Caccia al ladro (1955) è uno dei titoli meno noti di Hitchcock, che si differenzia dal resto della sua produzione anche per non avere al centro della trama un omicidio, ma una serie di furti.
Con un budget abbastanza contenuto – 2,5 milioni di dollari, circa 28 milioni oggi – ebbe un riscontro buono, ma abbastanza contenuto: circa 9 milioni di dollari – circa 100 milioni oggi.
Di cosa parla Caccia al ladro?
Una serie di furti terrorizza la Costa Azzurra, e tutti i sospetti riconducono all’ex topo di appartamento, John Robie. Ma lui si dichiara innocente…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Caccia al ladro?
In generale, sì.
Anche se non la considero personalmente una delle opere più brillanti della produzione hitchcockiana, è un film incredibilmente piacevolee intrigante, grazie soprattutto al magnetismo dei due attori protagonisti, Cary Grant e Grace Kelly.
Forse l’elemento che mi ha meno convinto è lo scioglimento della vicenda: con una costruzione del mistero e della tensione tale da tenere lo spettatore incollato allo schermo, la rivelazione finale l’ho trovata un po’ sbrigativa…
Ma comunque ve lo consiglio.
E un urlo squarciò la scena…
L’inizio di Caccia al ladro mi ha piuttosto sorpreso.
Mentre stavo seguendo, anche leggermente annoiata, gli infiniti titoli di testa, mi aspettavo un’apertura che mantenesse la stessa atmosfera languida e serena. Niente di più sbagliato: un urlo terribile squarcia la scena, e ci immerge subito nella tensione della storia.
Un susseguirsi di momenti rapidissimi, che ci permettono di inquadrare perfettamente la scena e la situazione, con i diversi furti che terrorizzano la Costa Azzurra. In chiusura, un articolo di giornale ci introduce il protagonista, John Robie – nomen omen – ex-galeotto.
E uno splendido aggancio visivo – il gatto nero che vediamo sia sul tetto, sia sul divano del protagonista – accompagna all’effettiva introduzione protagonista, di cui sappiamo già moltissimo senza che sia ancora entrato in scena.
E, anche quando appare, il suo atteggiamento, osservatore e schivo, lo avvicina alla figura del felino. Ma subito mostra anche la furbizia di una volpe, riuscendo ad orchestrare un’abilissima fuga, articolata in diversi ed imprevedibili – per noi e la polizia – colpi di scena.
Una MacGuffin?
Dopo La finestra sul cortile (1954), Hitchcock tornò a lavorare con Grace Kelly, scrivendole un personaggio anche più interessante rispetto al precedente film.
Forse anche troppo.
Francie è una coprotagonista che viene introdotta a piccolissimi passi: prima appare come misteriosa donna che osserva il protagonista in spiaggia, poi riappare alla cena dell’hotel, rimanendo in silenzio per molto tempo…
Non so se fosse effettivamente nelle intenzioni di Hitchcock, ma portare in scena un personaggio così enigmatico, ma anche fortemente intraprendente – da ogni punto di vista – me l’ha resa fin da subito il principale sospettato per il nuovo Gatto.
Soprattutto per la intrigantissima e perfettamente orchestrata scena dell’inseguimento in macchina, che si conclude con il primo colpo di scena: Francie conosce la vera identità di John.
Ma la vera rivelazione…
Una rivelazione poco interessante
Nonostante, ripensandoci a posteriori, effettivamente ha perfettamente senso che Danielle sia la colpevole, il finale mi è risultato poco soddisfacente.
Infatti, nonostante tutta la costruzione sia coerente e logica, con anche il colpo di scena sul fatto che sia una donna – come nessuno aveva prima sospettato – e con anche la creazione di una tensione perfetta sul finale…
…non si lascia abbastanza spazio per raccontare meglio la rivelazione, magari facendo anche un puntuale riepilogo di tutti gli indizi che hanno portato a smascherarla, un racconto del suo destino e delle sue intenzioni.
Insomma, sarei rimasta più soddisfatta se avessero meglio approfondito l’elemento centrale della trama…
Peter Pan (2003) di P. J. Hogan è l’adattamento più recente e pedissequo dell’opera omonima di J. M. Barrie, molto più anche del Classico Disney del 1953.
Fu purtroppo anche un flop commerciale piuttosto disastroso: a fronte di un budget di 130 milioni, ne incassò appena 122, rimanendo comunque nei cuori degli spettatori ancora oggi.
Di cosa parla Peter Pan (2003)?
Londra, inizio Novecento. La giovane Wendy si trova costretta a crescere, ma le viene offerta una via d’uscita piuttosto interessante…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Peter Pan (2003)?
Assolutamente sì.
Questa pellicola mi è sempre rimasta nel cuore e posso dire felicemente che mi ha accompagnato nella crescita: la vidi da bambina, da adolescente, e l’ho rivista ora da adulta, ogni volta percependola in maniera assolutamente differente.
Peter Pan è infatti una pellicola estremamente trasversale.
Per i suoi aspetti giocosi e favolistici può coinvolgere facilmente i più piccoli, può emozionare gli adolescenti che si possono rivedere nei protagonisti, ma anche gli adulti, con una riflessione sulle bellezze e le amarezze del diventare grandi…
Dalla parte di Wendy
Uno degli aspetti più vincenti della pellicola è la riscrittura del personaggio di Wendy.
Nelle opere originali – sia la pièce teatrale, sia nel romanzo derivativo – Wendy è un personaggio passivo, che viene costantemente ricondotto al ruolo della madre – per quello che voleva dire essere tale nell’epoca rappresentata.
E questo era proprio il primo ostacolo della trasposizione.
Come nella storia di P. J. Hogan Wendy più che madre dei bimbi sperduti diventava la loro balia e domestica – cucina, li mette a letto, li accudisce, Peter compreso – nel Peter Pan del 2003 si sceglie di ricondurre il ruolo della madre invece alla raccontastorie, soprattutto nel gioco dei ruoli fra lei e Peter.
Al contempo, il dramma della crescita è principalmente sulle sue spalle.
Nel contesto storico raccontato, diventare adulta per una donna era un passaggio fondamentale quanto difficoltoso, in cui si doveva sottostare a precise aspettative ed obblighi, per mettersi sul mercato e maritarsi al più presto.
È quindi è piuttosto comprensibile che Wendy si lasci abbastanza facilmente lusingare dalle promesse di Peter – oltre ad essere totalmente ammaliata da lui fin dal primo incontro. Wendy di fatto scappa dalle responsabilità che le sono crollate addosso all’improvviso, e sceglie di rimanere per sempre bambina e felice.
Ma non è tutto oro quel che luccica…
Una crescita dolce e amara
Wendy è totalmente rapita – in tutti i sensi – dalla vita di Peter, fatta di continue avventure in un mondo pieno di creature fantastiche e uscite da un libro delle favole – praticamente la materializzazione di tutti i suoi sogni.
Ma Wendy non può non crescere.
Da preadolescente comincia inevitabilmente a sentire quei primi pruriti, che non riesce del tutto a comprendere, ma che sa che saranno più chiari quando sarà grande. In sostanza, Peter Pan parla della maturazione sia emotiva che sessuale di Wendy – e, in parte, anche di Peter.
Una maturazione che la protagonista sente non solo come necessaria, ma anche tutto sommato più auspicabile rispetto all’eterna giovinezza di Peter. E questo nonostante sia allo stesso tempo consapevole di cosa significa essere adulti.
Mrs. Darling racconta infatti alla figlia il lato più amaro della crescita: dover mettere da parte i sogni, chiuderli in un cassetto, ma mantenerli ancora nel proprio cuore, pur con sofferenza – proprio quello a cui Peter non vuole e non può rinunciare…
Un personaggio tragicomico
Peter Pan è un personaggio complesso, con diverse chiavi di lettura.
Rappresenta di fatto la giovinezza eterna, con le sue luci e le sue ombre: una perpetua spensieratezza – che gli permette di essere leggero e quindi di volare – ed avventure fantastiche, che farebbero la gioia di ogni bambino.
Ma è anche chiudere le porte alle felicità che solo un’effettiva maturazione può portare, anzitutto l’amore romantico, ben diverso dal semplice affetto dei propri genitori, e che Peter scopre proprio grazie a Wendy.
Un altro lato piuttosto drammatico – più volte affrontato nelle opere originali – è che questa eccessiva spensieratezza si accompagna anche ad una memoria fragilissima, che porta Peter a dimenticarsi continuamente delle sue stesse avventure e, potenzialmente, anche di Wendy stessa…
O a diventare come Uncino.
Il dramma di Uncino
Uncino è un personaggio speculare e parallelo a Peter Pan.
Un adulto pieno di rabbia e malignità, che odia Peter perché rappresenta tutto quello che lui ha ormai da tempo perduto. Al contempo, si rende conto che sia lui che Peter sono privi di un elemento fondamentale, anche se per motivi diversi.
Infatti Uncino, nella sua astuzia e malizia, vuole far paura a Peter quando capisce che anche lui sta vivendo il suo stesso dramma – non essere amati. E quello che gli racconta è per certi versi quello che succede effettivamente nel finale del romanzo: Peter si dimentica di Wendy e la ritrova adulta e sposata.
E glielo racconta così abilmente perché è proprio la stessa situazione in cui si trovalui stesso, la stessa consapevolezza che ha ormai da molto tempo, e che infine lo porta ad arrendersi, a rinunciare alla sua stessa vita…
Come Wendy salvò Peter
Quando Uncino lo minaccia di un futuro senza Wendy, senza amore e senza affetti, Peter è inevitabilmente a terra, vinto.
Per questo Wendy riesce a salvarlo, promettendogli che, anche se le loro strade si separeranno, lei continuerà comunque ad amarlo, come suo primo ed unico amore. Per questo quel bacio rappresenta il momento di passaggio per entrambi.
Wendy accetta la sua maturazione sessuale ed emotiva, capisce in quale direzione la porteranno queste nuove sensazioni che la stanno travolgendo. Al contempo Peter conosce una felicità nuova, regalata non solo dalle emozioni di questa spensierata giovinezza, ma anche da altri sentimenti finora conosciuti.
Perché allora alla fine Peter e Wendy si separano?
Anche se Peter rimarrà per sempre un ragazzino, in qualche modo è diventato comunque un po’ più grande: ha capito meglio le sue scelte di vita, le gioie – la spensieratezza, la mancanza di responsabilità – e le amarezze – non avere l’affetto di una famiglia o l’amore di Wendy.
Ma la stessa Wendy è maturata: ha abbracciato questi nuovi e strani sentimenti, ed è pronta ad esplorarli come giovane donna. Ed è diventata anche abbastanza matura da capire le amarezze della vita di Peter, dicendo in un certo senso addio alla sua stessa infanzia.
Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.
Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).
Di cosa parla Porco rosso?
Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Porco rosso?
Assolutamente sì.
Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro(1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).
Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.
Da vedere, assolutamente.
ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.
Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.
Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.
Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi…
Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:
Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.
Una storia semplice e perfetta
La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.
Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.
La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…
La donna oggetto?
Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.
Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.
All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.
In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.
Essere liberi
Meglio maiale che fascista.
Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.
Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.
E a questo proposito…
Perché Porco Rosso è un maiale?
Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.
Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.
Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.
Cosa succede nel finale di Porco rosso?
Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?
La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.
Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.
E meno solo.
Le parole italiane in Porco rosso
Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.
Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.
Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.
In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…
In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.
Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).
Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:
Notorious (1946) è una delle pellicole più note della produzione di Alfred Hitchcock, fra l’altro con due attori protagonistidi grande talento e richiamo: Cary Grant e Ingrid Bergman.
A fronte di un budget non esorbitante – 2 milioni di dollari, circa 30 milioni oggi – incassò molto bene: 24,5 milioni in tutto il mondo – circa 377 milioni oggi.
Di cosa parla Notorious?
Conclusosi il processo contro la spia tedesca John Huberman, la figlia Alicia viene coinvolta dal governo statunitense per una missione piuttosto particolare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Notorious?
Assolutamente sì.
Notorious è uno dei miei titoli preferiti di Hitchcock, e uno dei primi con cui mi sono avvicinata alla sua produzione. Pur non mancando di qualche ingenuità narrativa, è un’opera davvero coinvolgente e piena di tensione, costruita con una maestria registica di rara bellezza.
Inoltre, i due interpreti protagonisti di altissimo valore riescono a regalare ai loro personaggi una perfetta tridimensionalità: né buoni né veramente cattivi, ma profondamente umani, imperfetti, fallibili.
Insomma, non potete perdervelo.
Attenzione ai dettagli!
Il focus della pellicola sono i dettagli.
Hitchcock in questo caso lavora su inquadrature piuttosto peculiari, che si concentrano soprattutto sui particolari della scena e sulle mani dei personaggi, che si muovono abilmente per nascondere l’oggetto dell’interesse.
In particolare la chiave.
La chiave è un elemento che ritorna costantemente nella pellicola: porte chiuse e inaccessibili, chiavi richieste, chiavi rubate, momenti di grande pericolo in cui la chiave viene passata da una mano all’altra, nascosta frettolosamente, riportata al suo posto in maniera molto ingenua…
Nel terzo atto, invece il focus è sulla tazza di caffè, con cui Alicia viene avvelenata, con degli zoom improvvisi per catturare l’attenzione dello spettatore, ma anche con inquadrature concentrate sempre sulle mani dei personaggi, mentre la tazzina viene passata di mano in mano, fino ad arrivare alla vittima…
Un amore…troppo tormentato?
Un elemento mi sta dando un discreto fastidio nella produzione di Hitchcock è la storia romantica.
In questo caso la gestione non è assolutamente malvagia, anche se, secondo me, più per la bravura degli attori che per la scrittura degli stessi, che è per certi versi abbastanza scontata: un classico avanti e indietro di una storia di enemy to lovers.
Insomma, non mi ha fatto lo stesso effetto di Io ti salverò(1945), ma…
Anche se il prodotto va naturalmente contestualizzato nel suo contesto storico, mi ha comunque leggermente infastidito come per certi versi Alicia risulti meno brillante proprio per questo amore travolgente che quasi la istupidisce…
Un fallimento credibile?
I protagonisti di Notorious sono incredibilmente fallibili.
Il piano che mettono in scena è incredibilmente pericoloso e facilmente fallimentare, con tantissime trappole lungo la strada. E la bellezza del prodotto sta proprio nell’apparente arguzia dei personaggi, che però inciampano molto facilmente proprio in questi errori.
Quasi tutta la risoluzione del mistero è in mano al caso e ai puri colpi di fortuna, mentre i protagonisti devono fare e disfare le proprie macchinazioni per adeguarsi alle situazioni e ai cambiamenti improvvisi.
Infine, con una perfetta costruzione della tensione, Alicia si fa anche troppo facilmente incastrare nel piano del nuovo marito e della madre. E sembra che sia inevitabile che risulti sconfitta, intrappolata nella sua stessa casa, senza che nessuno possa aiutarla…
Il finale di Notorious
Fino a questo momento i finali dei film di Hitchcock non mi avevano convinto del tutto.
In generale, non amo molto i finali che sembrano più degli epiloghi, ovvero che vanno a chiudere delle sottotrame o fanno vedere il destino del protagonista a vicenda conclusa.
Preferisco invece i finali che magari non concludono del tutto la vicenda, ma che sono altresì davvero efficaci.
Come in questo caso.
Devlin, nonostante l’evidente pericolo, va a cercare Alicia e la conduce in salvo fuori casa, trovando a metà strada un insolito accompagnatore: Alexander, che viene convinto a seguire la spia verso una salvezza desiderabile tanto dalla moglie quanto da lui.
Ma, arrivati alla macchina, Devlin lo lascia indietro.
E Alex ripercorre la scalinata da cui era venuto, buttandosi nelle braccia di quelle ombre minacciose che fanno da guardia all’ingresso della sua stessa casa…
Io ti salverò (1945), traduzione piuttosto impropria di Spellbound (Incantato) è uno dei film considerati minori della produzione di Alfred Hitchcock. Ma, nondimeno, una pellicola piuttosto interessante.
A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,5 milioni di dollari, circa 25 milioni oggi – incassò piuttosto bene:6,4 milioni di dollari, circa 106 milioni oggi.
Di cosa parla Io ti salverò?
Costance Petersen lavora in una clinica psichiatrica, proprio quando sembra esserci un cambio di dirigenza piuttosto misterioso…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Io ti salverò?
In generale, sì.
Anche se Io ti salverò è uno dei titoli minori di Hitchcock, riesce comunque a distinguersi grazie ad un mistero davvero ben costruito e a guizzi registici non indifferenti. Tuttavia, per quanto appassionante, presenta un difetto fondamentale: la storia d’amore.
Per quanto possa sembrare un elemento secondario, per certi versi il film e la sua efficacia sono proprio strozzati dall’ingombrante presenza di questo elemento, che poteva per molti versi essere eliminato e il film avrebbe funzionato comunque.
Vedere per credere.
Un mistero incredibile…
La costruzione del mistero è magistrale.
Viene introdotto a piccoli passi, prima lasciando spazio all’introduzione del primo ambiente, poi introducendo il personaggio-fulcro dell’intera narrazione, seminando fin dalla prima scena indizi sulla sua identità.
Una narrazione articolata in picchi, corrispondenti agli scoppi di violenza di John, ogni volta che viene assalito da un frammento di ricordo, che gli fa cambiare bruscamente comportamento.
E lo spettatore si può facilmente identificare nella frustrazione di Costance, la cui testardaggine è di fatto il motore della vicenda, oltre ad essere il personaggio risolutivo della storia.
…strozzato dall’amore
Forse per rendere più digeribile una vicenda comunque piuttosto angosciante, è stata inserita a forza la storia amorosa.
E il contrasto è quasi opprimente.
Il rapporto romantico fra i due protagonisti, soprattutto più si prosegue con la narrazione, sembra sempre più superfluo, di troppo. Di fatto la storia avrebbe potuto serenamente proseguire anche senza che i due avessero una relazione romantica – e forse in un prodotto uscito oggi questo elemento sarebbe stato gestito del tutto diversamente.
O, ancora meglio, omesso.
Incredibilmente attuale
Un aspetto che mi ha veramente sorpreso è la rappresentazione della figura femminile.
Per certi versi, incredibilmente attuale.
Non solo nell’ambiente di lavoro Costance viene continuamente spinta verso il matrimonio, anche a discapito del suo lavoro, ma soprattutto la sequenza delle avance nella hall dell’hotel è incredibilmente esplicita.
La protagonista si trova costantemente assillata da una schiera di uomini che sembrano non poter fare a meno di infastidirla, al punto che la stessa riesce anche a rigirare la situazione a suo favore.
Non saprei dire quali fossero le intenzioni dietro a questa scena – non vorrei cadere nell’errore di leggerla con gli occhi di oggi. Potrebbe essere il primo indizio di personaggi femminili piuttosto atipici per il tempo – come poi in Psycho (1960) – oppure un semplice siparietto comico.
La sequenza onirica
Il punto più alto della pellicola è indubbiamente la sequenza onirica.
Un sogno che dovrebbe essere del tutto rivelatorio sul mistero, ma in realtà è solo un altro enigma da sciogliere, anche più complesso e frustrante: è come se la soluzione fosse sempre davanti agli occhi dei personaggi, ma gli stessi non fossero in grado di coglierla.
Sulle prime pensavo che Hitchcock si fosse ispirato al capolavoro di Dalì, La persistenza della memoria (1932) – quella con gli orologi molli, per intenderci. Invece con mia grande sorpresa ho scoperto che quella scena fu proprio creata sotto la direzione del maestro del mistico.
Un elemento piuttosto interessante della pellicola è l’uso della soggettiva, che sarà poi fondamentale in Psycho.
Tre sequenze uniche nel loro genere, in cui lo spettatore si immerge letteralmente nell’occhio del personaggio.
Quando Constance e John si avvicinano per baciarsi:
Quando John beve il latte offerto dal professore:
E infine quando Murchison si spara:
Ed è anche più incredibile che questa spettacolare sequenza non sia la chiusura della pellicola, che invece scade ancora nella insostenibile trama romantica….
A ghost story (2017) di David Lowery è un piccolo film indie con protagonisti Rooney Mara e Casey Affleck.
A fronte di un budget davvero ridicolo – appena 100 mila dollari – ha incassato paradossalmente molto bene: quasi 2 milioni in tutto il mondo.
Di cosa parla A ghost story?
Una giovane coppia si è appena trasferita in una nuova casa, ma un terribile incidente sconvolge tutto…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere A ghost story?
Assolutamente sì.
Ma con un forte avvertimento: non è per nulla un film semplice. È una pellicola con ritmi incredibilmente lenti, con diverse scene a camera fissa in cui semplicemente guardiamo normalissime scene di vita quotidiana attraverso gli occhi del protagonista.
Inoltre, anche sul finale molti elementi diventano più chiari, rimane comunque una storia piuttosto enigmatica e aperta alla completa interpretazione dello spettatore. Insomma, un’opera con un taglio autoriale piuttosto peculiare, ma che, se presa per il verso giusto, può dare grandi soddisfazioni…
Un vero fantasma
La rappresentazione del fantasma protagonista mi ha davvero sorpreso.
Solitamente nei film horror e fantastici i fantasmi vengono rappresentati come esseri trasparenti, con magari anche un aspetto mostruoso o i segni della loro morte. Insomma, delle creature che devono far paura in maniera semplice, ma immediatamente efficace.
Invece il fantasma protagonista è molto semplicemente una persona con addosso il suo sudario, tanto da sembrare sulle prime quasi il personaggio di un film per l’infanzia. In realtà è una presenza genuinamente spaventosa.
Uno spettatore silente e afflitto, ma che non emette un suono, ma che segue, che ascolta, e, che, solo in un’occasione, si comporta veramente come un fantasma che infesta una casa…
Chi va, chi resta
Il tempo scorre inevitabile.
Il protagonista è sempre al centro della scena, ancorato alla sua casa, al suo nido da cui non si voleva allontanare neanche quando era in vita. Ma, quasi senza poterlo controllare, si susseguono davanti ai suoi occhi storie, persone, morti. Tutti vanno avanti con la loro vita, lui resta immobile a guardarla.
Passano mesi, anni, secoli, e l’unico compagno è il fantasma dell’altra casa, che rappresenta il destino drammatico in cui potrebbe ricadere lo stesso protagonista: dimenticarsi perché non vuole lasciare la Terra.
E infatti lo spettro coperto di fiori scompare solo quando il suo punto di riferimento è distrutto, e si convince che chi aspettava non tornerà più – anche se non saprà mai chi…
Nichilismo totale
Una riflessione fondamentale si trova nella scena della festa.
Un personaggio ignoto esprime il suo totale nichilismo, nel considerare l’esistenza terrena solamente passeggera e di fatto inutile, che si trascina verso il destino inevitabile: la morte.
Ma rimarrà qualcosa di noi?
Qualche segno della nostra presenza potrebbe fortuitamente rimanere immortale, un frammentoin un mondo inevitabilmente distrutto, una fragile memoria di una persona nel futuro che non saprà neanche chi siamo…
E si riallaccia al motivo della permanenza del protagonista.
Cosa succede nel finale di A ghost story?
Nel finale il protagonista riesce, trovandosi nel loop, riesce ad estrarre dalla parete il bigliettino che M aveva lasciato prima di andarsene.
E scompare.
La donna proprio all’inizio raccontava come in ogni casa che lasciava avesse lasciato un messaggio, un pezzo di sé.
Una chiusura che si apre a diverse interpretazioni.
Personalmente io credo che quel messaggio fosse la chiave della frustrazione di D, che non riusciva a darsi pace. Forse sul non capire cosa non andasse nel loro rapporto, che sembrava per molti versi conflittuale e non risolto, e che girava intorno anche alla volontà di abbandonare la casa stessa.
E se M avesse scritto sul foglio il motivo per cui non poteva rimanere nella casa?
La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro è il film che rilanciò il regista presso il grande pubblico, dopo che era già profondamente apprezzato per prodotti come Il labirinto del fauno (2006).
Anche per questo, incassò piuttosto bene, a fronte di un budget piuttosto contenuto: 195 milioni di dollari in tutto il mondo per un costo di produzione di 19 milioni.
Di cosa parla La forma dell’acqua?
Baltimora, 1962, piena Guerra fredda. Elisa è una giovane donna delle pulizie, muta, che lavora in una base di ricerca scientifica. Proprio lì avverrà un incontro molto particolare…
Vale la pena di vedere La forma dell’acqua?
Assolutamente sì.
La forma dell’acqua è un film particolarissimo, che riesce a raccontarti una favola con toni molto adulti e maturi, immersa in atmosfere incredibilmente fascinose e suggestive.
Del Toro ancora una volta dimostrò di essere capace di portare in scena storie interessanti in ambienti magici dai toni profondamente gotici e costruiti alla perfezione.
Insomma, da recuperare assolutamente.
La nuova principessa
La forma dell’acqua è impostata secondo i canoni della favola, con una grande differenza: la protagonista.
Del Toro infatti ha messo in scena un personaggio femminile del tutto atipico. Elisa è un personaggio che avrebbe tutte le carte in regola per essere un simpatico secondario: disabile e non corrispondente ai più classici canoni di bellezza.
E invece Elisa è una protagonista determinata e coraggiosa, che non ha paura di mettersi in prima linea per difendere quello che considera giusto. E, sopratutto, è una donna con un desiderio sessualeforte ed esplicito.
La componente sessuale
Quando andai a vedere il film non mi aspettavo per nulla che avrebbe toccato certi tasti – e infatti sulle prime rimasi leggermente contraddetta.
Ad una seconda visione, mi sono resa conto di quanto Del Toro sia stato capace di mettere in scena una donna realistica, che non cerca solamente una storia romantica, ma che vuole anche – e sopratutto – una relazione sessuale.
E, in più, è lei stessa che cerca questo contatto sessuale, mostrandosi nuda in più occasioni senza alcuna vergogna. E, sopratutto, mostrando un corpo femminile vero, né iper sessualizzato né castrato come spesso accade.
Il nostro cinema avrebbe bisogno di più protagoniste di questo tipo…
La costruzione del contesto
Molto spesso quando si raccontano contesti sociali molto lontani da noi, dove l’emarginazione di molte minoranze sociali era all’ordine del giorno, è facile inciampare in un taglio narrativo pietistico e forzato.
E invece Del Toro è riuscito a mantenere una rara eleganza anche su questo aspetto.
I personaggi positivi della narrazione sono tutti degli emarginati: una persona disabile, una donna nera, un uomo omosessuale, un mostro. E come tali vengono trattati. E questo contesto è ben raccontato da pochi momenti ben posizionati e piuttosto credibili.
Fra tutti, quando Strickland dice che Dio ha l’aspetto dell’uomo, ma poi specifica più probabilmente un uomo bianco – a sottolineare la superiorità della razza bianca. Così anche lo scambio infelice fra Giles e il ragazzo della tavola calda: il giovane non solo lo rifiuta con disprezzo, ma scaccia anche in malo modo una coppia di neri.
Come è stato fatto il mostro in La forma dell’acqua
Uno degli elementi di fascino de La forma dell’acqua – e del cinema di Del Toro in generale – è la sua capacità di creare degli effetti speciali incredibili utilizzando metodi più materiali e poca CGI.
Infatti la creatura della storia non è un attore coperto da un green screen e poi rielaborato in post produzione, ma l’incredibile Doug Jones, attore feticcio del regista che già aveva lavorato con lui ne Il labirinto del fauno nei panni del Fauno e dell’Uomo pallido.
E quello che si vede in scena è stato pochissimo rifinito in seguito, ma è lo stesso attore coperto dal trucco e dal costume:
La forma dell’acqua meritava di vincere l’Oscar?
Gli Oscar 2018 io personalmente me li ricordo soprattutto per la vittoria di Del Toro.
La bellissima reazione del regista una volta ricevuto l’Oscar mi fece definitivamente innamorare di questo autore:
Contro La forma dell’acqua c’erano tanti e diversi concorrenti di valore: fra gli altriTre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) e Il filo nascosto (2017), ma alla fine il film del regista messicano ebbe la meglio, con ben tredici nomination e quattro vittorie – il più grande vincitore della serata.
Ma meritava di vincere?
La mia opinione su questa pellicola è molto positiva e quindi per me la vittoria è meritatissima. Tuttavia, fra tutti i concorrenti, forse io avrei preferito Tre Manifesti, uno dei miei film preferiti.
Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro, prodotto e distribuito da Netflix, è una piccola sorpresa dell’animazione.
Un prodotto che ha avuto una produzione molto travagliata: pensato fin dal lontano 2008, si è potuto realizzare solo recentemente per l’acquisto dei diritti da parte della piattaforma, a causa degli alti costi, dovuti all’uso della tecnica stop motion (la stessa di Fantastic Mr. Fox, per capirci).
Candidature Oscar 2023 per Pinocchio (2022)
(in nero i premi vinti)
Miglior film d’animazione
Di cosa parla Pinocchio?
A sorpresa, non di Pinocchio.
L’opera di del Toro riprende alcuni elementi della favola originale, ma li reinventa in direzioni differenti, con anche una morale e un’ambientazione del tutto diversa.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Pinocchio?
Assolutamente sì.
Dopo essermi asciugata le copiose lacrime che mi ha fatto versare, mi sono resa conto dell’incredibile qualità che il Pinocchio di Guillermo del Toro può vantare, allontanandosi anche molto dall’omonimo Classico Disney.
Ma da questo regista non mi aspettavo niente di meno
Oltre alla bellezza dell’animazione, l’originalità dei disegni, ho semplicemente adorato la preziosa reinterpretazione da parte di del Toro, che è riuscito a riportare in scena un classico italiano con un’opera di rara bellezza.
Guardatelo, e non ve ne pentirete.
Il Pinocchio di Guillermo del Toro doppiato o in originale?
Meglio guardare il film doppiato o in originale?
Alcuni di voi potrebbero sentirsi personalmente infastiditi dal modo in cui vengono pronunciati alcuni termini italiani, fra cui i nomi dei personaggi.
Io preferisco sempre guardare i film in lingua originale a prescindere, in particolare i prodotti animati che hanno solitamente alle spalle un voice casting di alto livello.
Nel caso di Pinocchio, meno che non siate particolarmente sensibili, non avrete più fastidio di quanto ve ne avrebbe potuto dare Luca(2021), con la differenza che in questo caso il cast vocale proviene da attori inglesi e non statunitensi.
E vi assicuro che solo questo ci salva da molte storpiature…
Non il solito Pinocchio
Nell’opera di Collodi, Pinocchio era un bambino totalmente scapestrato e ribelle, che non voleva andare a scuola, ma solo divertirsi, anche frequentandosi con personaggi poco raccomandabili...
Il Pinocchio di Guillermo del Toro mantiene l’idea di base, ma la sviluppa in altre direzioni. In questo caso Pinocchio non è semplicemente un bambino da rieducare, ma un bambino che deve riscoprire il mondo dall’inizio, e non ha idea di come lo stesso funzioni.
E per questo si comporta in maniera incontrollabile, nella sua incontrollabile voglia di scoprire e osare.
Tuttavia tutto viene portato su un piano più storicamente realistico quando si accorge di essere un peso per il padre adottivo – secondo lo stesso Grillo – e per questo abbandona il tetto familiare con l’illusione di poter lavorare e sostenere Geppetto.
Il dramma di Geppetto
Probabilmente la parte più straziante del Pinocchio di Guillermo del Toro è il dramma di Geppetto.
La sua tragicità prende le mosse anzitutto dall’insensata morte del figlio Carlo, che non riesce a superare, e che lo porta a creare un burattino che ne riprenda le forme. Ma solo grazie ad uno spirito della foresta – una fata turchina molto reinventata – riesce a ritrovare, dopo tanti anni, una luce nella sua vita.
E per tutto il film perde più e più volte il figlio adottivo, per la morte o per la fuga, distruggendosi – anche economicamente – per ritrovare l’unica cosa che poteva dargli felicità, nonostante non fosse proprio il figlio che voleva…
E qui si trova una grande sorpresa della pellicola.
Un bambino vero?
Per tutta la pellicola mi aspettavo un finale analogo a quello di Collodi, in cui l’umanità di Pinocchio era una sorta di premio per la sua buona condotta. Nell’opera originale infatti l’idea era di insegnare ai bambini della neonata Italia unita che, se avessero seguito la retta via, avrebbero trovato anche una sorta di riconoscimento sociale.
Al contrario, nel Pinocchio di del Toro il protagonista non diventa mai umano.
Ed è lo stesso film che spiega perché questa scelta andrebbe a snaturare la pellicola, quando Pinocchio, davanti alle parole di Geppetto che gli dice che non vuole che sia niente di diverso da sé stesso, risponde:
Then I’ll be Pinocchio.
Perché in realtà questo finale racconta Geppetto deve finalmente accettare la morte di Carlo, e essere felice del dono che nonostante tutto la vita gli ha concesso.
Da un punto di vista più storico-politico, il Fascismo accetta Pinocchio perché è immortale e, soprattutto, perché è fatto di vero pino italiano, quindi di una buona materia prima che può essere plasmata.
Invece, anche con le sue azioni, Pinocchio rifiuta di sottomettersi, non diventando veramente un bambino della Gioventù Fascista, e quindi non snaturando in alcun modo la sua vera natura.
E qui si apre un altro elemento interessante.
Raccontare il fascismo
Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto di quanto questa rappresentazione del fascismo, semplice ma molto diretta, mi lasciava un po’ contraddetta.
E ripensandoci mi sono resa conto che – per diversi motivi che potete immaginare da soli – il Nazismo e l’Olocausto sono portati anche sul piccolo e grande schermo fino alla nausea, con prodotti di minore o maggiore qualità.
Assolutamente non si può dire lo stesso con il fascismo italiano.
Ovviamente non nego che ci siano anche delle produzioni dedicate a quel periodo storico ancora oggi, magari in un cinema europeo meno esplorato, ma a livello di produzioni mainstream è un tema del tutto assente.
E come scelta in questo caso è stata del tutto azzeccata e interessante.
Il Pinocchio di Guillermo del Toro Il simbolismo della pigna
Il simbolismo della pigna è più sottile, ma diventa assolutamente chiaro alla fine della pellicola.
La pigna è un elemento di vita e di morte insieme.
È un elemento di vita quando diventa un giocattolo per Carlo, per l’albero che nasce dalla stessa, con le pigne cresciute sullo stesso che rappresentano il ciclo della vita, quindi sempre la vita e la morte insieme.
Ma è definitivamente un simbolo di morte per la sua drammatica somiglianza con la granata, con un angosciante foreshadowing già nei momenti prima della morte di Carlo…
Ma la morale del Pinocchio di del Toro non vive di opposti.
Il Pinocchio di Guillermo del Toro La morale amara
La morale finale del Pinocchio di del Toro è molto amara, ma al contempo confortante.
Il regista ci nega totalmente un finale da favola, senza quella tipica e indefinita felicità, ma preferendo un racconto su come la vita continui, felice anche se profondamente caduca.
E ci racconta come anche la morte, probabilmente arrivata alla fine per Pinocchio, sia l’amara ma giusta conclusione per una vita soddisfacente, proprio perché ha avuto una fine…
Avatar (2009) di James Cameron è l’ultima pellicola di questo regista (finora) e anche il maggiore incasso della storia del cinema. Infatti più che di film possiamo parlare di un effettivo fenomeno di costume, dovuto anche (ma non solo) all’incredibile lancio della tecnica del 3D.
La pellicola incassò infatti quasi 3 miliardi di dollari in tutto il mondo, a fronte comunque di un budget piuttosto consistente di 237 milioni di dollari, rischiando di essere scalzato solo da un altro incredibile evento cinematografico, Avengers Endgame (2019).
Da molti è considerabile un capolavoro.
Ma è così?
Di cosa parla Avatar?
In un futuro imprecisato, Jake Sully sostituisce il fratello defunto in un’ambiziosa operazione di colonialismo sul pianeta di Pandora, dove si trova un ambito giacimento di un metallo preziosissimo. E per questo deve farsi accettare dalla tribù locale…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Avatar?
In generale, sì.
Col tempo ammetto che la mia opinione su questa pellicola si è molto ammorbidita, passando da un sincero odio fino ad un pacifico apprezzamento.
Non troverete in me una fanatica di questo film: lo considero un gran film di intrattenimento, con indubbiamente una tecnica innovativa e ambiziosa come quella del 3D, ma che io personalmente (anche al di là di questa pellicola) non apprezzo.
Se siete fra quelle pochissime persone che non hanno mai visto questa pellicola, vi consiglio di dargli una possibilità, senza aspettarvi niente di così clamoroso. Per me è un prodotto che per certi versi andrebberidimensionato, soprattutto davanti ad una tecnica che sicuramente era all’avanguardia, ma che non è invecchiata così bene come ci si potrebbe aspettare.
E forse ad un neofita oggi non farebbe lo stesso effetto…
Tuttavia, nonostante una lunghezza leggermente eccessiva, si parla di un filmche intrattiene facilmente e che vale sicuramente la pena di recuperare.
Jake Sully: un protagonista perfetto
Jake Sully è il protagonista più azzeccato fra quelli di Cameron.
Molto banalmente perché questo regista era ormai specializzato nel creare personaggi funzionali, e in questo caso ha fatto assolutamente centro con un protagonista che è incredibilmente accessibile, fallibile al limite del comico, ma che al contempo ha il coraggio di mettersi in gioco, anche nelle maniere più stupide e irresponsabili.
Insomma, un personaggio in cui lo spettatore può facilmente rivedersi e per cui viene facile fare il tifo.
Oltre a questo, presenta un’evoluzione, soprattutto emotiva, molto lineare e digeribile, quasi prevedibile, che non manca del classico racconto su come il nostro eroe sia speciale. E così, anche se impreparato, riesce a gestire le sfide meglio degli altri.
Oltre a questo, è un ottimo accompagnamento per lo spettatore nella scoperta di Pandora.
Raccontare la disabilità
Come ho avuto il piacere di scoprire recuperando la filmografia di questo regista, Cameron è molto attento a diverse tematiche sociali, soprattutto in Avatar.
In particolare ho particolarmente apprezzato la scelta di mettere al centro della vicenda un personaggio disabile, che soprattutto non ricadesse in quella sorta di patetismomolto tipico nel cinema occidentale – e anche di cattivo gusto.
In questo caso invece la disabilità del protagonista è un elemento importante della trama: anzitutto per una scena molto emozionante in cui il protagonista, dopo tanto tempo, può di nuovo godere dell’uso delle gambe e corre felicemente fuori dal laboratorio.
Al contempo, si accompagna ad un lato più drammatico, sia per le promesse del Colonnello per delle nuove gambe in cambio della sua collaborazione, sia quando Sully entra per la prima volta nella capsula e Grace cerca di aiutarlo, ma Sully sbotta faccio da solo.
Una rappresentazione molto genuina, che racconta le eccessive e inutili attenzioni che un disabile, magari del tutto autosufficiente come Sully, deve vivere ogni giorno.
Neytiri: una controparte non scontata
Neytiri è allo stesso modo uno dei migliori personaggi femminili creati da Cameron.
Solitamente in questo tipo di prodotti, soprattutto se guardiamo a dieci anni fa, i personaggi femminili hanno un ruolo molto marginale e definito da pochi stereotipi molto ripetitivi. Invece Neytiri è un’ottima controparte del protagonista, che racconta in maniera davvero vincente le tradizioni e il sentimento del popolo a cui appartiene.
Oltre a questo, è un personaggio attivo, intraprendente, che ha un ottimo ruolo in tutta la vicenda e particolarmente negli scontri, dove mostra tutte le sue capacità, senza che questo appaia forzato.
Oltre a questo, ho particolarmente apprezzato che la relazione romantica con Jake non sia centrale alla vicenda: l’ho piacevolmente riscoperta, trovandola molto meno pesante e invadente rispetto ad altri prodotti.
Villain da barzelletta ma…
Non penso che molti avranno da ridire sul fatto che i villain di Avatar sono davvero una barzelletta.
Abbiamo da una parte il durissimo e temibile colonnello, con le sue ferite di guerra e i pettorali guizzanti, paragonabile per certi versi a Tiberius di Atlantis (2001), cattivo e piatto all’inverosimile. Dall’altra abbiamo il villain più politico, Parker: lo stereotipo nauseante del colonizzatore statunitense che non ha altro interesse che il guadagno.
Detto questo, sento di spezzare una lancia verso questi personaggi.
Perché è altrettanto evidente che sono assolutamente funzionali al dramma della trama: ci troviamo davanti a nemici terribili, con cui è impossibile discutere e che hanno un potere totalmente distruttivo, che si può solo sconfiggere.
E, soprattutto, come al solito Cameron ha privilegiato il lato estetico più che la profondità psicologica o la capacità attoriale degli interpreti.
Colonialismo e ecologismo in Avatar
Avatar può vantare due tematiche molto importanti: il colonialismo e l’ecologismo.
La parte riguardante il colonialismo è molto evidente: gli invasori, strettamente statunitensi, cercano di mettere le mani su un nuovo territorio con l’unica volontà di trarne il maggior profitto possibile. Ed è anche così evidente l’etnocrazia imperante del personaggio di Parker, quando dice:
Gli abbiamo costruito una scuola, gli abbiamo insegnato la nostra lingua
Sempre con l’idea che la società di provenienza, quella incredibilmente avanzata, sia l’unica giusta che deve cercare di portare un po’ di civiltà anche presso i selvaggi(come vengono ripetutamente chiamati).
Oltre a questo, a chiudere il cerchio la chiosa di Jake verso il finale:
Quando qualcuno è seduto su quello che vuoi, diventa il nemico
Ecologismo in avatar
Altrettanto interessante il racconto dell’ecologismo.
Jake dice chiaramente che dal pianeta da cui veniva non c’era più verde, rappresentando quindi un approccio totalmente attuale (e coerente con la trama) in cui l’uomo ha spremuto la Terra quanto più poteva, così da trarne il maggior ricavo possibile.
E andando di conseguenza distruggerla.
Davvero una grande distanza rispetto alla popolazione dei Na’vi, che vivono in totale armonia con il loro pianeta, rispettandolo fino anche quasi all’ossessione.
Una concezione forse un po’ semplicistica, ma che funziona.
Avatar è un film invecchiato bene?
Parto col dire che a me, del reparto tecnico di Avatar – né di altri prodotti – importa più di tanto.
Banalmente perché non è un aspetto che rappresenti un grande valore di un’opera, per vari motivi, anzitutto perché è un elemento che si può facilmente ridimensionare nel tempo, a differenza di altri aspetti.
Infatti secondo me complessivamente il reparto tecnico di Avatar è invecchiato bene – già solitamente i Na’vi sono incredibili – ma non manca di qualche elemento che non ha retto alla prova del tempo – e che magari ho notato solo io perché sono troppo pignola.
Le due visioni recenti mi hanno confermato come nel primo atto percepisca un drammatico senso di horror vacui, nel senso più letterale del termine: la foresta mi sembra troppo spoglia e per certi versi sembra più preveniente da un videogioco che da un film.
Una sensazione che non ho più sentito per il resto della pellicola, ma che mi è rimasta molto impressa anche per il design dei Thanator, che in certe scene hanno quel fastidioso effetto lucido, tipico di un certo tipo di CGI non invecchiata benissimo.
E sono fortemente convinta che il lato tecnico di questo film sarà – anche involontariamente – ridimensionato con Avatar – La via dell’acqua (2022).
E per ovvi motivi.
Perché il paragone fra Avatar e Pocahontas non ha senso
Questa è una delle polemiche più note e abusate riguardo a questa pellicola.
Per chi fosse vissuto sotto ad un sasso, molti accusano questa pellicola di avere una trama troppo esile e banale, troppo simile ad altri prodotti come appunto Pocahontas (1995) e Balla coi lupi (1990).
Ma per me è una polemica molto sterile.
Una trama semplice non rende un film di minore valore, perché il tutto dipende come la stessa si incasella all’interno del progetto complessivo e che tipo di profondità narrativa possiede.
Secondo me, come anche per la maggior parte dei film di Cameron, in Avatar la trama non gode di una particolare profondità narrativa – che non significa che sia un film piatto – ma è assolutamente funzionale al contesto.
E va bene così.
Per questo vi consiglio di provare a decontestualizzare le trame da film anche considerati universalmente capolavori, come per esempio Manhattan(1979).
Vi accorgerete che è un gioco ben più pericoloso di quanto sembri…
Avatar è un capolavoro?
Ho avuto la fortuna di potermi confrontare con una persona che ha un’opinione opposta alla mia, così da presentare due punti di vista diversi sulla questione.
L’opinione de Il cinema semplice
Ho già ampiamente spiegato il mio punto di vista su cosa sia un capolavoro – concetto che, ribadisco, è molto fumoso e che non può essere definito in maniera netta e oggettiva. Stringendo molto il discorso, per me un capolavoro è un’opera che si distingue nettamente dal punto di vista artistico dal resto delle produzioni.
Per me Avatar, per quanto sia un ottimo film di intrattenimento e molto meno banale di quanto si racconti, non è un capolavoro.
E questo perché, pur essendo all’interno di una costruzione molto ambiziosa, presenta una trama che è ottimamente funzionale, ma che manca di profondità narrativa, personaggi – soprattutto i villain – che sono abbastanza piatti e prevedibili, e come pellicola non ha particolari meriti artistici.
Non posso neanche parlare di capolavoro di genere, perché non appartiene così nettamente ad un genere e, soprattutto, non sarebbe neanche così innovativo, lato tecnico permettendo, se volessimo confrontarlo col resto della produzione di film action, di avventura o di fantascienza.
Secondo questo stesso concetto, potrei parlare di un capolavoro tecnico – ma per me è un discorso che non ha senso, perché è un concetto totalmente aleatorio e ridimensionabile nel tempo.
Insomma, ne riconosco l’innovazione e l’assoluta importanza storica che ha avuto, ne riconosco il valore, ma non vado oltre.
L’opinione di Intothenerdverse
Perché Avatar è un capolavoro?
Questa la domanda a cui mi è stato chiesto di rispondere da Il.cinema.semplice, che ringrazio per avermi concesso questo piccolo spazio sul suo sito.
So che molti hanno una loro idea di cos’è un capolavoro, quindi prima di andare avanti penso sia necessario dirvi la mia.
Reputo un capolavoro un’opera che ha settato un nuovo standard, un prodotto che riesce ad imporsi nel suo ambiente di riferimento come spartiacque. Per forza di cose, davanti ad un capolavoro ci troviamo davanti ad un prima del capolavoro e un dopo il capolavoro, essendo un’opera che si pone a capo di tutto ciò che c’è stato prima e che diventa modello e fonte d’ispirazione per ciò che ci sarà dopo.
Il capolavoro è qualcosa a cui ambire, qualcosa da prendere come modello e che insegna. Un’opera che sconfigge la prova del tempo, riuscendo a suscitare sempre lo stesso effetto anche visto dopo anni e anni dalla sua prima uscita e a stupire per l’incredibile forza prorompente che ha avuto nel suo ambito.
Il capolavoro porta nel cinema novità e cambiamenti che ne scuotono le fondamenta e lo cambiano per sempre.
Perché Avatar è un capolavoro
Come con Jurassic Park a suo tempo, con l’uscita di Avatarcambia per sempre il modo di concepire l’effetto visivo: Cameron ha introdotto tecniche che hanno modificato il modo di pensarli e realizzarli, realizzando un film avanguardista che guardava al futuro con almeno dieci anni d’anticipo.
Guardato oggi, Avatar sembra un film girato domani.
E sono veramente pochi al giorno d’oggi (e ci devo davvero pensare per trovarne) i film che riescono a raggiungere un livello di cura e resa tale sul grande schermo. Il mondo dell’effetto visivo è cambiato grazie ad Avatar, e, probabilmente, muterà ulteriormente con il successivo capitolo di questa saga.
Avatar è un capolavoro per il modo in cui ha impattato l’industria cinematografica, aggiungendosi a quel gruppo di film che sono riusciti ad innovare e cambiare il modo di fare film e riuscendo ancora oggi ad insegnare che l’effetto visivo di oggi è solo un’evoluzione del cinema artigianale degli inizi.
Il cinema è stupore, meraviglia, intrattenimento e magia.
E Avatar, dopo anni dalla sua uscita, riesce ancora a farci rimanere di stucco, rimanendo increduli di fronte a ciò che il cinema è in grado di offrire.
E non importa tra quanti anni rivedrete questo film.
Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.
Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?
Di cosa parla Titanic?
Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…
Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Titanic?
In linea generale, sì.
Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.
Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.
E la durata non l’ho sentita più di tanto.
La trappola dell’istant love
Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.
E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.
Per fortuna Titanic non cade in questo errore.
Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.
Ma la vittoria è molto sbilanciata.
Vincere e perdere
Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta(cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.
E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.
E per questo mi sembra di vedere un pattern.
L’estetica vince su tutto
Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.
Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.
Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.
Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.
Cal: un villain al limite del comico
Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.
In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.
Ed è davvero incredibile.
Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.
Semplicemente iconico.
Mostrare i muscoli
Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.
Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.
Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.
Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…
Un senso di scollamento
Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.
Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.
I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.
E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.
Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?
Per me sì.
Lode alla porta per due in Titanic
La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.
Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.
Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.
Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.
Una produzione incredibile
Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.
Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.
La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.
Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.
Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…