Harry a pezzi (1997) è uno dei titoli più noti e apprezzati della filmografia di Woody Allen.
A fronte di un budget abbastanza sostanzioso per un film di Woody Allen – 20 milioni di dollari, circa 40 oggi – fu un pesante flop commerciale, incassando la metà delle spese di produzione.
Di cosa parla Harry a pezzi?
Harry è un rimontato scrittore di romanzi, che ha però la brutta abitudine di raccontare troppo di sé stesso e di chi gli sta intorno…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Harry a pezzi?
Assolutamente sì.
Se in Radio Days (1987) Allen ripercorreva e riscriveva momenti fondamentali della sua infanzia, in Harry a pezzi decostruisce il suo presente come autore e uomo.
Ne risulta un racconto profondamente metanarrativo, in cui Allen sembra mettersi più di ogni altra sua opera totalmente a nudo, con le sue debolezze e le sue ossessioni.
Una riflessione di fine secolo che vale la pena di recuperare.
Partire dalla finzione…
Un’inquadratura insistente di pochi minuti ci mostra una donnache scende furiosamente da un taxi.
Ma subito la scena muta.
Un quadretto di quotidianità piuttosto comune – una grigliata all’aperto – si trasforma ben presto nello sfondo di una storia di passione e tradimento, con tinte quasi grottesche, che raggiungono il loro picco con l’apparente scoperta del misfatto…
…che in realtà si rivela solo l’occasione per proporre una raffica di battute piuttosto sagaci a sfondo sessuale – anche di difficile traduzione – che chiudono il cerchio di questa commedia dell’assurdo.
…e arrivare alla realtà
Ma la spiegazione della scena è forse anche più surreale.
Vengono riportati in scena i protagonisti, ma con una veste del tutto nuova, ma ben più terrena: la vicenda era molto meno divertente, anzi ben più drammatica, e il romanzo ne è stato solo il punto di arrivo.
In particolare, i contorni del dramma sono meglio definitivi più avanti nel film, in cui viene rivelata (e confermata) la totale incapacità del protagonista di rimanere fedele in una relazione…
…con una Lucy estasiata all’idea di essere scelta come la prossima compagna di Harry, ma che si trova invece a dover inghiottire un boccone amaro.
Rubare l’identità
Ma il cuore della vicenda è rivelato dai due episodi successivi.
Anzitutto, dal racconto del passato, quando ancora Allen era un ragazzino incastrato in un matrimonio senza futuro, ricercando la compagnia di qualunque donna tranne che la propriamoglie.
Ma il momento fondamentale è l’incontro con la morte.
Essendosi lasciato convincere a intrattenersi con una prostituta e prendendo in prestito la casa di un suo amico, Harry si ritrova a confrontarsi con la prima identità rubata, di cui deve pagare tutte le conseguenze.
Allo stesso modo, l’apparente gag puramente comica dell’uomo fuori fuoco, verso il finale si rivela in realtà una rappresentazione visiva di come il protagonista si sente nei suoi numerosi attacchi di panico.
Giù la maschera!
Durante la pellicola Harry ripercorre più volte momenti del suo passato, spesso traslandoli in scenette fittizie e molto idealizzate.
Si scopre così un personaggio intrappolato in un labirinto di relazioni – amorose e non – che sembrano trovare un senso solamente nella finzione, in cui personaggi ed eventi si mescolano, diventando per certi versi anche caricaturali.
I primi scricchiolii di questo castello di carte sono gli incontri con alcuni dei personaggi, delle maschere dietro cui Harry si è nascosto negli anni, che si rivelano ben più sagge e consapevoli della loro controparte reale.
Ed è solo il primo passo perché il protagonista decida definitivamente di abbandonare questi numerosi travestimenti, mettendosi in prima persona al centro della storia per raccontare una scena fantastica e reale insieme.
Impossibile scappare
Così l’incontro col diavolo e la discesa negli inferi non è altro che una rappresentazione della frustrazione di Harry nell’aver perso una delle sue amanti preferite nelle braccia di un uomo che considera tanto spregevole da rappresentarlo come il diavolo tentatore.
Ma questo apparente passo indietro, a fronte anche di una situazione molto reale da cui è impossibile sfuggire – il rapimento del figlio – si conclude solo apparentemente in un suo effettivo ripensamento del suo continuo rifugiarsi nella fantasia.
Nel finale troviamo la figura di Harry che si sovrappone più che mai a quella di Woody Allen, del tutto consapevole di utilizzare i suoi film – o romanzi che siano – per raccontare i suoi dubbi e le sue storie turbolente…
…ma, al contempo, altrettanto consapevole di non poterne fare assolutamente a meno.
High School Musical (2006) di Kenny Ortega è stato uno dei più grandi fenomeni generazionali degli Anni 2000, riuscendo a mantenere intatto il suo culto anche negli anni successivi.
A fronte di un budget veramente irrisorio – appena 4 milioni di dollari – venne trasmesso in esclusiva su Disney Channel, ma ottenne la sua fortuna economica con l’uscita in home video, diventando il DVD di un film televisivo più venduto nella storia della televisione.
Di cosa parla High School Musical?
Troy e Gabriella sono due adolescenti che si sentono intrappolati nelle identità con cui gli altri li hanno bollati, ma provano ad intraprendere una nuova strada…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere High School Musical?
Assolutamente sì.
A differenza di altri fenomeni adolescenziali del periodo – come quel pianto di Camp rock (2008) – High School Musical deve il suo successo all’essere un prodotto con una narrazione abbastanza anomala per il periodo, oltre al farsi portatore di una morale che riuscì a conquistare gli adolescenti dell’epoca – e non solo.
Oltre a questo, nonostante non siano per la maggior parte professionisti, gli interpreti regalano delle performance di buon livello e sono protagonisti di numeri musicali assolutamente iconici ancora oggi.
Insomma, da recuperare.
Qualcosa di nuovo
I never opened my heart to all the possibilities
Non mi sono mai aperto a tutte le possibilità
Il punto di partenza di High School Musical è già di per sé determinante.
I protagonisti sono inquadrati nella loro anomalia: nonostante si riveleranno delle figure estremamente popolari all’interno dei rispettivi gruppi, appaiono al contempo dei personaggi molto chiusi in sé stessi e nelle loro passioni.
E il loro duetto è determinante per più motivi.
I due vengono buttati a tradimento in mezzo alla scena per qualcosa che non avevamo mai provato prima: cantare, e nello specifico cantare i loro veri sentimenti, per di più davanti ad un ampio pubblico.
Così Troy e Gabriella ammettono timidamente di non essersi mai aperti a qualcosa di nuovo, condividendo il medesimo imbarazzo iniziale, ma riuscendo infine a spingersi vicendevolmente in questa nuova esperienza, con infine, anche un inaspettato entusiasmo.
Fuori dagli schemi
Just keep ya head in the game
Devi stare concentrato sul gioco
Ma l’ambiente scolastico è molto più ostico.
Entrambi i protagonisti sono stati perennemente confinati nelle loro rispettive sfere di appartenenza, dovendo aderire a dei modelli sociali precisi, e da cui sembra impossibile sfuggire: la stella del basket e il genio della scuola.
Gabriella per prima sente di voler evadere questo modello, mentre Troy dimostra sulle prime ben poco coraggio nell’ammettere di aver trovato un’altra passione, fra l’altro una così mal considerata dai suoi compagni.
E infatti la peer pressure è principalmente sulle sue spalle, come testimoniato dallo splendido numero Get’cha Head in the Game.
In questa scena Troy è letteralmente tallonato dai suoi compagni di squadra, che gli urlano addosso quello che già quello lui sente come il suo dovere: essere il capitano della squadra, concentrarsi sul campionato, e non pensare a nient’altro.
Ma il protagonista non si lascia annientare, e comincia così un rocambolesco inseguimento, una dinamica al gatto e al topo, in cui Chad lo bracca per i corridoi della scuola, cercando insistentemente di riportarlo nel suo ambiente naturale: il campo da basket.
Troy e Gabriella provino
Ma arrivare alle audizioni non basta.
Nonostante l’incontro rivelatorio fra i protagonisti, i due rimangono comunque nascosti in fondo alla sala ad osservare i provini, non avendo il coraggio di fare il passo successivo, visto anche l’atteggiamento piuttosto tirannico della Darbus.
In questo caso, pur in ritardo sui tempi, è Gabriella è guidare l’azione, proponendosi per l’audizione e venendo infine, dopo tanta esitazione, spalleggiata da un Troy nel totale imbarazzo, che riesce a malapena ad alzare gli occhi da terra…
Così il secondo duetto è un parallelo del primo incontro, in cui i due protagonisti confermano il loro rapporto e la rispettiva passione per il canto.
E così accade l’inaspettato.
Una villain magnetica
I’ve never had someone as good for me as you
Appena arrivati a scuola, i protagonisti vengono subito messi alla prova dal villain principale della pellicola: Sharpay.
Il personaggio di Ashley Tisdale è uno degli antagonisti più indovinati dei teen drama di quel periodo – capace per certi versi di rivaleggiare con l’iconica Regina George di Mean Girls(2004) – con un atteggiamento velenoso e irritante, ma ben contestualizzato.
Sharpay Evans è infatti il personaggio forse più tragico della pellicola, quello che più difficilmente riesce ad accettare questo cambio di passo, in particolare l’abbattimento della torre d’avorio da lei – e da suo fratello – faticosamente costruita.
Ma, soprattutto, ci mette veramente il cuore.
Sharpay e Ryan prendono davvero seriamente il teatro e il canto, portando in scena delle performance veramente splendide e iconiche, in cui mostrano il loro talento e la loro passione per il mondo dello spettacolo.
Ed è anche per l’impegno che ci mettono e per l’importanza che hanno queste esibizioni per la definizione della loro identità, che i due, e nello specifico Sharpay, temono così fortemente la competizione di due personaggi che ai loro occhi appaiono davvero come degli improvvisati.
Tanto che Sharpay, anche solo per il sospetto di una possibile concorrenza, intrappola Gabriella in quella identità da cui la stessa stava cercando di fuggire…
Lo status quo
Stick to the stuff you know
Chad e Taylor sono per lunghi tratti i villain secondari del film.
In particolare, Chad è il protagonista negativo della violentissima canzone Stick to the Status Quo, che è una sorta di ampliamento, pure più feroce,della precedente Get’cha Head in the Game, in cui impone ai suoi compagni di rispettare lo status quo, appunto.
Un sentimento che serpeggia in tutte le cliques presenti nella scuola, in cui una voce fuori dal coro, una personalità anche solo di poco fuori dai limiti dei modelli imposti, viene immediatamente silenziata e rimessa al suo posto, ribadendo come una persona può essere una cosa sola.
Ma la ribellione non può essere fermata.
Infatti, nonostante la maggior parte dei personaggi in scena continui a ribadire la necessità di non cambiare le cose, con un focus particolare sulla crisi isterica di Sharpay, sullo sfondo i personaggi che hanno scelto di rivelarsi ai compagni non fanno un passo indietro, anzi.
In particolare Zeke, che fino alla fine continua a riproporre la sua passione per i dolci, per quanto costantemente criticata da Chad.
E così anche i due protagonisti, pur continuamente stressati dai compagni nell’abbandonare il loro progetto canoro, pur continuando ad esercitarsi alla chetichella, portano comunque avanti la loro neonata passione.
Crescere
There’s not a star in heaven That we can’t reach
La bellezza del rapporto fra Troy e Gabriella è il suo non essere una banale storia d’amore.
Nonostante ci sia indubbiamente un sottofondo romantico, che verrà poi meglio approfondito nei sequel, con questa esperienza i due si arricchiscono vicendevolmente, sostenendosi in questo viaggio alla scoperta di sé stessi.
Per questo l’intrigo di Chad e Taylor è così crudele: è il primo momento in cui Gabriella veramente si arrende, davanti all’idea che Troy non consideri così importante il loro rapporto ed il loro progetto, sentendosi di conseguenza inevitabilmente sola.
Anche se questo conflitto viene risolto un po’ sbrigativamente, è un momento di passaggio fondamentale, in cui Troy capisce di doversi farsi perdonare per due volte: prima riallacciando i rapporti con Gabriella, poi aiutandola durante la loro esibizione.
Ed è splendido il loro duetto in cui finalmente, davanti a tutta la scuola, davanti ai loro compagni che finalmente sembrano sostenerli, cantano apertamente i loro sentimenti, sentendosi invincibili e finalmente abbastanza maturi per abbracciare la loro passione.
A questa scena così toccante segue un epilogo forse con un po’ meno mordente, ma che è fondamentale per ribadire il cambiamento che è avvenuto in tutta la scuola, non più divisa in gruppetti e fazioni, ma veramente unita e aperta a questo nvoo status quo.
High School Musical sequel
High School Musical ha avuto ben due sequel, entrambi di grandissimo successo – il terzo addirittura divenne un evento cinematografico.
Ma vale la pena di vederli?
In generale, sì.
Per quanto il primo capitolo rimanga il mio preferito, anche i successivi meritano una visione.
High School Musical 2 è un film dal forte sapore estivo – e infatti fu rilasciato nell’agosto del 2007 – in cui i protagonisti si ritrovano a lavorare per il resort della ricca famiglia di Sharpay.
La trama è abbastanza simile a quella del primo capitolo, ma più sulle note di Il diavolo veste Prada(2006), con Troy che interpreta la Andy di turno, diviso fra l’occasione di ottenere una borsa di studio e il pericolo di tradire i suoi affetti.
Il secondo capitolo è anche la pellicola in cui Sharpay ha il suo momento migliore come villain della saga, andando a toccare note ancora più tragiche – anche se molto stemperate dalla messinscena.
Inoltre, in High School Musical 2 ci sono alcune delle canzoni più indimenticabili della trilogia – le mie preferite sono Gotta Go My Own Way e Bet on it.
Il capitolo conclusivo è secondo me quello più debole, ma ha dalla sua un apparato tecnico e visivo estremamente cinematografico.
Con il passaggio al grande schermo, la produzione divenne ben più ambiziosa, investendo un budget quasi triplicato rispetto al primo capitolo, e godendo di una regia molto più consapevole e curata, per certi tratti assai teatrale.
Il taglio narrativo è quasi malinconico, e si concentra quasi del tutto sulla storia fra Troy e Gabriella e sulle rispettive scelte per il futuro, non sempre facili, lasciando comunque spazio anche al resto dei personaggi.
Elemental (2023) di Peter Sohn è uno dei film Pixar più sfortunati degli ultimi anni, che ha avuto una sorte particolarissima al box office.
Partendo da un budget piuttosto elevato – ma medio per un prodotto Pixar – di 200 milioni di dollari, per via di un marketing scandalosamente superficiale è stato il peggior esordio per la casa di produzione, ma ha recuperato grazie al passaparola, arrivando ad incassare 484 milioni in tutto il mondo.
Comunque un flop, ma un flop molto meno grave di quanto si prospettava.
Candidature Oscar 2024 per Elemental (2023)
in neretto le vittorie
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Elemental?
Bernie e Cinder Lumen sono una coppia di immigrati ad Element City, una città poco accogliente per la loro razza, ma in cui riescono a ricreare la loro comunità, sicuri di poter lasciare la loro eredità alla figlia, Ember…
Vi lascio il trailer, ma vi sconsiglio di guardarlo in quanto davvero poco rappresentativo del film:
Vale la pena di vedere Elemental?
In generale, sì.
Per quanto non sia uno dei migliori prodotti della Pixar – anche per la poca esperienza da sceneggiatore e regista di Peter Sohn – è un film piacevole, e che anzi si impegna a raccontare in maniera piuttosto interessante il tema dell’immigrazione e dell’integrazione sociale.
Purtroppo, il film soffre di una debolezza complessiva della scrittura, che sembra voler raccontare solo pochi concetti fondamentali, ma incapace di portarli in scena con una storia davvero convincente e ben strutturata.
Comunque, vale una visione.
La barriera all’ingresso
L’inizio del film è anche la parte più interessante e incisiva.
I genitori di Ember arrivano in una città in cui vivono tutti i problemi che gravano sulle spalle degli stranieriche cercano di integrarsi in una nuova realtà sociale: la barriera linguistica – i loro nomi vengono adattati – le porte sbattute in faccia, una città non adatta alla loro sopravvivenza.
In particolare quest’ultimo aspetto è affrontato sotto diversi punti di vista: sia la ghettizzazione delle comunità immigrate, che la comunità è incapace di integrare, sia per il conseguente odio indiscriminato dei reietti verso l’ostica Elemental City.
Così i due sono riusciti a costruire un punto di riferimento per il resto degli immigrati del fuoco che non trovano un posto altrove, ma che anzi costruiscono la loro città– o ghetto, più giustamente – intorno proprio al Focolare.
Al contempo il padre è costantemente inacidito contro il popolo dell’acqua, che considera nemico a prescindere, nonostante i diversi tentativi della figlia di fargli comprendere che una persona non rappresenta tutta la sua comunità.
E questo è proprio il cuore della sua evoluzione.
Creazione e distruzione
Ember, proprio per via dell’educazione del padre, è un personaggio incredibilmente chiuso in sé stesso, che ha un solo obiettivo nella vita – prendere possesso del negozio e così far felice il genitore – e per questo rifugge ogni contatto con l’esterno della sua comunità, non uscendo mai da Fire City.
Ma al contempo la protagonista è evidentemente molto fuori luogo nella stessa, incarnando l’aspetto più distruttivo del fuoco, e non riuscendo a vedere oltre lo stesso.
In realtà Ember ha molto più da offrire
Durante la pellicola riscopre il lato positivo del suo elemento, ovvero quello creativo: se fino a quel momento aveva usato il suo potere solamente per rimediare agli errori – le tubature, la diga rotta – con la cena con la famiglia di Wade si affaccia finalmente agli orizzonti di possibilità che le sue capacità le offrono.
Lo stesso incontro le permette di comprendere la limitatezza del suo pensiero fino a quel momento, aprendosi finalmente all’idea che due comunità diverse possono riuscire a convivere, pur con i giusti compromessi.
Persino con un elemento così opposto come l’acqua.
Persino l’incontro apparentemente disastroso fra Wade e Barnie, si rivela invece una possibilità di unione: un piatto così tanto caldo – con un gioco di parole sul doppio significato di hot, che significa anche piccante – può essere addolcito con un po’ d’acqua, rendendolo più digeribile anche al di fuori del popolo del fuoco.
Favola e realtà
Ma se le tematiche e la simbologia di Elemental sono complessivamente riuscite, al contrario la resa narrativa non è particolarmente vincente.
Elemental vuole sostanzialmente raccontare il comporsi e ricomporsi di due rapporti: quello di Ember con il padre e con il nuovo interesse amoroso, Wade. Il primo è quello che ho trovato complessivamente più azzeccato, soprattutto godendo di un minutaggio piuttosto importante.
Non a caso, è anche il rapporto più importante della pellicola, che viene suggellato nel finale, il momento di vero confronto, quando Ember richiede quell’approvazione paterna per lei fondamentale, che il padre non aveva trovato al tempo nella sua famiglia.
Un momento toccante e centrale nella narrazione, a fronte di un primo ricongiungimento fra i due personaggi non adeguatamente incisivo.
Wade e Ember Elemental
Al contrario, il rapporto con Wade non mi ha convinto fino in fondo.
Il film si propone di seguire strade piuttosto consolidate, con una sorta di enemy to loversmolto simile al ben più efficace Rapunzel (2010), che però sembra reggersi unicamente sui momenti fondamentali del loro rapporto, che mancano però di una costruzione sufficientemente robusta.
Sarebbe stato molto più interessante instaurare anche un piccolo mistero sulla diga – alla Zootropolis (2016), per intenderci – la cui risoluzione portava anche allo sbocciare dell’amore fra i protagonisti.
Al contrario, la questione della diga è un elemento molto più debole di quanto mi aspettassi, quasi un meccanismo della trama, e allo stesso modo il regalo di Wade ad Ember – la visita del Garden Central Station – non ha abbastanza mordente.
Ancora meno mi è piaciuto il taglio favolistico, quasi tragico, che è stato affibbiato al loro rapporto: al di là della costruzione non del tutto convincente, l’ho trovata una scelta narrativa che risulta piuttosto stridente e fuori luogo in un film che si propone di essere per molti tratti estremamente verosimile.
Ma non è tutto da buttare.
Elemental animazione
L’animazione di Elemental è impeccabile.
Non è un caso che Peter Sohn – qui regista e co-sceneggiatore – lavori da più di vent’anni come animatore per innumerevoli prodotti Pixar (e non) e che sia riuscito ancora una volta a portare una tecnica e un character design davvero ineccepibili.
Era così semplice scadere nel banale per dei personaggi rappresentativi degli elementi naturali, e invece il film riesce a portare in scena delle figure infuocate e acquatiche vive e credibili.
Non a caso le fiamme del corpo di Ember e degli altri del Popolo del Fuoco continuano a muoversi e definiscono altri tratti del loro viso, in particolare il naso, così la rappresentazione dell’Acqua è molto variegata, giocando su diversi elementi, fra cui le onde del mare.
Ma il fiore all’occhiello è indubbiamente l’incontro fra fuoco e acqua, che porta Wade inizialmente a bollire e Ember a spegnersi, ma che poi cambia proprio la chimica dei due elementi, rendendoli compatibili.
Radio Days (1987) è un film meno conosciuto della filmografia di Woody Allen, ma anche fra i più apprezzati della sua produzione.
Con un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari, circa 43 oggi – fu un flop commerciale, incassando meno delle spese di produzione.
Di cosa parla Radio Days?
Con questa pellicola Woody Allen ripercorre i ricordi della sua infanzia negli Anni Quaranta, gli anni d’oro della radio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Radio Days?
In generale, sì.
Anche se magari non è l’opera più indimenticabile della filmografia di Woody Allen, nella sua produzione di fine secolo è quella che ho preferito.
Fra le varie pellicole che mischiano la comicità al dramma, Radio Days sceglie di puntare unicamente sul lato comico, anche quello più apertamente surreale della sua prima produzione, che in questo caso funziona particolarmente bene.
Tuttavia, non manca neanche un lato più malinconico e nostalgico…
La radio che unisce
Radio Days è una collezione di episodi e gag comiche, tutte unite da un unico elemento: la radio.
Woody Allen ci immerge in un passato piuttosto remoto – anche per il periodo in cui il film arrivò in sala – in cui i programmi radiofonici anticiparono quello che poi sarà il ruolo della TV: un momento di incontro e di identificazione.
Infatti, ogni membro della famiglia può trovare un riconoscimento in una delle tante proposte del palinsesto, che permettono di evadere dalla quotidianità e sognare oltre i limiti della realtà più terrena e drammatica…
Una risata ci seppellirà
Ma Radio Days non racconta solo situazioni comiche.
Molte delle storie in scena hanno dei sottofondi drammatici non indifferenti, che vengono però stemperati da una commedia che molto spesso gioca con l’assurdo, e che mi ha ricordato il precedente Prendi i soldi e scappa (1969).
Personalmente la mia scena preferita è quella dello zio Abe che si va a lamentare coi vicini comunisti, diventandolo a sua volta, ma anche la gag iniziale con i due ladri che partecipano al programma radiofonico è particolarmente gustosa.
In questo senso ho trovato l’utilizzo dell’umorismo non vincolato ad un solo personaggio come nel successivo Crimini e misfatti(1989), ma distribuito su più figure e momenti, la scelta più funzionale anche per la riuscita della comicità stessa.
La drammaticità di fondo
Come detto, non mancano i momenti più drammatici, anche se ben dosati.
La storia forse più triste è quella della zia Bea, che rincorre il sogno del matrimonio e della costruzione della famiglia, non riuscendo però a raggiungerlo per i molti appuntamenti sfortunati e per la sua incapacità di adattarsi.
E proprio dell’adattarsi parlano molti dei personaggi femminili in scena, che si trovano costretti all’interno di situazioni matrimoniali non sempre ottimali, per cui ammettono loro stesse di aver dovuto fare dei compromessi.
Ma il momento più drammatico, profondamente malinconico e che racchiude il significato più personale dell’opera, è la chiusura della pellicola: un momento di festa, particolarmente allegro e che guarda al futuro…
…ma al contempo un’occasione particolarmente mesta per riflettere sul tempo che avanza e sul valore del ricordo: se i personaggi in scena temono di essere dimenticati e quindi di scomparire, lo stesso narratore ammette che ogni anno le loro voci si fanno sempre più flebili e lontane…
Crimini e misfatti (1989) è una delle prime pellicole in cui Woody Allen, fra la commedia e il dramma, spazia in riflessioni esistenziali e metanarrative.
A fronte di un budget medio – 19 milioni di dollari, circa 46 oggi – fu un pesante flop al botteghino, con un incasso che fu quasi pari alle spese di produzione.
Di cosa parla Crimini e misfatti?
La pellicola segue due storie parallele e collegate in maniera piuttosto peculiare: da una parte Cliff Stern, un regista di documentari che vive di sogni, e dall’altra Judah Rosenthal, un dottore di successo ma con un oscuro segreto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Crimini e misfatti?
In generale, sì.
Per quanto sia nel complesso una visione piacevole e anche genuinamente divertente, Crimini e misfatti rappresenta un tentativoa mio parare ancoraacerbodi accostare all’interno della stessa pellicola una profonda tematica esistenziale alla tipica comicità di Woody Allen.
Ne risulta una riflessione esistenziale, metanarrativa, che anticipa il più riuscito Match point(2005) e che tenta ancora una volta di mischiare il dramma con la commedia – una sperimentazione che avrà il suo picco inMelinda e Melinda(2004) – in con un prodotto non del tutto riuscito.
Il dramma invisibile
In un clima festoso e apparentemente confortante, un angoscioso flashback ci svela l’oscuro segreto del protagonista.
Parte così un inseguimento alla scheggia impazzita, a quella donna così isterica e incontrollabile che potrebbe non solo distruggere la vita matrimoniale di Judah – omen, nomen – ma anche la sua credibilità sociale.
Con questa vicenda dai risvolti quasi thriller, Crimini e misfatti racconta anzitutto un dramma esistenziale legato ad un personaggio di successo e con una vita apparentemente desiderabile, in realtà con diversi scheletri nell’armadio.
Ma il peggio deve ancora arrivare.
La ricercata colpevolezza
L’uccisione della donna appare quasi inevitabile.
Ma è la stessa a far intraprendere al protagonista un’angosciosa riflessione sulla colpa e sulla punizione, andando anche a ripercorrere l’educazione religiosa che l’aveva convinto che ad un crimine seguisse sempre un giusto castigo.
Proprio per questa convinzione Judah – in una dinamica che per certi versi mi ha ricordato Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) – sembra quasi che voglia farsi scoprire, rischiando più volta di rovinare un piano dall’ideazione praticamente perfetta.
Cinema e religione
La storia di Cliff viaggia parallela a quella di Judah.
Il collegamento più immediato è la totale simmetria fra i due drammi: come Judah tempo prima, anche il personaggio di Allen si trova invischiato in una storia amorosa e adultera che sembrerebbe risolutiva del suo insoddisfacente matrimonio.
Se questa tematica di per sé non è niente di nuovo per la produzione di questo regista, il collegamento più interessante è quello metanarrativo.
Per quanto i due personaggi non si conoscano fino alla fine, in realtà Cliff vede la storia di Judah grazie ai diversi titoli che visiona con la nipote durante la pellicola – in ordine, Il signore e la signora Smith (1941), Il fuorilegge (1942), Happy Go Lucky (1943) e L’ultimo gangster (1937).
Per questo l’incontro finale è fondamentale.
In un’amara riflessione, Judah racconta a Cliff il suo dramma personale nell’essere colpevole, ma non punito, andando quindi a vanificare tutte le sicurezze morali che avevano definito la sua vita fino a quel punto.
E, proprio davanti alla replica di Cliff, che cerca di ricondurre la storia a degli stilemi narrativi fittizi e cinematografici, l’altro gli ricorda che la realtà – purtroppo – funziona diversamente, e non è possibile avere sempre un finale positivo, o anche solo soddisfacente.
In questo modo, anche se indirettamente, il personaggio di Woody Allen si rende conto che le sue convinzioni per cui Halley non avrebbe mai premiato il borioso e insopportabile Lester, in realtà si sono rivelate illusorie e derivanti proprio dai film che tanto amava, distrutte davanti alla più amara realtà che ha dovuto sopportare.
Hannah e le sue sorelle (1986) è una delle commedie più conosciute della produzione di Woody Allen, godendo fra l’altro di un cast piuttosto nutrito di star – o future tali – fra cui Carrie Fisher, Michael Caine e Diane West.
Fu anche uno dei più grandi successi economici della produzione di Woody Allen: con un budget di circa 6,4 milioni di dollari – circa 18 milioni ad oggi – incassò ben 40 milioni – circa 110 milioni ad oggi.
Di cosa parla Hannah e le sue sorelle?
La storia ruota intorno alle turbolente vite sentimentali di Hannah e delle sue due sorelle, April e Lee, che si intersecano in maniera piuttosto inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Hannah e le sue sorelle?
In generale, sì.
Hannah e le sue sorelle si va ad incasellare in quel tipo di commedia della produzione di Woody Allen non particolarmente originale nelle tematiche, ma piacevole da fruire, nonché elegante e curata nella messinscena.
I suoi grandi punti di forza sono il cast di grandi attori – quell’anno, fra l’altro, ampiamente premiati agli Oscar – e l’irresistibile ironia di Woody Allen stesso, che, come tipico delle sue commedie, è il punto focale della comicità della pellicola.
Insomma, nel complesso ve la consiglio.
L’inizio di un amore
L’incipit di Hannah e le sue sorelle racconta uno dei temi preferiti di Allen: un amore impossibile.
La voce fuori campo dell’ancora sconosciuto Elliot ci accompagna alla scoperta di Lee e dei suoi sentimenti segreti quanto problematici – niente di meno che per la giovane sorella della moglie.
Tutto sembra essere apparecchiato per lo svolgersi di uno struggente dramma romantico a lieto fine: entrambi sono ingabbiati in relazioni a loro dire insoddisfacenti, e sembrano invece ritrovarsi negli interessi intellettuali comuni.
Ma questa non è una qualunque commedia romantica.
Come aveva già sperimentato sia in Io e Annie(1977) e Manhattan(1979), Allen sceglie un taglio più amaramente realistico: per quanto Elliot si racconti di essere perdutamente innamorato di Lee e di volerla salvare da Frederick, in realtà è divorato dall’angosciante prospettiva di ferire Hannah.
E la troppa attesa preclude per sempre i rapporti.
Alla fine, Lee salva sé stessa: si lascia alle spalle la problematica relazione con Frederick – che era più un padre che un compagno – ed evita di affiancarsi nuovamente ad un uomo così distante da lei per età e per affinità.
Il ritaglio comico
La storia dei Mickey è quella che ho più apprezzato della pellicola.
Con questo personaggio Woody Allen riesce a mantenere la comicità surreale tipica soprattutto della sua prima produzione: un incurabile ipocondriaco, tormentato da un’ansia costante e quasi grottesca.
Tramite un inaspettato crescendo drammatico, sembra veramente che i più tragici sogni del protagonista si siano avverati, e che la morte sia veramente venuta a bussargli alla porta, tanto da immaginarsi l’infausto annuncio del dottore.
Ma ancora più inaspettata – e, per questo, irresistibile – è la crisi esistenziale che lo assale, portandolo a riflettere sulla sua vita e il suo matrimonio finito, ricercando una fede in cui rifugiarsi, con un’ironia che già aveva sperimentato in Prendi i soldi e scappa(1969).
E poi c’è Holly.
Il lato debole
Holly, è a mio parere, la storia più debole del terzetto.
La debolezza risiede nella difficoltà che ho trovato nell’empatizzare con il personaggio: una bisbetica insoddisfatta che insegue amori impossibili e sogni irrealizzabili, ma sembrando più un peso per le sue sorelle che altro.
Ho trovato altresì piuttosto antipatica la sua scelta di umiliare la sorella con una sceneggiatura che svelasse la fallacia del suo matrimonio, idea per fortuna messa da parte e che conduce il personaggio ad un – a mio parere – davvero improbabile lieto fine.
Proprio per il tipo di commedie con finali piuttosto amari tipici della produzione di Allen, ho trovato quasi fuori luogo come Holly e Mickey si ritrovano, arrivando nel giro di poco tempo anche a sposarsi, a fronte di un primo appuntamento divertente quanto rivelatorio della loro incompatibilità.
Diario di una tata (2007) di Shari Springer Berman e Robert Pulcini è una piacevole commedia coming of age con protagonista una giovanissima Scarlett Johansson.
Annie è una giovane neolaureata che, anche per le pressioni della madre, vorrebbe intraprendere una carriera in ambito economico. Ma il destino ha qualcos’altro in serbo per lei…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena vedere Diario di una tata?
In generale, sì.
Anche se non è un film imperdibile, Diario di una tata è una commedia veramente piacevole, che offre diversi spunti di riflessione che, pur nella loro semplicità, non sono per niente scontati, ma che anzi raccontano una realtà ancora molto attuale.
Il film è inoltre impreziosito da un cast di primo livello: oltre alla fantastica Scarlett Johansson, troviamo anche Chris Evans, Laura Linney e il fantastico caratterista Paul Giamatti, oltre ad un’improbabile apparizione di Alicia Keys.
Insomma, ve lo consiglio.
La strada obbligata
La situazione iniziale di Annie è piuttosto tipica per i giovani di oggi e di ieri.
A fronte di un genitore che ha dovuto fare grandi sacrifici per un lavoro tutt’altro che semplice, la protagonista viene spinta dalla madre verso una carriera più redditizia e, almeno nella sua visione, molto più felice.
La questione viene sottolineata in particolare dal personaggio di Lynette, che rappresenta la voce degli immigrati di seconda e terza generazione che poterono sperare in una vita più agiata proprio grazie agli sforzi dei genitori, che spesso erano stati i servi delle ricche famiglie bianche statunitense.
Spinta verso questa identità costruita a puntino, Annie tentail colloquio che dovrebbe cambiarle la vita, ma che si rivela tanto più impossibile quando le viene chiesto di raccontarsi, di darsi un’individualità che la distingua da tutti gli altri candidati.
Proprio in questo mondo tutte le sicurezze della protagonista vanno ancora più in pezzi, andando a ricercare nella giungla newyorchese una nuova identità in cui ritrovarsi, e che la possa finalmente definire come persona.
La nuova non-identità
E la nuova identità arriva, ma non la definisce.
Trovandosi per caso a salvare un bambino distratto mentre già pensava di diventare una barbona, Annie si trova davanti un ventaglio di possibilità inaspettato: diverse donne che bramano per averla al loro servizio e un’incredibile – per quanto temporanea – via di fuga.
Per quanto confortata da questa opportunità, Annie è del tutto consapevole di star facendo un errore e di star rinnegando le possibilità che la madre ha costruito apposta per lei, motivo per cui le mente così spudoratamente.
L’identità di tata è infatti confortante quanto spersonalizzante, come testimoniano le parole della stessa Annie:
I’m referred to as “Nanny” by all the people in the X’s social network.
Sarò chiamata “tata” da tutti gli appartenenti al ceto sociale dalla signora X.
La tata non è altro che una figura usa-e-getta, una donna che viene coinvolta da queste ricche e disperati madri per essere spremuta fino all’inverosimile non tanto per crescere i loro figli, ma piuttosto per essere tutto quello che loro non vogliono – e non possono – essere.
La catena di miseria
Il circolo vizioso della miseria di mogli e dei figli parte dai padri.
I padri sono figure misteriose, sostanzialmente assenti nella vita familiare, micidiali imprenditori a cui interessa solo guadagnare il più possibile, riuscendo comunque a mantenere sotto scacco i due simboli sociali altrettanto preziosi per il loro status: la sposa e la prole.
Le mogli – come i figli – per i mariti non solo altro che accessori, trofei da esibire in pubblico per dimostrare di aver successo non solo nella sfera lavorativa, ma anche in quella familiare, mentre dietro le quinte la loro mancanza di interesse per la stessa è micidiale.
Così si creano delle madri tremendamente assenti e delle donne troppo impegnate a costruirsi un’identità sociale rispettabile tramite gli eventi sociali e l’acquisizione di simboli materiali – gioielli, vestiti… – per provare anche solo ad essere delle mamme.
Per questo scelgono di trasferire i loro obblighi genitoriali ad una terza persona, anzi ad una schiera di altre persone che si avvicendano continuamente nella vita dei loro figli, donne che possono tranquillamente strapazzare senza paura delle conseguenze.
E Annie si lascia strapazzare.
Going native
Nonostante questa situazione ai confini della realtà, Annie viene inevitabilmente coinvolta emotivamente dai problemi di questa terribile famiglia.
Vivendo così vicino a questi animali sociali, la protagonista, una volta superati i capricci di Grayer, riesce ad entrare nelle sue grazie ed a ricevere il suo affetto e la sua approvazione, tanto da diventare in un certo senso la sua vera madre.
Allo stesso modo, Annie non può non provare pena per la terrificante situazione matrimoniale e famigliare della Signora X, arrivando a prendersi sulle spalle la responsabilità della riuscita del matrimonio della stessa.
Per questo, fino all’ultimo, la protagonista non riesce a distaccarsi da questa situazione, di cui lei stessa è consapevole di essere dipendente.
Una nuova strada
Tramite questa esperienza, Annie acquisisce un’importante consapevolezza.
Infatti, la protagonista si rende conto di quanto sia molto più importante costruirsi un’identità seguendo le proprie inclinazioni e passioni, piuttosto che inseguire un sogno di ricchezza, che però non garantirà alcun tipo di felicità personale.
Questa consapevolezza è confermata dalla relazione con Hayden, che inizialmente Annie respinge anche per la differenza delle loro condizioni sociali, di cui ha una concezione totalmente idealizzata.
Infatti, il ragazzo – nel ruolo quasi da pixie girl – le fa ancora di più comprendere come queste situazioni di agiatezza economica non si accompagnano sempre – anzi, davvero raramente – ad una vita perfetta e desiderabile, anzi.
Secondo una consapevolezza non tanto dissimile, la Signora X riesce a grazie ad Annie a rendersi conto di essersi incastrata all’interno di un modello apparentemente felice – la moglie ricca e devota – che la porta solo ad essere una donna infelice ed una pessima madre.
E non è un caso che sul finale si rivela per il suo vero nome, Alexandra – un’Alexandra nuova di zecca.
Genitori in trappola (1998) di Nancy Meyers, remake di Il cowboy con il velo da sposa (1961), è un irresistibile incontro fra una rom-com e una commedia per ragazzi.
Con un budget veramente contenuto – appena 15 milioni di dollari (circa 28 oggi) – fu un ottimo successo commerciale: quasi 100 milioni in tutto il mondo – circa 172 oggi.
Di cosa parla Genitori in trappola?
Annie e Hallie sono appena arrivate al campo estivo, e scopriranno di essere più simili di quanto pensano…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Genitori in trappola?
Assolutamente sì.
In questo caso sono veramente molto di parte perché Genitori in trappola è uno dei film della mia infanzia, che guardo ancora oggi con grande piacere.
Tuttavia, è indubbio che si tratti di una pellicola molto trasversale, che può conquistare un pubblico più o meno giovane, vista la varietà di situazioni e personaggi che animano la scena.
Fra l’altro con una divisione molto precisa dei tre atti della storia, alternando stili e generi diversi: dall’avventura per ragazzi, alla commedia degli equivoci, al più struggente dramma romantico.
L’importanza del volto
Fin da subito la regia di Genitori in trappola gioca sulla dinamica dell’identità celata e rivelata.
Tutta la sequenza iniziale racconta una breve ma intensa storia romantica, i cui protagonisti ci rimangono sconosciuti fino alla fine del primo atto, con un susseguirsi di particolari che rivelano i contorni dell’antefatto.
Anche se non viene esplicitata la presenza di un figlio – anzi, di due gemelle! – l’ellissi temporale di 11 anni e 9 mesi ci fa già sospettare qualcosa…
Quando poi vediamo entrare in scena le due protagoniste, cominciamo ad unire i puntini e diventiamo di fatto complici della regia, che si diverte a giocare con gli equivoci che tengono le due ragazzine divise per diverse sequenze.
Alle origini della commedia
Un grande merito di questa pellicola è di essere riuscita ad anticipare due grandi capisaldi della commedia del successivo millennio, riuscendo a gestirli con grande equilibrio.
Anzitutto, l’utilizzo dei personaggi tipizzati.
La commedia dei primi Anni Duemila straborderà di questo contrasto fra la cultura inglese e quella statunitense, dinamica che troviamo già in nuce in Genitori in trappola, cheperò ha il merito di saperla contestualizzare adeguatamente.
Infatti, come Hallie è la classica californiana chiacchierona e un po’ guascona, con un carattere del tutto comprensibile visto il tipo di ambiente in cui è cresciuta, allo stesso modo Annie, figlia di una stilista elegante e raffinata, non può che essere una ragazzina a modo.
Un altro elemento imprescindibile della commedia del decennio successivo sarà l’inserimento di situazioni comiche al limite del grottesco, anche apertamente disgustose.
È questo il caso dei vari scherzi che le due gemelle si fanno fra di loro, con il picco rappresentato dal terribile risveglio di Annie, con delle trovate che ricordano molto da vicino le micidiali trappole di Mamma ho perso l’aereo (1990).
Senti chi parla ora!
Da grande appassionata di film per ragazzi, un elemento secondo me immancabile del genere è l’assoluta superiorità dei bambini verso gli adulti.
Infatti, è un aspetto che riesce veramente ad incarnare il sogno infantile della supremazia verso un mondo adulto spesso incomprensibile, e che altrettanto frequentemente mette un freno a sogni ed a progetti, soprattutto quelli più scalmanati.
In questo caso, proprio grazie alla loro ritrovata amicizia, le due sorelle mettono in atto un piano incredibilmente audace, riuscendo a dare il via a queglieventi che potranno finalmente riunire la loro famiglia, laddove i genitori ne erano stati incapaci.
I volti giusti
Il casting di Genitori in trappola non è per nulla casuale.
Anche in questo caso la pellicola rischiava pericolosamente di ricadere in facili stereotipi sulla giovane donna arrivista e il giusto interesse amoroso che è invece una donna diversa da tutte le altre.
Al contrario, il film sceglie di mettere sullo stesso piano Nick e Liz: anche se apparentemente sono due persone molto diverse, in realtà sono accomunate dall’incarnare il sogno tutto americano del self-mademan – e woman, in questo caso.
Infatti, entrambi hanno seguito le loro passioni e si sono costruiti una vita soddisfacente e di successonei loro rispettivi campi.
Ma non finisce qui.
Lo spettatore può empatizzare facilmente con questi personaggi sia per i loro volti semplici, puliti, i loro sorrisi aperti e sinceri, sia per il loro modo di vestirsi – equilibrato e accessibile anche quando sono molto eleganti – e di porsi – accogliente e persino comico in non pochi momenti.
Meredith è invece tutto il contrario: appare fin da subito come una presenza artificiosa, fuori luogo, una facciata costruita con un sorriso smagliante, ma che, al contrario di Liz, è forzato e velenoso…
Una strada solitaria
Per quanto le due protagoniste si sforzino nel far rimettere insieme i loro genitori, è una strada che i due devono percorrere da soli.
In primo luogo, è Nick che deve rendersi conto del valore di quello che sta perdendo, proprio quando è messo davanti ad una scelta apparentemente difficile – scegliere fra le figlie e la futura moglie – posta da un’esasperata Meredith che mostra finalmente il suo vero volto.
Ma anche con l’uscita di scena della donna di troppo, la storia di Nick e Liz è un continuo rincorrersi, una costante paura di riprendere le fila di una storia che era stata abbandonata così bruscamente, in maniera così apparentemente irrimediabile…
Ma è col piacevolissimo colpo di scena finale che questa strana e rinnovata famiglia ritrova finalmente la sua unione.
Il velo dipinto (2006) di John Curran è un dramma storico-romantico con protagonisti Edward Norton e Naomi Watts, remake dell’omonima pellicola del 1934.
Londra, 1925. Kitty è una giovane donna non ancora sposata, che si impegna in un matrimonio di cui non è per nulla convinta, e che la porterà a conseguenze inaspettate…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Il velo dipinto?
Assolutamente sì.
Il velo dipinto è un film porto nel cuore, per tanti motivi, a partire dall’ottima costruzione del rapporto fra i protagonisti, impreziosita dalla performance di due fantastici attori, e al contempo resa incredibilmente tridimensionale grazie al taglio fortemente crudo e realistico.
Così l’ambiente in cui si muovono i protagonisti è portato in scena con particolare cura e precisione, grazie anche ad una fotografia molto indovinata, nonché una produzione molto consapevole, che ricade il meno possibile negli errori tipici dei drammi storici di produzione statunitense.
Insomma, ve lo consiglio molto.
Arrivare alla rottura
La costruzione del primo atto è magistrale.
La situazione presente si rivela via via nella sua drammaticità e crudezza, con una Kitty sfiancata dal viaggio a cui il marito l’ha costretta, mentre lo stesso si dimostra del tutto indifferente nei suoi confronti, anzi piuttosto vendicativo.
Si alternano quindi le visioni del passato, con un taglio crudelmente realistico: come Walter è convintissimo della sua scelta, Kitty, nonostante cerchi di trovare degli spazi di indipendenza, accetta il matrimonio per non essere schiacciata dalle pressioni sociali che la porterebbero ad essere una sfortunata zitella.
E così rivelazione dei contorni della situazione di arrivo è accompagnata dal puntuale racconto del degrado della situazione nel passato, in cui entrambi i protagonisti sono le vittime: Kitty è la moglie insoddisfatta che cerca l’amore in un uomo che in realtà ha molto poco rispetto di lei.
Al contempo Walter è il marito tradito, ma tradito soprattutto nei sentimenti e nella fiducia, che mette in moto una vendetta che appare più come una autodistruzione, buttandosi a capofitto in un’impresa mortalee distruttiva, con la speranza di annientare sé stesso e la tanto odiata moglie.
La prigione
Lo svolgimento della parte centrale è drammatico per entrambe le parti.
Per quanto incattivito e intestardito, Walter viene più volte preso contropiede dalla tragica situazione con cui si trova a dover combattere, fra il dramma umano di povertà e malattia, e la barriera culturale e linguistica apparentemente insormontabile.
L’asprezza della situazione si rivela proprio nel momento in cui il protagonista comanda di chiudere il pozzo, molto tiepidamente spalleggiato da Colonnello Yu, che dovrebbe essere il suo middleman, ma che lo tratta con grande freddezza e distacco.
Ma il vero dramma è quello di Kitty.
Imprigionata in un paese straniero, impossibilitata a comunicare, osteggiata da tutte le parti, anche in maniera sottilmente maligna dall’apparentemente ospitale Waddington, proprio quando cerca di ristabilire quel flebile contatto con l’unico ricordo ancora integro della sua vecchia vita: Charlie.
In questo senso la protagonista affronta in maniera diversa il conflitto con il marito: prima con atteggiamento passivo-aggressivo, poi, esasperata dalla noia e dalla disperazione, scontrandosi apertamente con Walter, e cercando di ultimo di superare il suo muro di freddezza.
Ma punto di svolta arriva da dove meno se lo poteva aspettare.
Riscoprirsi
Lo snodo narrativo – e spaziale – fondamentale è rappresentato dall’orfanotrofio.
In primo luogo per Kitty, che riscopre una faccia del marito che finora aveva ingenuamente ignorato: il suo lato più umano, morbido, che lo porta a sacrificarsi – letteralmente – per il bene di una comunità, e non solamente per una propria vendetta personale.
Allo stesso modo Walter riscopre la moglie in una luce inaspettata: credendola solo una ragazzina viziata ed egoista, è totalmente sconvolto nel vedere come Kitty come si presti, pur con tutte le difficoltà, a mettersi in gioco per qualcun altro.
In questo senso il lavoro di Kitty all’orfanotrofio è tutto tranne che idilliaco, anzi segue le stesse strade di Walter: incapacità di comunicare, un impegno molto più duro ed impegnativo di quanto si aspettasse, diversi ostacoli lungo la strada.
Ma il momento di effettiva svolta è il salvataggio di Kitty, in una splendida sequenza in cui la donna fugge da una morte sicura per mano dei ribelli, salvata da due uomini che aveva sempre sottovalutato: non solo il marito, ma anche il povero soldato che la fa da guardia del corpo.
La punizione costruttiva
Il terzo atto è costruttivo e punitivo insieme.
Dopo il ricongiungimento fisico, la coppia riesce a ritrovare una riunificazione sul piano emotivo, e anche a raggiungere un’importante consapevolezza: con una certa amarezza, entrambi si rendono conto di aver cercato nell’altro qualcosa che non era semplicemente possibile.
Così Walter riesce effettivamente a portare del bene nella comunità e a farsi accettare grazie alla costruzione dell’acquedotto, che diventa anche argomento di conversazione con Kitty, con la quale si apre anche per un lato della sua vita a cui pensava che la moglie fosse assolutamente indifferente.
Il picco del rincontro emotivo è la scoperta della gravidanza: come Kitty aveva evidentemente paura di un ulteriore allontanamento del marito appena riconquistato, in realtà Walter sceglie consapevolmente di lasciarsi alle spalle gli sbagli di entrambi, e di accettare le scuse della moglie.
Ma è troppo tardi per salvarsi.
Particolarmente straziante tutta la sequenza dedicata alla sua malattia e morte, in cui Kitty si impegna fino all’ultimo nella sua riconfermata fedeltà, portando anche il marito a prendersi le sue colpe per la drammatica situazione in cui ha trascinato entrambi.
L’accettazione del martirio di Walter ha una gestazione molto lenta per Kitty, scandita sulle note agrodolci di À la claire fontaine, che suggellano l’amarezza dell’addio al compagno.
La maturazione di Kitty si vede anche nelle ultime battute del film: nonostante non sia più impegnata sentimentalmente, sceglie consapevolmente di non ricadere nuovamente nella rete di Charlie, e di non diventare ancora una volta una miserabile amante usa e getta…
Il velo dipinto white savior
Con questa recente visione, mi sono resa conto di quanto fosse facile per questa pellicola scadere nel white saviourism, ovvero quella tendenza tutta occidentale di diventare i salvatori di paesi più svantaggiati unicamente per una glorificazione personale.
Tuttavia, penso che Il velo dipinto se la cavi piuttosto bene da questo punto di vista.
Nonostante sia evidentemente un film occidentale pensato per un pubblico occidentale, nonostante i personaggi britannici non vengano mai dipinti come colonizzatori, non godono di una rappresentazione del tutto idealizzata.
In primo luogo, Walter non salva di fatto nulla: non risolve la situazione, aiuta dove può e porta a compimento un piccolo progetto che riesce a venire a capo solo di una parte del problema – per un ostacolo che, fra l’altro, aveva creato lui stesso.
Allo stesso modo il lavoro delle missionarie e la presenza britannica in Cina sono messi in discussione esplicitamente almeno in due punti, pur non sbilanciandosi eccessivamente in senso negativo.
Ma la scelta che più ho apprezzato a livello produttivo è stato il casting, che ha coinvolto figuranti e comparse effettivamente cinesi, un attore internazionale come Anthony Wong e, soprattutto, che ha scelto consapevolmente di non semplificare il problema della barriera linguistica, come invece tipico di altre produzioni analoghe.
Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufman, remake di L’invasione degli ultracorpi (1956), è considerato uno dei migliori film di fantascienza mai realizzati.
A fronte di un budget molto contenuto – 3,5 milioni di dollari, circa 16 oggi – incassò piuttosto bene:28 milioni di dollari (solo negli Stati Uniti), corrispondenti a circa 122 milioni oggi.
Di cosa parla Terrore dallo spazio profondo?
In un angolo remoto dello spazio, una misteriosa entità discende sulla Terra, camuffandosi fra gli umani…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Terrore dallo spazio profondo?
Assolutamente sì.
Confrontandolo con Incontro ravvicinati del terzo tipo (1977), Terrore dallo spazio profondo rappresenta l’altra faccia del genere: una fantascienza che innova il tema dell’invasione aliena, con un taglio molto più orrorifico e pessimistico, per certi tratti quasi un thriller.
Ma la bellezza del prodotto è rappresentata anche dalla sua incredibile regia, con diverse inquadrature di grandissima raffinatezza e artisticità, e una scelta della messinscena e della colonna sonora sempre precisa ed efficace.
Insomma, non ve lo potete perdere.
Un inizio a metà
L’inizio di Terrore dallo spazio profondo offre solo le informazioni essenziali per poter mettere lo spettatore sullo stesso piano dei personaggi.
Inizialmente infatti sappiamo solo che qualcosa di misterioso, senza faccia e senza forma, è piovuto sulla terra nell’aspetto più innocuo possibile: un fiorellino che chiunque di noi avrebbe voglia di raccogliere e conservare in casa.
E così seguiamo brevemente l’ampio gruppo di personaggi e la loro profonda emotività, mentre l’invasione rimane sotterranea e invisibile, riconoscibile solamente per i piccoli particolari, per un primo atto con una tensione perfetta.
Un presentimento
Prima della scoperta – dello spettatore e dei personaggi – dell’effettivo piano degli alieni, il film vive di atmosfere e presentimenti.
Si comincia a percepire che qualcosa è cambiato, che tutto quello che sembra normale, in realtà è profondamente mutato, anche se in maniera quasi impercettibile, con un sublime dialogo fra Elizabeth e Matthew.
Today everything seemed the same, but it wasn’t.
Oggi tutto sembrava uguale, ma non lo era.
Un dialogo, fra l’altro, accompagnato da sequenze che, nella loro semplicità e precisione, rendono perfettamente il senso di angoscia della protagonista, e ci permettono di immergerci nei suoi dolorosi presentimenti oscuri, culminati con un sanguinoso incidente mostrato in tutta la sua brutalità.
Un racconto a cui non solo crediamo, ma in cui possiamo totalmente ritrovarci: un ambiente familiare, definito da elementi riconoscibili, può mutarsi in una realtà irriconoscibile, minacciosa, quando anche solo pochi sguardi sbagliati cambiano tutto…
Invisibile e inarrestabile
Per gli ultimi due atti Terrore dallo spazio profondo alterna l’angoscia psicologica e al terrore visivo.
L’invasione invisibile è prima di tutto un orrore psicologico, che fa cadere i personaggi nella completa paranoia, davanti alla facilità con cui gli alieni distruggono i corpi umani e li sostituiscono con delle copie perfette.
Inoltre, si introduce un sottile dubbio nella mente dei personaggi e dello spettatore: la specie umana è quella che davvero dovrebbe vivere sulla Terra, visto quanto è dilaniata dalle emozioni che portano gli esseri umani a distruggersi fra di loro?
Al contempo l’orrore visivoè garantito da un uso veramente ottimale degli effetti visivi materiali, che raccontano la rinascita del corpo scegliendo appositamente elementi che provocano disgusto e sconvolgimento, mostrando esseri volutamente contraddittori.
Feti con forma adulta, uomini che nascono da bozzoli…
La chiusura
La chiusura di Terrore dallo spazio profondo è magistrale.
Gli elementi del finale vengono introdotti a poco a poco, anzitutto con il tentativo dei protagonisti di ingannare gli alieni, ma essendo continuamente messi alla prova dalla loro profonda debolezza umana, che li rende del tutto schiavi delle emozioni.
Ancora più agghiacciante è la morte e rinascita di Elizabeth, il cui corpo si sfalda fra le braccia di Matthew, per poi mostrarsi di nuovo in una forma quasi primordiale, nuda e senza vergogna, saggia e riflessiva, del tutto in contrasto con il personaggio che era stato finora.
Il culmine è l’iconico finale, in cui Nancy crede ancora di poter trovare nell’irreprensibile Matthew, l’ultimo uomo in vita, un alleato. E invece, grazie all’incredibile espressività di Donald Sutherland, la donna diviene agonizzante, sommersa dal terribile verso di allarme dell’alieno…
…e, al contempo, dalla consapevolezza della fine dell’umanità.
Terrore dallo spazio profondo regia
Ammetto che, prima di vedere Terrore dallo spazio profondonon conoscevo l’opera di Kaufman – noto anche per altri titoli, come Uomini veri (1983)e L’insostenibile leggerezza dell’essere (1988).
Ma in questa pellicola l’ho trovata una regia così elegante ed indovinata che ci tenevo a scrivere un paio di righe per sottolineare gli aspetti che mi hanno colpito di più.
Anzitutto, la profondità dello sguardo.
In non pochi momenti Kaufman sceglie una messinscena con inquadrature molto profonde, sia per creare dei significati visivi, sia per dare maggiore respiro alla scena.
Nel primo caso, vediamo ad esempio nella scena in cui Jack si stende, e in secondo piano scorgiamo il mutante, creando una simmetria visiva che racconta come il personaggio si stia per trasformare:
Per il secondo caso è emblematica è la scena in cui Matthew cerca di chiamare Elizabeth, e, dopo diversi primi piani e particolari, l’occhio della cinepresa si allarga per mostrarci anche quello che succede intorno al personaggio:
Un altro aspetto che ho molto apprezzato della regia è l’uso mai banale delle ombre sul volto dei personaggi, creando delle inquadrature quasi artistiche, che ne sottolineano di volta in volta l’atmosfera tetra e angosciante:
Infine, mi ha fatto impazzire la raffinatezza con cui la regia sporca l’inquadratura con evidenti elementi di disturbo, che si rivelano in realtà ingredienti imprescindibili per delle inquadrature magnifiche: