico.

Di cosa parla Mulholland Drive?

Betty è un’aspirante attrice piena di sogni, che un giorno si trova in casa una sconosciuta. Ma forse non è tutto così lineare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mulholland Drive?

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Assolutamente sì.

Mulholland Drive è indubbiamente uno dei film più incredibili della già inarrivabile filmografia di Lynch, distinguendosi per un racconto onirico ed enigmatico sottile quanto complessivamente comprensibile nei suoi contorni…

…ma ancora più sfocato nei particolari, nei piccoli elementi che continuamente sfuggono, in una storia che è sparsa in scena fra personaggi che sembrano non avere collegamento fra loro – e forse non ce l’hanno effettivamente.

Incontro

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita è in difficoltà.

E deve esserlo.

Fin dalle prime battute della sua fantasia Diane riscrive la sua vita, la sua eterna frustrazione in un’ottica nuova : non più una sosta improvvisa per una sorpresa per nulla piacevole, non una crudele illusione che la vera Camilla ha orchestrato ai suoi danni…

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

…ma bensì un effettivo incidente, un inganno da cui Rita si è salvata per un pelo, andando a rifugiarsi proprio nelle braccia di Betty, figura riscritta al limite dell’inquietante, come testimoniamo i sorrisi tirati dei due vecchi che fungono da introduzione del personaggio.

Ed è un inganno ben consegnato…

Bontà

Naomi Watts e Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Betty è un personaggio anche troppo positivo.

Ogni elemento della sua figura, a partire dai colori morbidi e pastello, fino alla dolce curva del suo caschetto, raccontano una ragazza amabile, che non ha remore ad accettare di mettersi in pericolo pur di difendere la sua nuova amica.

Ancora di più, la protagonista è un’interprete straordinaria, come ben dimostra la scena della sua audizione, in cui incanta tutti con le sue doti fuori dal comune, ma che non può essere scelta per il ruolo solamente per un inganno ai suoi danni.

Così Diane crea un universo sotterraneo di potenti e infidi macchinatori, di disgustosi personaggi che, per motivi incomprensibili, impongono la scelta di un’attrice che il regista, Adam Kesher, nonostante le sue proteste, è costretto ad accettare.

Eppure questo non impedisce al suo personaggio di notare con interesse Betty, quasi come fosse destinata ad essere scelta…

Ricerca

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Rita deve ritrovare la sua identità.

Cercando con difficoltà di definirsi tramite gli elementi che la circondano – fra cui il poster da cui prende il nome – si muove continuamente a tentoni per prendersi uno spazio in un mondo dove davvero Betty sembra la sua unica ancora di salvezza.

Ma in un certo senso persino Rita è consapevole dell’inganno.

Così l’enigmatica scena dello spettacolo canoro, tutto cantato in playback, è in realtà un indizio per raccontare la falsità delle vicende raccontate, anzi lo stesso crollo della cantante è indice della condizione stessa del sogno che esiste nonostante la morte di Diane/Betty.

Sulla stessa china, la ricerca disperata di Diane, altro nome che rimbomba costantemente nella mente di Rita, è una naturale spinta per trovare la chiave per comprendere la trama, il cui fulcro è rappresentato proprio dal cadavere in putrefazione della donna.

E, allora, dov’è il reale?

Reale

Laura Harring in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

Il reale è il paradosso.

Il ritorno alla realtà è dettato dall’entrata nella scatola, che ci catapulta in un mondo ben diverso da quello a cui eravamo abituati finora: una Betty/Diane con un aspetto ed un comportamento aspro ed insostenibile, che non riesce ad accettare la fine della storia con Rita/Camilla.

Ed è ancora più doloroso assistere alla cruda realtà in cui Diane non è così meritevole da essere scelta né come interprete, né come compagna di vita, trovandosi anzi continuamente ad assistere al suo irrimediabile fallimento.

Naomi Watts in una scena di Mulholland Drive (2001) di David Lynch

E allora Diane non vuole semplicemente eliminare Rita, ma bensì rinchiuderla in una piccola scatola a cui solamente lei ha accesso, un piccolo mondo felice che conservi il sogno di una relazione che è ormai uscita dalla sua vita…

…tanto da togliersi la stessa per preservare un ricordo appagante, per quanto fittizio.