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Fratello, dove sei? – L’odissea della depressione

Fratello, dove sei? (2000) è una libera reinterpretazione dell’Odissea da parte di Joel e Ethan Coen.

A fronte di un budget piccolino – 26 milioni di dollari – è stato un buon successo commerciale: 71 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Fratello, dove sei?

Mississippi, 1937. Nel pieno della Grande Depressione, un terzetto di galeotti tenta la fuga dai lavori forzati. Ma il loro ritorno a casa sarà un’effettiva odissea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fratello, dove sei?

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

In generale, sì.

Fra i film dei Fratelli Coen è forse quello che finora mi ha meno colpito, nonostante non manchi degli elementi tipici del duo: un’avventura a sfondo criminale con protagonisti degli anti-eroi fra il comico e il grottesco, condito con una buona dose di surrealismo.

Tuttavia mi è parsa più una simpatica parentesi di una storia che funge quasi da scusa per raccontare uno spaccato di un periodo piuttosto turbolento degli Stati Uniti, attraverso un colorito gruppo di personaggi che, proprio come nell’opera omerica, sono una distrazione per il vero obbiettivo del protagonista.

Ma vale comunque la pena di dargli un’occhiata.

Destino

George Clooney in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

I tre protagonisti scoprono immediatamente il loro destino.

Riducendo fortuitamente a sfuggire dal controllo delle guardie, tentano immediatamente la via più semplice per mettersi in viaggio: un treno merci su cui sperano di incontrare qualcuno capace di rompere le loro pesanti catene…

…per essere bruscamente riportati nella realtà dell’arida terra del Mississippi, per un viaggio che potrà essere fatto solo a piedi o con mezzi di fortuna, per raggiungere il fantomatico tesoro.

E proprio il loro primo incontro con questo Omero moderno, nei panni di un vecchio cieco che percorre in cerchio la linea dei binari con la sua bizzarra draisina che non sembra portare da nessuna parte…

…ma che gli svela la verità sul loro destino: un tesoro che in realtà sarà portatore di molti guai, predizione che viene però presa e ribaltata – come molte volte nel film – a piacimento di Ulysses.

E qui si sviluppa un argomento fondante della pellicola.

Occasione

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti sono la terra delle occasioni…

…oppure no?

Il drammatico bozzetto di Fratello, dove sei? raccolta gli spasmi di un paese che arranca in una crisi senza precedenti, che ha visto negare le prospettive di crescita e di ricchezza da sempre proprie dell’immaginario comune.

Ma lo spirito non viene mai veramente abbandonato, e i personaggi farebbero di tutto pur di evadere la miseria presente…persino vendere i propri stessi familiari alla polizia, proprio per un sogno di arricchimento continuamente inseguito in un panorama umano desolante.

Ma c’è anche un’altra faccia della questione.

Come appunto la miseria è reale, le possibilità di arricchimento sono a portata di mano: proprio nel suo vivere alla giornata, Ulysses e il suo terzetto abbracciano la possibilità raccontata da Tommy Johnson, che ha venduto la sua anima al diavolo perché non ci faceva nulla – in altri termini, non gli dava da mangiare.

E così, tramutandosi continuamente all’occorrenza – da band di afroamericani a gruppetto folk di bianchi – riescono effettivamente a muovere il primo passo verso la tanto aspirata popolarità – e, ovviamente, guadagno.

Identità

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una bandiera comune.

Ovvero, il razzismo.

In un mondo in cui il Dio è diventata ormai una moneta di scambio, vi è una realtà dietro le quinte che cerca sottilmente di affacciarsi nella politica di un paese immerso in una disperazione senza via d’uscita: il Ku Klux Klan.

Infatti non ci vuole molto per scoprire che le promesse di un futuro migliore dell’aspirante nuovo governatore nascondono un movimento reazionario profondamente razzista, che cerca di attuare un’opera quasi di purificazione.

E proprio a questo movimento estremista si intreccia in maniera piuttosto interessante il poema omerico: come Big Dan Teague è evidentemente una riproposizione moderna del mitologico Ciclope, la sua figura è anche quella del Gran Ciclope, ovvero una delle più alte cariche del Klan.

Ma davanti a questa povertà ideologica, un futuro è possibile?

Futuro

Ulysses può essere letto come una personificazione del Sogno Americano.

Incatenato, ridotto nelle peggiori condizioni possibili per sua stessa colpa, il protagonista tenta in tutti i modi di ricongiungersi con la moglie – ovvero, con il suo popolo – nonostante la stessa abbia ormai perso fiducia in lui, con una nuova generazione – le figlie – che non sa neanche della sua esistenza.

Infatti la moglie ha ormai spezzato il legame, ha ormai lo sguardo puntato verso qualcosa di più concreto – il nuovo marito – che non sia costruito su promesse vuote e senza significato, ma su una prospettiva reale di un futuro forse meno appagante, ma sicuramente più raggiungibile.

John Turturro, George Clooney e Tim Blake Nelson in una scena di Fratello, dove sei? (2000) di Joel e Ethan Coen

E infatti la riconquista della moglie avviene per due strade.

Anzitutto, grazie alla riconferma sociale: il futuro governatore rieletto nomina i Soggy Bottom Boys come suo braccio destro, prospettandogli un solido futuro lavorativo ed economico, che permette alla moglie di credere nuovamente in Ulysses.

Ma altrettanto essenziale è il recupero dell’anello, simbolo di una ricchezza promessa – e, in passato, ottenuta – che però si perde nei flutti di una inondazione biblica – la guerra? – che farà piazza pulita degli Stati Uniti…

…ma che sarà anche un’occasione per ricominciare con il Boom Economico pochi decenni dopo.

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2022 Avventura Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Horror Tri West

Pearl – Una ragazza e il suo sogno

Pearl (2022) di Ti West, è il prequel di X (2022), uscito lo stesso anno, in questo caso parzialmente co-scritto dall’attrice protagonista Mia Goth.

A fronte di un budget simile al precedente – 1 milione di dollari – ha avuto un riscontro similare: quasi 10 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Pearl?

Tornando cinquant’anni indietro, scopriamo l’origine della violenza cieca del killer del primo film…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pearl?

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Assolutamente sì.

Arrivata alla visione del secondo capitolo carica di aspettative, non sono stata per niente delusa: Pearl riprende ed amplia il discorso di X, esplorando un tema sociale particolarmente attuale, anche se in un contesto sociale lontano nel tempo.

Un Ti West, fra l’altro, molto onesto con sé stesso: pur affrontando un tema più impegnativo, mantiene una scrittura ed una messinscena semplice e diretta, portatrice di un messaggio piuttosto immediato, ma non per questo banale.

Ma, ancora una volta, ve lo lascio scoprire.

Sogno

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Pearl è una ragazza piena di sogni.

Fin dall’inizio appare immersa nella sua fantasia di cavalcare le scene di Hollywood e così di evadere l’arida realtà in cui è costretta, che infatti irrompe bruscamente nel suo sogno nelle vesti della severa figura della madre, che fin da subito cerca di distruggere le sue speranze.

E lo scontro fra questi due personaggi non è tanto diverso da quello fra Pearl e Maxine nel primo capitolo: un antagonismo apparentemente distruttivo, in realtà dovuto a cause più profonde, fra l’amarezza del presente e la cautela per il futuro.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

La madre infatti cerca di portare Pearl lontano da quello che un tempo era il suo sogno – rappresentato dai vestiti non più indossati – che ormai ha compreso essere impossibile, cercando di proteggerla da insidie a cui la figlia sembra completamente cieca.

Perché della realtà Pearl vede solo una parte.

Fuga

La protagonista è alla ricerca del suo posto nel mondo…

…quello che le appartiene per diritto.

Infatti fin da subito Pearl deve essere la protagonista della scena, deve essere la star, arrivando a punire in maniera molto infantile chiunque sembri mettersi sul suo cammino persino un’innocente oca che fa capolino in scena, curiosa del suo spettacolo.

E ogni ostacolo è dato in pasto al fedele coccodrillo, il quale, ancora di più rispetto al primo film, può essere letto come rappresentazione di una società solo apparentemente alleata della protagonista nel raggiungimento del suo sogno.

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Così nella fuga in città Pearl ritorna finalmente nel suo luogo dei sogni, il cinema, che rappresenta perfettamente il dualismo della pellicola: uno splendido spettacolo di danza preceduto da un angosciante spaccato della guerra ancora in corso.

E proprio qui Pearl dovrebbe trovare la sua via di fuga…

Brandello

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

Il ragazzo senza nome del cinema è solo una delle tante illusioni di Pearl.

Nient’altro che un brandello di un mondo irraggiungibile, pari il piccolo fotogramma che la protagonista conserva gelosamente sulla via di casa, che inaspettatamente porta anche alla prima effettiva realizzazione del suo sogno…

…ma non più in uno spettacolo cinematografico, ma in una scena erotica – proprio come il porno amatoriale che lo stesso uomo dei sogni le farà vedere di nascosto – e con un fantoccio che rappresenta l’amante proibito che la protagonista è ancora restia ad accogliere.

Ma Pearl è stanca di tutte queste illusioni.

Di fronte alla possibilità concreta di fuggire dalla tediosa esistenza della fattoria, la protagonista comincia effettivamente a disfarsi di quanto la potrebbe ostacolare, prima di tutto l’odioso peso del padre, una delle principali cause della caduta in disgrazia della famiglia.

Ma in realtà la sua prima vittima è la madre, che cerca ancora più bruscamente di riportarla con i piedi per terra, utilizzando la sua sfortunata sorte come monito di quello da cui la figlia dovrebbe stare lontana, piuttosto che abbracciare così ingenuamente.

Ma ormai nessuno può fermare Pearl.

Spettro

Pearl vorrebbe lasciarsi tutto alle spalle, ma non può.

Non davvero.

Lo ben dimostra il sogno in cui Pearl è diventata una star di successo, rovinato dalla inquietante presenza degli spettri del suo passato, maliziosamente presenti fra il pubblico con il volto deturpato dalle colpe della protagonista.

Comincia così una corsa inarrestabile verso l’occasione che le cambierà la vita, in cui persino un ragazzo che solo esprime una comprensibile inquietudine nei confronti dello strano comportamento di Pearl diventa inevitabilmente vittima della sua furia.

E allora, non dovrebbe essere ora si vincere?

Perdere

Mia Goth in una scena di Pearl (2022) di Ti West, sequel di X: A sexy horror story (2022)

L’audizione non è una semplice audizione.

Rappresenta invece il momento in cui Pearl mette alla prova il sogno che le è stato venduto, per cui ha letteralmente dato via ogni parte della sua vita, e dal quale ora si sente finalmente di dover essere premiata.

E invece la realtà torna ulteriormente a bussare alla sua porta, mettendola davanti ad un mondo dove non basta essere bravi, ma dove bisogna anche essere nel posto giusto al momento giusto, dove è necessaria anche la faccia giusta

E con questa amara realizzazione, finalmente Pearl diventa onesta con sé stessa, intraprendendo un intenso dialogo col fantasma del marito, spettro sempre presente anche in precedenza, considerato come l’ostacolo invalicabile per la realizzazione del sogno.

E così, eliminato l’ultimo testimone, non resta che ricostruire un’altra facciata, quella della famiglia perfetta…se non fosse che il cibo in tavola è marcio, due dei convitati sono in putrefazione, e la reazione del marito ritornante è di puro orrore…

…davanti al volto sfigurato della protagonista, che forza un sorriso perfetto, che però gradualmente si scioglie in lacrime di profondo dolore.

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X – Il pericolo invisibile

X (2022) di Ti West, anche noto come X: A Sexy Horror Story, è il primo capitolo della trilogia dedicata al personaggio di Maxine Min.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 1 milione di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 14 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla X?

Maxine è una spogliarellista che sembra coinvolta nel progetto scritto per lei: un porno in chiave autoriale. Eppure è solo lo spunto per raccontare molto altro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere X?

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

Assolutamente sì.

X è uno di quei film indie che hanno un successo insperato, riuscendo a conquistare più pubblico di quello che si aspetterebbero, forti di un racconto che riesce ad evadere da un genere molto saturo di dinamiche già viste e riviste…

…e a dargli, al pari di altri ottimi prodotti come Nope (2022) e Beau ha paura (2022), un interessantissimo taglio autoriale per raccontare molto di più di quello che sembra in superfice, in questo caso toccando un tema non poco impegnativo.

Ma ve lo lascio scoprire.

Attenzione

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

L’incipit di X potrebbe sembrare molto banale…

…mentre in realtà ben si integra con il senso del film.

Infatti prima battuta ci troviamo davanti ad una scena del crimine piuttosto classica, in cui il regista cela dalla vista dello spettatore la maggior parte del delitto, facendocelo pregustare per il finale rivelatorio che arriverà solo in seguito.

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

Una tecnica quindi piuttosto semplice per riuscire ad avere l’attenzione del suo pubblico fin dall’inizio, portandolo a chiedersi per il resto della pellicola come si arriverà a questo flashforward, e quindi chi sarà il colpevole.

In realtà questa situazione nasconde ben altro.

Giovinezza

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

La scena immediatamente successiva racconta un altro lato della pellicola.

Assistiamo quindi ad una passerella di personaggi assolutamente invidiabiali, ancora nel pieno della loro bellezza giovanile, portatori di corpi che verranno sempre più sfacciatamente mostrati, sempre più messi a nudo…

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

Una presentazione che mostra il primo polo della riflessione: una giovinezza baldanzosa, che non ha paura di mostrare le sue bellezze – tanto da farlo per lavoro – e quindi perfetta per diventare la protagonista di un porno d’autore.

Ma il punto è il come vengono mostrati.

Superficie

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

Apparentemente X vive di una facile dicotomia fra sesso e violenza...

…ma invece il loro vero significato è ben visibile grazie al linguaggio registico: come i corpi dei protagonisti sono denudati, ma mai effettivamente eroticizzati, la violenza è piuttosto estrema, ma sempre mostrata in sottrazione.

Non a caso, assistiamo sempre stessa scena di violenza ripetuta: della carne, prima animale, e poi umana, fatta a pezzi e distrutta sotto il peso di una macchina piuttosto aggressiva che la sorpassa senza un pensiero.

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

E così anche le scene erotiche sono piuttosto banali – nonostante siano poste nei momenti clou della vicenda – ma diventano significative se consideriamo invece il montaggio e il significato di cui viene caricata la scena…

…particolarmente quella di Maxine.

Pericolo

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

La giovinezza è tanto bella quanto inconsapevole del pericolo.

Un concetto ben raccontato nel momento del bagno di Maxine: una scena che apparentemente non ha alcun valore narrativo, ma che in realtà è del tutto funzionale a mostrare una giovinezza inconsapevolmente minacciata.

Maxine è infatti immersa in un sogno talmente idilliaco da non rendersi conto dei due pericoli in agguato: Pearl, che la osserva da lontano – rappresentazione della tragica fine del sogno giovanile…

…e il coccodrillo, simbolo invece di una società che vive di questi idoli temporanei, che è pronta a farli suoi, a divorarli, ma anche a distruggerli e a risputarli quando non più abbastanza giovani e quindi interessanti.

Ed è proprio Pearl a mettere un punto alla riflessione.

Idolo

La prima apparizione di Pearl è già significativa.

Sotto l’occhio stranito di Maxine, l’anziana donna osserva questa nuova bellezza da lontano, sognante, con un atteggiamento che ribadirà anche quando riuscirà finalmente ad attirarla in casa, cercando di coinvolgerla in un segreto sogno erotico carico di significati.

Infatti, come infine gli altri personaggi diventano protagonisti della sua furia distruttiva in quanto rappresentanti di un sogno che non può raggiungere, Maxine è molto di più: la protagonista è di fatto un idolo di cui la donna vuole impossessarsi, anche carnalmente.

Mia Goth in una scena di X: A Sexy Horror Story (2022) di Ti West

Infatti proprio mentre la osserva impegnata in una vivace scena erotica in cui, come si scoprirà poi in Pearl (2023), la donna vede la rappresentazione della se stessa del passato, uno specchio in cui vuole di nuovo riconoscersi, ma da cui viene costantemente scacciata…

…e da cui viene infine schiacciata, diventando profeta inascoltata del misero futuro che attende la protagonista.

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Midnight in Paris – La notte appartiene ai sognatori

Midnight in Paris (2011) è uno dei film più conosciuti della fase europea di Woody Allen.

A fronte di un budget medio – 17 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 150 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Midnight in Paris?

Gil è uno scrittore per il cinema che però ha un sogno nel cassetto: scrivere un romanzo. E Parigi lo saprà ispirare più di quanto immagina…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=FAfR8omt-CY&t=1s

Vale la pena di vedere Midnight in Paris?

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

In generale, sì.

Per quanto mi piaccia questa pellicola, non mi voglio eccessivamente sbilanciare nel consigliarvela, perché ammetto che non sia una delle opere più memorabili di Allen in questo periodo…

…ma, nonostante questo, Midnight in Paris risulta per me un’opera piacevolissima, in cui il regista statunitense sperimenta con il genere fantastico per raccontare la storia di un sognatore – e, forse, di sé stesso.

Pioggia

I titoli di testa di Midnight in Paris hanno un significato specifico.

Infatti gli stessi ci permettono non solo di immergerci nelle magiche atmosfere di Parigi, ma anche nella mente dello stesso Gil, così innamorato della città e, soprattutto del suo gusto decadente durante i giorni di pioggia.

Spazi aperti e ariosi che si oppongono invece alla sua angosciosa situazione familiare.

Owen Wilson e Rachel McAdams in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Infatti appare fin da subito chiaro come la sua futura moglie cerchi di ancorarlo ad una professione sicura e redditizia, ma molto meno artisticamente appagante – lo scrittore cinematografico – e di portarlo il più lontano possibile dalla sua città dei sogni.

Altrettanto sgradevoli sono i futuri suoceri – borghesi arricchiti che fin da subito mettono dubbi sulla bontà del protagonista – e, soprattutto, il borioso Paul, il vero uomo dei sogni di Inez, così interessante e colmo di nozioni che non vede l’ora di dispensare.

Ma c’è una via di fuga.

Esclusiva

Adrien Brody in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

La magia di Parigi non è per tutti.

La simpatica passerella dei grandi artisti degli Anni Venti – nonostante probabilmente molto banalizzata – è la concretizzazione di tutti i sogni di Gil, che finalmente trova degli interlocutori interessanti, persino qualcuno a cui sente di fare leggere il suo romanzo.

E così, quando infine si convince di non star sognando ad occhi aperti, il protagonista prova a coinvolgere la fidanzata in questa magica esperienza, ma la stessa si autoesclude, non avendo la pazienza di aspettare che l’incantesimo faccia il suo corso.

Da qui, i due viaggiano su due lunghezze diverse.

Da una parte Inez si immerge con sempre più convinzione e testardia nel sogno d’amore con l’uomo che veramente trova attraente e interessante, preoccupandosi progressivamente sempre meno di coinvolgere Gil, anzi accettando senza particolari remore le sue scuse.

Dall’altra, Gil non solo si innamora sempre di più del suo sogno nostalgico, ma anche di un’altra donna, Adriana, una figura capace veramente di amare un sognatore sfortunato come lui proprio per i suoi slanci artistici.

Per questo, la presa di consapevolezza è duplice.

Consapevolezza

Owen Wilson e Marion Cotillard in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Il sogno della Parigi d’annata è molto più incisivo di quanto il protagonista possa immaginare.

La consapevolezza più importante riguarda la sua relazione con Inez: trovando terreno fertile per dare libero sfogo al suo lato artistico, Gil si rende progressivamente sempre più conto di quanto la sua fidanzata sia insostenibilmente allergica alla persona che sta diventando.

Per questo, il tradimento non è che quasi una scusa, una conferma di una rottura già scritta…

Owen Wilson e Léa Seydoux in una scena di Midnight in Paris (2011) di Woody Allen

Allo stesso modo, Gil impara a vivere nel presente: confrontandosi con Adriana, il protagonista comprende la limitatezza e ingenuità di vivere nel sogno di un passato idealizzato, tanto romantico quando invivibile per un uomo del XXI sec…

Quindi, lasciandosi alle spalle la sua testarda compagna di viaggio, Gil ritorna nel presente per scoprire che un’altra strada è possibile: una parigina che si nutre della stessa nostalgia e, soprattutto, delle romantiche atmosfere di una Parigi immersa nella pioggia.

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Le vite degli altri – La salvezza segreta

Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck è un dramma storico tedesco ambientato durante la Guerra Fredda.

A fronte di un budget piccolissimo – appena 2 milioni di dollari – anche per la notorietà acquisita grazie all’Academy, ha incassato benissimo: 77 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Le vite degli altri?

1984, Germania dell’Est. HGW XX/7 è un inflessibile ingranaggio del meccanismo della Stasi. Ma la vicinanza improvvisa col nemico gli farà cambiare idea…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

https://www.youtube.com/watch?v=nj9NZ4ptF5U

Vale la pena di vedere Le vite degli altri?

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Assolutamente sì.

Le vite degli altri è una mosca bianca all’interno di un panorama cinematografico sul tema dominato da titoli di produzione statunitense – e, per questo, solitamente molto di parte nel portare in scena un racconto estremamente politicizzato verso una precisa direzione.

Al contrario, l’opera prima di von Donnersmarck, più che una storia politica, è un racconto fortemente umano, che porta in scena in maniera non scontata il dramma delle Due Germanie, la totale spersonalizzazione in un mondo diviso fra leali servitori del socialismo e nemici da schiacciare.

Insomma, da riscoprire.

Ingranaggio

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Gerd è un ingranaggio.

Fin dalla sua primissima apparizione, assistiamo ai suoi interrogatori sistematici, dove niente è lasciato al caso e dove non sembra esserci spazio per l’umanità, ma solamente per un’instancabile ricerca della verità, un’indefessa corsa allo stanare il prossimo nemico del caro socialismo.

E la sua carriera è ancora messa di più alla prova davanti a quello che sembra più di tutti un fedele servo del sistema, che mai metterebbe un dubbio la bontà della DDR, ma che anzi forse è una delle poche voci positive rimaste all’interno di un panorama artistico di sobillatori.

E, in qualche misura, anche Georg e Christa sono degli ingranaggi consapevoli. 

Da una parte la donna prende parte al sistematico lavaggio del cervello di un governo che vuole solo spremere i suoi concittadini, proprio facendogli credere – come in questo caso – di aver bisogno del sistema per riuscire effettivamente a realizzarsi nelle loro vite.

Dall’altra, anche più importante il totale immobilismo di Georg, che, nonostante sia circondato dai danni del sistema all’universo artistico, non porta avanti che timidi tentativi di protesta, rimanendo per il resto nell’angolo che è riuscito a ritagliarsi in un mondo soffocante.

Ma nessuno di loro potrà rimanere per sempre indifferente.

Sommerso

Georg ha solo bisogno di una spinta.

Il suo immobilismo viene improvvisamente scosso da un evento purtroppo inevitabile: la morte di una voce ormai spenta da tempo, tramite un sistema che non mira ad annientare fisicamente il nemico, ma piuttosto a renderlo inoffensivo, finché non sarà lui stesso ad uscire di scena.

Così la morte di Jerska diventa uno spunto per raccontare tutto il sommerso, tutta la realtà sotterranea di un Paese che si sta sempre più sgretolando, trovando la sua ragione di esistere solamente in un’ideale irraggiungibile, in un sistema rigido e, di fatto, insostenibile.

Un’azione profondamente sovversiva, che, per quanto ben congegnata, non poteva restare impunita.

A meno che…

Scoperta

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Con il proseguire della pellicola, Gerd scopre una nuova realtà.

Addestrato come una macchina e focalizzato solo sull’idea di registrare i movimenti sospetti di Georg, in realtà il silenzioso ascoltatore comincia ad immergersi nella quotidianità della sua vittima, nei suoi turbamenti, nel rapporto infelice con Christa…

…e sceglie di salvarli.

Vivendo sostanzialmente come un inquilino invisibile a fianco del protagonista, Gerd comincia col tempo sempre più ad affezionarsi alla sua visione, tanto da volerla proteggere, con il suo primo, fondamentale intervento: mettere davanti agli occhi di Georg la verità sulla sua fidanzata.

E se anche questo non bastasse, seguendo battuta per battuta lo struggente scambio fra i due personaggi mentre Christa sta per uscire, Gerg si rivela, anche se indirettamente, come spettatore della loro tragedia, incoraggiando la donna ad essere più sincera con sé stessa e con il suo compagno.

Premio

Ulrich Mühe in una scena de Le vite degli altri (2006) di Florian Henckel von Donnersmarck

Ma Gerg non può davvero salvarli.

Basta poco per essere strappato dal suo sogno romantico di custode della coppia: bastano delle antipatie politiche, i giusti tasti premuti con Christa con la minaccia dell’esilio dalle scene, per mettere inevitabilmente Georg nel mirino della Stasi, anche senza vere prove.

Ed è anche inevitabile che, pur senza qualcosa di concreto, Gerg venga relegato ai margini della scena, pagando per quel briciolo di umanità inaspettata che ha portato ad una morte, ma anche alla salvezza di una voce ancora capace di sopravvivere nel tramonto della DDR.

Così le storie di Gerg e Georg continuano parallele senza toccarsi mai, neanche quando il protagonista, rivelata finalmente la verità sulla sua storia, ha l’occasione di ringraziare direttamente quel piccolo uomo che ha accettato un’esistenza anonima e rimessa…

… dedicandogli invece un commosso tributo, che finalmente Gerg può regalare a sé stesso.

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The Help – La rivoluzione silenziosa

The Help (2011) di Tate Taylor è un dramma storico ambientato nel profondo sud statunitense negli Anni Sessanta – con tutto quello che ne consegue.

A fronte di un budget medio – 25 milioni di dollari – anche grazie alla visibilità data dall’Academy, è stato un ottimo successo commerciale: 216 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Help?

Aibileen e Skeeter sono due donne apparentemente divise, in realtà con un destino comune: scardinare un sistema sociale profondamente razzista che danneggia inevitabilmente tutti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Help?

Emma Stone e Viola Davis in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Dipende.

Per quanto The Help sia un film che abbia visto innumerevoli volte, ponendovi un occhio più oggettivo mi rendo conto che, con le aspettative sbagliate, potrebbe essere incredibilmente indigesto.

Infatti, per ammissione fra l’altro della stessa Viola Davis, il racconto del panorama sociale di riferimento è molto annacquato, reso digeribile per un pubblico ampio, e quindi, soprattutto se si ha qualche conoscenza sul tema, appare poco credibile.

Ma, se non avete di questi problemi, è un prodotto piacevolissimo.

Apparenza

L’apparenza di The Help è scintillante.

I protagonisti (bianchi) non hanno apparentemente nessun problema nel dover prendere scelte di vita, in quanto queste sono già state prese per loro: sposarsi giovanissimi, fare più figli possibili, e essere parte attiva di un sistema sociale costruito sulle apparenze.

Ancora meglio se si è uomini, il cui ruolo è trovare un lavoro d’ufficio che li porti fuori casa e che lasci alle mogli il compito di tenere vivo il tessuto sociale, talvolta persino diventando delle marionette al servizio delle compagne – come nel caso del marito di Hilly.

Bryce Dallas Howard, Sissy Spacek e Octavia Spencer in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Più faticoso per certi versi invece il ruolo femminile, ancorato ad un circolo sociale capitanato dall’ape regina di turno – Hilly – che le porta ad essere sostanzialmente tutte uguali, tutte con gli stessi pensieri ed ambizioni.

Eppure, la realtà è molto meno confortante.

Perdente

In The Help gli apparenti vincitori sono i veri perdenti.

La dannosità di questo panorama sociale è particolarmente evidente nel personaggio di Elizabeth, che cerca costantemente e disperatamente di nascondere la sua infelicità – proprio come nasconde il graffio del tavolo da pranzo…

Infatti in più momenti durante la pellicola intravediamo l’infelicità di un matrimonio di convenienza, di una probabile depressione post-partum, che ha portato Elizabeth a disprezzare totalmente la sua primogenita, e della costante paura di non essere al posto giusto.

Bryan Dallas Howard e Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Ma la vera perdente è Hilly.

Nonostante il suo personaggio pensi di avere tutti sotto scacco, in realtà è inghiottita dal sistema di sua invenzione: l’intera sua esistenza ruota intorno alla necessità di tirare i fili della comunità, creare coppie, gestire i pettegolezzi, ed emarginare gli indesiderati.

Ne consegue una fragilità emotiva così devastante da non riuscire nemmeno a sostenere l’idea di aver perso un compagno – Johnny – che probabilmente non si voleva sottomettere alle sue angherie, ma per cui provava un sincero affetto.

E, alla fine, essere ai margini non è così male…

Margini

Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Anche se i due personaggi non si conoscono direttamente, Skeeter e Celia vivono due esistenze parallele.

Entrambe infatti sono costrette in un sistema che li sta stretto: per Celia una vecchia casa impossibile da ammodernare, il totale isolamento sociale, senza neanche avere la compagnia di una negra, e con un matrimonio apparentemente destinato al fallimento.

Particolarmente drammatica in questo senso la vergogna sociale di non riuscire ad avere figli in tempo utile – passaggio fondamentale per cui la donna spera forse di rientrare nel circolo esclusivo di Hilly.

Jessica Chastain in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

E il riscatto di Celia avviene, paradossalmente, grazie a Minny.

Inizialmente il suo personaggio si affida a Minny per compensare una delle maggiori lacune del suo matrimonio: l’incapacità di cucinare manicaretti perfetti per il marito, dovuta anche al suo turbamento emotivo interiore goffamente celato.

Invece, nel tempo i due personaggi si salvano a vicenda: Minny riesce a trovare un riscatto sia dal matrimonio violento in cui era intrappolata, sia dalle angherie di Hilly, che le rendevano di fatto impossibile trovare un’altra occupazione…

…mentre Celia comprende la ricchezza di un circolo sociale ristretto, ma di valore.

Ribelle

Emma Stone e Allison Janney in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Pur partendo da una situazione analoga da Celia, Skeeter è una ribelle.

Non adeguandosi né esteticamente – scegliendo vestiti molto meno frizzanti, lasciando i capelli al naturale – né socialmente – non ambendo ad avere un marito, ma a realizzarsi lavorativamente altrove – Eugenia appare come una mina vagante.

Soprattutto, perché non è pronta a scendere a compromessi: anche se viene costantemente spinta a interessarsi alla sua carriera matrimoniale – unico apparente sbocco possibile – Skeeter accetta Stuart solo quando questo si piega alle sue condizioni.

Emma Stone in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

E anche così non basta.

La ribellione di Skeeter è silenziosa, avviene nel dietro le quinte, ma riesce a scuotere lentamente tutto il costrutto sociale immobile in cui è cresciuta, soprattutto quando i suoi vari protagonisti vengono colpiti nel vivo – in particolare, le due madri, Charlotte e Missus.

Un percorso che però non tutti sono pronti ad accettare: se col tempo la madre di Skeeter si rende conto dell’inumanità a cui è stata portata, al contrario Stuart rivendica il suo diritto di controllare le scelte della fidanzata e la sua volontà di rimanere immobile in un mondo che va bene così.

E forse, a posteriori, era meglio per Eugenia essersi lasciata alle spalle l’unico elemento che la teneva ancora legata ad un sistema vetusto e limitante.

Differenti

Octavai Spencer in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

Altre due ribelli tutte loro sono Minny e Aibileen.

Da una parte Minny porta avanti una ribellione piuttosto chiassosa e diretta, per cui si rivolta costantemente – e pure con sagace ironia a – contro cattiverie di Hilly – prima con lo statement dello scarico del water, poi con il terribile scherzo della torta.

Ma una donna nera non ha spazio per essere alternativa, pena l’essere comunque schiacciata sotto il peso di accuse del tutto inventate, ma tanto potenti da renderle impossibile trovare un’alternativa, perché ormai proprietà della sua ex-padrona.

Viola Davis nella vasca in una scena di The Help (2011) di Tate Taylor

La ribellione di Aibileen è diversa.

Fin da subito il suo personaggio mostra un carattere mansueto, e una totale volontà a sottomettersi al sistema – anche solo per il suo nascondere i suoi veri capelli con una parrucca da bianca – che si esprime soprattutto nella scena in cui consiglia timorosa all’amica arrestata di non lottare.

Invece, più il film prosegue, più la protagonista porta avanti una rabbia violenta che aveva covato da anni, che la porta prima ad essere la prima nera a poter parlare apertamente della sua situazione, poi a prendere di petto – e annientare – la stessa Hilly, mettendola per la prima volta davanti alle sue colpe…

…scegliendo, infine, un destino diverso da quello che aveva sempre creduto essere l’unico possibile.

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Dallas Buyers Club – Una vita che non posso vivere

Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée è un film drammatico basato sulla vera storia di Ron Woodroof.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 5 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 55 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Dallas Buyers Club?

Texas, 1985. Ron è un rude texano che vive fra scommesse, dipendenze e sesso occasionale. Ma una visita imprevista in ospedale gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Dallas Buyers Club?

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Assolutamente sì.

Dallas Buyers Club è uno splendido spaccato – per certi versi anche molto attuale – della vergogna sociale che nacque intorno all’HIV e alla comunità queer negli Anni Ottanta, e al contempo anche della poca incisività di un sistema sanitario basato – ancora oggi – su un mero giro di affari.

Fra l’altro, un film tanto più imperdibile per la coppia esplosiva di Matthew McConaughey e Jared Leto: l’uno nel momento di rinascita artistica appena prima di True Detective (2014), l’altro in uno degli ultimi ruoli significativi prima di sporcarsi le mani col cinema di serie B.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Origine

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron è definito dal suo ambiente.

Visto che l’HIV non è altro che un affare dei froci (faggot), né Ron né i suoi degni compari si devono preoccupare nel loro essere coinvolti in un sesso occasionale e disordinato, che si svolge nel dietro le quinte della massima espressione del machismo – il rodeo.

Allo stesso modo, il loro utilizzo di droghe e di siringhe condivise racconta la totale impreparazione degli Stati Uniti davanti alla nuova minaccia sanitaria, incapace di creare la giusta comunicazione che metta in guardia persino le persone non queer dai rischi a cui potevano andare incontro.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Una situazione che determina anche la totale casualità della diagnosi, che avviene per tutt’altro motivo, per un semplice incidente sul lavoro, che però porta i dottori ad alzare qualche dovuto sopracciglio davanti alla stranezza degli esami del protagonista.

E per questo Ron parte da una negazione…consapevole.

Negazione

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La negazione di Ron è estremamente violenta.

Del tutto convinto del pensiero comune – l’HIV ce l’hanno solo i ricchioni – il protagonista vive la sua diagnosi sulle prime più come un’accusa alla sua sessualità e al suo stile di vita – anche prevedendo il tipo di esclusione sociale che seguirà…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Così il protagonista si confida con uno dei suoi compari per avere conferma dell’impossibilità della sua diagnosi, sicuramente derivata da un mischiare il suo sangue da vero uomo con quello di qualche esemplare umano di minor valore.

Eppure questa sua confidenza, seguita dalla sua consapevolezza involontaria che lo porta a non voler intrattenersi con le donne quella sera, lo rendono nel giro di una notte un reietto sociale, il protagonista di tutta la tragica vergogna di essere in realtà un omosessuale.

Ma non esiste un’alternativa.

Solo

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ron deve fare da solo.

Dalla Buyers Club racconta perfettamente la situazione ancora molto attuale degli ospedali negli Stati Uniti, in cui un giro di soldi abbastanza importante permette di prendere i vergognosi pazienti dell’HIV e renderli dei topi da laboratorio.

Davanti all’impossibilità della certezza della cura, davanti alla prospettiva di una morte sicura in meno di un mese, Ron comincia a procurarsi sottobanco questo farmaco miracoloso, finendo così solo per intossicarsi e per distruggere più o meno inconsapevolmente il suo corpo.

E, anche in questo caso, la salvezza è del tutto casuale.

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Dopo essere nuovamente rimesso su un letto d’ospedale senza nessuna prospettiva di vita, il protagonista sorpassa il confine e comincia ad assumere una nuova, pericolosa consapevolezza grazie ad un altro emarginato: un dottore radiato dall’albo che deve curare in clandestinità.

Fuori dal giro d’affari dell’AZT, questa medicina miracolosa si rivela infatti un killer del sistema immunitario, che agisce molto più alla cieca di quanto dovrebbe – mentre la rinascita di Ron è dovuta a ben altro…

E allora comincia la lotta.

Ombra

La lotta di Ron avviene nell’ombra.

Consapevole dell’impossibilità di vendere quelle medicine che potrebbero davvero salvare delle vite, il protagonista riesce ad agire nelle zone d’ombra, a creare un club farmaceutico in cui si paga solo il costo d’ingresso, e poi si riceve in omaggio le effettive medicine.

Comincia così una lotta senza quartiere, in cui Ron è costantemente vessato dal governo, che gli continua a sfilare da sotto le mani il suo prodotto potenzialmente salvifico, nonché la sua possibilità di portare avanti una ricerca indipendente.

Eppure il protagonista non si arrende mai, non si fa mai veramente sottomettere da un sistema che non è mai stato al suo fianco, ma che anzi ha voluto impedirgli di rivaleggiare con case farmaceutiche ben più ricche e potenti – e quindi le uniche che hanno diritto di parola.

E, per una volta, non è solo.

Alleato

Ron ha al suo fianco degli improbabili alleati.

Da una parte la dottoressa Eve, interpretata da una Jennifer Garner che purtroppo scompare davanti a due attori di così grande talento, ma che porta in scena un personaggio assolutamente necessario per riequilibrare le parti in gioco.

Il suo personaggio infatti assume una graduale consapevolezza al pari di Ron, pur rimanendo per molto tempo instancabilmente legata all’idea che tutto quello che succede al di fuori dell’ospedale è fin troppo pericoloso – nonostante lei stessa mostri dei dubbi fin da subito sul AZT.

Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

Ma, ancora più importante, Ron ha al suo fianco Rayon.

Da buon texano machista, sulle prime il protagonista è sostanzialmente disgustato da questo strambo personaggio, che per lui non è altro che un orribile travestito da cui non vuole neanche lasciarsi toccare…ma che infine sceglie come suo braccio destro.

E il loro rapporto effettivamente si dimostra fino alla fine estremamente ostile, ma sempre meno per l’identità sessuale del personaggio, ma invece per il continuo pungolare dello straordinario Jared Leto – per esempio, quando inquina la parete del porno di Ron con le sue fotografie.

Eppure, la sua morte è fondamentale.

Vittoria

Matthew McConaughey e Jared Leto in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

La crescita di Ron è sorprendente.

La sua lotta comincia come una battaglia per la propria salvezza, contro un sistema ingiusto, parallelamente riuscendo anche a lucrarci sopra, e rimanendo ancora per molto tempo insofferente alla presenza di Rayon.

Eppure, durante la pellicola il protagonista cambia profondamente se stesso, evade da quel mondo piccolo e meschino del machismo texano e si avventura nel più fragile ruolo del rivoluzionario…

Matthew McConaughey in una scena di Dallas Buyers Club (2013) di Jean-Marc Vallée

…persino difensore degli ultimi, che costringe il suo ex-compare a stringere la mano a quel disgustoso travestito, a cui infine si lega al tal punto emotivamente che, quando infine scompare dalla sua vita, il protagonista abbandona persino i sogni di guadagno e lascia entrare chiunque nel suo club.

Forse Ron Woodroof non è riuscito infine a salvarsi, ma è riuscito a combattere per avere quel tanto di vita che gli bastava per minare la credibilità di un governo classista, per vivere una vita dignitosa, morendo da uomo libero – e non ucciso da quello stesso sistema che millantava di salvarlo.

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La battaglia dei sessi – Didascalico e sottile

La battaglia dei sessi (2017) è una commedia sportiva per la regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, diventati noti un decennio prima per Little Miss Sunshine (2006).

A fronte di un budget di 25 milioni di dollari, è stato un pesante flop commerciale: appena 18 milioni di incasso.

Di cosa parla La battaglia dei sessi?

Billie Jean King è la campionessa mondiale di tennis femminile, che deve controvoglia cedere al bizzarro maschilismo della ex star del tennis Bobby Riggs…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La battaglia dei sessi?

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

In generale, sì.

La battaglia dei sessi è una commedia piacevole e ben diretta, che brilla soprattutto per due attori di stirpe come Emma Stone e Steve Carell, e che nel complesso inquadra bene il periodo storico di transizione degli Stati Uniti degli Anni Settanta.

Eppure, al contempo il film si perde in non poche occasioni in un didascalismo un po’ pedante e forse anche poco credibile, mettendo in bocca a personaggi di mezzo secolo prima le parole di un femminismo ben più contemporaneo e consapevole…

…riuscendo invece, in altri contesti, a risultare sottile e ben inquadrato.

Nel complesso, comunque, ve lo consiglio.

Ribellione

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La vera battaglia dei sessi comincia fin da subito.

Billie si trova bloccata in un paradosso: gli stessi uomini che l’hanno premiata come campionessa, ridimensionano invece il suo valore – e quello delle sue colleghe – dietro a scuse deboli e poco credibili – e anche facilmente contestabili, come i pochi biglietti venduti. 

Per questo, la protagonista sceglie di mettere in gioco la sua personale rivoluzione sessuale, che la fa immediatamente escludere dai principali circuiti, gettandosi a capofitto in una presa di posizione politica estremamente rischiosa – e facilmente fallibile.

Ma forse non è neanche la sua più grande minaccia…

Sottile

Emma Stone e Andrea Riseborough in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

La relazione fra Billie e Maryl mi è piaciuta a tratti.

Sulle prime l’ho trovata molto convincente e ben equilibrata, grazie ad una messinscena che riesce a rendere momenti apparentemente neutri – la nuova acconciatura – effettivi frangenti di seduzione…

…con una comunicazione piuttosto sottile, fatta di sguardi e di poche parole ben scelte – come quando Maryl fa capire alla protagonista di essere con un piede in due scarpe, accettando le avances dell’uomo che la avvicina nel locale.

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Mi ha invece meno convinto col proseguire del film.

Soprattutto vedendo il finale reale della loro relazione, appare nel complesso credibile la reazione del marito di Billie, Larry, che capisce la realtà della situazione e non attacca direttamente l’amante della moglie, ma piuttosto la avverte della fragilità della sua situazione…

…prevedendo l’inevitabile rottura, che porta per molto tempo Maryl fuori scena, rilevandosi alla lunga un personaggio di troppo nella storia – già popolata di un gran numero di figure piuttosto chiassose – e ritornando solo alla fine con un espediente fin troppo cliché per i miei gusti.

Discorso quasi analogo per Margaret Court.

Altra

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Margaret Court è un personaggio di passaggio.

Il suo essere fuori posto nel nuovo torneo femminista appare chiaro fin da subito, per il suo essere accompagnata dalla famiglia di cui evidentemente non può fare a meno, di cui evidentemente tiene il timone con decisione, facendosi facilmente seguire dal marito.

Tuttavia, al contempo il suo personaggio rappresenta un simbolo molto importante nella rivoluzione sessuale: la dimostrazione che anche le donne possono essere delle grandi atlete rinomate e capaci di vincere importanti premi nei circuiti maggiori…

…anche se basta poco perché tutto si sgonfi.

Esasperazione

Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Bobby Riggs è l’esasperazione di un pensiero estremamente reale.

Mentre le donne cercano in modi diversi di affermarsi e di conquistare il loro spazio di libertà in un mondo estremamente maschile, lo stesso tentava in maniera più o meno aggressiva di rimetterle al loro posto, troppo spaventato da questo cambiamento così sconvolgente.

Tuttavia, molto spesso si tratta di discorsi che si perdono nelle loro contraddizioni, facendosi forti di un pensiero comune che aveva definito la società fino a quel momento – le donne sono troppo emotive, devono ritornare in cucina dove è il loro posto…

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

…e a cui bastava un personaggio esuberante e quasi ridicolo nel suo sessismo esasperato per riuscire a mettere un punto alla questione: le atlete non possono in nessun caso essere considerare alla pari dei loro colleghi uomini, qualunque sia la loro bravura. 

E per cui bastava, fra l’altro, l’insignificante vittoria di Bobby Riggs su Margaret Court per sentirsi ancora più legittimati a portare avanti quel pensiero così discriminante che le femministe stavano cercando di scardinare.

Per questo Billie deve intervenire.

Campo

Emma Stone e Steve Carell in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Billie inizialmente non vuole partecipare al circo di Bobby.

Inizialmente infatti vive la sua sfida come solamente una ridicola provocazione, che cerca appunto di ridurre ad una sola partita un concetto sociale e politico ben più ampio ed importante – forse essendo pure impaurita dall’idea di non riuscire a batterlo…

…e, così, di farlo vincere due volte. 

Ma sono i commenti post-partita a farla scendere in campo.

Osservando la vittoria di Bobby, Billie infatti non è tanto indispettita dalla sconfitta di Margaret, ma piuttosto dal valore che viene dato alla stessa, come scusa per perpetrare quel sessismo ingiustificato che lei per prima ha scelto di combattere.

E allora tocca alla protagonista far cambiare idea al pubblico.

Dualità

Emma Stone in una scena di La battaglia dei sessi (2017) di Jonathan Dayton e Valerie Faris

Il finale de La battaglia dei sessi è agrodolce.

Da una parte la partita è resa in maniera puntuale e azzeccata: pur subendo qualche punto di troppo all’inizio, Billie si dimostra fino alla fine una campionessa dai nervi di ferro e anche piuttosto pugnace, capace di sconfiggere Bobby colpo dopo colpo.

Così il suo finale, dove viene incoronata vincitrice, dove finalmente il pubblico femminile sente di aver assistito ad un passo avanti fondamentale per la propria indipendenza, è estremamente soddisfacente, e segna una buona chiusura della vicenda.

D’altra parte, assistiamo al progressivo spegnersi di Bobby e dei suoi sostenitori, che gradualmente si rendono conto che non solo il loro beniamino sta venendo terribilmente sconfitto, ma che il mondo a cui si sentivano così legati ha subito il suo primo, importante scossone.

Tuttavia, nelle retrovie, nello spogliatoio dove Bobby è andato a rifugiarsi, il suo personaggio trova l’unico riscatto che per lui veramente contava: il riconquistare la moglie e rimettere insieme un matrimonio su cui, evidentemente, non aveva mai avuto il controllo.

Quindi alla fine…ha vinto lo sport?

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Invictus – Il primo passo

Invictus (2009) di Clint Eastwood è un film sportivo e un racconto storico legato ai primi passi da Presidente del Sudafrica di Nelson Mandela.

A fronte di un budget medio – 60 milioni di dollari – è stato nel complesso un discreto successo commerciale: 122 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Invictus?

Da poco liberato di prigione e appena eletto Presidente, Mandela si trova a gestire una delicata situazione politica in maniera peculiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Invictus?

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

In generale, sì.

Anche se forse non è fra i film più incisivi della carriera di Eastwood, Invictus è un’opera comunque di valore, in cui l’elemento sportivo non è mai esasperato, ma mantenuto nei limiti della credibilità, reso di fatto strumento per approfondire il progetto di Mandela.

In questo senso il difetto forse più evidente è la questione razziale, appena accennata e risolta fin troppo velocemente, scegliendo di offrire uno scenario fin troppo ottimistico e consolatorio, soprattutto nelle sue battute finali.

Ma, nel complesso, da vedere.

Divisione

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

L’incipit di Invictus è estremamente simbolico.

Se da una parte troviamo un gruppo di ragazzini neri che si divertono a giocare, che salutano con gioia il passaggio di Mandela, dall’altra una squadra di atleti rigorosamente bianchi che invece accoglie il passaggio del futuro presidente con un sincero disappunto.

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

E, nel mezzo, appunto, Mandela.

Il suo passaggio fra queste due realtà è emblematico per anticipare il suo progetto futuro di unione e di riappacificazione fra due popoli fino a quel momento profondamente divisi – per legge e per cultura – e che finalmente hanno la possibilità di vivere da pari.

Eppure l’ostacolo sembra incolmabile.

Simbolo

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

I Springbok non sono una semplice squadra di rugby…

…ma, piuttosto, un simbolo.

Agli occhi dei nativi sudafricani, infatti, il team rappresenta tutto quello che c’era prima, il doloroso ricordo dell’apartheid: non una squadra che sia il simbolo di tutto il paese, ma solamente del potere dominante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Per questo, dovrebbe essere smantellato immediatamente, con anche un cambio di nome che rappresenti la trasformazione del paese stesso, e la nascita di una nuova realtà più inclusiva – anche se, forse, non davvero per tutti…

Ma Mandela non ci sta.

Vendetta

Morgan Freeman in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Proprio per il suo valore simbolico, per Mandela smantellare la squadra sarebbe contro la sua politica.

Infatti, il nuovo presidente non vuole comportarsi come gli stessi invasori che gli hanno tolto la libertà e la voce, vendicandosi direttamente verso una squadra che li rappresenta, così da schiacciarli a sua volta.

Un’impresa virtuosa, anche se…

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

Il clima politico di Invictus mi ha lasciato qualche perplessità: come anticipato, il discrimine razziale è appena accennato, si notano degli attriti non indifferenti, una divisione piuttosto netta fra due parti che si guardano con ostilità…

…ma forse manca una rappresentazione davvero credibile di quale era il clima di profondo odio, difficile da sradicare, che aveva portato alle leggi così dure e discriminanti dell’apartheid – una sostanziale continuazione della colonizzazione del paese.

Forse, per una scelta politica del regista?

Scoperta

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La scelta di Mandela è apparentemente incomprensibile.

In particolare, la scoperta della storia del presidente da parte di Francois è il filo portante della trama, portando Invictus ad avere un taglio molto più politico che sportivo – tanto che, come detto, il rugby è più che altro una continuazione del progetto di Mandale.

In particolare, la visita alla cella è determinante.

Matt Damon in una scena di Invictus (2009) di Clint Eastwood

La visione di quel piccolo spazio vitale, in cui Mandela non poteva neanche permettersi un vero letto dove stendersi, e la consapevolezza che comunque il suo presidente non ha mai voluto rivalersi sui suoi aguzzini, rappresenta l’epifania del protagonista.

Lo stesso sceglie proprio di chiudersi per un momento dentro la cella, e da quella rinascere come da un bozzolo per diventare l’esecutore materiale del sogno di Mandela, comprendendo finalmente il vero valore della vittoria del campionato per il suo paese.

Invincibile

Ancora di più, il progetto di Mandela è un’affermazione personale.

Proprio nello scegliere di non rivalersi sui suoi nemici, di non ribaltare la situazione politica a favore solamente della sua gente, il presidente si dimostra effettivamente come invincibile, inscalfibile dal clima vendicativo che lo circonda.

E questo proprio perché non è stato piegato dalla prigionia, ma è riuscito a portare abbastanza avanti il suo progetto tanto da potersi godere la visione della sua vera vittoria: un paese unito.

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Rush – Cosa sei disposto a perdere?

Rush (2013) di Ron Howard è un film a tema sportivo dedicato alla in(amicizia) fra due leggende della Formula 1: Niki Lauda e James Hunt.

A fronte di un budget medio per questo tipo di produzione – 38 milioni di dollari – fu nel complesso un buon successo commerciale: 95 milioni di dollari in tutto il mondo.

Cosa parla Rush?

Partendo come dei sostanziali sconosciuti di circuiti minori, James Hunt e Niki Lauda seguono strade diverse per raggiungere i campionati più importanti.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Rush?

Assolutamente sì.

Rush è considerato fra i più fulgidi esempi di film sportivo, fondamentalmente per due motivi: anzitutto la regia particolarmente indovinata, ben ritmata, che riesce a orchestrare una messinscena di ampio respiro e particolarmente coinvolgente…

…e, soprattutto, una morale di fondo per nulla banale, ma che permette di gettare una luce diversa sia sulla storia specifica dei due protagonisti, sia in generale sulla realtà tutta particolare delle corse in auto, in cui la gloria quanto la morte sono dietro l’angolo.

Origine

L’origine del mito è minuscola.

Infatti, i protagonisti nascono come stelle locali e prendono strade del tutto diverse per scalare il successo.

James Hunt è il più classico eroe americano, che basa il suo crescente successo semplicemente sul suo talento per la corsa, in prima battuta non volendosi sporcare col degli squallidi sponsor.

Al contrario, Niki Lauda parte sostanzialmente come un perdente, e si spiana la strada verso la Formula 1 nelle retrovie, facendosi forte delle sue capacità non tanto come pilota, ma piuttosto come ingegnere, capace di portare in pista la macchina destinata a vincere.

Eppure, la loro rivalità si basa sul nulla.

Soldi, soldi, soldi

La Formula 1 è, prima di tutto, soldi.

Per quanto James Hunt si lamenti dell’ingresso comprato del rivale nella Formula 1, in realtà ben presto si rende conto di quanto sia fondamentale avere alle spalle un patrimonio – e degli sponsor – capaci di assicurare effettivamente un posto in pista.

Per questo, nonostante i primi sfavillanti successi, questi non bastano per scalzare la posizione di assoluto primo piano di Lauda…

…dovuta anche alla fama più benigna che lo accompagna, mentre Hunt è perseguitato dalla nomea di bad boy che ha effettivamente molto successo con le donne, ma invece molto meno con gli investitori.

Ma non è finita.

Vittoria

La sete di vittoria di Hunt non ha limiti.

Vivendo la costante umiliazione di eterno secondo – persino quando dovrebbe essere al primo posto – in occasione della pericolosissima gara in Germania, Hunt si dimostra ancora più spericolato, ancora più sfrontato nel voler inseguire il successo.

E proprio per colpa di questa sua avventatezza, Lauda finisce vittima dell’incidente che segnerà la sua carriera in maniera davvero incisiva, rimanendo impotentemente confinato ad un letto di ospedale mentre guarda Hunt che gli sfila la vittoria di mano, impunito.

Ma il suo rientro in pista è forse più fondamentale per Hunt.

Colpa

Hunt sente il peso della colpa.

E la colpa è duplice.

Anche se non direttamente, Lauda libera apparentemente Hunt dalla sua colpa di averlo messo in pericolo per la sua sfacciataggine, ma lo carica di una responsabilità nuova: con le sue sfavillanti vittorie, James ha convinto il suo eterno rivale a tornare in pista troppo presto.

Tormentato da sentimenti contrastanti, Hunt diventa incredibile il difensore della dignità del suo nemico, andando a punire con la forza il giornalista che si è permesso di infangare la sua professionalità attaccandolo sul suo aspetto.

Allo stesso modo, Lauda sceglie di prendersi la sua colpa.

Calato in una situazione analoga a quella che ha portato al suo doloroso incidente, Lauda infine capisce che non vale la pena di correre questo ulteriore rischio, forse di rischiare la propria stessa vita, e si prende la responsabilità di scegliere di ritirarsi.

Ma, allora, cosa rimane?

Eredità

La regia di ampio respiro di Rush ci permette di calarci in prima persona nella gara e nei dettagli del dietro le quinte: Ron Howard sperimenta con una messinscena frammentata, costruita su piccoli momenti, dettagli, passando da diverse inquadrature…

…che non si focalizzano, come avrebbe fatto un regista meno ispirato, sulle soggettive dei piloti, ma ci portano anche in mezzo al pubblico, fra i meccanici, nei particolari delle mani che giocano sui comandi dell’auto.

Quindi la vittoria di James Hunt è anche un po’ nostra: un momento di riscatto per un personaggio che ha voluto, come spiega lo stesso Lauda, dimostrare al mondo il suo valore, di essere al pari del suo nemico-amico.

E, se più amaramente Lauda sprona l’altro a non appendere i guanti al chiodo, in realtà forse è proprio così che Hunt ha compreso la sua lezione: non spingersi più in là di quello che serve…

…e concludere la sua carriera (e vita) da campione.