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Wicked – Il coraggio di essere un musical

Wicked (2024) di Jon M. Chu, più correttamente noto come Wicked: Parte I, è appunto la prima parte di una duologia tratta dall’omonimo musical.

A fronte di un budget abbastanza sostanzioso – 145 milioni di dollari – è già un successo commerciale: 455 milioni in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per Wicked (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore attrice protagonista per Cynthia Erivo
Miglior attrice non protagonista per Ariana Grande
Miglior montaggio
Migliore colonna sonora originale
Miglior scenografia
Migliori costumi
Miglior trucco e acconciatura
Migliori effetti visivi
Miglior sonoro

Di cosa parla Wicked?

La malvagia Strega dell’Ovest è sempre stata malvagia? O la storia è più complessa di come Il mago di Oz (1938) ci volesse far credere?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Wicked?

In generale, sì.

Per quanto abbia indubbiamente apprezzato Wicked, mi rendo conto che non sia un prodotto per tutti i palati: nonostante la parte musicale sia a mio parere gestita ottimamente, integrata in maniera molto naturale nella storia…

…al contempo rimane un musical che inciampa in piccole forzature ed ingenuità narrative, con una parte cantata fondamentale all’interno della narrazione stessa, che comunque è riuscita a incantare persino una non amante del genere come me.

Insomma, se fossi in voi gli darei una possibilità.

Fine?

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

L’inizio di Wicked è tanto più importante…

…proprio perché arriviamo alla fine.

Ricollegandosi direttamente al classico del 1938, l’attacco del film racconta la conclusione più classica della storia: la malvagia Strega dell’Ovest è stata uccisa e finalmente il regno può vivere in pace sotto le amorevoli cure della Strega dell’Est.

Ma, nonostante la gioia si diffonda in tutto il reame, nonostante la storia dominante si presenti con ben poche sfumature, una domanda dal pubblico diventa fondamentale per raccontare la vera storia dell’antagonista.

Ed è fondamentale avere già in mente il punto di arrivo sia per una dinamica molto classica del creare curiosità nella mente dello spettatore – che vuole ora scoprire come si è arrivati ad un finale tanto cruento…

…sia perché è necessario per il film giungere a conclusioni simili alla trama originale, ma con delle premesse ed un racconto ben diverso, che porti in scena le diverse sfumature di una storia altrimenti molto semplice e favolistica.

Ed è sempre su questi toni che si sviluppa anche il personaggio di Elphaba.

Mostro

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Elphaba è un mostro.

E non viene mai messo in dubbio.

La sua nascita avviene sotto il segno dell’inganno, da un tradimento ed un sorso di troppo, così che la bambina sia fin da subito posta ai margini, nascosta, continuamente maltrattata solamente per il suo aspetto – e per i pregiudizi che ne conseguono.

Un odio che ci accompagna fino all’arrivo all’università della sorella, in cui Ephalba si dimostra ben poco propensa a lasciarsi ulteriormente maltrattare, anticipando le battute che le verranno rivolte, e subendo irremovibile gli sguardi di disgusto dei presenti.

E proprio in questo frangente il film mostra le sue carte.

Da una parte, una certa debolezza narrativa: la scelta della protagonista come pupilla da parte Madame Morrible avviene davvero in un battito di ciglia, mentre poteva essere meglio costruita ed approfondita – nonostante le premesse ci fossero assolutamente tutte.

Dall’altra, un ottimo uso dell’elemento musicale: come poteva essere un patchwork di momenti musical, Wicked utilizza le canzoni per dare particolare enfasi ai pensieri e ai discorsi dei personaggi, tramite climax ben controllati che rendono più naturale il passaggio dal parlato al cantato.

In questo caso, Ephalba canta il suo sogno.

Ma non è l’unica ad averne uno…

Influenza

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda è figlia del suo tempo.

Un personaggio che potrebbe sembrare la classica Regina George, ma che in realtà fin da subito si dimostra il prodotto della cultura che l’ha cresciuta con l’idea di essere la migliore, la più bella e, soprattutto, la più meritevole…

…come viene confermato anche dagli altri personaggi che la circondano e che vivono di luce riflessa.

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Proprio su questa china Glinda continua a raccontarsi e riraccontarsi come personaggio di buon cuore, che concede alla sua compagna di stanza persino un angolino per vivere, e che per la sua bontà viene costantemente elevata…

…persino quando mette in mostra i suoi tratti apertamente manipolatori, particolarmente quando induce l’ingenuo Boq ad invitare Nessarose, la sorella di Glinda, alla festa segreta.

E la sua evoluzione si riflette molto bene anche nella sua controparte, Fiyero.

Risveglio

Ariana Grande in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

Glinda e Fiyero vivono un risveglio simile.

La presa di consapevolezza di entrambe queste figure di privilegiati, fino a quel momento ciechi davanti alla complessa realtà che li circonda, passa attraverso la visione di ingiustizie a cui, nonostante il loro passato, non riescono ad essere indifferenti.

Il percorso finora più completo è sicuramente quello di Glinda, che assiste ad una cattiveria che non può veramente sopportare, quando, in risposta alle ulteriori prese in giro dei suoi compagni, Ephelba improvvisa uno strano ballo in cui mette ancora più in mostra la sua stranezza.

Ariana Grande e Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E così unirsi a lei in questo momento è solo il primo passo per fare davvero qualcosa di altruista, e ha il suo apice nell’iconica Popular, – canzone che non cambia di fatto niente, se non aiutare la sua nuova amica ad essere un po’ più sicura di sé stessa e protetta dalle angherie altrui.

Ma non è un cambiamento del tutto positivo: rimane un’amarezza di fondo nell’assistere al cambio di passo degli altri personaggi solo per l’intervento benefico di Glinda nei confronti di Elphaba – la stessa, che fino ad un attimo prima era vittima di cattiverie del tutto gratuite…

Risveglio

Il cambiamento di Fiyero percorre invece altre strade.

Il ragazzo è fin da subito mostrato come l’alter ego di Glinda, forse pure più ingenuo nel bearsi della sua condizione, e anche di più nel non trovare alcun ribrezzo figura di Ephelba, ma anzi accettarla con amicizia e curiosità fin da subito.

La sua consapevolezza avviene davanti alla messa al bando del Dottor Dillamond e al cucciolo in gabbia portato a lezione, che Fiyero coglie la prima occasione per liberare, capendo, pur non avendo lo stesso background di Ephelba, di non poter accettare questa ingiustizia.

Ma la sua maturazione sta ancora muovendo i primi passi quando ci lasciamo alle spalle Shiz per avviarci verso la Città di Smeraldo, quando finalmente Glinda fa il primo passo indietro lasciando spazio a Ephelba per avere il suo meritato successo.

E a questo punto vale la pena di aprire una parentesi sulla trama politica.

Contorno

La trama politica di Wicked è quasi un contorno.

Per quanto sia fondamentale – e lo diventerà ancora di più probabilmente nella seconda parte – le viene concesso ben poco spazio, anzi è ridotta proprio agli elementi essenziali, svelando solo parte della macchinazione da parte del Mago di Oz.

Lo stesso Mago è raccontato fin da subito come un affabulatore, e neanche particolarmente scaltro, che, per dinamiche ancora tutte da chiarire – e che speriamo siano chiarire nella seconda parte – è riuscito a prendere posto a capo del regno, nonostante non abbia alcuna capacità magica.

E tornando proprio sull’argomento della debolezza narrativa, non si può dire che sia del tutto centrato il totale cambio di passo del Mago quanto di Madame Morrible, affrontato con fin troppa leggerezza, per quanto sia svelato nei suoi tratti essenziali.

E allora è il momento di ribellarsi.

Ribellione

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

La ribellione di Ephelba è il punto di arrivo naturale del suo personaggio.

Vivendo tutta la vita sotto l’egida della discriminazione e dell’isolamento sociale, le sta tanto più stretto il ruolo di simbolo di un sistema che vive dell’oppressione degli ultimi, che entrambi i villain avevano fin da subito preparato per lei.

Per questo la sua rivolta è tanto più importante in quanto racconta una riappropriazione di simboli più o meno imposti – il cappello, il mantello e, soprattutto, la pelle verde – tutti caricati di un valore negativo solo perché ormai propri della sua persona.

Cynthia Erivo in una scena di Wicked (2024) di Jon M. Chu

E se Ephelba non vuole più far parte di un sistema che la ribalta a suo piacimento, Glinda ne rimane succube, anche se con una consapevolezza aggiuntiva: la futura Strega dell’Est, per quanto finalmente realizzi il suo sogno di essere effettivamente una figura importante del panorama politico di Oz…

… è anche internamente consapevole di essere nient’altro che una pedina scelta per convenienza a fronte del voltafaccia della sua amica, verso cui si rivolge con poche parole estremamente significative per la definizione del loro rapporto:

Spero tu sia felice.

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Strade perdute – Il fulcro

Strade perdute (1997) è uno dei film più tipicamente lynchiani della carriera di Lynch, nonché uno dei più iconici della sua produzione.

A fronte di un budget piccolino – 15 milioni di dollari – è stato un disastro commerciale: appena 3 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Strade perdute?

Fred è un musicista jazz che vive insieme alla moglie Renée, di cui sospetta un tradimento. E farebbe di tutto per averla con sé…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Strade perdute?

Bill Pullman in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Assolutamente sì.

A differenza di Velluto blu (1986), Strade perdute si presenta fin da subito come una pellicola estremamente enigmatica, sostanzialmente impossibile da decifrare, ma che lascia tutto lo spazio allo spettatore per lasciarsi leggere a suo piacimento.

Insomma, se vi appassiona il cinema di Lynch e la continua sfida allo spettatore nel far correre libera la fantasia e l’interpretazione, nell’ultima opera lynchiana del secolo scorso troverete pane per i vostri denti. 

Presagio

Bill Pullman in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Fred è tormentato da presagi imperscrutabili.

Proprio come in Velluto blu, sembra esserci una trama nascosta che il protagonista non riesce ad afferrare, e che ha il suo fulcro proprio dalla morte annunciata di Dick Laurent, che sul momento sembra senza significato, ma che è un indizio che Fred lascia a sé stesso.

Bill Pullman e Patricia Arquette in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

Infatti il protagonista è vittima della sua stessa ottusità, della sua assoluta convinzione nel voler vivere la propria vita, i propri ricordi, dal suo inaffidabile punto di vista, che è costantemente contrastato proprio tramite l’elemento che il Fred più odia:

la pellicola.

Mente

L'Uomo Misterioso in una scena di Strade Perdute (1997) di David Lynch

I ricordi di Fred sono imposti.

Tutta la dinamica delle videocassette è essenziale per raccontare una memoria molto selettiva da parte del protagonista, che conserva solamente parte della realtà e lascia che tutto il resto venga inghiottito dalla angosciante oscurità che infesta la sua casa – e, per estensione, la sua mente.

L’abitazione di Fred è infatti facilmente interpretabile come rappresentazione della sua stessa mente, della sua interiorità in cui rinchiude se stesso e la sua fascinosa moglie, per essere gradualmente penetrato da una presenza oscura e incomprensibile: l’Uomo Misterioso.

Una figura che si fa gradualmente strada nell’abitazione, prima intromettendosi con una visione oggettiva e chiara dell’esterno, per poi cominciare ad introdursi per svelare il cuore della stessa, il vero segreto che si nasconde al suo interno.

Ovvero, l’amore geloso, ossessivo e, infine, violento verso Renée.

Ma la moglie è solo un pretesto.

Dialogo

Fred vuole dialogare con sé stesso.

Ormai imprigionato nella claustrofobica realtà della sua condizione – e casa – tramite Pete il protagonista costringe se stesso ad abbandonare la sicurezza della sua dimora, a cominciare a vederla dall’esterno, a svelarne le dinamiche che, anche in condizioni diverse, si ripeteranno sempre uguali. 

Un’esperienza che viaggia in due direzioni: prima la visione costretta dall’omicidio di Renée, che racconta la natura instabile e frustata del protagonista, poi la rinascita tramite l’alter-ego, che lo porta nella medesima condizione relazionale iniziale, ma ancora più complicata.

Di fatto Pere vuole la stessa donna di prima, ma è minacciato dalla sua futura vittima, Dick Laurent, un boss del crimine che non ha nessuna remora a dimostrare la sua spropositata violenza sul primo malcapitato che gli ha tagliato la strada.

Ma questo non impedisce a Pete di instaurare una relazione proibita e pericolosa con la nuova – e vecchia – donna del desiderio, progettando persino una fuga d’amore per ricominciare davvero la propria vita altrove.

Ed è proprio in questo frangente che è possibile dare un’interpretazione del film.

Ricordo

Come ogni film di Lynch che si rispetti, anche Strade Perdute presenta un forte uso dell’elemento onirico.

Di fatto Pete/Fred vive all’interno della realtà non-reale, quella del sogno, quella dei presagi e delle verità nascoste, in cui gli eventi da conservare sono custoditi gelosamente nella sua mente, mentre tutto il resto – il vero reale – è lasciato fuori.

Ma è impossibile che la realtà vera non venga a bussare alla porta e a mostrarsi in tutta la sua crudeltà, forzando il protagonista ad accettare degli eventi – l’incidente in auto e l’omicidio di Renée, ma anche i film porno della moglie – che ha scelto di non ricordare, ma che sono per sempre impressi sulla pellicola.

Per questo infine il protagonista cade in un paradosso, in cui si trova dall’altra parte, in cui diventa l’amante di un fidanzato geloso, e in ogni caso non riesce ad ottenere il suo oggetto del desiderio, arrivando per questo ad uccidere l’altro se stesso – Dick Laurent.

E così è infine bloccato in una trappola personale senza via d’uscita, senza via di salvezza, in cui può solamente continuare a cambiare faccia in preda a crisi distruttive e deliranti, ma senza mai riuscire a mutare effettivamente nulla della sua esistenza.

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Velluto Blu – La trama nascosta

Velluto Blu (1986) segnò il ritorno di David Lynch, dopo due film più hollywoodiani Elephant man (1980) e, soprattutto, Dune (1984) – ai fasti della sua opera prima.

A fronte di un budget piccolissimo – 6 milioni di dollari, circa 18 oggi – è stato un discreto insuccesso commerciale: 8,5 milioni in tutto il mondo (circa 24 oggi).

Di cosa parla Velluto blu?

Per una pura casualità, la vita del giovane Jeffrey si intreccia con le turbolente vicende della enigmatica Dorothy Vallens e del suo aguzzino, Frank Booth.

O, almeno, questo è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Velluto blu?

David Lynch e Isabella Rossellini sul set di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Assolutamente sì.

Con Velluto blu Lynch è riuscito nuovamente a sorprendermi, anche se questa volta in maniera meno plateale: un thriller con una trama apparentemente lineare, in realtà disseminato di piccoli indizi che raccontano una storia ben diversa.

Infatti, se avrete voglia davvero di ascoltare la pellicola, rimarrete rapiti dall’enigmatico simbolismo sotterraneo, che, come ogni film di Lynch che si rispetti, non vuole veramente farsi capire, ma piuttosto lasciar libera la fantasia e l’interpretazione dello spettatore.

Insomma, non potete perdervelo.

MacGuffin

L’inizio di Velluto blu è un classico McGuffin…

…oppure no?

Il malore del padre del protagonista sembra davvero pretestuoso, tanta è la velocità con cui questo personaggio esce ed entra di scena, diventando semplicemente l’occasione per dare modo a Jeffrey di trovare l’orecchio tranciato e scoprire di Dorothy.

L'orecchio di Velluto Blu (1986) di David Lynch

E questa sensazione pervade anche il resto del primo atto, in cui personaggi utili alla prosecuzione della storia sembrano apparire molto convenientemente per dare al protagonista tutti i motivi e i mezzi per avvicinarsi alla misteriosa cantante.

Altrettanto conveniente è l’ottenimento della chiave, per chi basta una banalissima scusa per introdursi nella casa di Dorothy, riuscendo nel frattempo già a mettere insieme i primi pezzi del puzzle con la breve comparsa di Frank.

E quindi…

Specchio

Kyle MacLachlan nascosto nell'armadio in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’aggressione di Jeffrey è un grottesco specchio.

Sorpreso a nascondersi nell’armadio della donna, sembra inizialmente Dorothy lo voglia umiliare, cominciando poi in realtà a sedurlo, a condurlo al suo letto, pur intimandolo ogni volta di non guardarla, come se volesse vivere all’interno di una fantasia di cui non fa veramente parte.

Una scena apparentemente incomprensibile, in realtà più chiara assistendo alle dinamiche che si susseguono in scena con l’arrivo di Frank e la sua grottesca violenza nei confronti di Dorothy, basata su un contrasto piuttosto curioso fra i protagonisti della scena.

Isabella Rossellini e Dennis Hopper in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Da una parte Frank, il classico, odioso villain, che sembra spremere le sue ultime forze vitali – come testimonia il respiratore di cui fa spesso uso – e che vuole essere considerato come un bambino, che richiede le attenzioni materne, in una sorta di rituale.

E così Dorothy, a cui è stata negata la vita familiare con il rapimento del figlio e del marito, è invece costretta a tornare nel ruolo materno, e a sopportare tutti i capricci del suo aguzzino – che, fra l’altro, non vuole essere visto in queste particolari vesti.

Ma in questo delizioso delirio onirico, ci sono due elementi che possono aiutarci a comprendere cosa davvero Lynch ci vuole raccontare.

Fantasma

Don e Donnie sono due figure evanescenti.

Come l’uno non compare mai in scena, ma rimane vincolato dietro ad una porta, per sempre nascosto dalla vista di Jeffrey – e dalla nostra – il secondo appare unicamente sul finale, come fantoccio ormai senza vita che racconta l’ultimo atto della furia omicida di Frank.

Ma proprio questa loro fumosa presenza potrebbe favorire anzitutto l’interpretazione onirica, ma soprattutto far ipotizzare che in realtà Don, Donnie e Jeffrey siano di fatto la stessa persona, la stessa figura positiva che il protagonista spalma su più personaggi con cui non condivide mai la scena.

Isabella Rossellini e Kyle MacLachlan in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

Un’idea confermata sia dal fatto che ad un certo punto è proprio Dorothy a chiamare il suo giovane amante con il nome del figlio, sia dal fatto che nella stessa scena la donna lo implora di tenerla prima che crolli in questa oscurità ripetutamente evocata:

Now it’s dark…

E ora le tenebre…

Frasi apparentemente senza significato, ma che ben si incastrano con un altro elemento significativo del film.

L’orecchio.

Orecchio

Isabella Rossellini, Kyle MacLachlan  e Laura Dern in una scena di Velluto Blu (1986) di David Lynch

L’orecchio è la chiave della storia.

Proprio nella sua funzione di far entrare Jeffrey nella vita di Dorothy, con il suo eloquente avvicinamento nel cavo uditivo, la regia ci suggerisce come se il protagonista penetrasse in una realtà sotterranea, oscura, di cui non ha veramente il controllo, ma di cui vuole disperatamente essere l’eroe.

Lo stesso orecchio è richiamato nel finale del film, ma questa volta è un orecchio vivo e parte del protagonista che si gode una giornata luminosa disteso nel giardino di casa, dove sembrano essersi raggruppati tutti i personaggi, ormai estranei ad ogni pensiero negativo e immersi in un sogno primaverile.

Così il simbolismo dell’orecchio è ribaltato con l’arrivo della rondine, che porta in bocca proprio un insettaccio nero, simile alle formiche che apprestavano l’entrata del mondo segreto che Jeffrey ormai sembra aver abbandonato, confermando la profezia che la stessa Sandy.

Ci troviamo quindi forse fra due mondi, entrambi onirici e misteriosi, fatti di simboli e precisi rituali, nessuno dei due veramente concreto se non all’interno dei limiti dell’immaginazione di Jeffrey, che, proprio come un sogno, riesce a ricollegare solo debolmente le figure in scena…

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L’uomo che non c’era – Una realtà frammentata

L’uomo che non c’era (2001) di Joel e Ethan Coen è un film neo-noir con protagonista Billy Bob Thornton.

A fronte di un budget di circa 20 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, non riuscendo neanche a coprire le spese di produzione.

Di cosa parla L’uomo che non c’era?

Ed è un barbiere totalmente alienato dalla vita e, soprattutto, dal suo matrimonio. E infatti è l’ultima persona che accuseresti di omicidio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’uomo che non c’era?

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Con L’uomo che non c’era i fratelli Coen si trovano in una fase in cui la loro produzione, nonostante conservi indubbiamente un grande fascino registico ed un’innegabile verve narrativa, sembra che non riesca davvero a centrare il punto.

Infatti, pur con un utilizzo molto abile del bianco e nero, e con un attore protagonista così azzeccato e in parte, la storia della pellicola mi è parsa non arrivare effettivamente da nessuna parte, ma piuttosto di vivere di suggestioni non adeguatamente esplorate.

Ma dategli comunque un’occasione.

Vuoto

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed è alienato.

Immerso in un inarrestabile flusso di coscienza, il protagonista vive la sua vita non come l’attore principale, ma come un mero spettatore, che lascia che gli eventi si susseguano davanti ai suoi occhi senza voler intervenire.

In particolare, del tutto consapevole del tradimento in atto della moglie, sceglie con malcelato nichilismo di lasciarlo esistere al di là dei suoi occhi, preferendo meditare sulla insensatezza del suo stesso matrimonio fin dalle sue inconsistenti origini.

E, allora, cosa serve per farlo smuovere?

Piena

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

Ed non è in controllo della propria vita.

Diventando per la prima volta agente attivo della sua sorte, si lascia facilmente coinvolgere nella banale proposta truffaldina di Creighton Tolliver, nonostante tutti gli indizi in scena bastino per mettere insieme il quadro dell’inganno in atto.

Ma è solo la miccia.

Solo marginalmente turbato dalla possibilità di essere scoperto come mandante del ricatto ai danni dell’amante della moglie, il protagonista si incastra involontariamente in una rete criminale che era sempre stata sotto i suoi occhi.

E allora non può fare altro che difendersi.

Ma neanche così può raccontare la sua storia.

Riscrivere

Billy Bob Thornton in una scena di L'uomo che non c'era (2001) di Joel e Ethan Coen

La vita di Ed è scritta da altri.

Per quanto il protagonista cerchi infatti di prendere posto in scena, nonostante confessi esplicitamente il suo crimine, non vi è mai spazio per lui: la sua è una versione come tante altre, anzi è forse della meno interessante e credibile.

Infatti il vero burattinaio è proprio il malizioso avvocato Riedenschneider, pronto in ogni momento ad afferrare, deformare e riscrivere gli eventi a proprio piacimento, mentre gli altri personaggi sono marionette prive di volontà.

E proprio come un fantoccio Ed vive la sua vita, diventando colpevole dell’omicidio sbagliato, potendo vivere la sua verità solamente all’interno del mondo della finzione, e infine accettando l’uscita di scena da una vita che non ha mai veramente vissuto.

E forse dall’altra parte avrà più fortuna…

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Dune – Addio, Hollywood!

Dune (1984) rappresentò l’ultimo momento di collaborazione fra David Lynch e le grandi produzioni hollywoodiane, per un prodotto che arrivò letteralmente ad odiare.

E il box office gli diede ragione: a fronte di un budget piuttosto ambizioso – 45 milioni di dollari, ben più alto anche solo di Il ritorno dello Jedi (1983) – non arrivò a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Dune?

Anno 10,191. Paul Atreides è l’erede di un’importante famiglia nobile, inaspettatamente incaricata di fare da ambasciatrice dell’impero sul pianeta Arrakis, detto Dune. Ma le motivazioni non sono così comprensibili…

O, almeno, così sarebbe se il film avesse voluto lasciare un minimo di mistero.

Ma vi lascio comunque il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dune?

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Purtroppo, come raramente mi capita di fare, devo dire di no.

Dune è frutto di una produzione davvero scellerata, che ha preso un’opera nota per la sua complessità e ha cercato di ridurla ad un filmetto di due ore che teme continuamente di mettere in difficoltà lo spettatore con anche il minimo ragionamento.

Ne consegue che i personaggi non hanno mai lo spazio per svilupparsi e per raccontarsi, rimanendo in balia di una sceneggiatura incapace di valorizzarli e di portare in scena gli importanti temi filosofici del romanzo, spesso crollando nella totale ridicolaggine.

E Lynch ne è la più grande vittima.

In questa recensione verranno fatti numerosi confronti con la trilogia di Villeneuve – ma per me era inevitabile.

Bollettino

La principessa Irulan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

L’incipit di Dune vuole chiaramente rifarsi all’inizio di Una nuova speranza (1977).

Ma se il primo capitolo della trilogia originale poteva concedersi una piccola spiegazione iniziale per introdurre il mondo raccontato, forte della sua semplicità quasi favolistica che non ha bisogno di grandi introduzioni…

…proprio al contrario del romanzo di Herbert, che ha invece necessità di diversi chiarimenti – alcuni, paradossalmente, non presenti neanche nello stesso libro – che qui sono raccontati dalla voce di Irulan, personaggio utile solo come narratore esterno.

La Madre Superiora e l'Imperatore  in una scena di Dune (1984) di David Lynch

E la debolezza di questa scelta non sta solo nella forma – che lo fa sembrare niente di più che un bollettino serale – ma nella totale mancanza di una connessione emotiva con la storia raccontata: sono informazioni solo utili per avere un’infarinatura della storia.

Ben diverso, insomma, dall’introduzione quasi onirica di Dune (2021) – che collegava immediatamente Paul a Chani e ad Arrakis – e così anche da quello dello stesso Star Wars, in cui diventavano immediatamente complici di Leia e del suo piano.

Ma i problemi sono solo iniziati.

Mistero

Il Barone Harkonnen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

In Dune di Lynch è impossibile avere un mistero.

Fin da subito il motivo reale per cui il Duca Leto e la sua famiglia vengono mandati su Arrakis è svelato col dialogo fra l’incolore imperatore Padishah e la Gilda, vanificando così l’importantissima componente dell’intrigo di palazzo, che nel romanzo veniva gradualmente svelato.

E altrettanto stravolto è il personaggio del Barone Harkonnen, figura complicatissima da portare in scena, il quanto antagonista letterario assolutamente grottesco e sempre in bilico nel diventare un villain da operetta

…esattamente come succede in questo caso.

Sting e l'altro nipote del Barone Harkoennen in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Per motivi a me oscuri la produzione ha voluto caricare di un disgusto visivo molto facilone il personaggio, con i bubboni, la bile e il sudore che diventano i veri protagonisti della scena, volendo riassumere la sua malvagità nel momento – pure censurato – dell’uccisione del malcapitato servo.

Manca così tutta la potenza e l’importanza non solo del Barone, ma dei suoi stessi nipoti, sostanzialmente indistinguibili se non per l’aspetto: l’uno una copia del malefico zio, l’altro una passerella dell’allora star della musica Sting.

Ma, paradossalmente, questi sono i personaggi meglio caratterizzati.

Spazio

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

I protagonisti non hanno minimamente modo e tempo di raccontarsi.

Uno dei motivi evidentemente per cui Villeneuve ha scelto di dividere la storia di Dune in due parti è proprio per dare la possibilità ai personaggi di vivere il proprio dramma personale, per certi versi persino autonomamente gli uni dagli altri.

E invece, per il poco spazio concesso, non sappiamo sostanzialmente nulla sul Duca Leto, unica figura positiva in un universo di personaggi freddi e calcolatori, e la sua morte a metà film non ha di fatto alcun valore, perché non riesce ad esplorare l’effettiva importanza del personaggio.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Ma tutto sommato la morte è la sua fortuna quando i due protagonisti – Jessica e Paul – sono del tutto soggetti ai capricci della trama senza che riescano a raccontarci di fatto nulla: la ribellione di Jessica e la sua ascesa a Madre Superiore non hanno il minimo mordente…

…e lo stesso si può dire di Paul, con un Kyle MacLachlan veramente disorientato, che cambia caratterizzazione da un’inquadratura all’altra, e che viene sostanzialmente ridotto al classico eroe positivo senza molto da dire – proprio tutto quello che il Paul letterario non doveva essere.

E non fatemi cominciare sul nulla mischiato al niente di Chani…

…perché infatti voglio parlare dell’Abominio.

Abominio

Alia in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Alia è davvero un abominio.

Nonostante ci siano persone ancora convinte che inserire l’Alia letteraria nel film fosse un’ottima idea, direi che questa pellicola dimostra esattamente perché questo non andava fatto: la sorella di Paul è uno fra i personaggi più assurdi dell’intera saga…

…e qui viene ancora più indebolita dalla grave mancanza di uno stacco sentito fra il primo e secondo atto – intelligentemente posto, ribadisco, tramite la divisione di Villeneuve -per cui il personaggio viene introdotto solamente a parole, per poi comparire effettivamente in tutta la sua bruttezza nel finale.

Kyle MacLachlan in una scena di Dune (1984) di David Lynch

Infatti Alia è una presenza più che ridicola nell’atto finale, in cui mostra tutti i suoi poteri telecinetici per defenestrare il Barone, in quello che, insieme agli scudi cubisti del primo atto, è indubbiamente il punto più basso dell’intera pellicola.

E la pioggia che chiude felicemente il film sono in realtà le mie lacrime – e, forse, quelle di Herbert – nel vedere la parabola religiosa profondamente drammatica del primo romanzo di Dune ridotta a miracolo popolare che dovrebbe sancire la divinizzazione di Paul.

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Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

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Avventura David Lynch Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Horror Surreale

Eraserhead – Storia di un parassita

Eraserhead (1977), noto anche come Eraserhead – La mente che cancella, è il primo film di David Lynch.

A fronte di un budget veramente minuscolo – appena 100 mila dollari, circa 500 mila oggi – è stato un sorprendente successo commerciale: 7 milioni in tutto il mondo (circa 36 oggi).

Di cosa parla Eraserhead?

Lo vorrei sapere anche io.

Provate a vedere il trailer e forse ci capirete qualcosa:

Vale la pena di vedere Eraserhead?

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Assolutamente sì.

In questa prima, piccola opera, si capiva già l’immensa portata di Lynch, che, con un budget inesistente, riuscì a portare in scena un piccolo capolavoro del surreale, che offre poche chiavi di lettura allo spettatore, proprio con la volontà di aprirsi ad un ventaglio potenzialmente infinito di interpretazioni.

Personalmente l’esperienza di visione è stata simile a Il ragazzo e l’airone (2023): per due terzi del film brancolavo nel buio, poi ho colto quello che penso sia il bandolo della matassa e ho cominciato a scavare per elaborare una possibile interpretazione.

E per me non c’è niente di più stimolante.

Nascita

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry vuole rinascere.

All’inizio il protagonista è tripartito: da una parte vi è l’uno unito, malato e deformato, immerso in una scena che riflette il degrado della sua condizione, che guarda la sua proiezione: l’umano incorrotto e il germe della corruzione, da cui si è infine scisso.

Entrambi crollano in una paesaggio in cui possono apparentemente vivere due esistenze distinte: Henry uomo può tornare al suo squallido appartamento, ma avere ancora tutta una vita da scrivere, magari con la fascinosa vicina…

…mentre il germe rimane sullo sfondo, in agguato.

E non possono fare a meno di ricongiungersi.

Costrizione

Jack Nance e Charlotte Stewart in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Tutto è corpo.

Henry scopre di essere stato invitato a cena da una donna che non vedeva da molto tempo, ma che lo aspetta ansioso per metterlo sotto processo davanti alla sua opprimente famiglia, che ormai ha preso fisicamente possesso della sua abitazione.

La casa è infatti come un corpo vivo, sensibile, in cui il taglio del pollo arrosto – rituale fondamentale nella famiglia media americana – diventa invece un tagliare, dissezionare e puntellare i fisici stessi degli ospiti.

Ed è solo l’antipasto per un corpo ancora più ingombrante.

Sogno

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Nonostante il bambino gli sia imposto, Henry fa di tutto per ignorarlo.

Ed è proprio così che lui stesso comincia ad assumere degli atteggiamenti infantili, nel suo distendersi gongolante sul letto, spiando attraverso il calorifero un piccolo teatro immaginario.

Un sogno che rappresenta una delle due facce del riscatto possibile: una donna ridente, che parla di paradiso e di beatitudine, mentre schiaccia compiaciuta quei germi che piovono sul palco come fiori dal pubblico…

Laurel Near in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

…e la donna avvenente e desiderabile, con cui infine Henry riesce ad intrattenersi, dimenticandosi totalmente del germe e unendosi a lei in questo brodo primordiale, pronto finalmente a rinascere.

Ma la rinascita incorrotta è veramente possibile?

Faccia

Il bambino in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

Henry è il germe.

Nonostante cerchi costantemente di ignorarlo, di affidarlo esclusivamente alle cure della sua moglie imposta, l’orrore in fasce continua a gemere incessantemente, tanto da spingere la stessa Mary ad abbandonare esasperata il tetto domestico.

Un’esasperazione che però non gli impedisce prima di inginocchiarsi ai piedi del letto e cercare di cullare disperatamente Henry, per poi invadere anche lo stesso giaciglio prendendo la forma dell’ingombrante embrione.

Infatti lo sgorbio è una presenza talmente infestante da infine far cadere la maschera, la testa di Henry, che si rivela un fragile involucro che neanche può più godersi la bellezza dello spettacolo onirico, e che viene deriso dal germe stesso quando tenta di riavvicinarsi all’avvenente vicina.

La sua testa anzi diventa matrice per una gomma da cancellare, che viene testata immediatamente e con successo, proprio a sottolineare la natura aleatoria del protagonista umano, e il suo disperato tentativo di ricominciare da capo. 

E proprio per questo non gli conviene andare troppo a fondo…

Interiora

Testa in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

La curiosità di Henry è fatale.

Davanti alla risata insistente dell’embrione, il protagonista sceglie infine di aprire quello strano essere che rappresenta al contempo rinascita e annullamento, seme e germe, per indagarne le interiore e scoprirne la vera natura.

Jack Nance in una scena di Eraserhead (1977) di David Lynch

E così inevitabilmente Henry si immerge nella realtà della sua condizione, ritorna su quel pianeta, su quel nucleo che racchiude la sua vera faccia, l’io unito e deformato non può più mantenere viva la sua proiezione.

E così la stessa si annulla, immersa in una luce calda e accogliente, dove la donna del sogno lo aspetta a braccia aperte per avvolgerlo nella sua beatitudine, come unica forma incorrotta a cui questo è permesso.

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90s A classic horror experience Avventura Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Horror

Il sesto senso – Precipizio

Il sesto senso (1999) è stato non solo il punto di svolta per la carriera M. Night Shyamalan, ma anche per il genere tutto.

A fronte di un budget abbastanza importante – fra i 40 e i 55 milioni – è stato un enorme successo commerciale: 672 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Il sesto senso?

Cole è un bambino molto timido e vittima di un continuo e crudele bullismo. Eppure, non è neanche quello il suo problema più grande…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il sesto senso?

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Assolutamente sì.

Al tempo de Il sesto senso Shyamalan si trovava senza saperlo su un precipizio: un film veramente ottimo che lo lanciò come autore di punta del genere, ma che nel tempo si rivelò invece l’antipasto prima di crearsi una nomea non proprio felice, portando ad una serie di prodotti molto meno indovinati.

Anche in questo caso non mancano gli elementi che lo hanno reso più o meno felicemente celebre, che però, pur con qualche semplificazione sul finale assolutamente perdonabile, risultano incredibilmente funzionali a creare un horror indimenticabile.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Rimorso

Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Come si scoprirà solo nel finale, Malcom è tormentato da un profondo rimorso.

Raccontato come professionista che ha votato tutta la sua vita ad aiutare i suoi pazienti, anche a discapito della felicità del suo matrimonio, proprio nel momento in cui potrebbe finalmente vivere i frutti dei suoi sforzi, finisce invece vittima degli stessi.

E forse in questo contesto la sua angoscia più importante non è tanto il doloroso colpo in pancia per mano di uno dei suoi ex pazienti, ma piuttosto la consapevolezza di non aver aiutato un bambino che si era totalmente affidato a lui, facendo diventare un adulto inquieto.

E se quello sparo sembra solo una piccola macchina su un curriculum immacolato…

Finzione

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole è vittima di una finzione di sua stessa fattura.

Essendo già di per sé un ragazzino molto timido ed insicuro, il peso del suo segreto lo spinge ancora di più a cercare di fingersi un bambino normale, anche per proteggere la madre, già abbastanza addolorata dalla perdita della genitrice e dall’abbandono del marito.

Haley Joel Osment in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E proprio in questo contesto si inseriscono gli ingenui teatrini in cui, in cambio di denaro, il protagonista finge di avere alle spalle delle solide amicizie, e non di essere solo la vittima preferita del bullismo dei suoi compagni di classe.

E infatti, il vero orrore non è tanto il  vedere i fantasmi…

Adulto

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Cole deve crescere troppo in fretta.

Una grande eleganza della messinscena è di non abusare delle più classiche tecniche del jump scare o simili, spesso utilizzate per nascondere una scrittura poco pensata e incapace di riuscire effettivamente a spaventare lo spettatore.

Invece il senso di angoscia della pellicola è causato proprio dai problemi che questi fantasmi portano avanti, spesso questioni fin troppo impegnative persino per un adulto – suicidio, violenza domestica, abusi – figuriamoci per un bambino di appena nove anni.

Haley Joel Osment e Toni Collette in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

E tanto basta per creare un orrore piuttosto raffinato, che riesce forse un po’ semplicisticamente a dissiparsi quando, grazie a Malcom, il protagonista finalmente affronta questi spettri e le loro richieste, in modo che possano morire in pace.

E proprio su questa china arriviamo allo scioglimento.

Dialogo

Haley Joel Osment e Bruce Willis in una scena de Il sesto senso (1999) di M. Night Shyamalan

Entrambi i protagonisti devono riuscire a comunicare.

Malcom crede di vivere in un matrimonio ormai finito, in cui Anna gli è ormai indifferente, anzi si è già impegnata con altri uomini, che il marito cerca di scalzare senza mai intervenire direttamente, senza mai riuscire ad affrontare la questione faccia a faccia.

Ma la presa di consapevolezza della sua vera condizione, che rappresenta anche l’ottimo colpo di scena finale, chiude finalmente questo capitolo della sua vita, in cui è riuscito a salvare un altro bambino potenzialmente problematico e, per consiglio dello stesso, il suo stesso matrimonio.

Allo stesso modo, Cole vive nel costante timore di rivelare il suo sesto senso alla madre, per paura di non essere creduto o, ancora peggio, di ferirla irrimediabilmente e spezzare il loro importante quanto fragile rapporto.

Ma è proprio rendendo possibile il dialogo che Lynn non riesce ad avere con la madre defunta che Cole riallaccia i rapporti con la genitrice, che finalmente riesce ad accettare la perdita di un affetto tanto importante, e a ricostruire il rapporto con un figlio che credeva di poter più capire.

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Horror Tri West

Pearl – Una ragazza e il suo sogno

Pearl (2022) di Ti West, è il prequel di X (2022), uscito lo stesso anno, in questo caso parzialmente co-scritto dall’attrice protagonista Mia Goth.

A fronte di un budget simile al precedente – 1 milione di dollari – ha avuto un riscontro similare: quasi 10 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pearl?

Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pearl?

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Assolutamente sì.

Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa: Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.

Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.

Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.

Sogno

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Pearl è una ragazza piena di sogni.

Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nel suo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.

E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.

Perché della realtà Pearl vede solo una parte.

Fuga

La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…

…quello che le appartiene per diritto.

Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.

E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.

E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…

Brandello

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.

Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…

…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.

Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.

Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.

Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.

Ma ormai nessuno può fermare Pearl.

Spettro

Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.

Non davvero.

Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.

Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.

E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?

Perdere

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

L’audizione non è una semplice audizione.

Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.

E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta

E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.

E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…

…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.

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Il robot selvaggio – L’inevitabile caduta

Il robot selvaggio (2024) di Chris Sanders è un film d’animazione a tecnica mista tratto dal libro omonimo di Peter Brown.

A fronte di un budget medio – 78 milioni di dollari – ha aperto abbastanza positivamente il primo weekend: 35 milioni nei soli Stati Uniti.

Candidature Oscar 2025 per Il robot selvaggio (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior colonna sonora originale
Miglior film d’animazione
Miglior colonna sonora originale

Di cosa parla Il robot selvaggio?

ROZZUM è un robot creato appositamente per assistere gli umani. Ma cosa succederebbe se invece finisse in un ambiente selvaggio e ostile?

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il robot selvaggio?

Assolutamente sì.

Con Il robot selvaggio stiamo scrivendo la storia dell’animazione, che aveva già cominciato la sua rivoluzione artistica con Spider-Man: into the Spider-Verse (2018) – e il suo sequel – e poi con Il gatto con gli stivali 2, portando – si spera – la Dreamworks ad orientarsi finalmente verso orizzonti più interessanti.

L’unico elemento – forse inevitabile – che penalizza la pellicola è il percorrere una storia fin troppo tipica e prevedibile, che inizialmente si dimostra davvero fuori dagli schemi, ma che nel finale si riduce ad un esito fin troppo favolistico, e che secondo me non si integra in maniera ottimale con il tono generale del film.

Ma non per questo ve lo potete perdere.

Ostile

Roz precipita in un ambiente ostile.

Pur con tutte le buone intenzioni, il robot protagonista si deve scontrare con un ambiente per cui non è stato programmato, ma che cerca di piegare a quella che è per lei l’unica visione possibile: cliente effettivi e clienti potenziali.

Ma in un mondo profondamente dilaniato da odi interni, definito dalla legge del più forte, la divisione è ben diversa: l’io che domina incontrastato si scontra costantemente con un perpetuo nemico – che può essere chiunque, persino appartenere alla stessa specie, financo alla stessa famiglia.

E lo stesso incontro con Beccolustro si articola in una paradossale dinamica di distruzione che previene la distruzione: se un Roz stermina accidentalmente un nucleo familiare, in realtà ne salva il suo componente più debole, che sarebbe stato destinato ugualmente alla morte.

E da questo strano incidente si sviluppa un discorso molto peculiare sulla maternità…

Maternità

Il robot selvaggio racconta una maternità realistica…

…che raramente si ritrova in prodotti pensati per un pubblico così giovane.

L’incontro insperato con il neonato Beccolustro farebbe subito pensare all’innesco di una dinamica affettiva di imprinting da entrambe le parti – soprattutto per come viene caricato emotivamente il momento del primo incontro…

…e invece Roz si limita a continuare per la sua esistenza incredibilmente binaria, in cui un pulcino incapace di esprimere direttamente i suoi bisogni, e che si limita solo a seguirlo incessantemente, non può essere suo cliente.

Ed è in questo contesto che entra in gioco il modello di Codarosa.

L’opossum si presenta con un peso emotivo e materiale sulle spalle: la nuova cucciolata, il nuovo carico di figli non voluti, ma semplicemente capitati, che si trova a dover gestire controvoglia, sperando in più di potersene sbarazzare.

E con il suo scambio con Roz finalmente la maternità si spoglia di quella idealizzazione che ha infestato decenni di animazione, portando in scena invece una madre imperfetta, che sceglie di prendersi cura di un bambino solo perché le circostanze lo richiedono.

Ma, non per questo, risulta un una figura negativa. 

Semplicemente, impreparata.

Imparare

La maturazione dei protagonisti è interconnessa.

L’apprendimento di Roz si articola in una presa di consapevolezza del mondo in cui si trova immersa, riuscendo infine a comprendere le sfumature del reale: come Fink può essere doppiogiochista e al contempo un amico fedele, così anche Paddler può essere egocentrico quanto altruista.

E questa evasione graduale dal binarismo iniziale permette a Roz di esprimersi non più solo tramite modelli prestabiliti, ma di diventare un’inaspettata mente creativa, il cui primo passo è proprio il battezzare il suo figlioccio non con un nome in serie, ma con un affettuoso nomignolo.

Al contrario, Beccolustro cresce per imitazione.

Nel suo racconto quasi crudele della genitorialità, Il robot selvaggio mette in scena una dinamica ormai fin troppo nota: la prole che ha come primo contatto con il mondo il genitore, che considera come unica fonte di verità e di conoscenza e che, di conseguenza, imita senza controllo.

Una dinamica che si traduce in una serie di gag di passaggio in cui Beccolustro dimostra di aver vissuto fin troppo a stretto contatto con Roz, imitandone pedissequamente i comportamenti in maniera piuttosto bizzarra, diventando inevitabilmente un emarginato sociale.

Ma questa forte vicinanza è proprio il punto focale del loro rapporto.

Distacco

Roz e Beccolustro devono trovare il loro posto nel mondo.

Le loro maturazioni sono talmente contigue da rendersi di fatto interdipendenti: come l’oca non può ancora volare e nuotare con le proprie zampe, così il robot non riesce a lasciare vivere il proprio figlio adottivo al di fuori del suo campo visivo.

Un rapporto quasi soffocante che paradossalmente gode molto della rivelazione sulla vera storia di Roz e del rivoltarsi di Beccolustro: un distacco brusco ma necessario per accompagnare il protagonista verso la propria indipendenza.

E la bellezza del loro rapporto sta proprio nel riuscire ad aiutarsi anche in vista di una separazione forse definitiva, che dovrebbe sancire la chiusura di questa breve parentesi nella vita di entrambi, dopo il quale ognuno potrà tornare ai suoi ruoli programmati.

Ma un ragionamento del genere sarebbe andato bene alla vecchia Roz, quella pronta a tornare alla prima occasione alla sua fabbrica, ma che invece ora è molto restia ad abbandonare questa realtà che l’ha definita più di quanto si potesse immaginare.

Ma c’è qualcun altro che potrebbe voler decidere per lei…

Unione

L’atto conclusivo de Il robot selvaggio è quello che mi ha lasciato più dubbi.

Risulta a mio parere molto convincente la linea narrativa che definisce definitivamente la maturazione di Roz nel suo confronto e scontro con un sistema in cui non si riconosce più, ma per il quale risulta molto attraente per il patrimonio di informazioni di cui involontariamente si fa portatrice.

Un sistema che ben si concretizza nell’unico effettivo villain della pellicola, ovvero Vontra, un viscido essere meccanico pronto ad irretire Roz con le sue parole, capace di ragionare solamente su due possibilità: la collaborazione del bersaglio o la sua distruzione.

Ed è proprio qui l’elemento che mi ha meno convinto.

Come avevo ampiamente apprezzato una rappresentazione crudele quanto realistica della natura selvaggia, al contempo questa risoluzione molto classica – ma, secondo me, poco adatta ai toni usati fino a questo momento – de l’unione da la forza l’ho trovato veramente poco incisiva.

Allo stesso modo, il finale mi ha lasciato una certa amarezza, soprattutto a fronte di un sequel già programmato e che potrebbe potenzialmente ridurre Il robot selvaggio all’ennesimo franchise di successo che viene snaturato con i suoi poco utili capitoli successivi…

Ma spero davvero di sbagliarmi.