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Manhattan – Inghiottiti dalla città

Manhattan (1979) è la pellicola più importante e iconica di tutta la produzione di Woody Allen, un cult nonché un capolavoro del cinema occidentale. E i motivi si sprecano.

Fondamentalmente, se avesse smesso improvvisamente di produrre film dopo questa pellicola, sarebbe stato comunque artisticamente inarrivabile.

Troviamo ancora una volta come protagonista Diane Keaton, con una dinamica altrettanto amara e coinvolgente come in Io e Annie (1977). Fu anche il primo grande successo del regista: a fronte di un budget di 9 milioni di dollari, ne incassò 40.

Di cosa parla Manhattan?

Isaac è un autore televisivo con una vita sentimentale tormentata: divorziato dalla moglie con cui è ancora ai ferri corti e in una relazione con una ragazza molto più giovane di lui, si innamora della donna sbagliata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Manhattan?

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Manhattan è considerato un capolavoro del cinema, e non a caso: un livello artistico che definire mostruoso è poco, con scelte che non sono solo un vezzo o un esercizio di stile, ma organiche al tipo di narrazione profonda e coinvolgente.

Ma non dirò di più: se non l’avete mai visto è giusto che lo scopriate da soli.

Oltre a questo riprende la bellezza di Io e Annie proprio nel raccontare delle relazioni genuine e profondamente coinvolgenti, con, fra l’altro, un umorismo brillante e ben dosato.

Insomma, uno di quei film che non possono non essere visti.

Quando il bianco e nero non è solo un vezzo

Woody Allen e Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Manhattan è un film girato in bianco e nero, ed è una scelta registica con un significato ben preciso: Allen gioca continuamente con la luce e il buio, portando scene anche completamente buie o molto luminose sui toni del bianco in cui le figure scure dei personaggi si stagliano sullo sfondo.

Ancora più interessante è l’uso della luce diegetica: le scene per la maggior parte vivono della luce in scena, l’unica di cui i personaggi possono servire per apparire agli occhi dello spettatore, finendo spesso per essere facilmente inghiottiti dal buio che li circonda.

Entrambe queste scelte senza il bianco e nero non avrebbe avuto lo stesso effetto.

La città al centro

Diane Keaton in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Altra scelta registica peculiare sono state le non poche sequenze con camera fissa, in cui i personaggi entrano ed escono dai limiti della scena senza che la macchina da presa li segua. A volte interi dialoghi avvengono proprio fuori scena, con inquadrature che invece privilegiano la vista della città.

Come se questo non bastasse, i personaggi sono sempre messi a lato dell’inquadratura, anche quando sono gli unici soggetti in scena. Questo sempre con la volontà di mettere la città, e per estensione lo spazio, al centro, e fare in modo che la stessa inghiotta i personaggi.

La comicità naturale

Woody Allen in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

We should meet some stupid people once in a while. We could learn something.

Potremmo frequentare delle persone stupide ogni tanto. Potremmo imparare qualcosa.

Con questo film Allen riesce a trovare definitivamente una sua dimensione comica, tenendo tutta la comicità sulle sue spalle e portando un tipo di umorismo molto naturale, con poche battute brillanti e genuinamente divertenti.

Molta della comicità nasce dalla situazione paradossale in cui la società dei ricchi newyorkesi persa nelle sue divagazioni senza senso per darsi un tono, con situazioni paradossali e spassosissime, che si prestano facilmente a battute di effetto.

Insomma con questo film Allen capisce che è meglio poco, ma di qualità.

Cosa ci insegna Manhattan delle commedie romantiche

Woody Allen e Meryl Streep in una scena di Manhattan (1979) di Woody Allen

Come già in Io e Annie, Manhattan racconta in maniera sincera il mondo delle relazioni, con le sue complicatezze e insidie. Solitamente le commedie romantiche hanno un finale confortante, per cui ogni cosa si risolverà inevitabilmente a nostro favore e tutto andrà al proprio posto, nonostante tutto.

E come sembra che il nostro partner viva in nostra funzione.

Invece con questa pellicola Allen ci racconta la realtà contraria, la più dolorosa: come quella relazione che sembrava perfetta può in realtà finire in una bolla di sapone, ci si può ripensare, tornare sui propri passi. Lasciare. Non aspettare. E, infine, accontentarsi.

Con un finale amarissimo, ma dovuto.

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Call me by your name- Persi in un bellissimo sogno di Tumblr

Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino è un piccolo cult della cinematografia mainstream. Infatti, nonostante incassò pochissimo (appena 40 milioni in tutto il mondo), acquisì col tempo moltissima popolarità e lanciò Timothée Chalamet come attore.

Un film che ho sempre evitato di guardare, perché davvero poco interessata ad esso ed al genere in generale. E infatti avrei potuto passare in maniera decisamente migliore il mio tempo. Tuttavia, come in altri casi, ci sono ottimi motivi per cui potrebbe piacervi. E non a caso la sua popolarità è di fatto facilmente spiegabile.

Di cosa parla Call me by your name?

Elio è un diciasettenne franco-americano che sta passando, come ogni anno, le vacanze in Italia. La sua vita verrà sconvolta dell’incontro con Oliver, studente straniero ospitato dal padre nella loro casa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Call me by your name?

Dipende.

Prima di scegliere di guardare questo film, io ci penserei molto bene, per evitare di rimanere incastrati in un film che potrebbe non far per nulla per voi. Infatti, nonostante cerchi in parte di distaccarsi da alcuni stereotipi del genere, è di fatto un dramma romantico dal sapore adolescenziale.

Ed è veramente solamente questo: il racconto gira intorno alla scoperta della sessualità da parte di Elio e alla sua relazione con Oliver, e veramente non c’è altro. Quindi se, come me, non siete particolarmente fan di questo tipo di storie col dramma facile, lasciate davvero stare…

Altrimenti, potrebbe essere il vostro nuovo film preferito.

Perché Call me by your name è diventato un cult?

I punti di forza di Call me by your name sono l’originalità, la scelta del protagonista e l’ambientazione.

Indubbiamente si tratta di una delle poche pellicole mainstream, oggi come cinque anni fa, che racconta una relazione queer senza stereotipare o feticizzare i suoi protagonisti.

E questo è stato indubbiamente un valore della pellicola, che ha superato, almeno in parte, questo tipo di narrazione.

Oltre a questo, il protagonista scelto è perfetto, sia come attore, sia per come e stato scritto. Un personaggio in cui un adolescente, soprattutto un adolescente queer, può facilmente immedesimarsi (e che ha coinvolto anche me).

Infine (e questa non è una cosa positiva) l’ambientazione è scelta ad hoc per il pubblico statunitense, che riesce a digerire un’Italia solo se cristallizzata in una realtà lontana nel tempo e, di fatto, inesistente.

Immedesimarsi nel protagonista

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Partiamo dalle poche cose positive.

E indubbiamente Timothée Chalamet, che ho apprezzato sia per Dune (2021) che per Piccole donne (2019), è stato davvero convincente.

La bontà del suo personaggio è dovuta sia alla scrittura, sia alle capacità recitative dell’attore. Va a suo vantaggio anche il fatto che Chalamet, che al tempo aveva ventun anni, è un diciassettenne assolutamente plausibile.

Anzi, potrebbe essere persino più giovane.

Oltre a questo, il suo comportamento è del tutto credibile e realistico: si innamora di un uomo molto più adulto di lui, è totalmente schiavo della sua sessualità e la esplora, fingendosi grande e senza paura, in realtà di paura avendone moltissima…

Raccontare la queerness, e bene

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Tutto sommato la trattazione della queerness dei protagonisti è ben gestita.

Sia perché, a differenza di altri prodotti, non è limitante: entrambi i personaggi hanno relazioni sessuali soddisfacenti sia con uomini che con donne, senza essere ridotti a mere etichette e stereotipi.

Al contempo, si parla due ragazzi assolutamente normali e credibili, totalmente estranei a certi stereotipi ancora molto presenti nel cinema occidentale. E, soprattutto per quanto riguarda Oliver, si tratta di personaggi dalla mascolinità molto forte e presente, costantemente messa in scena.

L’indelicatezza del miscasting

Armie Hammer in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Un problema per me piuttosto grave è stato castare Armie Hammer per Oliver.

Il suo personaggio infatti dovrebbe essere un ventiquattrenne (per quanto non venga mai detto esplicitamente nel film). Purtroppo Hammer, a differenza di Chalamet, dimostra tutti i trent’anni che aveva al tempo.

Per questo è stato per me fondamentalmente impossibile appassionarmi alla relazione dei protagonisti: sullo schermo non vedevo un ventenne e un diciassettenne, ma un trentenne e un diciassettenne (o anche più giovane).

Impressione che ha dato alla scena tutto un altro sapore…

E questo è un problema non tanto per l’età effettiva dell’attore, ma per l’incapacità di farmi sospendere l’incredulità. Un elemento che, purtroppo, sembra che dia fastidio solo a me e che troviamo drammaticamente in progetti anche recenti come Licorice Pizza (2021).

Il sogno italiano

Armie Hammer e Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Una cosa che non perdonerò mai a questa pellicola è il fatto che un regista italiano si sia abbassato al gusto statunitense invece che portare una rappresentazione interessante del suo paese.

Infatti è indubbio che l’ambientazione nella Italia provinciale degli Anni Ottanta, che sembrano in realtà Anni Sessanta, è stata scelta ad uso e consumo del pubblico statunitense.

Lo spettatore medio statunitense è incapace comprendere che l’Italia contemporanea non è più quella de La dolce vita (1960).

Una realtà è drammaticamente evidente da film come il recente Luca (2021) e dall’insuccesso di ogni prodotto italiano che abbiamo provato a portare all’estero che non facesse parte di questo immaginario.

Il finale punitivo

Thimoteè Chalamet in una scena di Call me by your name (2017) di Luca Guadagnino

Ancora meno mi è piaciuto il finale punitivo del film.

Non solo perché si vede ancora una volta questa incessante sofferenza che i personaggi queer vivono nel cinema occidentale, perché è un finale che ho trovato veramente gratuito e poco credibile.

Infatti, per quanto il film continui a dirlo a parole, niente di quello che ho visto mi racconta veramente una società omofoba che non avrebbe accettato la relazione dei protagonisti. Anzi, vediamo una famiglia totalmente aperta all’idea, dei personaggi secondari che non fanno mai nessun tipo di commento in merito.

Oltre a questo, ed è davvero paradossale, in una scena verso metà film Oliver parla letteralmente di quanto abbia avuto piacere a fare sesso con Elio a voce alta davanti ad una edicola in paese, con fra l’altro una persona alle sue spalle.

Insomma, una bella narrazione fatta apposta per portare alla lacrimuccia finale…

L’imbarazzo

Ci sono due momenti che mi hanno fatto veramente imbarazzare per il film.

Anzitutto, ho trovato al limite del comprensibile questo specie di segreto che hanno i due protagonisti, ovvero quello di chiamarsi con il nome dell’altro.

Non l’ho trovato per nulla romantico o interessante, ma un modo gratuito per creare una scena iconica e citabile, oltre che il momento commovente sul finale.

Ma quello che mi ha fatto davvero esasperato è stato il discorso del padre sul finale.

Anzitutto per il fatto che, di nuovo, questa omofobia così pericolosa non si sente dal film. E di conseguenza questa idealizzazione della relazione di Elio e Oliver, che di fatto non ha nulla di speciale, l’ho trovata nauseante.

Soprattutto perché il padre, se proprio avesse voluto incoraggiare il figlio a vivere serenamente la sua queerness, avrebbe potuto dire ben altre cose più che raccontargli come speciale e unica una relazione appunto non così importante.

Nel film infatti non vediamo un ragazzo che scopre la sua sessualità, ma che ne è già cosciente e che si approccia a Oliver anche sfacciatamente in questo senso. Da parte mia ho visto più che altro un’avventura estiva come tante.

Tuttavia questo tipo di narrazione della relazione speciale e indimenticabile è funzionale al pubblico di adolescenti target.

E quindi, per quanto ridicola, non poteva certo mancare.