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Titanic – Un dramma monumentale

Titanic (1997) di James Cameron è uno dei film ad aver incassato di più nella storia del cinema, ad oggi al terzo posto dopo Avengers Endgame (2019) e Avatar (2009) dello stesso Cameron.

Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.

Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?

Di cosa parla Titanic?

Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…

Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Titanic?

Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

In linea generale, sì.

Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.

Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.

E la durata non l’ho sentita più di tanto.

La trappola dell’istant love

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.

E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.

Per fortuna Titanic non cade in questo errore.

Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.

Ma la vittoria è molto sbilanciata.

Vincere e perdere

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta (cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.

E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.

E per questo mi sembra di vedere un pattern.

L’estetica vince su tutto

Kate Winslet in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.

Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.

Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.

Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.

Cal: un villain al limite del comico

Billy Zane in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.

In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.

Ed è davvero incredibile.

Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.

Semplicemente iconico.

Mostrare i muscoli

Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.

Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.

Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.

Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…

Un senso di scollamento

Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.

Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.

I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.

E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.

Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?

Per me sì.

Lode alla porta per due in Titanic

La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.

Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.

Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.

Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.

Una produzione incredibile

Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.

Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.

La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.

Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.

Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…

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Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo. Un film che fu circondato da un grande chiacchiericcio, e non sempre per i motivi giusti. E non a caso ottenne numerose candidature, in parte per me assolutamente inspiegabili.

O, meglio, spiegabili nel contesto degli Oscar.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Fra matrimoni e amori infelici, un classico dramma strappalacrime, ma fatto con una certa cura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente, se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi.

Io personalmente mi sono lasciata agganciare.

Infatti Piccole Donne è una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, anche in maniera facilmente coinvolgente. E possono essere due ore molto piacevoli in un prodotto che vuole essere sicuramente lacrimevole, ma anche molto confortante, tutto sommato.

Innamorati di Saoirse Ronan

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Molti registi, soprattutto ad inizio carriera, hanno i loro attori feticcio. Di Caprio per Scorsese, Johnny Depp per Burton, e via dicendo.

Per Greta Gerwig è Saoirse Ronan, con cui aveva già lavorato per Lady Bird (2017).

E proprio come nel precedente film, non vedeva l’ora di farle interpretare un personaggio che si oppone testardamente a tutti, ma è fragile internamente. Per figure di questo tipo, che potrebbero risultare in qualche modo antipatiche allo spettatore, si lascia sempre loro lo spazio per ammettere le proprie debolezze.

E così è anche il caso di Jo.

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Tuttavia io non sono riuscita a farmi conquistare. Ammetto che mi ha non poco emotivamente colpito la sequenza sul finale, in cui Jo ammette che avrebbe infine sposato Laurie se glielo avesse chiesto, soprattutto per il suo senso di solitudine.

E non di meno ho apprezzato la costruzione di un personaggio femminile che risolve i suoi problemi al di fuori di una relazione romantica, ma piuttosto tramite una propria realizzazione personale.

Tuttavia per tutto il film non ho potuto fare a meno che darle ragione quando ammette che la sua situazione di tristezza sia unicamente colpa sua, della sua superbia e testardaggine.

Insomma, non sono riuscita a stare dalla sua parte.

Dalla parte di Amy

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è il personaggio più bistrattato dell’intero film.

Anche se spiega comunque abbastanza esplicitamente il suo disagio sul business dei matrimoni, comunque viene complessivamente raccontata come la sorella invidiosa e aggressiva, che si oppone alla sorella ben più meritevole dell’affetto dello spettatore.

E al contempo appare anche come il personaggio che deve starci meno simpatico, perché non si sottrae al sistema oppressivo del mercato dei matrimoni come la sorella, appunto.

Eppure io sto dalla parte di Amy.

Sono riuscita molto di più ad empatizzare con la sorella non particolarmente brillante e che si sente la seconda scelta, ma che alla fine realisticamente riesce a sistemarsi economicamente e emotivamente con Laurie.

E l’ho sinceramente preferita, perché il suo dolore mi è sembrato molto più sincero rispetto a quello di Jo.

E non è neanche l’unico problema del suo personaggio.

Il premio dell’odio

Scherzosamente tra me e me mi piace pensare che avrebbero dovuto dare il Premio dell’odio alla costumista di Piccole donne per come ha vestito Florence Pugh. E con lei anche il reparto make-up.

Ma probabilmente tutto viene dalle mani della regista, per nulla innamorata di questa attrice, anzi.

Se si fa un confronto fra come è vestito e gestito esteticamente il personaggio di Jo rispetto ad Amy, la differenza salta subito all’occhio. Saoirse Ronan è alta e snella, e la fotografia, la scelta dei colori e dei vestiti la fanno apparire molto slanciata e ne esaltano la figura.

Florence Pugh è ben più bassa, ha il volto tondo e paffuto, e il fisico più massiccio. E giustamente si è deciso nei flashback di metterle le trecce e la frangetta, pessime per il suo volto, e di vestirla per la maggior parte delle volte con linee dritte e vestiti chiusi fino alla gola che la ingoffiscono.

Purtroppo non è la prima volta che lei o altre attrici non perfettamente snelle non siano messe in risalto, ma anzi si cerchi di nascondere il loro fisico ed ingoffirle.

Era successa una cosa non molto differente in Black Widow (2021): mentre Scarlett Johansson ha la tutina attillata senza nulla sopra e che esalta il suo fisico, Florence Pugh è in molte scene ancora una volta ingoffita da una giacca smanicata sopra la tuta, oppure con abiti molto meno aderenti.

L’altra femminilità di Meg

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Un grande pregio del film è di saper raccontare diversi tipi di femminilità e soprattutto di eroine romantiche. Oltre all’eroina che va contro la femminilità imposta (Jo) e quella che invece vi cerca il suo posto (Amy), Meg è il personaggio femminile che sceglie l’amore nonostante l’aspetto economico.

E il classismo dilaga quando lei sente pesantemente il peso della sua scelta, di non poter essere felice come le altre sue coetanee ben più ricche e con i vestiti più belli. Ma alla fine anche lei trova la sua dimensione e accetta la bellezza che la sua vita comunque può offrirle.

Beth: l’eroina tragica

Beth è in tutto e per tutto l’eroina tragica.

Un elemento tipico della narrazione romantica è proprio quello della malattia, soprattutto quella che disabilitante.

In questo caso Beth è l’aggancio emotivo principale della pellicola, soprattutto per la scena della sua morte. All’inizio lo spettatore tira un sospiro di sollievo quando scopre che Beth sette anni prima non è morta, ma è altrettanto distrutto quando scopre che nel presente è invece successo.

Una figura fra l’altro angelica e innocente, con un genio inesplorato che riesce solo marginalmente a mostrare nella sua brevissima vita. Forse un personaggio un po’ di contorno, ma che ha una tutta una sua funzione molto ben bilanciata all’interno della pellicola.

Il posto giusto, il momento sbagliato

Qui non voglio togliere importanza a Greta Gerwig con autrice e regista, ma contestualizzare il successo che hanno avuto i suoi film.

Non me ne vogliano gli appassionati, ma secondo me Gerwig non è al momento il meglio che abbiamo nella scena del cinema contemporaneo, e credo che ci siano autrici decisamente più interessanti di lei, anche solo Jane Campion Il potere del cane (2021).

Già solo in Piccole donne la regia secondo me non è così eccezionale, non particolarmente ispirata, e anche troppo chiassosa.

Per ora questa regista per quanto mi riguarda ha fatto dei prodotti buoni, ma non eccezionali, che meritavano molto meno plauso di quanto hanno ricevuto.

E purtroppo, sopratutto per i discorsi che si facevano al tempo, ho paura che questa autrice sia diventata una sorta di token in un contesto delle premiazioni, soprattutto gli Oscar, dominate da registi uomini…

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Manhattan – Inghiottiti dalla città

Manhattan (1979) è la pellicola più importante e iconica di tutta la produzione di Woody Allen, un cult nonché un capolavoro del cinema occidentale. E i motivi si sprecano.

Fondamentalmente, se avesse smesso improvvisamente di produrre film dopo questa pellicola, sarebbe stato comunque artisticamente inarrivabile.

Troviamo ancora una volta come protagonista Diane Keaton, con una dinamica altrettanto amara e coinvolgente come in Io e Annie (1977). Fu anche il primo grande successo del regista: a fronte di un budget di 9 milioni di dollari, ne incassò 40.

Di cosa parla Manhattan?

Isaac è un autore televisivo con una vita sentimentale tormentata: divorziato dalla moglie con cui è ancora ai ferri corti e in una relazione con una ragazza molto più giovane di lui, si innamora della donna sbagliata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Manhattan?

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Manhattan è considerato un capolavoro del cinema, e non a caso: un livello artistico che definire mostruoso è poco, con scelte che non sono solo un vezzo o un esercizio di stile, ma organiche al tipo di narrazione profonda e coinvolgente.

Ma non dirò di più: se non l’avete mai visto è giusto che lo scopriate da soli.

Oltre a questo riprende la bellezza di Io e Annie proprio nel raccontare delle relazioni genuine e profondamente coinvolgenti, con, fra l’altro, un umorismo brillante e ben dosato.

Insomma, uno di quei film che non possono non essere visti.

Quando il bianco e nero non è solo un vezzo

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Manhattan è un film girato in bianco e nero, ed è una scelta registica con un significato ben preciso: Allen gioca continuamente con la luce e il buio, portando scene anche completamente buie o molto luminose sui toni del bianco in cui le figure scure dei personaggi si stagliano sullo sfondo.

Ancora più interessante è l’uso della luce diegetica: le scene per la maggior parte vivono della luce in scena, l’unica di cui i personaggi possono servire per apparire agli occhi dello spettatore, finendo spesso per essere facilmente inghiottiti dal buio che li circonda.

Entrambe queste scelte senza il bianco e nero non avrebbe avuto lo stesso effetto.

La città al centro

Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Altra scelta registica peculiare sono state le non poche sequenze con camera fissa, in cui i personaggi entrano ed escono dai limiti della scena senza che la macchina da presa li segua. A volte interi dialoghi avvengono proprio fuori scena, con inquadrature che invece privilegiano la vista della città.

Come se questo non bastasse, i personaggi sono sempre messi a lato dell’inquadratura, anche quando sono gli unici soggetti in scena. Questo sempre con la volontà di mettere la città, e per estensione lo spazio, al centro, e fare in modo che la stessa inghiotta i personaggi.

La comicità naturale

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

We should meet some stupid people once in a while. We could learn something.

Potremmo frequentare delle persone stupide ogni tanto. Potremmo imparare qualcosa.

Con questo film Allen riesce a trovare definitivamente una sua dimensione comica, tenendo tutta la comicità sulle sue spalle e portando un tipo di umorismo molto naturale, con poche battute brillanti e genuinamente divertenti.

Molta della comicità nasce dalla situazione paradossale in cui la società dei ricchi newyorkesi persa nelle sue divagazioni senza senso per darsi un tono, con situazioni paradossali e spassosissime, che si prestano facilmente a battute di effetto.

Insomma con questo film Allen capisce che è meglio poco, ma di qualità.

Cosa ci insegna Manhattan delle commedie romantiche

Woody Allen e Meryl Streep in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Come già in Io e Annie, Manhattan racconta in maniera sincera il mondo delle relazioni, con le sue complicatezze e insidie. Solitamente le commedie romantiche hanno un finale confortante, per cui ogni cosa si risolverà inevitabilmente a nostro favore e tutto andrà al proprio posto, nonostante tutto.

E come sembra che il nostro partner viva in nostra funzione.

Invece con questa pellicola Allen ci racconta la realtà contraria, la più dolorosa: come quella relazione che sembrava perfetta può in realtà finire in una bolla di sapone, ci si può ripensare, tornare sui propri passi. Lasciare. Non aspettare. E, infine, accontentarsi.

Con un finale amarissimo, ma dovuto.

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Call me by your name- Persi in un bellissimo sogno di Tumblr

Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino è un piccolo cult della cinematografia mainstream. Infatti, nonostante incassò pochissimo (appena 40 milioni in tutto il mondo), acquisì col tempo moltissima popolarità e lanciò Timothée Chalamet come attore.

Un film che ho sempre evitato di guardare, perché davvero poco interessata ad esso ed al genere in generale. E infatti avrei potuto passare in maniera decisamente migliore il mio tempo. Tuttavia, come in altri casi, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi. E non a caso la sua popolarità è di fatto facilmente spiegabile.

Di cosa parla Call me by your name?

Elio è un diciasettenne franco-americano che sta passando, come ogni anno, le vacanze in Italia. La sua vita verrà sconvolta dell’incontro con Oliver, studente straniero ospitato dal padre nella loro casa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Call me by your name?

Dipende.

Prima di scegliere di guardare questo film, io ci penserei molto bene, per evitare di rimanere incastrati in un film che potrebbe non far per nulla per voi. Infatti, nonostante cerchi in parte di distaccarsi da alcuni stereotipi del genere, è di fatto un dramma romantico dal sapore adolescenziale.

Ed è veramente solamente questo: il racconto gira intorno alla scoperta della sessualità da parte di Elio e alla sua relazione con Oliver, e veramente non c’è altro. Quindi se, come me, non siete particolarmente fan di questo tipo di storie col dramma facile, lasciate davvero stare…

Altrimenti, potrebbe essere il vostro nuovo film preferito.

Perché Call me by your name è diventato un cult?

I punti di forza di Call me by your name sono l’originalità, la scelta del protagonista e l’ambientazione.

Indubbiamente si tratta di una delle poche pellicole mainstream, oggi come cinque anni fa, che racconta una relazione queer senza stereotipare o feticizzare i suoi protagonisti.

E questo è stato indubbiamente un valore della pellicola, che ha superato, almeno in parte, questo tipo di narrazione.

Oltre a questo, il protagonista scelto è perfetto, sia come attore, sia per come e stato scritto. Un personaggio in cui un adolescente, soprattutto un adolescente queer, può facilmente immedesimarsi (e che ha coinvolto anche me).

Infine (e questa non è una cosa positiva) l’ambientazione è scelta ad hoc per il pubblico statunitense, che riesce a digerire un’Italia solo se cristallizzata in una realtà lontana nel tempo e, di fatto, inesistente.

Immedesimarsi nel protagonista

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Partiamo dalle poche cose positive.

E indubbiamente Timothée Chalamet, che ho apprezzato sia per Dune (2021) che per Piccole donne (2019), è stato davvero convincente.

La bontà del suo personaggio è dovuta sia alla scrittura, sia alle capacità recitative dell’attore. Va a suo vantaggio anche il fatto che Chalamet, che al tempo aveva ventun anni, è un diciassettenne assolutamente plausibile.

Anzi, potrebbe essere persino più giovane.

Oltre a questo, il suo comportamento è del tutto credibile e realistico: si innamora di un uomo molto più adulto di lui, è totalmente schiavo della sua sessualità e la esplora, fingendosi grande e senza paura, in realtà di paura avendone moltissima…

Raccontare la queerness, e bene

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Tutto sommato la trattazione della queerness dei protagonisti è ben gestita.

Sia perché, a differenza di altri prodotti, non è limitante: entrambi i personaggi hanno relazioni sessuali soddisfacenti sia con uomini che con donne, senza essere ridotti a mere etichette e stereotipi.

Al contempo, si parla due ragazzi assolutamente normali e credibili, totalmente estranei a certi stereotipi ancora molto presenti nel cinema occidentale. E, soprattutto per quanto riguarda Oliver, si tratta di personaggi dalla mascolinità molto forte e presente, costantemente messa in scena.

L’indelicatezza del miscasting

Armie Hammer in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Un problema per me piuttosto grave è stato castare Armie Hammer per Oliver.

Il suo personaggio infatti dovrebbe essere un ventiquattrenne (per quanto non venga mai detto esplicitamente nel film). Purtroppo Hammer, a differenza di Chalamet, dimostra tutti i trent’anni che aveva al tempo.

Per questo è stato per me fondamentalmente impossibile appassionarmi alla relazione dei protagonisti: sullo schermo non vedevo un ventenne e un diciassettenne, ma un trentenne e un diciassettenne (o anche più giovane).

Impressione che ha dato alla scena tutto un altro sapore…

E questo è un problema non tanto per l’età effettiva dell’attore, ma per l’incapacità di farmi sospendere l’incredulità. Un elemento che, purtroppo, sembra che dia fastidio solo a me e che troviamo drammaticamente in progetti anche recenti come Licorice Pizza (2021).

Il sogno italiano

Armie Hammer e Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Una cosa che non perdonerò mai a questa pellicola è il fatto che un regista italiano si sia abbassato al gusto statunitense invece che portare una rappresentazione interessante del suo paese.

Infatti è indubbio che l’ambientazione nella Italia provinciale degli Anni Ottanta, che sembrano in realtà Anni Sessanta, è stata scelta ad uso e consumo del pubblico statunitense.

Lo spettatore medio statunitense è incapace comprendere che l’Italia contemporanea non è più quella de La dolce vita (1960).

Una realtà è drammaticamente evidente da film come il recente Luca (2021) e dall’insuccesso di ogni prodotto italiano che abbiamo provato a portare all’estero che non facesse parte di questo immaginario.

Il finale punitivo

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Ancora meno mi è piaciuto il finale punitivo del film.

Non solo perché si vede ancora una volta questa incessante sofferenza che i personaggi queer vivono nel cinema occidentale, perché è un finale che ho trovato veramente gratuito e poco credibile.

Infatti, per quanto il film continui a dirlo a parole, niente di quello che ho visto mi racconta veramente una società omofoba che non avrebbe accettato la relazione dei protagonisti. Anzi, vediamo una famiglia totalmente aperta all’idea, dei personaggi secondari che non fanno mai nessun tipo di commento in merito.

Oltre a questo, ed è davvero paradossale, in una scena verso metà film Oliver parla letteralmente di quanto abbia avuto piacere a fare sesso con Elio a voce alta davanti ad una edicola in paese, con fra l’altro una persona alle sue spalle.

Insomma, una bella narrazione fatta apposta per portare alla lacrimuccia finale…

L’imbarazzo

Ci sono due momenti che mi hanno fatto veramente imbarazzare per il film.

Anzitutto, ho trovato al limite del comprensibile questo specie di segreto che hanno i due protagonisti, ovvero quello di chiamarsi con il nome dell’altro.

Non l’ho trovato per nulla romantico o interessante, ma un modo gratuito per creare una scena iconica e citabile, oltre che il momento commovente sul finale.

Ma quello che mi ha fatto davvero esasperato è stato il discorso del padre sul finale.

Anzitutto per il fatto che, di nuovo, questa omofobia così pericolosa non si sente dal film. E di conseguenza questa idealizzazione della relazione di Elio e Oliver, che di fatto non ha nulla di speciale, l’ho trovata nauseante.

Soprattutto perché il padre, se proprio avesse voluto incoraggiare il figlio a vivere serenamente la sua queerness, avrebbe potuto dire ben altre cose più che raccontargli come speciale e unica una relazione appunto non così importante.

Nel film infatti non vediamo un ragazzo che scopre la sua sessualità, ma che ne è già cosciente e che si approccia a Oliver anche sfacciatamente in questo senso. Da parte mia ho visto più che altro un’avventura estiva come tante.

Tuttavia questo tipo di narrazione della relazione speciale e indimenticabile è funzionale al pubblico di adolescenti target.

E quindi, per quanto ridicola, non poteva certo mancare.