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L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.

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Requiem for a dream – Dipendenti e soli

Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentale di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.

Di cosa parla Requiem for a dream?

Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Requiem for a dream?

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Sì, ma…

Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.

Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.

Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.

Sogno

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.

Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.

Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.

Ma è un sogno fragile.

Vuoto

Jared Leto in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.

Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…

…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Ma la caduta è progressiva.

Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.

Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.

Ma l’eroina non è l’unica droga.

Vincente

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.

O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.

In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.

E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.

Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culture e della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.

Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.

Aiuto

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.

Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…

…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomodo dal tessuto sociale.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.

Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.

Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…

…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.

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The Terminal – Un semplice buonismo

The Terminal (2004) di Steven Spielberg rappresenta uno dei titoli più noti della prolifica carriera di Tom Hanks, che aveva già lavorato con il regista statunitense pochi anni prima con Salvate il soldato Ryan (1998).

A fronte di un budget abbastanza importante per il tipo di film – 60 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con quasi 220 milioni di incasso.

Di cosa parla The Terminal?

Viktor Navorski è appena arrivato a New York senza saper parlare quasi una parola di inglese. Le cose si complicheranno quando la sua patria cesserà di “esistere”…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Terminal?

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Nel complesso The Terminal è un film molto piacevole ed intrattenente, che anzi per certi versi affronta temi non semplici da trattare – immigrazione, persecuzione politica, barriere linguistiche – pur qualche semplificazione e ingenuità.

Tuttavia, a mio parere la pellicola si perde leggermente nella sua seconda parte, quando tende a scadere in un buonismo in realtà piuttosto tipico della filmografia di Spielberg di questo periodo, rendendo nel complesso la storia fin troppo semplice e sentimentale nelle sue risoluzioni.

Realizzazione

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Prima di farci immergere nella trama, The Terminal dedica qualche minuto iniziale per raccontare la realtà in cui la stessa si muove.

Non un semplice aeroporto, ma una delle più importanti porte d’accesso agli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre, evento che ha cambiato per sempre la burocrazia e i controlli di sicurezza – come raccontato anche nel precedente Minority Report (2002).

Curiosamente all’inizio la pellicola privilegia un taglio comico, giocando sulle difficoltà della barriera linguistica del protagonista, che sembra totalmente inconsapevole di quello che gli sta succedendo intorno.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Per questo la realizzazione è ancora più sofferta.

Quasi per caso, Viktor si trova davanti agli occhi la scoperta della distruzione della sua patria, e comincia così un tragico inseguimento di quelle immagini così poco chiare, eppure così rivelatorie riguardo la sua nuova condizione.

E così anche il suo tentativo di sfuggire da quella gabbia burocratica è del tutto inutile per un uomo senza patria, un individuo solo nel mezzo di una folla, intrappolato in un incomprensibile cul-de-sac.

Inventiva

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

La bellezza del personaggio di Viktor è la sua inventiva.

Sulle prime il protagonista infatti se la cava praticamente senza alcun aiuto esterno, prima imparando a masticare l’inglese grazie all’ingegnoso utilizzo di due versioni diverse dello stesso libro, poi con il trucco dei carrelli.

E, nonostante i diversi ostacoli lungo la strada, diventa un personaggio chiave per la vita di molti personaggi, riuscendo sia a farsi benvolere dalla classe lavoratrice, sia a sopravvivere all’ambiente ostile dell’aeroporto.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Questo aspetto diventa forse leggermente eccessivo nella seconda parte, quando il protagonista si improvvisa muratore, nonostante a mio parere la sequenza si salvi per la piacevole comicità che la pervade.

Secondo lo stesso ragionamento, mi ha convinto a tratti il rapporto con gli altri personaggi dell’aeroporto: se sulle prime, ad esempio, il favore di Viktor nei confronti di Enrique è una situazione piacevole e divertente, diventa francamente melenso quando, dopo solo pochi mesi, il personaggio si sposa con Dolores.

Diverso il discorso per il rapporto con Frank Dixon.

Nemico

Il personaggio di Stanley Tucci mi intriga e mi confonde allo stesso tempo.

Se infatti Frank Dixon è indubbiamente un personaggio negativo, superficiale e tirannico, che cerca in ogni modo di rimuovere una figura così intrusiva e ingestibile come Viktor dal suo prezioso aeroporto, anche con trucchi veramente meschini…

…allo stesso modo non mi è chiaro cosa Spielberg volesse raccontare, in quanto sarebbe forse troppo idealistico pensare che questo personaggio sia una rappresentazione piuttosto negativa dell’atteggiamento tutto statunitense nei confronti delle minoranze, specificatamente degli immigrati…

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Tuttavia, il suo contrasto con il protagonista è l’elemento più funzionante della pellicola.

Nonostante infatti Frank cerchi costantemente di domarlo, Viktor rimane fino all’ultimo un personaggio per lui di fatto incomprensibile, nonostante sia guidato da sentimenti umanitari e patriottici molto semplici ed immediati.

Mi ha particolarmente colpito la scena in cui il capo della sicurezza cerca di convincere il protagonista di non voler ritornare in patria, proprio per le condizioni terribili in cui questa versa, rimanendo sbigottito davanti all’istintiva fedeltà che Viktor dimostra verso il suo paese:

Is home. I am not afraid from my home.

È casa mia, non ho paura.
Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

Ma il momento più emozionante è indubbiamente quando il protagonista diventa definitivamente paladino degli ultimi, nella scena in cui riesce a sfruttare la barriera linguistica per salvare un uomo che sta solo cercando di portare le medicine al padre malato.

La situazione si aggrava quando infine Viktor può tornare a casa, ma sceglie di non farlo per portare a termine la missione lasciatagli dal padre, quando finalmente le sue benevole azioni passate gli vengono in aiuto nella forma del supporto collettivo degli altri personaggi.

E proprio qui sta il punto.

Buonismo

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

L’unico elemento che veramente non mi ha convinto della pellicola è il suo buonismo, nello specifico nella seconda parte.

Era evidentemente necessario offrire allo spettatore un collegamento emotivo semplice ed immediato con il protagonista, così da portare ad un finale emozionante e coinvolgente, in cui Viktor riesce finalmente a dare valore all’eredità del padre.

Tom Hanks in una scena di The Terminal (2004) di Steven Spielberg

E se su questo elemento nel complesso posso dirmi soddisfatta, meno mi ha convinto la relazione con Amelia, sulle prime veramente piacevole, alla lunga invece eccessivamente smaccata, con anche una conclusione troncata un po’ anti-climatica.

Per certi versi lo stesso discorso si può applicare alla vicenda di Gupta Rajan, che sceglie infine di sacrificare la propria libertà personale per permettere al protagonista di realizzare il suo sogno, che però è obiettivamente meno importante…

Un semplicismo, insomma, che infine non mi ha lasciato un buon sapore in bocca…

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2023 Avventura Commedia nera Dramma romantico Drammatico Fantascienza Fantastico Film Grottesco La musa Nuove Uscite Film Oscar 2024 Racconto di formazione Satira Sociale Yorgos Lanthimos

Poor Things – La femme sauvage

Poor Things (2023) rappresenta la seconda collaborazione dopo La Favorita (2018) fra Tony McNamara e Yorgos Lanthimos, regista greco ormai affermato nel panorama hollywoodiano.

A fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 35 milioni di dollari – dopo un mese di programmazione negli Stati Uniti ha incassato appena 17 milioni…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Poor Things (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore regista
Miglior sceneggiatura non originale
Migliore attrice protagonista a Emma Stone
Migliore attore non protagonista a Mark Ruffalo
Miglior montaggio
Migliore fotografia
Migliore scenografia
Migliori costumi
Miglior colonna sonora
Miglior trucco e acconciatura

Di cosa parla Poor Things?

In una Londra vittoriana ucronica, Godwin Baxter è un chirurgo di grande fama, particolarmente avvezzo alla sperimentazione umana…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Poor Things?

Dipende.

Poor Things è un film incredibilmente ambizioso e squisitamente provocatorio, facilmente avvicinabile a Barbie (2023) per tematiche e dinamiche, pur con un taglio molto più maturo e sfacciato, soprattutto per l’importante presenza di nudi e di scene erotiche.

Per questo, non la considero una pellicola esattamente per tutti i palati.

In generale, il messaggio di fondo è ben raccontato, pur inciampando in certi momenti in un didascalismo quasi pedante – ma pur sempre ben contestualizzato – e in qualche sbavatura di eccessivo virtuosismo che non mi ha del tutto convinto.

Ma, se questi elementi non vi disturbano, lo potreste facilmente amare.

Nascita

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Poor Things è quasi del tutto sorretto dalla splendida recitazione vocale e corporea di Emma Stone.

Soprattutto nel primissimo atto era fondamentale rendere credibile il comportamento di Bella, una bambinona incapace di muoversi senza barcollare, con un vocabolario limitato a poche parole e un linguaggio sgrammaticato e stentato.

Particolarmente in questo senso efficace la messinscena dei suoi capricci, propri di un qualunque bambino che cerca costantemente di capire i propri limiti sociali, e che per questo si comporta in maniera quasi selvaggia pur di ottenere quello che vuole.

Willem Dafoe in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Ovvero, nel caso di Bella, la libertà.

Piccata e piuttosto graffiante la sua scoperta della sessualità – in un contesto in cui nessuno si è preoccupato di spiegargliela – fra l’altro rappresentata da un simbolo piuttosto eloquente e che ben si integra nella simbologia piuttosto intuitiva del Paradiso Terrestre prima della Caduta.

Non a caso Bella, novella Eva, si masturba per la prima volta con una mela, simbolo della Conoscenza, mentre sia il suo creatore – che lei chiama God, Dio – sia il futuro marito, Max – Adamo – cercano di limitarla e rinchiuderla all’interno di uno stringente regolamento sociale.

Scoperta

Il secondo atto è il momento della scoperta.

Del tutto ignara delle dinamiche sociali che le impedirebbero di vivere al di fuori del futuro matrimonio, Bella si sottrae all’eden di Godwin – che le concede benevolmente il libero arbitrio – e si lascia conquistare dalle tentazioni di Duncan, che le promette la tanto ricercata libertà.

In realtà, questo ingannevole casanova vorrebbe solamente approfittarsi di lei, usandola come la classica amante usa-e-getta, cercando fra l’altro fin da subito di porre un ulteriore controllo su di lei – piuttosto tipico per le figure femminili di oggi e di ieri.

Ovvero, il controllo sul cibo.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Non a caso, fra le prime esperienze che Bella si concede mentre vaga nella città, vi è il rimpinzarsi di quei dolci che Duncan gli aveva negato, finendo per utilizzare il suo amante solamente come strumento per esplorare e godere delle meraviglie dell’esperienza sessuale.

Ma al di sotto della maschera da bambina capricciosa, la protagonista è semplicemente una donna che si rifiuta sistematicamente di sottostare a qualunque tipo di norma sociale – nel sesso quanto nelle chiacchiere futili – desiderando solamente esplorare il mondo terreno ed erotico.

Per questo, Duncan cerca ancora di più di rinchiuderla.

Recinto

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Facendola entrare con l’inganno dentro ad un baule, Duncan cerca di riportare Bella in un recinto.

In realtà la crociera è il momento di maggiore esplorazione di Bella, che comincia anche il suo viaggio intellettuale, arrivando fino alla scoperta del lato più marcio di una società macchiata da un profondo e apparentemente insanabile classismo.

Tuttavia, in questa sequenza si trova anche uno dei pochi elementi che non mi hanno convinto nel film.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Per quanto evidentemente Poor Things voglia abbracciare un femminismo intersezionale e anticapitalista, fallisce nel portare una narrazione incisiva al riguardo, soprattutto considerando quanto spazio invece concede al tema dell’esplorazione sessuale.

La perdita dei soldi sembra infatti quasi un meccanismo della trama per passare all’atto successivo, ripreso solamente dai discorsi proto-socialisti in cui la protagonista si imbatte, ma che vengono affrontati in maniera molto superficiale e senza un adeguato approfondimento.

Identità

Emma Stone e Mark Ruffalo in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Il penultimo atto è per certi versi quello più difettoso.

Il punto più interessante è rappresentato dalla varietà delle esperienze di Bella, che si sottrae ancora una volta alla dicotomia sociale che la vorrebbe incasellare solamente in un ruolo – o madre di famiglia o troia – scegliendo invece di utilizzare il suo corpo come fonte di guadagno – e senza alcuna vergogna.

Così il film ci mette davanti ad una delle sue più graffianti provocazioni.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Secondo Poor Things, se non vivessimo in una società così bigotta, la prostituzione – in questo caso ovviamente idealizzata – potrebbe essere lo strumento attraverso il quale le donne otterrebbero la propria libertà – sessuale e, soprattutto, economica.

Messaggio indubbiamente interessante – articolato anche nelle ulteriori rivendicazioni di Bella riguardo la scelta del partner – che però è stato forse eccessivamente diluito all’interno di un atto che a tratti sembra quasi un intermezzo non così essenziale all’economia narrativa…

Vendetta

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

L’ultimo atto è il momento della verità.

Bella si ricongiunge con la sua famiglia, soprattutto con i due goffi personaggi maschili – Godwin e Max – che si rivelano benevoli nei suoi confronti, riuscendo infine ad arrivare al matrimonio, ma finalmente con condizioni non opprimenti come quelle inizialmente pensate.

Questo momento di apparente ricongiunzione viene però interrotto dall’inizio dell’avventura definitiva della protagonista, che sceglie volontariamente di reimmergersi nel suo misterioso quanto doloroso passato, pur decisa di non farsi nuovamente sottomettere dallo stesso.

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Infatti, il suo alter ego viveva il più classico dei drammi di una nobildonna dell’epoca.

Ovvero, essere intrappolata in matrimonio violento ed opprimente, con un marito crudele ed oppressivo, a cui si era trovata ancora più legata per via del parto imminente, riuscendo a salvare sé stessa solo tramite il suicidio.

La sua condizione – come quella di Bella – era ancora più aggravata dal peso della colpa che le veniva messa sulle spalle, legata prima e dopo alla sua sessualità, talmente esuberante da essere considerata sostanzialmente isterica e, per questo, da domare.

Tuttavia, lo scioglimento della vicenda sembra più che altro ideologico.

Morale

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Se fino a questo momento Bella era un personaggio sostanzialmente positivo, diventa incredibilmente grigio quando sceglie di sparare al marito ed infine di sottoporlo ad un trattamento simile a quello che lei stessa aveva subito, ma in maniera molto più crudele.

Anche se questo finale narrativamente parlando è del tutto coerente, rappresenta anche una scelta che, soprattutto nel contesto del finale in cui evidentemente il femminile è infine dominante, offre forse il fianco ad un tipo di femminismo più radicale e vendicativo che non mi sento di accogliere…

Emma Stone in una scena di Poor Things (2023) di Yorgos Lanthimos

Al riguardo, si viaggia nel periglioso terreno dell’interpretazione personale.

Se infatti da una parte si potrebbe dire che non è corretto considerare Bella come un personaggio effettivamente positivo e rappresentativo del femminile, proprio per la sua apatia e a tratti anche crudeltà…

…allo stesso modo sarebbe stato molto più intelligente inserire un elemento veramente mancante nella pellicola.

Ovvero, un’effettiva maturazione di Bella dal punto di vista relazionale, non solo attraverso la liberazione sessuale, ma anche con la presa di consapevolezza del rispetto necessario fra le parti all’interno di una relazione sana.

Invece alla fine sembra che Bella voglia più sminuire Max che riappacificarsi con lui, in un finale in cui i ruoli sembrano definiti all’interno di una gerarchia, e non di uno stato di parità…

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Il posto delle fragole – La vacuità dell’esistenza

Il posto delle fragole (1957) è uno dei film più importanti della filmografia di Ingmar Bergman: oltre ad ottenere numerosi riconoscimenti – fra cui l’Orso d’oro alla Berlinale – la pellicola influenzò diversi autori successivi, fra cui Woody Allen in Crimini e misfatti (1989)

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto contenuto – incassò 60 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Il posto delle fragole?

Isak è un vecchio dottore che sta per essere premiato per la sua prolifica carriera. Nel viaggio in macchina ripensa alla sua vita e al suo sconcertante egoismo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il posto delle fragole?

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio come per il poco precedente Il settimo sigillo (1957), anche in Il posto delle fragole Bergman imbastisce una profonda riflessione sulla morte, sia tramite i pensieri del protagonista, sia all’interno del mondo del sogno, pur tramite un simbolismo piuttosto immediato.

Non manca anche in questo caso una buona dose di ironia ed autoironia, per ammorbidire i toni di una narrazione piuttosto angosciante ed esistenziale, che trova il suo sfogo più felice nella rappresentazione speranzosa del mondo familiare.

Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre, ma che ero io in tutto e per tutto

I. Bergman

Solitudine

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni.

Queste parole sono fra quelle più significative del breve monologo che apre la pellicola, in cui esplicitamente – e in maniera sorprendentemente neanche pedante – il protagonista racconta sé stesso e la consapevolezza della freddezza della sua esistenza.

In modo simile a Antonius Block ne Il settimo sigillo, Isak deve affrontare il pensiero della morte imminente, in una scena onirica che racconta già moltissimo sui sentimenti del personaggio e sulla sua condizione attuale.

Victor Sjöström in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Con questo incubo Isak viene messo per la prima volta davanti all’angosciosa consapevolezza di star vivendo la sua vita passivamente, in un mondo vuoto, popolato solo da un fantoccio e un orologio senza lancette – che poi rappresenterà l’eredità verso il figlio – e in cui lui, di fatto, è già morto.

Questo turbamento iniziale non muta sulle prime il comportamento del protagonista, anche se lo spinge a vivere più attivamente la propria vita, a diventarne il conducente: scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in aereo, Isak diventa improvvisamente alla guida della sua esistenza…

…e non più solo un osservatore.

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Il primo momento del viaggio è ancora più rivelatorio della personalità del protagonista, con il velenoso quanto amaramente ironico scambio con Marianne, che in un certo senso imputa al suocero il fallimento del proprio matrimonio, proprio per aver trasmesso al figlio il suo medesimo nichilismo.

Ancora di più, Marianne vanifica la maschera dietro a cui Isak nasconde il suo egoismo, beandosi dei suoi successi professionali che lo fanno apparire quasi come un filantropo, ma che non possono ingannare quelle che dovrebbero essere le persone veramente significative della sua vita.

Non puoi ingannarci.

Radici

La prima tappa è anche il primo momento in cui il presente del protagonista si intreccia col suo passato.

Isak infatti cerca di riconnettersi alle sue radici, da cui il senso del titolo, Il posto delle fragole, che nella simbologia svedese rappresenta sia la primavera della vita – la giovinezza – sia, più in generale, le radici della propria esistenza.

In questo quadretto bucolico Isak ci introduce ad un ricordo sempre più angoscioso, in cui sente sostanzialmente di aver perso l’occasione di conquistare l’amore della sua vita, andandosi piuttosto ad incastrare in un matrimonio avvelenato e infelice.

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Questo ricordo lo turba al punto da portarsi inconsapevolmente con sé il passato stesso, rappresentato dal divertito triangolo amoroso fra la giovane ragazza con le sembianze di Sara e i due giovani che la accompagnano, rappresentanti del protagonista stesso e il cugino Sigfrid in giovane età.

Mentre il viaggio prosegue, Isak si ritrova sempre più travolto dall’ottimismo e dall’affetto crescente soprattutto della ragazza, che ha ancora davanti a sé una vita tutta da scrivere, in particolare dal punto di vista relazionale.

Spettatore

Victor Sjöström e Bibi Andersson in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

L’incidente è rivelatorio del lato più disperato del suo passato.

Il rapporto con la moglie.

Nell’incontro con coppia con cui il gruppo quasi si scontra, Isak diventa per la prima volta spettatore della tragedia che era stata il suo matrimonio, fatto di dispetti e rimbeccamenti crudeli, che l’hanno portato proprio alla condizione di profonda solitudine e chiusura in sé stesso.

Davanti allo sgradevole litigio dei due, persino Isak infatti si sente a disagio, e sceglie per questo di farli scendere dalla macchina, in un certo senso allontanando dalla sua vita il comportamento egoista e spiacevole che ha avuto fino a questo momento…

…rappresentato proprio dall’orologio senza lancette che la madre vorrebbe regalare ad Evald.

Questa angoscia si traduce nel secondo incubo, in cui Isak si trova dall’altra parte, ovvero come studente piuttosto che come dottore formato e rinomato, mentre cerca di inseguire quel frammento di ricordo di Sarah che gli ha annunciato la sua morte e il prossimo matrimonio con Sigfrid.

In questo surreale esame Isak si trova davanti alle sue colpe più tragiche, raccontate proprio da quella moglie morta, ma così sorprendentemente viva nella sua memoria, fino ad essere condannato alla solitudine del presente senza possibilità di salvarsi, se non da sé stesso.

L’esaminatore infatti, davanti alla richiesta di clemenza del protagonista, sentenzia:

Non lo chieda a me. Non è compito mio.

Eredità

Victor Sjöström e Ingrid Thulin in una scena di Il posto delle fragole (1957) di Igmar Bergman

Proprio quando Isak perde il controllo della vettura, diventa effettivamente attivo nella sua vita.

L’epifania conclusiva è infatti rappresentata dal racconto di Marianne, che gli mostra quanto pesantemente il suo comportamento abbia influito sulla vita del figlio, il quale, pur ancora giovane, è già freddo, arido e profondamente cinico, soprattutto nel non voler costruire una famiglia con la donna.

Il protagonista vede però ancora una possibilità di salvezza per la coppia e una vita migliore per il figlio, in cui non debba né operare la sua stessa chirurgica operazione di tagliare i ponti con ogni affetto, né negarsi le gioie di un matrimonio il cui successo è tutto nelle sue mani.

Arrivato alla fine della giornata – e della sua vita – Isak riesce finalmente a ricongiungersi con il suo passato e il suo presente, prima venendo salutato affettuosamente dalla frizzante ragazza con le sembianze di Sara, che, proprio come l’amata di cui porta l’aspetto, si congeda per sempre da lui, pur promettendo di continuare ad amarlo.

Allo stesso modo, Isak riesce ad abbandonarsi in un sonno felice dopo che infine il figlio gli rivela di voler risanare i rapporti con Marianne, e mentre ripensa al modello felice di matrimonio – quello dei suoi genitori – che forse potrà finalmente rivedere anche in Evald.

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2021 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film

The Last Duel – La verità

The Last Duel (2021) di Ridley Scott è un dramma storico ambientato nel XIV sec., basato sulla vera storia dell’ultimo Duello di Dio.

A fronte di un budget piuttosto importante – 100 milioni di dollari – è stato un flop clamoroso al botteghino: appena 30 milioni di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla The Last Duel?

Francia, XIV sec. Jean de Carrouges e Jacques Le Gris sono amici e compagni d’armi. Ma una serie di stravolgimenti politici e relazionali metteranno a dura prova il loro rapporto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Last Duel?

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Assolutamente sì.

The Last Duel è una delle opere più ambiziose di Ridley Scott, che riesce a portare in scena con precisione e realismo vicende piuttosto lontane, ma per molti versi anche incredibilmente vicine…

Infatti, il tema centrale è la violenza sessuale e, più in generale, una comparazione più o meno indiretta fra le più classiche dinamiche sessiste che si intersecano nella trattazione del tema, ieri come oggi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Jean The Last Duel

Jean vorrebbe in tutti modi essere l’eroe della storia.

La sua ferocia e intraprendenza viene raccontata fin dalle primissime battute della sua sezione, quando cede all’istinto di vendetta nei confronti del nemico, cadendo così nella sua trappola e perdendo clamorosamente la battaglia.

Nonostante questo, non perde mai la sua boria e supponenza, prima di tutto nei confronti di Robert de Thibouville – il padre di Marguerite – noto traditore della sua patria, rifiutandosi in prima battuta di stringergli la mano e portargli il dovuto rispetto.

Matt Damon e Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma la borsa vale più dell’onore.

Sull’orlo della disgrazia economica, Jean accetta persino di sposare la figlia di un fedifrago, pur di sanare le sue esigue ricchezze, anche solo per riuscire a pagare i nuovi debiti emersi per via suo nuovo padrone, il conte Pierre.

Dal matrimonio in poi comincia una corsa spericolata per ristabilire la sua immagine, del tutto vanificata dalla sua perpetua paranoia e della sua scarsa intelligenza e maturità, che lo rendono accecato dalla rabbia ed incapace di muoversi nella mutata scena politica.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La sua furia è alimentata da due fattori.

Il primo – il più evidente – è la malcelata invidia nei confronti del compagno d’armi e amico Jacques Le Gris, i cui meriti derivano esclusivamente dalla sua capacità di entrare in maniera proficua nelle grazie di Pierre, sfruttando più il potere della penna che della spada.

In questo modo, tuttavia, Jacques rende sempre più isterico Jean, che sente come se l’ex compagno d’armi gli stesse sottraendo sistematicamente i simboli che lo renderebbero un cavaliere onorevole – dai possedimenti alla moglie.

Jean Marguerite The Last Duel

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Il rapporto con Marguerite è l’aspetto su cui più Jean inganna sé stesso e lo spettatore.

Se infatti nella sua visione si racconta come un marito piacente ed affettuoso, che si preoccupa costantemente della felicità della moglie, e che anzi diventa il maggiore artefice della punizione nei confronti di Jacques…

…in realtà nel terzo atto scopriamo come Jean avesse sempre trattato la donna con sufficienza, scegliendola solo per il suo valore economico e per la possibilità di ottenere un erede, la maggior parte delle volte aggredendola ed umiliandola.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Appare in questo senso piuttosto chiaro che il duello con Jacques non abbia niente a che fare con Marguerite.

Ancora una volta, Jean utilizza la moglie unicamente come vettore per i suoi scopi – vendicarsi dei diversi torti subiti dall’ex-amico – al punto che, quando ha infine vinto il duello, è lo stesso re che deve ricordargli della presenza della moglie e del perché – almeno in teoria – ha combattuto.

Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Insomma, Marguerite non era altro che un bene prezioso da ottenere e conservare con cura, come racconta molto bene il foreshadowing della violenza sessuale, con il cavallo bianco che viene aggredito dallo stallone nero senza che Jean possa farci nulla…

La stessa cavalla, dopo essere stata aggredita, verrà messa sottochiave.

Esattamente come Marguerite.


Jacques The Last Duel

La verità di Jacques è quella che più si avvicina alla verità effettiva.

Nonostante ovviamente le sue sequenze siano filtrate dal suo punto di vista, appare quantomai credibile che il rapporto con Jean si sia guastato non per sua volontà: come detto, l’uomo ha raccolto semplicemente i frutti della sua abilità intellettuale.

Viene infatti mostrato chiaramente come Jacques sia molto di più di un bruto cavaliere, ma anche un intellettuale – non a caso fa parte anche di un ordine clericale minore – capace di sistemare i conti di Pierre e di leggere in latino.

Ben Affleck in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, come Jean ha una relazione distruttiva con il conte, Jacques ne ha invece una costruttiva.

Appena vede l’occasione per mettersi in mostra agli occhi del suo nuovo padrone – soprattutto dopo i fallimenti bellici e dopo le continue difese nei confronti di Jean – Jacques si propone con ardore e veemenza come salvatore dei conti di Pierre.

In questo modo, questo dotto cavaliere riesce a salire con una velocità vertiginosa la scala sociale, diventare così il protetto del conte e poter avere – almeno apparentemente – tutto quello che desidera: il denaro e, soprattutto, le donne.

Adam Driver Ridley Scott

Adam Driver in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Ma, se la colpa di Jean è la testardaggine e la boria, Jacques è da parte sua ubriaco di una concezione amorosa del tutto deviata.

Infatti, la sua cultura lo rende vittima della tradizione trobadorica – ormai al tramonto – e di quella concezione amorosa tardo-medievale basata principalmente su una visione romantica e idilliaca delle relazioni con le donne.

Oltretutto Jacques si trova immerso in un mondo del tutto ingannevole – quello della corte di Pierre – in cui può avere accesso a tutte le donne che desidera, in particolare all’interno del gioco erotico che le rende solo lievemente restie all’essere violentate.

Jodie Comer in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Queste due tendenze si incrociano nella figura di Marguerite.

Da quei pochi e sparuti incontri e sorrisi della donna, Jacques costruisce un complesso castello mentale in cui assume il ruolo di liberatore amoroso della donna, quando questa si è limitata ad essere semplicemente gentile nei suoi confronti.

Così, il disperato tentativo di Marguerite di sfuggire dalle sue attenzioni nella sua visione è ammorbidito e reinserito all’interno della suddetta dinamica erotica – l’unica che Jacques concepisce – rendendo la donna solo educatamente restia ad unirsi a lui.

Per questo, Jacques non capirà mai le sue colpe.


Marguerite The Last Duel

La sezione di Marguerite ci rivela molto più di quanto ci aspetteremmo.

Marguerite è una giovane moglie all’apparenza piuttosto mansueta, ma che in realtà cova dentro di sé un certo tipo di ribellione sopita, che emerge proprio quando si sente chiaramente usata come oggetto – sessuale o di scambio.

Così, anche se non detto, la protagonista aveva altre aspettative nei riguardi del suo matrimonio: quando il padre e il futuro marito discutono sulla dote – riducendo la donna a mera quota economica – il suo sguardo guizza alla statua della Madonna – l’emblema della femminilità e del matrimonio.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Così, la relazione sessuale con Jean fa sbocciare diversi dubbi.

Viziata dalle promesse di una sicura piccola morte – l’orgasmo – Marguerite si trova più volte insoddisfatta degli intercorsi con il marito, ma del tutto incapace di concretizzare questo pensiero, proprio per mancanza di termini di paragone.

Allo stesso modo, il desiderio di maternità continua per molto tempo ad essere un miraggio lontano, forse dettato non tanto dal desiderio di avere un figlio, ma più che altro di ottenere l’unico simbolo che le darebbe valore come donna all’interno della società in cui vive.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Infatti, il suo vero riscatto è quello intellettuale.

In assenza del marito, Marguerite riesce a riprendere in mano la caotica situazione economica della tenuta proprio grazie al suo intelletto – con un parallelismo puntuale fra la sua vicenda e quella di Jacques.

Così la donna si rivela piuttosto abile nel gestire la sua tenuta, proprio dove il marito ha dimostrato più volte di fallire. Ma serve a poco: agli occhi di tutti gli uomini è ridotta al mero ruolo di moglie e madre, e nient’altro.

Marguerite Ridley Scott

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

La relazione con Jacques è piuttosto problematica.

Sarebbe stato molto più semplice per Marguerite raccontare in maniera netta il suo rapporto con il cavaliere, se non avesse avuto dei pensieri intrusivi al riguardo: indubbiamente la donna trova Jacques attraente, forse prova anche una certa attrattiva nei suoi confronti…

Ed infatti tutti questi dubbi le vengono rivoltati contro – in una dinamica drammaticamente attuale – in fase processuale, mettendo pure in dubbio il fatto che non abbia un minimo goduto durante la sua violenza sessuale.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Tuttavia, il suo personaggio è incredibilmente coi piedi per terra.

Tutti i dubbi riguardo a Jacques scompaiono nel momento in cui l’uomo penetra la sua casa con l’inganno, la carica di sentimenti e aspettative che la donna aveva solo lontanamente sfiorato, e, infine, la prende con la forza in una sequenza genuinamente straziante.

E la sua vendetta nei confronti di Jacques non è un tentativo di cercare una rivalsa sociale, ma piuttosto dettata dal desiderio di avere quel minimo di riscatto in una società che cerca invece costantemente di schiacciarla.

Jodie Comer e Matt Damon in una scena di The Last Duel (2021) di Ridley Scott

Eppure, la stessa Marguerite si dimostra restia a portare avanti la sua denuncia quando scopre che in questo modo la sua vita sarà ancora una volta in mano a quegli stessi uomini che hanno costantemente cercato di violarla, col rischio di essere duramente punita.

Infatti, la vera vittoria di Marguerite non è il trionfo del marito – quella è un successo proprio unicamente di Jean – ma piuttosto il riuscire infine a liberarsi della presenza castrante dell’uomo, e così ritagliarsi una vita tutto sommato felice e, finalmente, libera.

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Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2024

Maestro – Virtuoso

Maestro (2023) è la seconda opera, dopo A Star Is Born, in cui Bradley Cooper si cimenta come regista.

Il film è stato distribuito limitatamente negli Stati Uniti, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Maestro (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore attore protagonista a Bradley Cooper
Miglior attrice protagonista a Carey Mulligan
Miglior sceneggiatura originale
Migliori fotografia
Migliore trucco
Migliore sonoro

Di cosa parla Maestro?

La pellicola ripercorre per sommi capi la vita di Leonard Bernstein, importantissimo direttore d’orchestra e compositore di brani iconici, fra cui spicca West Side Story.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Maestro?

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

In generale, sì.

Bradley Cooper si cimenta in una regia ambiziosa, con interessanti tocchi e sperimentazioni artistiche, a fronte di una storia non particolarmente interessante, anzi che rappresenta dinamiche piuttosto comuni di un classico dramma familiare.

Oltre alla regia, l’attore statunitense si impegna anche in un‘interpretazione estremamente varia e coinvolgente, che riesce a portare sullo schermo in maniera verosimile un uomo dal carattere esplosivo quando estremamente imprevedibile.

Il sogno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il primo atto di Maestro è il momento del sogno.

Il protagonista si sveglia improvvisamente, appena visibile nelle tenebre della stanza, e comincia a parlare sommesso e ansioso al telefono, immerso in un’atmosfera quasi lugubre, che farebbe pensare a tutto tranne che ad una buona notizia…

…e invece la scena si rianima improvvisamente, immersa in una luce e in un’atmosfera festosa in cui il Leonard comincia a parlare concitato ed eccitato, correndo verso l’occasione della vita: condurre la sua prima orchestra in pubblico.

Bradley Cooper e Carey Mulligan in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Questa atmosfera festosa si trascina fino all’incontro con Felicia.

Per le loro sequenze Cooper sperimenta in maniera piuttosto equilibrata con l’elemento metanarrativo, per cui il protagonista e la futura moglie entrano ed escono più volte come dal palcoscenico…

…fino al momento in cui Leonard prende parte ad uno dei suoi brani più famosiNew York, New York – che racconta proprio il futuro che gli si apre davanti agli occhi e la crescente creatività ed emozione che accompagna la sua arte.

Ma non mancano gli elementi di disturbo…

Il risveglio

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il secondo atto è visivamente contraddittorio.

Negli ultimi momenti della prima parte già si intravedevano le prime ombre sia del personaggio, sia del suo rapporto con Felicia – il discorso sul desiderio di morte del padre e la malinconica chiusura della relazione con David.

Degli elementi che ben si integravano all’interno del rigoroso e romantico bianco e nero, ma che risultano davvero fuori posto nelle tinte piene della seconda parte, con un protagonista ormai incanutito, ma ancora del tutto incapace di rimanere fedele alla moglie.

Infatti, Leonard si sente in una gabbia.

Da un lato non è del tutto sicuro della sua prossima avventura artistica, sentendo la passione e la creatività che si spengono, vedendo che l’estate che non gli parla più come un tempo, mentre si districa in un mare di appuntamenti e riconoscimenti da cui non si sente rappresentato.

Al contempo, per quanto il protagonista cerca di chiudere gli occhi davanti alla ruggine che emerge con Felicia, la donna è sempre più evidentemente stanca ed insoddisfatta, quasi esasperata dal comportamento infantile del marito.

L’apice è raggiunto dall’angosciante confronto con la figlia, dopo essere stato comandato a bacchetta dalla moglie di non rivelare il suo segreto, una parte di sé che si sente sempre più esasperato nel dover nascondere…

Ritorno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

A questo punto, si apre una breve parentesi di smarrimento.

Con il concerto successivo, finalmente Leonard si apre al mondo e si sottrae alla sua famiglia, diventando sempre più assente con gli affetti e incontrollato nei comportamenti, cercando ancora costantemente di scappare dai suoi legami.

Ma il ricongiungimento è possibile ancora tramite la musica: pur essendosi convinta di star bene da sola, in realtà Felicia cova una profonda tristezza nell’essersi separata dal marito, rianimandosi quando lo vede condurre con incontenibile passione l’orchestra che tanto ama.

Così, finalmente, capisce e apprezza il lato buono della sua personalità.

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

I momenti conclusivi sono profondamente malinconici.

La chiusura di Felicia è la sezione più drammatica, con la regia che indugia costantemente sul suo volto provato, e non ci nasconde il suo struggimento, il suo desiderio di isolarsi, ormai inevitabilmente pronta alla morte.

Leonard dal canto suo riflette mestamente sugli ultimi anni della sua vita, in cui non si è mai veramente lasciato alle spalle le avventure sentimentali, riuscendo anche al contempo a mettersi da parte e a lasciare il posto ai futuri talenti.

Ma nel suo discorso commosso capiamo che l’unica parte della sua vita che ricorda davvero con felicità è quella con Felicia.

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C’è ancora domani – Il futuro è nostro

C’è ancora domani (2023) rappresenta lo splendido esordio alla regia di Paola Cortellesi, nonché uno dei più grandi successi commerciali e di pubblico del 2023.

Infatti, a fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 8 milioni di euro – ha trionfato con 32 milioni di euro di incasso.

Di cosa parla C’è ancora domani?

Italia, 1946. Dalia è intrappolata in un matrimonio violento, con un marito che la maltratta e la umilia costantemente. Ma il futuro è ancora tutto da scrivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere C’è ancora domani

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Assolutamente sì.

C’è ancora domani è una splendida opera prima che riporta sullo schermo un elegantissimo neorealismo – che ricorda titoli fondamentali della nostra filmografia come Una giornata particolare (1977) e Ladri di biciclette (1948) – ma per raccontare un tema assolutamente attuale.

Così la tematica della violenza di genere è ben contestualizzata in un’Italia appena uscita dal Ventennio, per una pellicola che riesce ad appassionare per la bellezza dei suoi personaggi e l’ottima scrittura, non ricadendo quasi mai in scelte banali e prevedibili, anzi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La passerella

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

C’è ancora domani si apre con la passerella della vergogna.

Dalia entra nel nuovo giorno con uno schiaffo che le ricorda la pochezza della sua condizione: una casalinga rintanata come un ratto in un deprimente seminterrato – con un simbolismo molto potente che ricorda alla lontana Parasite (2019) – e in balia della violenza di un mondo ingiusto.

Infatti, dopo aver sopportato l’umiliazione dei due grandi patriarca della casa – il marito violento e la manina del suocero – la protagonista si immerge in un mondo che giustifica costantemente la sua condizione, il suo stare ai margini e, sopratutto, la violenza di Ivano.

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Tuttavia, Dalia non è del tutto in balia degli eventi.

Un senso sotterraneo di ribellione, di rivalsa è in qualche modo presente in lei – come si nota soprattutto nel modo in cui tratta il vecchio Ottorino – fomentata sia dalle ingiustizie che vede intorno a lei, sia dall’intraprendenza della sua amica Marisa.

In particolare, Dalia è consapevole di non essere quello che il marito le dice, ovvero una donna inutile e senza valore: al contrario, si impegna a trovare il suo angolo di libertà, si destreggia fra più lavori, mette da parte un piccolo gruzzolo, medita su come aiutare la figlia…

La danza

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La danza con Ivano è rivelatoria.

Paola Cortellesi sceglie consapevolmente di non inserire una scena di violenza tanto per inserirla, ma proprio per caricarla di uno specifico significato: il ballo fra i due personaggi rappresenta la dualità del loro rapporto, fra violenza e amore.

Insomma, si racconta con una messinscena piuttosto indovinata la rete in cui ci si impiglia nelle relazioni violente: per quanto la violenza sia reiterata e devastante, la stessa è accompagnata da momenti di scuse, di giustificazioni, di bombardamento affettivo (love bombing) – infatti, successivamente, dopo averla picchiata, Ivano la invita a ballare.

Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Inoltre, nonostante Ivano sia un personaggio veramente terribile, il suo comportamento è ben contestualizzato nell’eredità della famiglia del Ventennio – e non solo – in cui è del tutto normale punire costantemente queste stupide donne.

E, soprattutto, la sua violenza è costantemente giustificata da sé stesso e dagli altri personaggi maschili – che lo scusano per l’essere nervoso, per aver fatto due guerre – e taciuta dai personaggi femminili, in particolare il terzetto dell’omertà delle donne del cortile che ascolta impotente le urla di Dalia…

Il tavolo

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il tavolo è un simbolo costante e fondamentale in C’è ancora domani.

Il film fa indirettamente riferimento al concetto di sitting at the table, proprio del pensiero femminista, che ribadisce l’importanza per le donne di avere coraggio di sedersi al tavolo delle decisioni, e così riprendere in mano il proprio futuro.

Per questo Dalia non si siede mai al tavolo, ma è sempre in piedi, rinchiusa nella sua figura ancellare, con due eccezioni: quando si siede al tavolo secondario della cucina – in cui è più volte scacciata – con la figlia…

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

…e, soprattutto, quando viene invitata dall’altro patriarca – il padre di Giulio – a sedersi al tavolo della domenica, per poi essere immediatamente scacciata dallo stesso dal marito, per poi riprovare a sedersi, ma proprio nel momento in cui i due uomini si alzano, per essere infine definitivamente esclusa quando Ottorino le ruba il posto.

Così Dalia cerca costantemente di far sedere la figlia Marcella al tavolo, quando nella prima scena la stessa si rifiutava di farlo, proprio nel suo costante tentativo di portarla lontano dalla sua deprimente condizione.

La gabbia

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il rapporto fra Marcella e Dalia è fondamentale.

La loro relazione è fin da subito estremamente antagonistica, in particolare da parte della figlia, che disprezza esplicitamente la madre per non essere capace di liberarsi dalla sua condizione, ma anche del tutto ingenua davanti alla mancanza di alternative per Dalia.

Ma il maggior impegno della protagonista è proprio quello di poter offrire alla figlia una condizione di vita migliore – soprattutto dal punto di vista economico – mettendo da parte i soldi per portarle dare l’inizio migliore possibile: uno splendido abito da sposa.

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Per questo il risveglio di Dalia è profondamente legato alla figlia.

Quando la protagonista comincia a notare le stesse dinamiche che caratterizzarono i primi momenti del rapporto con Ivano – proprio nella classica dinamica dell’uomo violento nascosto in ogni ragazzo perbene – comincia a capire di star regalando a Marcella non un futuro, ma una gabbia.

Per questo sceglie finalmente di agire, anche in maniera piuttosto pericolosa, per vanificare quel futuro matrimonio violento, dal momento che i suoi tentativi più cauti di dissuadere la figlia nell’andare ad incastrarsi nel suo stesso incubo cadono nel vuoto.

Ed è solo l’inizio.

L’alternativa

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La condizione femminile non guarda alla classe sociale.

Per questo piuttosto interessante l’incrocio di sguardi fra Dalia, il ritratto della donna di un’epoca lontana nella casa in cui va a fare l’infermiera, e la padrona della casa stessa: con questo semplice rappresentazione, C’è ancora domani racconta una situazione femminile poco mutata nel tempo.

Se infatti persino una nobildonna del passato poteva godere di poco spazio nelle scelte politiche, così la padrona di casa che cerca di intervenire – sempre in piedi – nel tavolo di discussione degli uomini – figlio e marito – viene scacciata.

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

L’alternativa è invece Marisa.

Fin da subito si racconta come l’amica sia in una situazione matrimoniale ben diversa, in cui riesce ad essere il capofamiglia e, sopratutto, a godere di un marito piuttosto affettuoso, e che, soprattutto, la sostiene come compagna, e non come serva.

Questo è particolarmente chiaro nella scena in cui Marisa vede passare una donna incinta e si intristisce, essendo probabilmente sterile, ma subito il compagno la cinge a sé, confermando che il suo amore non è vincolato al suo ruolo di madre e moglie.

Non a caso, quando si convince a ribellarsi, Dalia si raccoglie i capelli come l’amica.

Domani

Teoricamente, l’alternativa per Dalia è Nino.

Inizialmente infatti Dalia si convince a scappare con lui, così da sottrarsi al suo matrimonio da incubo e trovare finalmente qualcuno che la ama e la rispetta.

Questa scelta mostra un momento di un effettivo tentativo di indipendenza dal marito – in particolare nella fretta e nell’affronto di camminargli davanti – apparentemente del tutto vanificata dalla morte dell’altro patriarca.

Ma c’è ancora domani.

Con il suo splendido finale, la pellicola ci mostra qual è la vera alternativa alla società in cui viviamo: non scappare, non cercare una salvezza in uomini migliori, ma invece prendere un effettivo posto al tavolo delle decisioni.

E così finalmente Marcella guarda con rispetto e gioia la madre – che le sta regalando un vero futuro, con il voto e con la possibilità di un’istruzione – e finalmente Dalia non è in basso, per terra rispetto al marito, ma lo sovrasta in cima alle scale…

…spalleggiata da quelle stesse donne che non l’avevano aiutata fino a quel momento, che anzi l’avevano osteggiata, ma che ora diventano finalmente sue alleate.

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La Favorita – Pennellate di distruzione

La Favorita (2018) è la prima produzione di Yorgos Lanthimos in cui non appare anche come sceneggiatore e la prima collaborazione con la sua futura musa, Emma Stone.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 15 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla La Favorita?

Inghilterra, 1708. Sul trono siede la Regina Anna, insidiata dalla sua vecchia amica e amante Lady Marlborough, che tiene in mano le redini del regno. Ma qualcosa sta per cambiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Favorita?

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

In generale, sì.

Per quanto l’abbia in generale rivalutato ad una seconda visione, non è un film che comunque mi entusiasma, ma se riuscirete a lasciarvi rapire dall’estetica barocca e da una storia per molti versi estremamente trucida, lo apprezzerete molto.

Personalmente per un period drama io preferisco una rappresentazione più romantica e dall’estetica più ricercata come in Marie Antoinette (2006), ma è indubbio che questo prodotto sia un passo avanti per l’opera di Lanthimos a livello di scrittura.

Peccato che non l’abbia scritto.

Controllo

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

La Favorita si basa sulla naturale debolezza che definiva la scena politica con al centro il potere regale.

Si poteva avere una regina che comandava con consapevolezza come un secolo prima Elisabetta I, oppure un personaggio molto più fragile come Anna Stuart, costantemente in balia dagli stimoli di personaggi esterni come Lady Marlborough, che di fatto governa al suo posto.

Olivia Colman e Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

E sono inutili i tentativi di Robert Harley di prendere di petto questa intraprendente nobildonna, e altrettanto futile provare a far ragionare una regnante del tutto incapace di comprendere la scena politica che dovrebbe essere in grado di governare.

Ma, come ci ricorda lo stesso Harley, il favore è un vento che facilmente cambia direzione…

Pennellata

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Come per tutto il terzetto di protagonisti, Lady Marlborough non è un personaggio del tutto negativo.

Sulle prime sembra abbozzato come il villain della storia, come una serpe che si approfitta dalle debolezze di Anna, lusingandola con l’attrattiva sessuale e approfittandosene per guidare le sorti del regno a vantaggio della sua famiglia.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Al contempo, la sua posizione sembra talmente inscalfibile che può persino permettersi di maltrattare e insultare la sua stessa regina, con un comportamento che stupidamente rende spesso infelice la stessa, che vorrebbe essere semplicemente adorata e coccolata come una bambina.

E proprio in questo problema si insidia Abigail.

Insidia

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Inizialmente, Abigail è un personaggio passivo.

Una nobile decaduta ridotta ad essere una sguattera della cucina, costantemente vessata, nonostante le sue buone intenzioni, riuscendo a salvarsi grazie alla sua inventiva e alla sua intelligenza, che le permette di diventare improvvisamente interessante per Lady Marlborough.

Comincia così un’apparentemente timida risalita, in cui, come una bambina, la donna osserva attentamente le dinamiche e le tattiche della sua nuova padrona, e rimane sulle prime restia, anzi quasi imbarazzata dalla malignità e i sotterfugi che affiggono la corte.

Infatti, sulle prime non vuole partecipare.

 Robert Harley la tenta immediatamente al suo grande gioco politico, avvertendola anche sulla fragilità della sua posizione, su come i modi per rafforzarla e renderla definitiva ci sono, se solo li volesse accettare – altrimenti…

L’ultimo atto di questa resistenza è il confronto con Lady Marlborough, che, sorprendentemente si mostra del tutto allergica a questa presunta fedeltà della sua sottoposta, e la minaccia in maniera non dissimile dal suo nemico.

E allora è il momento di cambiare.

Spazio

Abigail deve trovare il suo spazio.

E la sua tattica è rendersi prima di tutto un’alternativa allettante all’attuale favorita della Regina, sia per l’amabilità del suo carattere – mai ostile né punitivo come quello di Lady Marlborough – sia per la sua attrattiva sessuale – mostrandosi casualmente nuda davanti alla sua preda.

E se la sua padrona cerca di cacciarla in fondo alle scale, la giovane donna non ci sta, e tenta il tutto e per tutto: mostrarsi anche lei vittima delle angherie della terribile Lady Marlborough, rendendosi uno specchio doloroso,- ma al contempo allettante – della condizione stessa della regina.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Ma la Favorita non è un ruolo facile da ottenere.

Proprio quando sembra essersi presa il suo posto accanto alla Regina, Abigail si rende facilmente conto che non sarà semplice scalzare la sua contendente, che può godere di una relazione profonda e duratura con Anna.

Così sceglie di metterla forzatamente fuori scena, diventando la protagonista della vita della Regina, acquisendo alleati politici fruttuosi che le permettono di ottenere quello che ormai sente di possedere di diritto: il titolo che gli è stato rubato.

E ormai fa parte del gioco.

Status

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Abigail e Lady Marlborough non hanno gli stessi obbiettivi.

Nell’ultimo atto le loro posizioni assumono dei contorni più netti: per quanto il principale risultato del suo status favorito per la Regina fosse una posizione politica chiave per la sua famiglia, Lady Marlborough aveva anche altri interessi in gioco.

Nella sua apparentemente malvagità e sfacciataggine, era evidentemente legata con un rapporto di profondo affetto per Anna, che sceglie infine di allontanarla non tanto per le sue ruberie, ma per averla costantemente tradita, per non aver mai cercato di risaldare i rapporti – o almeno così sembra…

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Invece Abigail è fin troppo sicura.

Mentre si gode la sua nuova posizione nell’ultimissima scena del film, la donna dimostra un’assoluta predominanza della situazione, che la porta fisicamente a schiacciare uno dei figli di Anna – e, per estensione, Anna stessa – semplicemente perché può farlo.

A questo punto arriva la drammatica realizzazione della Regina, spogliata del suo status e derubata di un effettivo affetto al suo fianco, che cerca di riportare al suo posto quella terribile sanguisuga, in un disperato tentativo di rivalsa…