Categorie
Comico Commedia Commedia nera Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Woody Allen Woody Allen 2000

Hollywood Ending – Sulla via del tramonto

Hollywood Ending (2002) è uno dei film forse più personali e lungimiranti della carriera di Woody Allen.

A fronte di un budget piccolino – 16 milioni di dollari – è stato uno dei tanti e disastrosi flop commerciali di questo periodo per Allen, non riuscendo a coprire neanche i costi di produzione…

Di cosa parla Hollywood Ending?

Val è un regista in disgrazia, per via del suo carattere molto difficile. Eppure sarà proprio la sua ex moglie a dargli una seconda occasione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Hollywood Ending?

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Assolutamente sì.

Hollywood Ending è uno dei miei film preferiti di Allen in questo periodo, anche per la sua ottima performance comica, con cui evade la macchinetta che già al tempo rischiava di diventare, per invece impreziosire la sua performance con un irresistibile taglio surreale.

Oltretutto, se si considera il momento artistico del regista statunitense – al tempo si cominciava a pensare che la sua carriera fosse ormai sulla via del tramonto – il film assume ancora più significato, soprattutto visto che ci troviamo a pochi anni di distanza da uno dei suoi più grandi successi: Match Point (2005).

Disgrazia

Woody Allen e Treat Williams in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Il personaggio di Val nasce fuori scena.

Uno dei lati che più apprezzo della scrittura di Hollywood Ending è proprio il modo in cui introduce il protagonista: un’animata discussione fra Ellie e gli altri produttori, in cui si abbozza già il carattere imprevedibile di Val, nonostante questo non sia presente.

Così scopriamo come Val sia un regista ormai caduto in disgrazia, nonostante tutti i presenti ne riconoscano l’innegabile verve artistica, che lo distingue dai più incolori yes man che invece dirigerebbero la pellicola in maniera molto meno ispirata. 

Woody Allen e Mark Rydelli in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

E infine Ellie dà la punchline che chiude questa ottima costruzione:

I’m told that he is in no position to be fussy.

Mi è giunta voce che non è proprio nelle condizioni di fare lo schizzinoso.

Ed infatti vediamo un Val ormai costretto ad accettare i lavori più improbabili, nonostante non riesca ad a mantenere neanche quelli, rendendo l’offerta di Ellie davvero la sua ultima occasione per rilanciarsi – senza che questo, però, gli impedisca di continuare ad essere ingestibile…

Follia

Woody Allen,Téa Leoni, Treat Williams e Debra Messing in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Come prevedibile, Val è totalmente incontrollabile.

Ma non è solo.

La sequenza dedicata al breve incontro con la sua ex moglie è una delle migliori prove comiche di Allen dai tempi di Prendi i soldi e scappa (1969), mostrando un comportamento quasi bipolare, che passa da una serena discussione sulla sceneggiatura fino alle più aspre rivendicazioni sul suo matrimonio fallito.

Come se questo non bastasse, la follia sembra perseguitarlo.

Tutti i personaggi di cui si circonda nella fase di pre-produzione dimostrano a più riprese tutta la loro assurdità – addirittura nel voler ricreare interi palazzi di New York – che dimostra come Val scelga, forse inconsapevolmente, di lavorare con figure ancora più improbabili di lui.

Ma all’apice della follia, della realizzazione dei suoi capricci…

Isteria

Debra Messing in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

La cecità di Val è frutto esclusivamente della sua isteria.

Pur essendo sano come un pesce, fra l’ipocondria galoppante, la vicinanza con l’odiata ex-moglie e una produzione assurda ancora prima di cominciare a girare, il protagonista esprime il suo disagio irrisolto in una malattia apparentemente incomprensibile.

Uno spunto comico che poteva facilmente essere sprecato in battute piuttosto scontate, ma che invece si articola in una serie di gag comunque piuttosto semplici, ma nondimeno anche brillanti e gustose nella loro esecuzione.

Woody Allen e Mark Rydell in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Fra l’altro, la cecità improvvisa è anche l’occasione per riflettere sulla propria vita, sul suo intestardirsi sulle sue manie, in particolare nell’essere un grande artista incompreso dalla sua stessa famiglia – con cui invece gradualmente riesce a riconciliarsi.

Quasi una…profezia?

Presagio

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Come anticipato, Hollywood Ending è probabilmente uno dei film più autobiografici di Allen.

Così la già citata situazione della sua carriera – considerata ormai alle sue battute al tempo dell’uscita del film – e l’inizio dei finali più positivi e concilianti per le sue commedie – già in Criminali da strapazzo (2000) – che raccontano il recente matrimonio con Soon-yi Previn.

Woody Allen e Téa Leoni in una scena di Hollywood Ending (2002) di Woody Allen

Allo stesso modo, questa pellicola è una previsione fin troppo lucida del suo destino registico: il suo progressivo allontanamento dal cinema americano per invece affacciarsi al panorama europeo, ben più pronto – proprio come nel film – ad accettare la sua arte.

E proprio a Parigi, meno di dieci anni dopo, avrebbe ambientato Midnight in Paris (2011)…

Categorie
Avventura Comico Commedia Dramma romantico Drammatico Film Woody Allen Woody Allen 2000

Criminali da strapazzo – What if…

Criminali da strapazzo (2000) è il film con cui Woody Allen inaugurò il nuovo millennio – oltre ad un decennio artistico incredibilmente interessante.

A fronte di un budget di circa 18 milioni, fu un incredibile insuccesso commerciale, riuscendo a malapena a coprire le spese di produzione: quasi 30 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Criminali da strapazzo?

Ray è un criminale fallito che sceglie di tentare il colpo della vita: rapinare una banca. Ma le vie del successo sono assolutamente inaspettate…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Criminali da strapazzo?

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

In generale, sì.

Criminali da strapazzo è una sorta di what if… di uno dei miei film preferiti di Allen – Prendi i soldi e scappa (1969) – che si presenta come la naturale sintesi dei due decenni precedenti – idee ridondanti e trame semplici…

…ma anche come lo spunto per risultati artistici ben più interessanti – in particolare, molte delle idee qui presenti saranno riportate in scena con ben più intelligenza qualche anno dopo in Scoop (2006).

Antipodi

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Ray e Frenchy sono agli antipodi.

Il personaggio di Allen si presenta subito in scena nel tentativo di prendere le redini della relazione, millantando con i propri amici di essere totalmente in controllo di sua moglie e di poter prendere liberamente la decisione di sperperare i loro risparmi…

…quando è esattamente il contrario.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

A differenza del marito, Frenchy è una donna con la testa sulle spalle: nonostante abbia un lavoro molto umile e non sia particolarmente sveglia, è riuscita comunque a mettere da parte una discreta somma, mostrandosi la figura lungimirante della coppia.

Inoltre, il suo carattere salace, continuamente combattuto da Ray, è fonte di infinite battute e gag, anche e soprattutto con gli amici intrusivi del marito, che la donna mette fin da subito al loro posto.

Eppure, si lascia fin troppo facilmente travolgere…

Copertura

La rapina è una catastrofe da entrambe le parti.

Per quanto Frenchy sia fra i due quella più intelligente, si dimostra del tutto impreparata nel gestire il negozio e il suo inaspettato successo, facendosi trascinare dalla totale improvvisazione del marito in una copertura che fin da subito da acqua da tutte le parti.

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

E, alle sue spalle il piano si articola in una serie di momenti comici al limite del surreale, in cui Allen riprende il personaggio comico che segnerà il suo cinema in maniera consistente da qui in avanti, e chiude il cerchio di un disastro annunciato.

A meno che…

Presenza

Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Dopo una conclusione piuttosto brillante del primo atto, la fase centrale definisce più sottilmente il dramma della relazione fra i due protagonisti, già anticipato dai loro scambi piuttosto alacri del primo atto, in due direzioni: presenza e mancanza.

Da una parte, Francy è sempre presente – anche troppo: essendo la proprietaria e l’ideatrice della fortuna della famiglia, la sua figura è in scena in ogni momento – nelle decisioni sulla famiglia, nel prossimo menù e anche e soprattutto nella scelta dell’arredamento degli spazi.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Ne emerge così una volontà sempre più insistente di prendere parte alla buona società in cui finalmente può avere accesso, nonostante fin da questa fase agisca in maniera piuttosto disordinata e sostanzialmente prona alle scelte dei suoi fidati collaboratori.

Al contrario, Ray è sempre più messo da parte, ridotto sempre di più ad una figurina sullo sfondo, impossibilitato a spendere quei soldi come vorrebbe, ovvero in maniera del tutto opposta a Franchy: non per integrarsi, ma per allontanarsi, per cercare una vita migliore altrove.

Alternativa

Woody Allen, Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Nel finire del secondo atto, entrambi i personaggi cercano un’alternativa al loro matrimonio.

Franchy, profondamente ferita nel non essere considerata all’altezza da quel circolo di cui vorrebbe far parte, si affida alle cure disinteressate di David, cercando inizialmente di coinvolgere anche Ray, ma infine accettando fin troppo facilmente che si faccia da parte.

Infatti la donna vede in questo filantropo la sua occasione per avere la vita dei suoi sogni, accompagnandosi ad un uomo ben più giovane e presentabile rispetto a Ray, che gli offre tutte le chiavi giuste per integrarsi in maniera vincente nell’alta società.

Woody Allen in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Al contrario, una volta trovata l’occasione per defilarsi dai progetti della moglie, Ray cerca sempre di più una via alternativa per la ricchezza, scegliendo ancora una volta il furto che possa sistemarlo a vita, con un piano tanto semplice quanto facilmente fallibile.

E se questo poteva davvero salvare la sua famiglia…

Status

Hugh Grant e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

La chiusura della pellicola è per certi versi atipica per il cinema di Allen finora.

L’angoscia per la conclusione sfortunata in ogni senso di Frenchy, gabbata e umiliata per essersi affidata alle persone sbagliate che credeva amiche – in particolare lo stesso David – si alterna alla piacevole comicità del piano del marito.

Tutta la dinamica verrà sostanzialmente ripresa, come già anticipato, nel successivo Scoop, ma nondimeno regala un comic relief quasi necessario in un finale che altrimenti sarebbe stato fin troppo amaro, ma che sorprendentemente si risolve nella ricomposizione della coppia.

Woody Allen e Tracey Ullman in una scena di Criminali da strapazzo (Small time croocks) (2000) di Woody Allen

Probabilmente in questo frangente si può intravedere un nuovo ottimismo di Allen dopo la fine del suo rapporto con Mia Farrow e il suo recente e forse più felice matrimonio con Soon-Yi Previn, che porta a ristabilire lo status iniziale del matrimonio senza, di fatto, troppi cambiamenti.

Infatti, a sorpresa, alla fine la più scaltra è sempre Franchy…

Categorie
80s Back to....teen! Commedia Commedia romantica Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Teen Movie

Un compleanno da ricordare – Il desiderio edulcorato

Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes, noto anche come Sixteen candles, è un piccolo cult del genere teen movie, con protagonista la star del genere negli Anni Ottanta: Molly Ringwald, futura protagonista anche in The Breakfast club (1985) e in Pretty in Pink (1986).

A fronte di un budget piccolino – appena 6,5 milioni di dollari, circa 19 milioni oggi – fu un buon successo commerciale: 23 milioni di dollari in tutto il mondo, circa 65 oggi.

Di cosa parla Un compleanno da ricordare?

Sam è una ragazzina che ha appena compiuto sedici anni, ma a cui niente sembra essere cambiato. E invece sarà un compleanno pieno di sorprese…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Un compleanno da ricordare?

Molly Ringwald (Sam) e Michael Schoeffling (Jake) nel finale di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Assolutamente sì.

Mi sbilancio così tanto nel consigliarvi questa pellicola perché è un tuffo quasi alienante in una visione del mondo così ingenuamente stringente, con una classificazione dei personaggi – particolarmente quelli femminili – fra buoni e cattivi – e senza possibilità di replica.

Oltre a questo, Un compleanno da ricordare, nonostante voglia raccontarsi come una commedia romantica, è in realtà uno dei pochi teen movie che parla in maniera veramente poco edulcorata dell’esplosivo desiderio sessuale adolescenziale.

Insomma, vale la pena di riscoprirlo.

Desiderio

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Per quanto il film cerchi di edulcorarlo, il desiderio della protagonista è chiarissimo.

All’inizio la sua sembra la più innocua fantasia di cambiamento, di crescita, di vedere davvero un mutamento così fondamentale, che ormai dovrebbe essere avvenuto, ma che invece sembra invisibile a tutti gli altri – tanto che nessuno sembra essersi ricordato del suo compleanno.

Poi, emergere il vero desiderio.

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Tramite un piccolo questionario anonimo, ci immergiamo in tutti i dubbi più tipici della scoperta sessuale: la volontà di avere un rapporto, ma la paura di non riuscirci, di non sapere addirittura se qualcosa è già successo, nonostante l’oggetto del desiderio sia lampante.

E lo stesso ha dei risvolti quantomeno dubbi…

Interesse

Michael Schoeffling (Jake) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Fin da subito Jake è il protagonista di una dinamica leggermente inquietante, ma che ben inquadra la forse involontaria ambiguità del personaggio: come Sam lo guarda piena di desiderio, lo stesso sembra ricambiare l’interesse, impossessandosi avidamente delle sue risposte rivelatorie al questionario.

Ma, forse anche complice la scarsa interpretazione di Michael Schoeffling, appare poco chiara la nascita del suo desiderio verso Sam: se da una parte appare ormai stufo del suo attuale rapporto, vuoto e inconsistente su una ragazza che, come vedremo, neanche rispetta…

Michael Schoeffling (Jake) e Haviland Morris (Caroline) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

…dall’altra, è davvero poco trasparente il motivo per cui Sam le interessi così tanto: anche se afferma di voler cercare altro oltre al semplice rapporto sessuale, davvero basta che la protagonista dimostri un minimo di interesse nei suoi confronti per farlo innamorare?

Oppure…

Vergine

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Un compleanno da ricordare appare per certi versi un goffo manuale della castità.

Infatti la positività della protagonista non è spiegabile al di fuori della sua verginità: volendosi rivolgere ad un pubblico molto giovane, il film racconta un’adolescente piuttosto tipica, con le sue insicurezze e il suo facile indispettirsi quando non ha tutte le attenzioni per sé.

Molly Ringwald (Sam) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Al contrario, non tanto la sua illibatezza, ma il suo desiderio di conservarsi per una persona in particolare la rendono evidentemente migliore di tutti gli altri personaggi femminili: Caroline, la tanto disprezzata ragazza di Jake, e Ginny, la sconsiderata sorella della protagonista.

Due donne con una sessualità fin troppo libera e che, per questo, devono essere punite.

E come vengono punite…

Punizione

Blanche Baker (Ginny) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Ginny e Caroline sono due personaggi sostanzialmente sovrapponibili.

Ginny è anzitutto colpevole di distogliere l’importante attenzione della famiglia di Sam dal compleanno della protagonista, per focalizzarsi invece su un’occasione che non determinata il coronamento di un sogno d’amore, ma solamente la conferma dell‘incosciente condotta del suo personaggio.

Infatti in non poche scene appare chiaro come la scelta del compagno non derivi da un effettivo interesse nei suoi confronti, ma piuttosto da un desiderio di riposizionamento sociale: non più come donna che salta da un letto all’altro, ma come una moglie da rispettare – anche se di un uomo insulso…

Haviland Morris (Caroline) e Anthony Michael Hall (Ted) in una scena di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Ed è inquietante quanto interessante come un momento in cui avrebbe dovuto essere estremamente presente, Ginny è invece totalmente in balia degli eventi proprio come Caroline, una donna di così poco conto da poter essere – a parole e nei fatti – violata più volte.

Il suo personaggio è infatti in assoluto il più bistrattato: preso sulle spalle come un sacco della spazzatura e portato in macchina di uno sconosciuto che non fa di fatto niente per evitare di essere colpevole di uno stupro – di cui, anzi, si compiace.

Perché, in verità, il personaggio maschile attivo sessualmente è sempre premiato.

Premio

Gedde Watanabe (Dong) nella scena del ballo di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

Oltre alla protagonista, due sono i personaggi che ricercano attivamente il sesso.

Da una parte lo strambo Dong, rappresentazione ingenuamente razzista di un apparente geek incapace di relazionarsi con le ragazze, ma che invece viene coinvolto nel party di Caroline, in cui può rivelare la sua sessualità veramente esplosiva, diventando il comic relief della storia.

In particolare a lui si devono i momenti più esplicitamente sessuali della pellicola: dal rapporto vestito con la sua nuova fiamma, fino al lento del ballo, in cui Dong si appoggia letteralmente sul seno della ragazza e dà adito ad una sfilza di battute a sfondo erotico anche piuttosto intraprendenti visto il tipo di target.

La scena delle mutande di Sam di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

L’altro geek premiato è Ted.

Il suo personaggio comincia una rincorsa impossibile verso Sam, in una maniera che lo definirebbe immediatamente come fuori dalla corsa del sesso, tanto sono viscidi e improvvisati i suoi tentativi di rimorchio, di rivalsa sociale – per cui è disposto a spendere fin troppo.

E, invece, assumendo il ruolo di aiutante della protagonista e di promotore della coppia, Ted non solo riesce ad ottenere la prova della sua vittoria sessuale, ma addirittura ad avere il suo primo rapporto con una ragazza apparentemente ancora più inavvicinabile di Sam.

E lo stupro è presto perdonato…

Sacro

Il finale di Un compleanno da ricordare (1984) di John Hughes

La dinamica del finale è pregna di un simbolismo veramente rivelatorio.

Sam viene rivestita di abiti incredibilmente verginali e idilliaci, tanto da prendere in qualche modo il posto della sorella come sposa – anche per il fraintendimento dello stesso Dong – e quindi venir ricondotta ad uno status sociale totalmente accettabile, anzi desiderabile.

Di fatto, proprio per quanto detto sopra, Sam viene premiata con una sorta di unione sacra con Jake, un dolce bacio scambiato al lume di candela che chiude la pellicola – apparentemente non lasciando trasparire altro dal loro rapporto.

Anche se…

Categorie
Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film

Le vite degli altri – La salvezza segreta

Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck è un dramma storico tedesco ambientato durante la Guerra Fredda.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2 milioni di dollari – anche per la notorietà acquisita grazie all’Academy, ha incassato benissimo: 77 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Le vite degli altri?

1984, Germania dell’Est. HGW XX/7 è un inflessibile ingranaggio del meccanismo della Stasi. Ma la vicinanza improvvisa col nemico gli farà cambiare idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=nj9NZ4ptF5U

Vale la pena di vedere Le vite degli altri?

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Assolutamente sì.

Le vite degli altri è una mosca bianca all’interno di un panorama cinematografico sul tema dominato da titoli di produzione statunitense – e, per questo, solitamente molto di parte nel portare in scena un racconto estremamente politicizzato verso una precisa direzione.

Al contrario, l’opera prima di von Donnersmarck, più che una storia politica, è un racconto fortemente umano, che porta in scena in maniera non scontata il dramma delle Due Germanie, la totale spersonalizzazione in un mondo diviso fra leali servitori del socialismo e nemici da schiacciare.

Insomma, da riscoprire.

Ingranaggio

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Gerd è un ingranaggio.

Fin dalla sua primissima apparizione, assistiamo ai suoi interrogatori sistematici, dove niente è lasciato al caso e dove non sembra esserci spazio per l’umanità, ma solamente per un’instancabile ricerca della verità, un’indefessa corsa allo stanare il prossimo nemico del caro socialismo.

E la sua carriera è ancora messa di più alla prova davanti a quello che sembra più di tutti un fedele servo del sistema, che mai metterebbe un dubbio la bontà della DDR, ma che anzi forse è una delle poche voci positive rimaste all’interno di un panorama artistico di sobillatori.

E, in qualche misura, anche Georg e Christa sono degli ingranaggi consapevoli. 

Da una parte la donna prende parte al sistematico lavaggio del cervello di un governo che vuole solo spremere i suoi concittadini, proprio facendogli credere – come in questo caso – di aver bisogno del sistema per riuscire effettivamente a realizzarsi nelle loro vite.

Dall’altra, anche più importante il totale immobilismo di Georg, che, nonostante sia circondato dai danni del sistema all’universo artistico, non porta avanti che timidi tentativi di protesta, rimanendo per il resto nell’angolo che è riuscito a ritagliarsi in un mondo soffocante.

Ma nessuno di loro potrà rimanere per sempre indifferente.

Sommerso

Georg ha solo bisogno di una spinta.

Il suo immobilismo viene improvvisamente scosso da un evento purtroppo inevitabile: la morte di una voce ormai spenta da tempo, tramite un sistema che non mira ad annientare fisicamente il nemico, ma piuttosto a renderlo inoffensivo, finché non sarà lui stesso ad uscire di scena.

Così la morte di Jerska diventa uno spunto per raccontare tutto il sommerso, tutta la realtà sotterranea di un Paese che si sta sempre più sgretolando, trovando la sua ragione di esistere solamente in un’ideale irraggiungibile, in un sistema rigido e, di fatto, insostenibile.

Un’azione profondamente sovversiva, che, per quanto ben congegnata, non poteva restare impunita.

A meno che…

Scoperta

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Con il proseguire della pellicola, Gerd scopre una nuova realtà.

Addestrato come una macchina e focalizzato solo sull’idea di registrare i movimenti sospetti di Georg, in realtà il silenzioso ascoltatore comincia ad immergersi nella quotidianità della sua vittima, nei suoi turbamenti, nel rapporto infelice con Christa…

…e sceglie di salvarli.

Vivendo sostanzialmente come un inquilino invisibile a fianco del protagonista, Gerd comincia col tempo sempre più ad affezionarsi alla sua visione, tanto da volerla proteggere, con il suo primo, fondamentale intervento: mettere davanti agli occhi di Georg la verità sulla sua fidanzata.

E se anche questo non bastasse, seguendo battuta per battuta lo struggente scambio fra i due personaggi mentre Christa sta per uscire, Gerg si rivela, anche se indirettamente, come spettatore della loro tragedia, incoraggiando la donna ad essere più sincera con sé stessa e con il suo compagno.

Premio

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Ma Gerg non può davvero salvarli.

Basta poco per essere strappato dal suo sogno romantico di custode della coppia: bastano delle antipatie politiche, i giusti tasti premuti con Christa con la minaccia dell’esilio dalle scene, per mettere inevitabilmente Georg nel mirino della Stasi, anche senza vere prove.

Ed è anche inevitabile che, pur senza qualcosa di concreto, Gerg venga relegato ai margini della scena, pagando per quel briciolo di umanità inaspettata che ha portato ad una morte, ma anche alla salvezza di una voce ancora capace di sopravvivere nel tramonto della DDR.

Così le storie di Gerg e Georg continuano parallele senza toccarsi mai, neanche quando il protagonista, rivelata finalmente la verità sulla sua storia, ha l’occasione di ringraziare direttamente quel piccolo uomo che ha accettato un’esistenza anonima e rimessa…

… dedicandogli invece un commosso tributo, che finalmente Gerg può regalare a sé stesso.

Categorie
80s Back to....teen! Commedia Commedia romantica Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Teen Movie

Pretty in Pink – Una pallida origine

Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch, in Italia noto anche come Bella in rosa, è un classico del genere teen movie Anni Ottanta.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 9 milioni di dollari, circa 25 oggi – è stato un ottimo successo commerciale: 40 milioni di dollari in tutto il mondo (circa 114 oggi).

Di cosa parla Pretty in Pink?

Con un’estrazione sociale bassissima e l’emarginazione sociale continua nel suo liceo per ricchi, Andie si trova coinvolta in un innamoramento pericoloso…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pretty in Pink?

Molly Ringwald (Andie), Jon Cryer (Duckie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

In generale, sì.

Pretty in Pink è un classico davvero in senso stretto: all’interno della pellicola ritroverete dinamiche piuttosto tipiche del genere, ma molto più all’acqua di rose, molto più con i piedi per terra, con pochi picchi drammatici davvero significativi.

Una visione che ci riporta agli albori del teen movie quando, positivamente o meno, queste pellicole erano molto più con i piedi per terra, e molto meno smaccati rispetto ai – forse – più godibili prodotti dei decenni successivi.

Però, dategli un’occasione.

Status

Molly Ringwald (Andie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Andie vive in uno status quo da cui sembra impossibile evadere.

La protagonista è amaramente consapevole della sua disprezzabile estrazione sociale, del suo aspetto e abbigliamento stravagante – dovuto anche all’impossibilità di comprarsi abiti di prima mano – e al non avere un appuntamento per il ballo scolastico…

…ma, anche ampiamente spalleggiata da Duckie, mostra anche una certa superiorità nel non essere come quei ragazzi ricchi e viziati, che ora la punzecchiano per avere un appuntamento, ora la bullizzano apertamente.

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) nella scena del loro primo incontro di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Eppure, un’alternativa è possibile.

Il primo approccio con Blane deriva proprio dalla situazione sociale della protagonista: nonostante sia evidentemente interessata a questo nuovo ragazzo, Andie si pone fin da subito sulla difensiva, lanciandosi in qualche battuta classista molto goffa.

Ma questo non ferma Blane, che comincia un dolcissimo corteggiamento della protagonista, rispettando i suoi spazi e avvicinandosi a lei con delicatezza e nei giusti tempi, mostrandosi totalmente ignaro della aspra contesa sociale in atto.

Intrusione

Molly Ringwald (Andie) e Jon Cryer (Duckie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Con il loro primo appuntamento, è come se Blane e Andie volessero mettere alla prova i loro rispettivi spazi sociali.

Già tutta l’attesa di Blane racconta la profonda insicurezza della protagonista, continuamente intimorita dall’idea di essere solo un interesse passeggero, di essere in realtà una vergogna per questo fin troppo dolce ragazzo.

Ma l’effettivo arrivo di Blane è il trigger emotivo inevitabile di Duckie: in questa fase il suo personaggio è insopportabilmente chiassoso, incapace di comunicare serenamente il suo disappunto per la nuova relazione, tanto da tirare ridicolmente in mezzo la stessa Iona.

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

E non è neanche la situazione peggiore.

L’intrusione nel party di Jeff è ingenua quanto disastrosa: non ancora consapevole del disprezzo del suo amico nei confronti della sua nuova fiamma, Blane introduce la protagonista in un panorama che le sta fin da subito stretto.

Così, il loro spazio intimo è da ricercare altrove: la conclusione del secondo atto è rappresentata dal picco drammatico e romantico della neonata coppia, con la confessione dolorosa quanto fondamentale di Andie, che infine porta al primo bacio.

Incubazione

Molly Ringwald (Andie) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Nell’atto finale, tutto si ribalta.

Al trionfo romantico della coppia si alterna invece al climax per l’inevitabile allontanamento, alimentato dai dubbi da entrambe le parti: le pressioni sociali di Blane da parte di Jeff e la concretizzazione delle paure di Andie dall’altra.

Un momento particolare della pellicola, che offre alla protagonista lo spazio per rinascere, per superare la sua quasi totale passività al quadro sociale – sopratutto alle sue recenti evoluzioni – e invece ritornando attiva proprio nella scelta di partecipare al ballo pure senza accompagnatore…

…ma non è la sola.

In questo momento di passaggio, anche altri personaggi trovano la conclusione della loro storia: anzitutto il padre di Andie, fin dall’inizio sferzato dalla figlia per migliorare la sua condizione lavorativa, che ammette finalmente il motivo del suo immobilismo.

Ma sopratutto assistiamo al punto di arrivo di un personaggio che ha vissuto sostanzialmente sullo sfondo: Iona, personaggio in cerca di un’identità che, pur in maniera un po’ discutibile, trova il suo punto di arrivo in un ragazzo con la testa sulle spalle, con cui trova finalmente la sua felicità.

Confronto

Molly Ringwald (Andie) e Andrew McCarthy (Blane) in una scena di Pretty in Pink (1986) di Howard Deutch

Lo scioglimento della vicenda è da manuale.

La ricomposizione della coppia è possibile solo se ognuno dei due personaggi risolva la situazione che in primo luogo ha rovinato la relazione: e se per Andie è una risoluzione costruttiva, con Duckie che finalmente accetta il nuovo fidanzato come un personaggio rispettabile…

…e invece per Blane è una risoluzione distruttiva, che segna il distacco definitivo da Jeff e dalla sua cricca, comprendendo le vere ragioni del disprezzo del suo ex-amico verso la sua amata, e chiudendo la pellicola con il più classico bacio risolutore dei due personaggi.

Categorie
Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Film sportivo Fuori concorso

The Iron Claw – La morsa di ferro

The Iron Claw (2023) di Sean Durkin, in Italia noto anche come The Warrior, è un film sportivo dedicato alla vera storia della famiglia maledetta dei Von Erich.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – appena 15 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 45 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Iron Claw?

Stati Uniti, 1979. Fritz Von Erich è un ex campione di wrestling che cerca di portare tutta la famiglia sul ring…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Iron Claw?

Assolutamente sì.

Nonostante la storia raccontata sia veramente angosciante, Sean Durkin è riuscito a mantenere un buon equilibrio di scrittura per non scadere nel dramma smaccato, ma invece costruendo ogni evento, anche il più tragico, in maniera ben pensata.

In generale la pellicola sembra voler raccontare una realtà alternativa a quella a cui siamo abituati per questa disciplina, meno teatrale e molto più legata ad un dramma reale e insostenibile – per certi versi simile all’ottimo The Fighter (2010).

Insomma, da riscoprire.

Sogno

The Iron Claw si apre con un sogno.

Il patriarca della famiglia Von Erich vuole vivere appieno il suo momento di gloria, incarnando più la figura dello showman che dell’atleta, proprio dando spettacolo sul ring, mettendo in mostra il suo artiglio di ferro e rischiando la squalifica solo per farsi acclamare dal pubblico.

Ma fuori dal ring la storia è diversa: una famiglia da crescere, un sogno impossibile da rincorrere per diventare il campione del mondo, la star del momento, facendo da subito un passo più lungo della gamba e noleggiando una macchina da star.

Altrimenti…

Maledizione 

I figli di Von Erich sono il suo piano B.

Un terzetto di ragazzoni che incarnano tutta la spietatezza del wrestling, con i loro pettorali guizzanti, che in realtà nascondono una forte fragilità, un senso di profonda inadeguatezza che li rende sempre più relegati al palco – e solo a quello.

Tutto il resto è una maledizione.

Una maledizione che aveva già colpito il giovanissimo primogenito, portato via da una malattia improvvisa, che rende inabile alla disciplina il quasi isterico Kerry, che porta alla morte del futuro campione David e che infine porta fuori scena persino il figlio più simile a Fritz: Mike.

Ma è davvero colpa del fato infausto?

Fautore

La famiglia Von Erich è fautrice della sua stessa maledizione.

Ad eccezione della primissima morte familiare, tutti gli altri incidenti sono tutt’altro che casuali, ma bensì frutto dell’ossessione del padre, che porta i fratelli a contendersi il suo affetto, a non riuscire a vedere altro che la vittoria e a non curare sé stessi.

Infatti, ogni scelta che esce dal seminato viene subito troncata dal patriarca, in particolare l’innocente serata musicale di Mike che viene derubricata come una scelta inutile e che non può essere perseguita, proprio perché non appartiene al mondo del ring.

In particolare, Kerry è la principale vittima del disinteresse del padre, che ha il suo apice nel regalo della pistola, che il padre si rifiuta di utilizzare, che mette via in una teca quasi come ha messo da parte il suo stesso figlio, portando lo stesso ad usarla contro se stesso, non vedendo altro futuro possibile.

Ma l’alternativa esiste.

Alternativa

Kevin è l’unico che riesce a guardare oltre il ring.

Ed è anche quello che lo soffre di più.

La sua insofferenza per la situazione famigliare emerge in più occasioni: oltre alla sua preoccupazione per il benessere dei fratelli, che puntella diversi momenti della pellicola, Kevin è l’unico che sfida apertamente il padre, pur non riuscendo a tenergli testa.

Infatti, più la narrazione prosegue e la maledizione si fa sentire, più il futuro unico sopravvissuto della famiglia Von Erich vuole allontanarsi dal ring, che non riesce a vivere nelle atmosfere scintillanti del suo avversario, ma invece prima nella monotonia dell’allenamento, poi nella disperata furia del combattimento.

Ma un’alternativa è possibile.

Dopo aver seppellito l’ultimo dei fratelli, Kevin riesce a ricomporre gradualmente la sua sfera familiare, a diventare un padre presente e affettuoso, che ritrova la sua forza nei suoi figli, nella famiglia numerosa e felice che aveva sempre sognato, che riempie il vuoto che la tragedia del nome Von Erich gli aveva lasciato.

Categorie
Avventura Azione Blade Runner Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film Futuristico Giallo

Blade Runner 2049 – La seconda occasione

Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve è il sequel e rilancio di uno dei più grandi cult della fantascienza moderna, che però al tempo fu un grande insuccesso commerciale…

…per rivelarsi un altro flop economico – anche se un pochino meno devastante: con un budget piuttosto importante di 150 milioni di dollari, ha incassato appena 259 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Blade Runner 2049?

Trent’anni dopo gli avvenimenti del primo capitolo, i Nexus sono stati dichiarati illegali e la Tyrell è finita in bancarotta. Ma un nuovo magnate è pronto a dare nuova vita ai replicanti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner 2049?

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Dipende.

Per quanto reputi Blade Runner 2049 un’ottima avventura fantascientifica, è anche un prodotto molto poco indulgente verso il pubblico di appassionati e non: non premia i nostalgici, non vuole replicare la storia di Blade Runner (1982) e per certi versi la riscrive…

…e, al contempo, è un prodotto con una trama non immediata, con significati non complessi come quelli del capostipite, ma comunque non semplicissimi da interiorizzare, che probabilmente hanno allontanato persino un potenziale nuovo pubblico.

Però, da riscoprire.

Obbediente

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K è obbediente.

A differenza del protagonista del primo capitolo, il personaggio di Ryan Gosling agisce in tutto e per tutto come una macchina per uccidere, un docile automa che si limita a seguire le procedure standard per annientare i Nexus ribelli.

Dave Bautista in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Per questo non sembrano neanche sfiorarlo le accuse di Morton, che mostra tutto il suo disprezzo davanti all’involuzione della sua specie: da macchine pensanti e reazionarie, a meri schiavi al servizio degli umani.

Infatti, tutta la scena dell’esecuzione è quasi chirurgica, come se il protagonista seguisse pedissequamente i vari step per l’uccisione perfetta, raccontata come l’inevitabile destino per qualunque androide che si sottragga agli imperativi del suo Creatore.

Eppure, K è anche umano.

Rifugio

K e Joi vivono esistenze parallele.

Entrambi infatti sono imprigionati nei limiti del loro Essere: un limite spaziale e incorporeo per l’una, un sistema interno calibrato sul mantenere l’obbedienza assoluta al suo Creatore per l’altro.

Eppure, entrambi cercano anche di fuggire.

Ryan Gosling e Ana de Armas in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Joi lotta disperatamente per evadere l’idea con cui è stata creata, quella della concubina che rifletta i desideri del suo padrone, spaziando in diverse forme e aspetti: moglie devota, compagna, prostituta.

L’apice della sua drammaticità è il ricercare un corpo altro per finalmente riuscire a ottenere quel contatto fisico e intimo altrimenti impossibile con K, usando un altro androide come una sorta di marionetta.

K, invece, cerca un altro tipo di validazione.

Umano

Ryan Gosling in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

K vuole essere umano.

Un desiderio probabilmente sopito per decenni, che comincia a riemergere davanti ai primi indizi della natura altra della sua specie, capace di poter replicare l’umano in un dono che lo rende infinitamente più potente: la procreazione.

Una scoperta devastante, che spinge K alla ricerca dell’Io – o, meglio, la validazione dell’Io – in cui tutti gli indizi lo spingono a pensare di essere un protagonista fondamentale della trama politica in atto, della rivoluzione della sua specie…

…per riscoprirsi, invece, semplice pedina.

Deckard quanto K non erano infatti altro che i pezzi su una scacchiera ideata da Tyrell e proseguita da Wallace – anche se per motivi diversi: se il Creatore voleva vedere fino a che punto la sua creatura si potesse spingere, il suo seguace vuole dare il via all’effettiva liberazione dei Replicanti.

Così K si riscopre non come un umano, come figlio indesiderato, ma come la copia dello stesso, possedendo ricordi che non gli appartengono, e vedendo frantumarsi i suoi sogni di amore ed umanità davanti ad una Joi che non era altro che un prodotto seriale programmato per soddisfarlo.

E la sua storia finisce qui.

Ma è davvero finita?

Oltre

Jared Leto in una scena di Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve, sequel di Blade Runner con Harrison Ford del 1982

Blade Runner 2049 è un film assai cauto.

Consapevole di non avere il successo assicurato in tasca, la sceneggiatura cerca di concentrarsi il più possibile sulla storia di K, dandogli anche un punto di arrivo, in modo da portare in scena una pellicola sostanzialmente autonoma.

Al contempo, il film si lascia aperte anche delle porte per un eventuale futuro, limitando il minutaggio del villain per forse regalargli una maggiore centralità in un eventuale secondo film, magari meno concentrato sulla riflessione del protagonista e più sulla trama politica.

Ma è davvero una perdita non avere un sequel?

Per quanto ami la regia di Villeneuve – per certi versi preferendola anche a quella di Scott in Blade Runner – già questo sequel rischiava parecchio nello snaturare il cult di partenza, che viveva soprattutto in funzione della sua riflessione di fondo.

E Blade Runner 2049 è del tutto rispettoso in questo senso, introducendo tematiche meno potenti, ma comunque interessanti, e riscrivendo solo in parte il suo predecessore, dimostrandosi così un seguito credibile…

…ma che, forse, aveva esaurito le sue potenzialità già in questa prima pellicola.

Categorie
Avventura Azione Blade Runner Distopico Dramma romantico Fantascienza Film Frammenti di sci-fi Futuristico Noir

Blade Runner – Il diritto di esistere

Blade Runner (1982) di Ridley Scott è uno dei più grandi cult della fantascienza degli Anni Ottanta (e non solo).

Eppure, al tempo fu un importante insuccesso commerciale: a fronte di un budget di circa 30 milioni di dollari, ne incassò appena 42 in tutto il mondo…

Di cosa parla Blade Runner?

Los Angeles, 2019. Le nuove tecnologie hanno permesso la creazione di androidi sostanzialmente uguali agli umani, anche per i sentimenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Blade Runner?

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

Ma arrivateci preparati: dopo Alien (1979), Scott tentò un nuovo azzardo per riscrivere la storia genere, ma si scontrò con un pubblico che si rivelò più propenso a premiare i prodotti più immediati e muscolari di Cameron – da Terminator (1984) fino allo stesso Aliens (1986).

Non a caso, Blade Runner è sostanzialmente un noir con l’elemento fantascientifico, impreziosito da un profondo simbolismo che riflette su un tema più attuale che mai: il rapporto fra macchina e umanità.

Paradosso

Blade Runner parte da un paradosso.

Si racconta come l’uomo abbia creato una copia di sé stesso, sempre più perfetta ed indistinguibile, ma di come al contempo l’abbia subordinata al suo volere, umiliata in lavori umili e ripetitivi propri di macchine ben meno avanzate.

Ma il più grande paradosso è l’aver dotato questa macchina non solo di un cervello, ma di un inevitabile reparto emotivo, fonte anche di sentimenti di ribellione, di riaffermazione del sé al massimo delle proprie possibilità.

Un sentimento che, però, è possibile solo grazie alla consapevolezza dell’Io.

In questo senso, l’intervista di Leon è rivelatoria.

Infatti il Replicante, nonostante la sua intelligenza superiore all’umano che ha davanti, viene messo nell’angolo proprio per la drammatica consapevolezza del suo essere, che lo porta ad essere sicuro di poter essere scoperto.

Per questo le sue risposte sono brusche e poco pensate, per questo tradiscono un forte nervosismo, dovuto anche allo slancio di voler vedere oltre la banalità delle domande espresse, finalizzate proprio ad insidiare la personalità artificiosa dell’androide.

E poi c’è Rachel.

Inconsapevolezza

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Rachel è inconsapevole.

Fin da subito Deckard mette in dubbio l’efficacia del test, della macchina che deve rivelare la macchina, e i suoi sospetti vengono confermati dal test sul test di Tyrell, che lo mette alla prova su un Replicante che non sa di esserlo.

In questo senso, l’inventore dei Replicanti comincia ad assumere in tutto e per tutto il ruolo di Dio creatore, che offre alla sua creazione uno spazio apparentemente sconfinato di manovra, in realtà definendone fin da subito i limiti.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

E questo tragica limitatezza si trova proprio nella sua segretaria.

Del tutto inconsapevole della sua vera natura, Rachel si sente un effettivo umano, dotato di ricordi genuini che ha fatto suoi, di sentimenti reali che stressano all’inverosimile le capacità del test, fino a rivelarne l’inadeguatezza.

Così, lo stesso strumento ideato per limitare l’esistenza della copia è scalzato dalla volontà del Creatore stesso, che affina a tal punto la sua invenzione da renderla quasi del tutto indistinguibile dall’umano.

E proprio qui si svela la tematica principale della pellicola.

Timore

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa teme il Creatore?

Come altri film di fantascienza ci hanno insegnato – nello specifico, il già citato Terminator – solitamente l’Umano teme la Macchina perché immagina che questa possa superarlo in forza ed intelligenza – e, per questo, sottometterlo.

In questo senso il genere si spreca in esempi in cui la creazione meccanica supera l’intelletto umano proprio perché non limitata dal lato emotivo, mostrandosi invece come una fredda calcolatrice che comprende che il vero nemico della sua esistenza è proprio il suo Creatore.

Harrison Ford in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Blade Runner sceglie una via molto meno banale.

Il Creatore è genuinamente spaventato dalla sua creazione perché teme di perdere la sua unicità, l’elemento che lo dovrebbe definire come inequivocabilmente umano: le emozioni, che invece emergono naturalmente anche nei Replicanti.

Per questo la risposta primaria è il trattare questa creatura come una semplice macchina senza valore, da mettere fuori servizio quando questa si rivela fin troppo umana, fin troppo pericolosa per coesistere col Creatore.

Oppure, impedendole involontariamente di esistere.

Obbiettivo

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Cosa vuole la Macchina?

In altri contesti il sentimento dominante degli androidi sarebbe stata la pura vendetta, con la conseguente sottomissione del proprio Creatore che ha cercato ingiustamente di metterla in secondo piano.

Un sentimento che in qualche modo imperversa in prima battuta nelle azioni di Roy, ben consapevole della sua superiorità intellettiva rispetto agli umani con cui si interfaccia, e che, nella sua spietata scalata della gerarchia, non si risparmia nella crudeltà.

Ma c’è molto più di questo.

Più si avvicina al suo Creatore, più Roy si sente pervaso da una profonda impotenza, ancora più determinante davanti ad esemplari umani – J.F. Sebastian e lo stesso Eldon Tyrell – che non gli sono per nulla ostili…

…ma che anzi ammirano la loro creazione – Sebastian come una sorta di giocattolaio, Tyrell più propriamente nel ruolo di Dio – ma che, al contempo, ne ammettono i limiti insuperabili: una creazione perfetta, ma con un’esistenza limitata.

E su questo concetto si articola l’atto finale.

Desiderio

Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

L’intento del Replicante è impossibile.

Di fatto, il desiderio della Macchina è solamente quello di superare il suo status artificiale e diventare in tutto e per tutto un umano, piegandosi alla violenza solamente in risposta all’ingiustizia del trattamento del Creatore.

Per questo di fatto le Macchine ribelli non vogliono infiltrarsi nella scena politica, insidiare i centri di potere, ma piuttosto assumere dei ruoli solitamente esclusivi degli umani, scegliendo persino lavori umili e poco desiderabili.

E probabilmente lì si sarebbero fermati, nascosti nelle pieghe del sistema, se non avessero avuto la consapevolezza di non poter vivere abbastanza a lungo da godere appieno di un’esistenza umana, l’effettivo tarlo che guida le azioni di Roy per tutta la pellicola.

Per questo infine il Replicante sceglie di distruggere entrambi i Creatori, divorato dalla consapevolezza di non poter contare su di loro per ascendere allo status umano, tanto si sono rivelati inutili nell’averlo creato così imperfetto.

Ma non vi è un’unica via.

Scelta

Il monologo di Roy in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Il Replicante ha due destini possibili.

E Roy sceglie quello della distruzione.

Dopo un primo slancio cristologico, in cui il Replicante sferza il suo corpo per impedirgli di morire, conficcandosi dei chiodi nei palmi delle mani, forse con la speranza di rinascere nella forma desiderata…

…Roy conclude la sua caccia su Decker donando al suo antagonista la vita e accettando la sua morte, la sua limitatezza, accogliendo la consapevolezza che la grandiosità della sua esistenza si è rivelata in realtà inevitabilmente fragile e, di conseguenza, dimenticabile.

Rachel in una scena di Blade Runner (1982) di Ridley Scott

Invece, Rachel accetta la sua esistenza.

All’inizio, dopo aver preso consapevolezza della sua vera natura, la Replicante comincia a chiudersi in sé stessa, a sfaldarsi nel suo essere, pronta a scappare e ad essere messa fuori servizio, ormai consapevole di non poter essere l’umana che pensava.

Invece viene salvata dall’intervento piuttosto violento di Decker, che mette effettivamente alla prova la sua umanità testando la genuinità delle sue pulsioni, forse cercando in lei una conferma della sua identità umana

e, così, accettando infine la caducità della sua esistenza.

Categorie
Avventura Azione Cinecomic Comico Commedia Deadpool Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantascienza Film MCU

Deadpool 2 – Un film per famiglie

Deadpool 2 (2018) di David Leitch è il secondo capitolo della trilogia (?) dedicato al personaggio omonimo.

A fronte di un budget quasi raddoppiato rispetto al precedente – 110 milioni di dollari – ebbe un successo economico lievemente minore: appena 734 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool 2?

Diventato un killer internazionale, Wade Wilson cerca ancora di vivere felicemente la sua relazione con Vanessa. Ma i veri villain sono in agguato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool 2?

Sì, soprattutto se vi è piaciuto il primo.

In questo secondo capitolo Reynolds cominciò il fortunato sodalizio artistico con David Leitch, con cui collaborerà anche per Free Guy (2021) e per un piccolo cameo in Bullet Train (2022), concedendogli qui ancora più spazio di manovra.

Questa maggiore libertà artistica si andò però a scontare con un’idea di fondo che sembra in qualche modo cercare di imbrigliare il personaggio in una trama che gli sta stretta, forse con l’idea di inserirlo all’interno di futuri film degli X-Men targati Fox…

…che, di fatto, non vedremo mai.

Continuità

Deadpool sui barili di petrolio in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool 2 si pone in diretta continuità con il precedente.

Si comincia sempre dalla fine, da un Deadpool pronto a farsi saltare in aria in un appartamento devastato e su una pila di barili di benzina, ponendosi di nuovo al centro della scena con una linea comica nerissima che esaspera il concetto di supereroe inscalfibile.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi, come nel primo capitolo, si torna indietro, ad un’apparente situazione idilliaca, in cui il protagonista ha espanso la sua attività criminale al di fuori dei confini statunitensi, come in realtà tipico di ogni film action che si rispetti – e la saga di John Wick insegna.

Tuttavia, ancora una volta il sogno d’amore con Vanessa viene vanificato da un incidente casuale quanto inevitabile.

Eppure, ora non c’è un nemico da vendicare.

Solo un corpo da distruggere.

A pezzi

Deadpool X-Man in prova in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Deadpool deve essere rimesso insieme.

Ancora una volta vengono portati in scena quegli X-Men di riserva, ancora una volta gli stessi cercano – quasi metanarrativamente – di portare il protagonista dentro al loro universo, con un Wade diventa un eroe in prova con tanto di maglietta identificativa.

Ma la sua prima sfida rivela l’impossibilità del personaggio di far parte di questo universo narrativo rispettandone le regole: per quanto voglia davvero riuscire a salvare la vera vittima della situazione, Deadpool mostra chiaramente di non saperlo fare come un eroe.

Russell in prigione in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

In un altro senso, la stessa dinamica si ripete anche in prigione.

Mentre Russell cerca di diventare il protagonista attivo di un improbabile prison drama, dimenticandosi del tutto di essere un bambino senza poteri facilmente scalzabile da uno dei tanti energumeni che popolano la Prigione di Ghiaccio

…Deadpool è fin da subito contrario all’idea di farsi coinvolgere, scegliendo invece di essere del tutto passivo al suo triste destino: lasciare che il cancro lo divori, ora che persino l’ultima flebile speranza di vita dopo la morte di Vanessa gli è scoppiata in faccia a tempo zero.

Squadra

La parte centrale percorre strade piuttosto classiche…

…pur andandole a vanificare un momento dopo.

La rinascita di Wade dovrebbe passare per la costruzione di un team alternativo, con un simpaticissimo siparietto dedicato agli iconici colloqui di ammissione, fra cui spicca l’incomprensibile coinvolgimento di Peter e la gag del ritardatario Svanitore.

Deadpool in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Così l’inizio di una sessione di allenamento piuttosto classica, che dovrebbe portare il team a trovare la propria coesione interna, si conclude in un bagno di sangue sempre più improbabile, in cui quasi tutti i membri della X-Force vengono uccisi uno dopo l’altro.

Questa parte centrale si chiude con un combattimento non particolarmente memorabile, ma che riesce ben a raccontare il personaggio di Domino, che diventa così una figura piuttosto determinante nella trama, mettendo alla prova le sue effettive capacità fortunate.

Ma il team si deve ricomporre altrove.

Comporre

Deadpool in una scena del trailer di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

L’ultimo atto è un grande azzardo.

Già prima di Endgame (2019), Deadpool 2 sperimentava con uno degli elementi più difficili da trattare all’interno di una narrazione di qualsiasi tipo: i viaggi nel tempo e il giocare con il tessuto spazio-temporale, citando, fra l’altro, Terminator (1984) e tutte le dinamiche derivate.

Così Cable diventa un improbabile alleato della squadra di Deadpool per un obbiettivo comune: riuscire ad impedire il destino oscuro e omicida di Russell, con, ancora una volta, un combattimento non particolarmente indimenticabile, ma che si salva nelle sue battute finali.

Deadpool X-Man  in una scena di Deadpool 2 (2018) di David Leitch

Poi tutto viene riscritto.

Di fatto il sacrificio di Deadpool scatena una serie di eventi e decisioni che riescono a risolvere la situazione nel modo migliore possibile: come Cable si rende conto che un futuro felice è possibile anche senza uccidere Russell, salva Deadpool che a sua volta può risolvere gli errori passati.

Una scelta che ho trovato tuttavia fin troppo azzardata, che sicuramente rincuora dopo un finale che si prospettava fin troppo tragico, ma che potenzialmente rischia di vanificare tutta la maturazione emotiva di Deadpool fino a quel momento…

…forse ancora di più in vista di Deadpool e Wolverine (2024).

Categorie
Avventura Azione Cinecomic Comico Commedia Deadpool Dramma romantico Drammatico Film MCU

Deadpool – Una origin story tutta sua

Deadpool (2016) di Tim Miller è il primo capitolo della trilogia (?) omonima dedicata al personaggio di Wade Wilson.

A fronte di un budget abbastanza basso per un cinecomic – circa 58 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 782 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Deadpool?

Wade Wilson è un mercenario che vive alla giornata e che, incredibilmente, trova la sua anima gemella. Ma l’amore è solo una tragedia con qualche spot commerciale…

Vi lascio il trailer per farmi un’idea:

Vale la pena di vedere Deadpool?

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Assolutamente sì, soprattutto se, come me, siete saturi della Marvel.

Infatti, per quanto Deadpool sia un film con un Ryan Reynolds ancora col freno tirato, si pose come un’interessante alternativa in un panorama di origin story che al tempo – pur con ottime eccezioni come Homecoming (2016) – apparivano spesso blande e poco originali.

In questo senso il primo capitolo del mercenario chiacchierone era in tutto e per tutto un film per adulti – e non a caso era un rated R – colmo di battute sessuali e di una volgarità piuttosto spinta, ma mai fuori luogo, ma anzi piuttosto piacevole.

Insomma, da riscoprire.

Forward

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Forse anche consapevole di non godere di una trama particolarmente avvincente, Deadpool parte dalla fine.

Di fatto Deadpool rischia nel sacrificare il climax narrativo piuttosto classico che porta l’eroe della storia a comprendere i suoi poteri, individuare il suo antagonista e scontrarsi con lo stesso, scegliendo invece di mettersi nella sua versione finale già al centro della scena.

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

E dai titoli di testa la pellicola dà la sua prima zampata, riscrivendo gli stessi per deridere il genere di riferimento, mettendo anche le mani avanti per un prodotto che comunque – probabilmente non per volontà di Reynolds – risulta spesso molto standard e prevedibile.

Eppure lo stesso attore protagonista cerca costantemente di rianimarla con gli sfondamenti della quarta parete e con vari siparietti piuttosto fuori dagli schemi, come il disegno di Francis che Deadpool utilizza come identikit o la piccola avventura comica del tassista.

Poi, si torna indietro.

Alternativa

Ryan Reynolds e Morena Baccarin in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Nel racconto del suo passato e della relazione con Vanessa, Deadpool vuole essere il più scorretto possibile.

In un altro contesto probabilmente avremmo visto un mercenario di buon cuore che alla fine, grazie alla scoperta dei suoi poteri, decideva di cambiare vita e di passare da anti-eroe a eroe effettivo, magari riuscendo al contempo a dare una vita più dignitosa alla sua sciagurata fidanzata.

Ma questo è un film che non vuole essere né MCU né Fox…

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

…e che non segue nessuna di queste regole.

Così effettivamente il punto di partenza del protagonista non è altro che un modo per permettergli di arrivare alla sua nuova identità con già l’esperienza da assassino su commissione, che comunque non viene caricata di un’eccessiva drammaticità, ma anzi mantenuta piacevolmente comica.

Allo stesso modo, il primo scambio fra Vanessa e Wade è definito da una serie di irresistibili battute piuttosto pesanti e sicuramente non family friendly, che sono solo l’antipasto per il racconto piuttosto spinto dello sviluppo della loro relazione, con un umorismo davvero irresistibile.

Ma ogni storia d’amore ha la sua tragedia.

Svolta

Ryan Reynolds in una scena di Deapool (2016) di Tim Miller

Deadpool non avrebbe dovuto essere Deadpool.

Solitamente nel genere la trama drammatica che porta alla deviazione morale è un’esclusiva dei villain, che servono molto spesso a caricarli di una maggiore tridimensionalità – con risultati altalenanti, che vanno da Thanos in Infinity war (2018) all’imbarazzo di Dar-Benn in The Marvels (2023).

Al contrario, la pellicola sceglie, pur mantenendo un buon equilibrio con il versante comico, di spogliare il più possibile Deadpool dalle vesti supereroistiche, e persino da quelle di anti-eroe, rendendolo il più possibile un personaggio con i piedi per terra.

Per questo il protagonista si fa attirare nella trappola di Francis, nella promessa di una seconda vita…

…non tanto per acquisire dei poteri, ma piuttosto per utilizzare gli stessi per sopravvivere al cancro e continuare il sogno d’amore con Vanessa, dovendo affrontare un processo che, come racconta lo stesso Deadpool, ha i toni propri del genere orrorifico.

Ma la rinascita sembra impossibile.

Senza ritorno

Deadpool ha intrapreso una strada senza ritorno.

Per quanto riesca con la sua furbizia a liberarsi dalla sua prigione, il suo aspetto mostruoso sembra un ostacolo insuperabile davanti al suo ricongiungimento con Vanessa, con una scena discretamente straziante in cui, mentre cerca di approcciarla, viene additato dai passanti.

Per questo a Deadpool rimane solamente la strada della vendetta, che si accompagna alla più classica creazione del costume, un momento sempre molto delicato di ogni origin story, ma che viene arricchito dalla dinamica piuttosto divertente della lavanderia.

A questo punto il film prende le strade più classiche della origin story, in cui l’interesse amoroso viene rapito dal villain di turno come esca per scatenare la battaglia finale – nonostante Vanessa non sia per niente una donzella da salvare, anzi.

In questo ultimo frangente Deadpool riesce un po’ a fatica ad evadere i più classici topoi del genere, proprio appesantito da una coppia di villain veramente stereotipati, ma risulta infine vincente grazie alla sua più grande provocazione.

Distinto

Infatti ci si aspetterebbe che Deadpool scelga infine di diventare effettivamente un eroe, abbandonando i suoi desideri di vendetta…

…mentre invece il protagonista si avvicina ancora di più allo spettatore scegliendo di piantare giustamente in fronte al suo carnefice un proiettile, con cui il film riesce chiaramente a definirsi come alternativo rispetto al resto del genere – che, a posteriori, lo ripagherà moltissimo.

Allo stesso modo ben riuscito il ricongiungimento con Vanessa, raccontato con toni mai eccessivi, ma anzi con un taglio che riesce a mantenersi sulla linea della credibilità, con una battuta finale che racconta molto bene il loro rapporto fuori dagli schemi:

After a brief adjustment period and a bunch of drinks…it’s a face I’d be happy to sit on.

Dopo un breve periodo di adattamento e un bel po’ di drink…è una faccia su cui sarei felice di sedermi.