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Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Biopic Dramma storico Drammatico Film Oscar 2025

The Apprentice – Tagliare il filo

The Apprentice (2024) di Ali Abbasi è un biopic dedicato ai primi anni dell’ascesa di Donald Trump.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 16 milioni di dollari – è stato un pesante flop commerciale, riuscendo a malapena a superare i costi di produzione.

Candidature Oscar 2025 per The Apprentice (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior attore protagonista per Sebastian Stan
Miglior attore non protagonista per Jeremy Strong

Di cosa parla The Apprentice?

New York, 1973. Donald Trump è un giovane immobiliarista che gestisce gli appartamenti del padre. Ma un incontro fortuito gli cambierà per sempre la vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea: 

Vale la pena di vedere The Apprentice?

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Assolutamente sì.

The Apprentice aveva l’arduo compito di tratteggiare le origini di un personaggio molto controverso e già di per sé estremamente parodiabile, senza però scadere in un taglio ridicolo che non avrebbe aggiunto niente ad una storia che il pubblico conosce già.

E ci è riuscito: Sebastian Stan, già da tempo allontanatosi dalla scena più mainstream, riesce a portare in scena il giovane magnate mantenendone i tratti distintivi, ma senza mai esasperarli – anche perché non v’è né alcun bisogno.

Insomma, da recuperare.

Improvvisato

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

La situazione iniziale di Trump appare davvero sconclusionata.

Per quanto il protagonista voglia raccontarsi come un brillante imprenditore, la sua vita è in realtà scandita dalla sua totale impreparazione nella gestione ora degli appartamenti del padre – in cui si scontra con una schiera di personaggi di dubbio gusto – ora della causa che la sua famiglia è costretta a subire.

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Insomma, in questo frangente The Apprentice segna un punto di partenza fondamentale per la narrazione, smentendo la naturale predisposizione per gli affari che il personaggio millanta di sé stesso, raccontandolo invece nella sua totale incapacità nel gestire anche solo una realtà immobiliare così piccola.

Per questo Roy Cohn è la chiave del suo successo.

Vincere

Jeremy Strong in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Roy è un vincente.

La costruzione del suo personaggio è minuziosa, basata sulla profonda consapevolezza che l’apparenza è la chiave della vittoria: Roy non è realmente un vincitore, ma sembra un vincitore, e per questo tutti vogliono essergli amici, tutti vogliono essere inclusi nella sua aura benefica.

E infatti i rapporti sono molto più importanti dei soldi.

Jeremy Strong e Sebastian Stan in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Il suo personaggio sceglie di prendere sotto la sua ala un giovane promettente a cui insegna tutti i trucchi per sfoggiare un’apparenza sgargiante e desiderabile, scegliendo consapevolmente di non accettare i suoi soldi – che Donald fra l’altro non ha…

…investendo così nel futuro.

Ma Donald forse non è il cavallo giusto su cui puntare.

Ombra

Jeremy Strong e Sebastian Stan in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Donald non è capace di agire nell’ombra.

Il panorama sociale che ruota intorno a Roy è basato unicamente su un’apparenza così fragile che basta un qualunque, maligno pettegolezzo per essere minata, motivo per cui l’abile avvocato si premura di munirsi di tutti gli strumenti necessari per forzare tutte le situazioni a suo favore..

E Donald ne è totalmente disorientato, come ben racconta il caos della festa da cui viene assorbito, e in cui scopre quando la figura di Roy sia artefatta, proprio svelandola nella sua intrinseca contraddizione: come l’omosessualità segreta è un’arma facilmente utilizzabile contro i suoi nemici…

…la stessa è un segreto neanche troppo nascosto dello stesso Roy.

E questo precario equilibrio di apparenze e mosse calcolate è una strada che Trump non è capace di percorrere.

Eccesso

Sebastian Stan nei panni di Trump in una scena di The Apprentice (2024) di Ali Abbasi

Trump vive di eccessi.

Come gli viene data la spinta iniziale per promuovere la sua prima, grande impresa immobiliare – la Trump Tower – il protagonista, nonostante gli avvertimenti Roy, si lancia in maniera sconsiderata in infiniti nuovi progetti che servono solo ad alimentare il suo ego.

In questo senso il film ben racconta come Trump non avesse l’intelligenza di scegliere le imprese che lo potessero meglio rappresentare, finendo per costruirsi l’immagine di miliardario sguaiato e senza freni, che si associa semplicemente a ogni proposta che possa diventare un’ulteriore macchina dei soldi…

…nella totale inconsapevolezza e ignoranza.

Infatti, per quanto il protagonista abbia compreso l’importanza delle apparenze, le costruisce nel modo più sbagliato: come Roy si allena ogni giorno per avere un fisico scattante, Trump si sottopone ad orribili e deleterie operazioni chirurgiche per perdere peso, come Roy mantiene un aspetto asciutto e controllato…

…i primi anni dell’ascesa di Trump raccontano già l’immagine – fra il cerone e il trapianto di capelli – quasi parodistica che fece di sé stesso.

E, infine, si riscrive pure in maniera ben poco credibile.

L’intervista finale racconta molto bene come, arrivati a questo punto, Trump si senta invincibile, e di come conseguentemente, nel suo sconfinato egocentrismo, diventi del tutto dimentico degli aiuti esterni che l’hanno portato nella sua attuale posizione…

…dando il merito del suo successo al proprio istinto rapace che l’ha definito come vincente.

E il resto è storia.

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2024 Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2025

The Brutalist – L’impossibilità della costruzione

The Brutalist (2024) di Brady Corbet è un dramma storico con protagonista Adrien Brody.

A fronte di un budget di circa 10 milioni di dollari, è già un buon successo commerciale: 25 milioni di dollari in tutto il mondo.

Candidature Oscar 2025 per The Brutalist (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Miglior regista
Migliore attore protagonista per Adrien Brody
Migliore attore non protagonista per Guy Pearce
Miglior attrice non protagonista per Felicity Jones
Migliore sceneggiatura originale
Miglior fotografia
Migliore colonna sonora originale
Migliore montaggio
Miglior scenografia

Di cosa parla The Brutalist?

László Tóth è un architetto ebreo che, salvatosi dallo sterminio nazista, emigra negli Stati Uniti. Ma l’accoglienza è solo apparentemente calorosa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Brutalist?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

In generale, sì.

Purtroppo non riesco ad unirmi al coro di entusiasmo riguardo a questa pellicola, che ho sentito, per via delle tematiche raccontate, profondamente lontana da me, oltre che per certi versi inutilmente prolissa nella narrazione di un tema che mi sembrava già ampiamente esplorato già a metà della visione.

Tuttavia, non ne posso che riconoscere l’importanza artistica e soprattutto storica, che si collega drammaticamente alla contemporaneità con un taglio narrativo a tratti straziante, genuinamente disturbante, anche grazie agli ottimi attori protagonisti. 

Salvo

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

László è salvo…?

L’arrivo negli Stati Uniti è accompagnato da un sincero entusiasmo, che sembra confermato anche dalla calorosa accoglienza da parte di Attila, che si accompagna alla felice notizia della sopravvivenza della moglie, che ormai il protagonista pensava perduta.

Tuttavia, già qui troviamo degli elementi discordanti.

Nonostante la coppia sembri accogliere László con grande altruismo, lo stesso Attila racconta l’inevitabile cambio di passo della comunità ebraica, costretta a mutare faccia e natura per farsi accettare dagli Stati Uniti, solo apparentemente accoglienti nei confronti dei rifugiati.

Un’insofferenza sotterranea che esplode in concomitanza con l’incidente della famiglia Harrison, e che si aggrava con le accuse infondate da parte della moglie del cugino, che porta il protagonista ad essere definitivamente messo ai margini.

Ma una redenzione è forse dietro l’angolo…

Discrepanza

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Il crescendo del rapporto con Harrison è solo un’ulteriore conferma della discordanza che domina la vita di László.

La stessa rappresenta in piccolo l’atteggiamento occidentale nei confronti della comunità ebraica, verso la quale riconosceva un’importante responsabilità, e che era effettivamente desiderosa di riscoprire per il capitale intellettuale racchiuso nella stessa, ma senza mai renderla sua pari.

Non a caso, il progetto può essere riletto come una rappresentazione della fondazione della stessa Israele, ma che si accompagna ad una sostanziale marginalizzazione degli ebrei: come László è a parole elogiato e premiato, nelle retrovie già solo la sua rozza sistemazione è indice del vero sentimento della famiglia che lo ospita.

E l’arrivo della moglie è l’inizio dell’ecatombe.

Rimorso

Adrien Brody e Felicity Jones in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

Più mi avvicinavo alla seconda parte del film, meno riuscivo a raccapezzarmi della sua storia.

E vorrei dire che l’elemento che più mi ha confuso sia a moglie, ma la stessa alla fine è del tutto comprensibile nel contesto del film: per me è abbastanza immediata l’associazione metaforica fra la Erzsébet e il peso delle radici che il protagonista deve portarsi sulle spalle in maniera piuttosto opprimente.

La lettura può proseguire anche in altre direzioni: un’eredità mutilata e che, nonostante le speranze, non potrà mai veramente rimarginarsi, e al contempo il sentimento di imposizione rappresentato, in maniera più o meno condivisibile, tramite lo stupro da parte di una donna – e di un simbolo – che è diventato insopportabile.

È tutto il resto che mi confonde terribilmente.

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

L’andamento della seconda parte l’ho trovato per molti versi superfluo, inutilmente prolisso nel raccontare, anzi nel sottolineare una narrazione simbolica che mi sembrava già conclusa un’ora prima, un’esasperazione di quanto già visto con un’ulteriore scena di violenza sessuale.

Quello che mi è risultato chiaro è quanto personale ed identitaria fosse diventata la costruzione per László, tanto da investirci finanze proprie per concludere un progetto rappresentativo della sua riaffermazione sociale, tramite la ricostruzione di uno spazio che gli era stato sottratto negli anni della guerra…

…che mi allontana ancora di più dalla pellicola.

Universale?

Adrien Brody in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

La mancanza di interesse nei confronti di una tematica non è un difetto dell’opera…

…ma non posso che sottolinearla.

Nonostante il regista abbia tentato di ricondurre la narrazione ad un tema più universale e contemporaneo – il dramma dell’immigrazione – purtroppo proprio per specificità sopra descritte, l’ho trovata al contrario una narrazione su una tematica estremamente specifica e definita dal periodo storico.

Guy Pierce in una scena di The Brutalist (2024) di Brady Corbet

A questo si aggiunge un racconto che, nel suo ultimo atto, non è mai riuscito a coinvolgermi, anche perché la narrazione mi appariva un continuo avanti e indietro, che porta ad un finale enigmatico per più motivi: Harrison viene assorbito dalla costruzione di László, e per estensione, da lui stesso? E se sì, perché?

E, ancora di più, cosa intende raccontarci il finale? Che nonostante il turbolento percorso, alla fine László è l’unico che ne è uscito vittorioso?

Concludo la visione con più domande che risposte, e poco interesse a scoprire quest’ultime.

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Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2025

A Complete Unknown – E il resto scompare

A Complete Unknown (2024) di James Mangold è un biopic dedicato a Bob Dylan con protagonista Timothée Chalamet.

A fronte di un budget di circa 60 milioni di dollari, ha avuto una partenza non entusiasmante, che lo porterà probabilmente ad essere un discreto flop commerciale.

Candidature Oscar 2025 per A Complete Unknown (2024)

(in nero le vittorie)

Miglior film
Migliore regista
Miglior attore protagonista per Timothée Chalamet
Migliore attore non protagonista per Edward Norton
Miglior attrice non protagonista per Monica Barbaro
Migliore sceneggiatura non originale
Migliori costumi
Miglior sonoro

Di cosa parla A Complete Unknown?

La pellicola ripercorre i primi, turbolenti anni della figura di Bob Dylan, personalità che non ha mai voluto farsi inquadrare.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere A Complete Unknown?

In generale, sì.

Non mi sbilancio nel consigliarvi questa pellicola perché, per quanto mi abbia nel complesso anche molto soddisfatto, mi rendo conto che un discrimine fondamentale è la conoscenza pregressa del personaggio e le aspettative nei confronti di un biopic a lui dedicato.

Infatti, non dovete aspettarvi una dissertazione sulla vita di Dylan, ma bensì un bozzetto sulla sua personalità e sugli inizi della sua carriera, in cui i contorni della sua storia e dei vari personaggi di contorno rimangono, appunto, di contorno, venendo poco approfonditi. 

Ma, se questo elemento non vi disturba, è una visione assolutamente consigliata.

Germoglio

Bobby è un germoglio che va coltivato.

I primi momenti della pellicola raccontano programmaticamente un ragazzo molto riservato e chiuso in se stesso, che parla esclusivamente attraverso la sua musica, e che lascia per questo fin da subito incantati i suoi ascoltatori, soprattutto considerando il genere.

Infatti la musica folk appare già in questo frangente in una posizione piuttosto fragile, in cui ogni tassello, anche il più recente, va documentato e archiviato perché sia mantenuto nella memoria collettiva, proprio perché rischia di cadere nel dimenticatoio.

Per questo Dylan – quanto la sua controparte femminile, Joan – è la figura ideale per far appassionare del genere anche le nuove generazioni, che invece si stavano orientando verso un altro tipo di musica nascente – la nuova musica popolare.

Ma Dylan non può essere ingabbiato.

Miccia

Due sono i momenti fondamentali dell’evoluzione del personaggio.

La pellicola riesce molto bene a raccontare la popolarità improvvisa del protagonista, che lo porta ad essere assolutamente irresistibile per il pubblico, preso continuamente d’assalto dai propri fan, e così impossibilitato a vivere una vita normale, con una visione claustrofobica, quasi soffocante.

Una popolarità che si traduce anche in un senso di oppressione, di essere totalmente nelle mani del pubblico, dei suoi manager che vogliono incasellarlo in un ruolo molto preciso, a cui Dylan è fin da subito insofferente, come ben racconta la scena della festa in cui gli viene chiesto di esibirsi…

…e lui sbotta che non vuole essere assoldato per una gig (volgarmente, spettacolino).

Una dinamica che lo accompagna verso il secondo momento fondamentale.

Consapevolezza

Bob Dylan è estremamente consapevole della sua posizione.

Per questo in un primo momento non si ribella, ma anzi cerca di rimarcarla in occasione del Folk Festival, in cui ritorna nelle vesti della star del momento, osservando da dietro le quinte l’esibizione di Johnny Cash, un tempo suo punto di riferimento, ora un semplice relitto del passato. 

Una dinamica che non ha bisogno di parole, ma solamente di un’inquadratura fissa sul sorriso sornione di Dylan che osserva attento l’esibizione di tutto quello che ormai si è lasciato alle spalle, e che ora è pronto a scalzare con la sua inarrestabile popolarità.

Ma non gli basta.

Focus

A Complete Unknown vuole parlare di Bob Dylan.

E basta.

Il protagonista si muove all’interno di un panorama di fantasmi, in cui i contorni della sua vita e i personaggi che la popolarono vivono unicamente in sua funzione, e per questo sono solamente abbozzati – tanto che di alcuni sappiamo praticamente solo il nome.

In questo senso entrano in gioco le aspettative verso la pellicola: come non esiste un modo giusto o sbagliato per produrre un biopic, se siete fan di Bob Dylan forse sarete rimasti contrariati da questa scelta, che vuole totalmente focalizzarsi sul carattere problematico del suo protagonista, ignorando tutto il resto.

Personalmente, pur comprendendo le critiche nei confronti della pellicola, ho apprezzato questo taglio narrativo, anzi sono rimasta estremamente coinvolta da una narrazione così puntuale nei confronti di un artista così problematico di cui non conoscevo che pochi pezzi.

Ma è tutta questione di aspettative, appunto.

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Avventura Dramma storico Drammatico Film L'altro lato del fronte

L’arpa birmana – Il peso della collettività

L’arpa birmana (1956) di Kon Ichikawa è un dramma storico ambientato alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato 33 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’arpa birmana?

Mizushima è un soldato parte di un battaglione nipponico fermo in Birmania con una particolarità: essere un superbo suonatore d’arpa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’arpa birmana?

Assolutamente sì.

L’arpa birmana si inserisce nelle produzioni nipponiche che riflettono sul tema della guerra in maniera molto differente da come siamo abituati in ambito occidentale, collegando la tragica sconfitta bellico al sempiterno tema della rinascita del paese.

La particolarità di questo film è che, a differenza di titoli ben più pesanti come City of Life and Death (2009) e La tomba delle lucciole (1886), riesce a riportare la narrazione sul piano più dell’individuo e della pesantezza della responsabilità, verso anche quelle persone che un tempo chiamava amici.

Destino

Mizushima è destinato al suo ruolo.

Il primo contatto con la popolazione locale è ostile quando catartico: viene spogliato sia fisicamente che metaforicamente dei suoi vestiti e quindi della sua identità da soldato e, per estensione, del suo ruolo come portatore di morte che vuole solo fare ritorno in patria.

Elemento ancora più sottolineato dalla inaspettatamente dolcissima scena dell’incontro con l’esercito inglese, che i soldati prima affrontano fingendo di essere in stato di pace e tranquillità, immersi in un momento conviviale senza un pensiero al mondo…

…per poi ritrovarsi immersi in un canto di pace e fratellanza, in cui due popoli così lontani culturalmente e linguisticamente riescono a ritrovarsi nel comune confronto di un conflitto ormai concluso, in un commovente scambio canoro che sembra già da solo chiudere la questione.

Ma non tutti sono d’accordo.

Pace

L’arpa è simbolo di unione…

…o di codardia?

Il protagonista è costantemente scelto nel ruolo di mediatore, proprio forte delle sue melodie che, con un linguaggio non verbale, erano capace di confortare o avvertire i propri compagni, anche nell’incontro con l’altro esercito sicuro della possibilità di una conclusione pacifica.

Eppure proprio in questo frangente emerge un tema ben più doloroso – che sarà poi ampiamente affrontato, fra gli altri, da Lettere da Iwo Jima (2006): il senso di onore di un popolo legato ad una tradizione per cui la vittoria, sia da vivi che da morti, è l’unica via possibile per uscire di scena.

E così, davanti ad una conclusione che sembrava già scritta, Mizushima si scontra violentemente con l’ottusità di questo pensiero, in cui neanche una pace forzata può essere accettata, arrivando inevitabilmente fino al tanto agognato annientamento onorevole.

Eppure, è solo l’inizio.

Rinascita

La rinascita di Mizushima è rappresentativa del Giappone del secondo dopoguerra.

Come all’inizio il protagonista vive ingenuamente nella parentesi bellica con il solo fine di tornare a casa e i suoi compagni si gettano testardamente nel proseguo dello scontro, allo stesso modo il Giappone è intrappolato in sogno di vittoria e onore che è infine costretto a lasciarsi alle spalle.

Infatti, con l’esplosione che segna il fallimento della missione quanto del dramma di Hiroshima, si staglia davanti agli occhi del protagonista la tragedia umana in tutta la sua brutalità, di un popolo inutilmente disperso in un paese straniero.

Per questo, Mizushima non può più tornare indietro.

Prigione

Il protagonista è devastato da una ferita difficilmente sanabile.

Mizushima sceglie consapevolmente di alienarsi dal suo battaglione, dai suoi amici, di cambiare forma e aspetto fino a rendersi irriconoscibile persino a sé stesso, se non fosse per l’elemento che ne ha definito l’identità fino a quel momento, ma ora con un significato totalmente diverso.

L’arpa.

Il fragile strumento sembra l’unico filo che ancora collega il protagonista alla sua vecchia vita, diventando l’eco di una vita a cui non può più tornare, non prima di aver risolto la drammatica responsabilità che senta di portare sulle spalle: rendere giustizia a chi è morto per lui.

E allora per i suoi compagni – e per il suo paese – rimane un’unica, debole testimonianza persa nel tempo: la voce del pappagallo, anzi dei due pappagalli che rappresentano il prima e il dopo, e che restano in mano ai suoi compagni come promessa, forse, un giorno di ricongiungersi…

…o, per un paese, di rinascere.

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Dramma storico Drammatico Film

La caduta – Una guerra fantastica

La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel, anche noto col sottotitolo de Gli ultimi giorni di Hitler, è un dramma storico dedicato agli ultimi momenti della Seconda Guerra Mondiale per la parte tedesca.

A fronte di un budget di 13 milioni di euro, è stato un ottimo successo commerciale: 92 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla La caduta?

Traudl è una giovanissima donna che fa una scelta di carriera piuttosto particolare: diventare l’ultima segretaria di Hitler.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di guardare La caduta?

Bruno Ganz in una scena di La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel

Assolutamente sì.

La caduta è uno di quei titoli che permette di riflettere in maniera inaspettata su personaggi storici su cui sembra che sia già stato raccontato tutto, in un contesto in cui spesso le stesse sono banalizzate nella loro malvagità e ridotte a mere figure mostruose.

Al contrario, l’opera di Hirschbiegel è ottima nel raccontare la figura sfaccettata del dittatore tedesco, che passa da un totale disprezzo nei confronti del suo stesso popolo, perfino con punte di paranoia, ad una inaspettata gentilezza d’animo nei momenti più privati.

Una visione a tratti disturbante, ma che può arricchire molto più di altri titoli analoghi.

Scelta

Per sua stessa ammissione, la scelta di Traudl è bizzarra…

…quanto determinante per la comprensione della pellicola.

La sua figura viaggia in due direzioni: fungere da vettore per rendere tridimensionale la narrazione, dal punto di vista di un personaggio ai margini della scena, e, al contempo, raccontare la a tratti incomprensibile fascinazione della figura del Führer.

La giovane donna infatti si intrappola nel momento di maggiore crisi del Reich, quando ormai il crollo del sogno nazista era alle porte, e si testava il livello di cieca idolatria da parte dell’esercito tedesco fino ai suoi più intimi consiglieri e fautori del Terzo Reich.

Al contempo la sua figura è utile nell’interrogarsi su aspetti del carattere di Hitler che stridono brutalmente con il suo ruolo di sanguinario dittatore, nella sua cura e sensibilità nei confronti dei suoi fedeli seguaci, particolarmente se donne.

Ma anche il resto della personalità è molto meno eclatante di quanto ci si potrebbe aspettare.

Delirio

Bruno Ganz in una scena di La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel

Non esiste una vita oltre al Terzo Reich.

L’Hitler raccontato da La caduta è drasticamente spogliato delle vesti di sgargiante animatore di folle, di spietato fautore di uno dei genocidi più strazianti della storia umana, e ridotto alla mediocrità dei suoi ultimi momenti di vita, definiti dalla sua totale alienazione dalla contemporaneità.

Bruno Ganz in una scena di La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel

La pellicola infatti ci offre un assaggio piuttosto doloroso – per quanto mai eccessivo nei toni – di una Germania ormai stremata da una guerra che sembra impossibile fermare, che deve continuare a dimostrare la sua fedeltà nei confronti del Führer fino alla morte.

E l’atteggiamento di Hitler è ancora più angosciante di quanto ci si potrebbe aspettare.

Mentre osserva il crollo del suo impero, il dittatore cerca strenuamente di far combattere un esercito che non solo è stremato, ma che per certi versi ormai non esiste neanche più, ridotto al minimo delle forze e a dover rimpolpare le sue fila con i civili e persino con ragazzini giovanissimi.

In questo senso Hitler non nasconde il suo disprezzo nei confronti di un popolo da cui si sente tradito, da cui anzi era stato tradito fin dall’inizio, potendo contare solamente sugli ultimi seguaci di un sogno che aveva infiammato una nazione per oltre un decennio.

Ed è un sogno difficile da scalfire.

Sogno

Il nazismo non era una semplice dittatura.

Per quanto la sua forza fosse proprio arrivare nel posto giusto al momento giusto – una Germania distrutta economicamente e socialmente da due guerre fallimentari – al contempo gran parte del suo successo derivò proprio dal sogno che riuscì a costruire.

Bruno Ganz in una scena di La caduta (2004) di Oliver Hirschbiegel

Un sogno non solo di rinascita, ma proprio di riaffermazione umana e di supremazia di una razza – quella ariana – per secoli inquinata da presenze dannose – gli ebrei, ma non solo – che doveva ricostruire il suo spazio vitale per un futuro più glorioso, di cui la guerra era solo il primo atto.

Per questo noi ci riflettiamo nello sguardo sbigottito ora di Traudl, ora del Dottor Schenck, quando assistiamo ai fedelissimi di Hitler che mantengono la loro cieca fedeltà fino all’ultimo momento, a livello più basso con i suicidi a catena dei soldati con l’arrivo di Russi…

…ad un livello più alto con la sistematica autodistruzione dei vertici del Reich, per cui non solo il Führer organizza in maniera attenta la propria uscita di scena, compresa la distruzione del proprio corpo, ma assistiamo persino all’agghiacciante suicidio della famiglia Goebbels…

…che non potrebbe mai vivere al di fuori del sogno del Terzo Reich.

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Dramma storico Drammatico Film Film di guerra L'altro lato del fronte

Flags of our fathers – Un brandello

Flags of our fathers (2006) di Clint Eastwood è l’altra parte di Lettere di Iwo-Jima dello stesso regista.

A fronte di un budget abbastanza importante – 55 milioni di dollari – è stato un pesante insuccesso commerciale: appena 65 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Flags of our fathers?

1945, Giappone. Un gruppo di marines appena arruolati si imbarca nell’importante missione di conquista di Iwo Jima. Ma la realtà del fronte è molto meno eroica di quanto potessero pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Flags of our fathers?

Assolutamente sì.

Se Lettere da Iwo Jima era un interessante spaccato sul valore della guerra per la parte nipponica, Flags of our fathers è una riflessione quanto mai lucida sul concetto fittizio di eroismo statunitense, mettendo in discussione la propaganda bellica che infestò la società statunitense per tutto il Novecento – e oltre.

E la narrazione visiva di Eastwood è precisa e puntuale, rendendo anche registicamente i temi affrontati e non caricando mai eccessivamente la scena di facile pathos, ma raccontando i momenti salienti con grande abilità e consapevolezza.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Indizi

La guerra è eroismo…

…oppure no?

Nel loro avvicinarsi al campo di battaglia, i giovani protagonisti cominciano ad allontanarsi dal sogno fittizio dell’eroismo sul campo di battaglia, come si vede nella graduale consapevolezza che li assale quando vedono uno dei loro compagni crollare in acqua:

So much for “No man left behind”.

E poi dicono “Nessuno viene lasciato indietro”.

Questa prima realizzazione li accompagna anche nello sbarco, quando si approcciano su un panorama apparentemente tranquillo, ma che in un istante si trasforma in una baraonda incontrollabile, in cui basta un attimo per passare da futuro eroe a cadavere cannibalizzato dalla propaganda.

E in questo frangente Eastwood brilla particolarmente con una regia dinamica e tridimensionale, che riesce ad abbracciare la scena da ogni punto di vista, raccontando semplicemente un gruppo di giovani che uno dopo l’altro, crollano a terra senza una parola.

In altre parole, delle pedine assolutamente sacrificabili…

…o facilmente vendibili.

Brandello

La bandiera protagonista della storia ha diversi significati.

Di fatto i media strappano da una realtà ben più complessa e dolorosa un brandello del tutto insignificante, vendendolo come la summa dell’esperienza al fronte e dell’impegno dei nostri ragazzi sul campo per tenere alto l’onore della patria.

O, in altro modo, vendendo quello che gli Stati Uniti vorrebbero.

La Seconda Grande Guerra fu un punto di partenza fondamentale per gli States nello scacchiere internazionale, portandoli ad essere protagonisti di diversi conflitti del tutto disinteressati, in realtà funzionali a cementificare il proprio potere militare su scala mondiale.

Per questo quella foto è così significativa: rappresenta il vero obbiettivo dell’intervento statunitense nel conflitto, ovvero riuscire ad imporre la propria importante presenza in una terra che non era la loro, con una bandiera progressivamente sempre più ingombrante e spettacolare…

…ignorando tutto il resto.

Spazio

La bandiera soffoca tutto il resto.

La comprensione dell’importanza simbolica della foto protagonista del film è raccontata fin da subito, quando la prima bandiera, troppo piccola e insignificante, viene presto sostituita da una più importante, che si ingrandisce sempre di pari passo alla progressione della storia

…finendo per soffocare, con i suoi colori vivaci e chiassosi, l’individualità dei suoi stessi portatori.

Un elemento che si nota in particolare nella composizione delle figure umane fotografate: le stesse perdono progressivamente sempre di più colore – come già il fronte è caratterizzato da una fotografia desaturata – fino ad essere sigillate all’interno di un biancore candido della una statua celebrativa…

…ed, infatti uno dei suoi protagonisti fa notare che, se avesse saputo che la foto avrebbe avuto tutta quella importanza, si sarebbe mostrato in volto, e non di spalle.

E questa è la chiave per la comprensione del concetto cardine del film.

Eroe

Gli Stati Uniti hanno bisogno di eroi vuoti.

Infatti, più è sfumata l’identità di queste figure, tanto è più facile utilizzarla per scopi politici, tanto è più facile attribuire meriti inesistenti per riempire il vuoto lasciato dai soldati morti sotto quella stessa bandiera, e, infine, tanto è più facile per il pubblico riconoscersi in quegli eroi.

In una società dominata dall’individualismo più sfrenato, la guerra diventa la promessa di affermazione personale, una possibilità nelle mani di chiunque abbia il coraggio di abbracciare un fucile, e così questi presunti eroi diventano uno spauracchio per ingrossare ancora di più le fila dell’esercito.

Eppure, loro stessi non si sentono eroi.

Una volta lasciatasi alle spalle la propaganda, le false promesse e un’idea di guerra fittizia, il fronte si concretizza in tutta la sua brutalità e immediatezza: non una lotta per la patria, ma una lotta per la sopravvivenza di sé stessi e dei propri compagni.

Insomma, i giovani protagonisti vivono un dramma ulteriore: non solo la tragica impotenza davanti ad un futuro definito dalla pura casualità, ma anche il peso delle aspettative che la società ha nei loro confronti, ma che non si sentono di poter realisticamente soddisfare.

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Dramma storico Drammatico Film Robin Williams

Risvegli – La coscienza in gabbia

Risvegli (1990) di Penny Marshall è un film drammatico con protagonisti Robin Williams e Robert De Niro.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 29 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 108 milioni di dollari.

Di cosa parla Risvegli?

Malcom Sayer è il nuovo dottore in una clinica specializzata in pazienti affetti da catatonia. Ma forse una speranza c’è per queste statue umane…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Risvegli?

Robin Williams e Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Assolutamente sì.

Nel suo piccolo, Risvegli è un racconto drammatico molto centrato, che riesce a portare in scena una vicenda reale già di per sé molto struggente, senza però mai eccedere sul lato del pietismo, senza banalizzarla per darla in pasto al pubblico.

Un risultato garantito anche per l’ottima coppia di attori protagonisti, fra cui spicca un superbo Robert De Niro in uno dei ruoli più complessi della sua carriera, anche solo per la responsabilità di non ridicolizzare una malattia così complessa.

Insomma, da riscoprire.

Inquadrare

Robin Williams in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Le prime battute di Risvegli sono tutte dedicate all’inquadrare il protagonista.

In una dinamica piuttosto tipica della sua carriera in questi anni, il personaggio di Robin Williams si immerge in un panorama immobile e cerca di trovare la chiave per sbloccarlo, mentre le altre persone intorno a lui sembrano ormai scoraggiate o, peggio, del tutto indolenti nel risolvere la situazione.

Robin Williams in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

E la sua capacità è proprio il riuscire a vedere oltre l’apparentemente definitiva immobilità dei suoi pazienti, cercando di cogliere quella tenue scintilla di consapevolezza che, con i giusti stimoli, può essere risvegliata e alimentata.

Proprio per questo si apre lo spiraglio per una consapevolezza agghiacciante.

Gabbia

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

I pazienti sono consapevoli?

Nelle sue meticolose quanto disperate ricerche il Dottor Malcolm si interfaccia con una prospettiva disturbante: e se queste figure così apparentemente immobili sia nel corpo che nella mente, fossero in realtà delle coscienze lucidissime intrappolate in un corpo che non risponde più?

Un’idea che è solo accarezzata dallo scambio con il Dottor Ingham, ma che il film ci tiene più volte a smentire dalla bocca di diversi personaggi, forse più per ammorbidire una storia già di per sé piuttosto angosciante, suggerendo piuttosto un’alternativa meno tragica…

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

…ma forse non così tanto confortante.

I pazienti non sono consapevoli della loro condizione, ma sono piuttosto immersi in un costante stato di dormiveglia, ad un passo dal riprendere il controllo della loro vita e del loro corpo, ma incapaci di avere la consapevolezza e la forza mentale necessaria per farlo.

E, quando il miracolo del risveglio accade, il film sembra finito.

Oppure…

Scostante

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

Ad una prima visione il ritmo di Risvegli potrebbe sembrare poco pensato.

Il primo atto sembra risolto in maniera piuttosto sbrigativa, con un risveglio improvviso di Leonard che conduce velocemente ad un atto centrale in cui riprende contatto con gli spazi, in un climax crescente che sembrerebbe non aver più niente da dire.

In questo frangente onestamente mi aspettavo un terzo atto che avrebbe funto più da epilogo rincuorante, in cui finalmente Leonard riusciva a trovare l’amore e a ricostruirsi una vita, diventando protagonista di una ribellione che rischiava addirittura di essere smaccata.

Robert De Niro in una scena di Risvegli (1990) di Penny Marshall

E invece Risvegli mi ha sorpreso.

Guardando nel complesso della pellicola, il ritmo è rappresentativo proprio del dramma stesso di Leonard, che fin troppo velocemente riesce a risvegliarsi, sempre più istericamente desideroso di evadere dalla gabbia corporea in cui era stato costretto per interi decenni…

…ma che gradualmente ed inevitabilmente torna alla sua condizione iniziale, proprio quando ormai sia il protagonista che lo spettatore erano certi di questa nuova vita così faticosamente conquistata, creando un’importante connessione emotiva che ci conduce ad un finale agrodolce.

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Niente di nuovo sul fronte occidentale – Le due facce

Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All’ovest niente di nuovo, è la più nota trasposizione dell’omonimo romanzo di Erich Maria Remarque.

A fronte di un budget di 1.3 milioni (circa 24 oggi), è stato un ottimo successo commerciale: 3.1 milioni in tutto il mondo (circa 56 milioni di dollari oggi).

Di cosa parla Niente di nuovo sul fronte occidentale?

Germania, 1916. Alle porte della Grande Guerra, un gruppo di giovani studenti è spronato a farsi avanti per il proprio paese. Ma la realtà del fronte è molto meno eroica di quanto promessa…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Niente di nuovo sul fronte occidentale?

Una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All'ovest niente di nuovo

Assolutamente sì.

Anche se avete visto la versione del 2022, questa trasposizione è un’esperienza completamente diversa: in un’ottica a suo modo più ingenua, il film del 1930 riesce a tratteggiare una quotidianità che alterna il comico e il drammatico, con punte quasi grottesche.

Più che un film, uno spaccato di un nascente sentimento anti-bellico, che cercava di evadere la retorica nazionalista ed eroica della guerra, proprio quando questa si stava prepotentemente per ripresentare con il secondo grande conflitto del Novecento. 

Insomma, da non perdere. 

Sogno

Niente di nuovo sul fronte occidentale si apre un sogno.

Il paese è in festa per una nuova occasione di dimostrare il proprio valore e il proprio eroismo, con i cittadini semplicemente entusiasti per una tale prospettiva, mentre gradualmente la visione si sposta verso una classe apparentemente impegnata in una lezione di greco…

Una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All'ovest niente di nuovo

…in realtà presto rivelata come anch’essa parte dell’entusiasmo generale, con il professore che induce nelle menti dei giovanissimi studenti un sogno del tutto fittizio, ma che riesce infine a convincerli ad arruolarsi, forti degli orizzonti di gloria promessi.

Ed è tanto più straziante vederli inseguire questo sogno impossibile quando affermano che in poco tempo saranno coperti di medaglie…

…quando in realtà il più grande regalo del fronte sarà un cambio di prospettiva.

Priorità

Una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All'ovest niente di nuovo

Il fronte è un mondo a parte.

I giovani volontari entrano nel microcosmo della trincea forti di capisaldi di una quotidianità civile che non valgono più nulla in un panorama cui il primario obbiettivo di ogni individuo è la semplice sopravvivenza, che sia sul campo di battaglia o nel nutrimento quotidiano.

Infatti presto i giovani protagonisti dovranno fare i conti con una routine in cui la sazietà è messa al bando, in cui un pasto effettivo diventa quasi una concessione, una breve quanto preziosa pausa da un fronte in cui il combattimento non sembra mai cessare.

Una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All'ovest niente di nuovo

E in questo contesto anche l’individuo è annullato.

Niente di nuovo sul fronte occidentale ci tiene particolarmente a mostrarci una guerra di uomini e non di paesi, in cui figure dall’appartenenza politica indistinguibile si scontrano crudelmente per la reciproca sopravvivenza.

E così un amico non è più un amico, ma un cadavere troppo pesante, troppo rischioso da portare in salvo, un paio di stivali nuovi non sono un semplice pezzo di abbigliamento, ma una piccola gioia temporanea da sottrarre al cadavere del malcapitato proprietario.

E, infatti, la prospettiva del fronte non è univoca.

Genuino

Una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (1930) di Lewis Milestone, anche noto come All'ovest niente di nuovo

A differenza della più recente trasposizione, la versione del 1930 non ha una precisa finalità.

Se infatti il film di Edward Berger voleva programmaticamente – e comprensibilmente – spogliare il mito della guerra eroica e svelarne invece gli orrori, questa prima versione cinematografica desiderava semplicemente tratteggiare un fronte di gioie e dolori.

Così accanto a momenti veramente strazianti della trincea, fra la sostanzialmente perdita di senno dei soldati che vivono per giorni sotto al fuoco incrociato e che cercano disperatamente di mantenere in vita il loro compagno, si alternano scene di più semplice quotidianità.

La pellicola anzi non si risparmia nell’utilizzare dei toni più tipici della commedia, per raccontare momenti di leggerezza, che, inseriti all’interno di un contesto così tragico, risultano in realtà destabilizzanti nel mostrare una quotidianità dettata dalla mera sopravvivenza…

…in cui l’individuo non può concedersi neanche per un momento di abbassare la guardia.

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Comico Commedia Dramma storico Drammatico Film di guerra Robin Williams

Good Morning, Vietnam – La guerra bugiarda

Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson è un dramma storico con protagonista Robin Williams.

A fronte di un budget abbastanza piccolo – 13 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 123 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Good Morning, Vietnam?

Saigon, 1965. Adrian Cronauer è la nuova voce della radio locale dell’esercito americano. Ma non è proprio il tipo di persona da lasciarsi minacciare dall’autorità…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Good Morning, Vietnam?

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In generale, sì.

Good Morning, Vietnam ricorda per molti versi il poco successivo L’attimo fuggente (1989): Robin Williams diede il meglio di sé nel ruolo di voce fuori dal coro che sbaraglia le carte in tavola in un contesto rigido e stringente, venendo per questo osteggiato dalle autorità in carica.

La narrazione circa la Guerra in Vietnam ovviamente non raggiunge i picchi di Vittime di guerra (1989), ma riesce comunque a puntellare un film sostanzialmente comico di momenti piuttosto drammatici e rivelatori sulla mala condotta statunitense durante il conflitto.

Insomma, un’opera meno conosciuta di questo magnetico interprete, ma che merita di essere riscoperta.

Presenza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Adrian Cronauer è fin da subito un personaggio fuori dagli schemi.

Introdotto dal neutro bollettino della radio locale, il protagonista sfida subito le autorità locali, dimostrandosi del tutto indifferente davanti alle velate minacce e al tentativo di imbrigliarlo all’interno di un sistema molto fragile e perfettamente calibrato.

E, infatti, fin dalla sua prima apparizione, dimostra di essere una minaccia.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Cronauer non ha infatti alcun rispetto nei confronti dei maldestri tentativi del suo esercito di mantenere una certa facciata, ed esplode in un’irresistibile sequela di siparietti comici e irriverenti, conquistando il cuore dei militari in un’inarrestabile popolarità.

Ma questo suo essere fuori dagli schemi si riflette molto anche nei suoi rapporti con la popolazione locale.

Consapevolezza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Il protagonista non ha consapevolezza del conflitto e delle sue regole non scritte.

Cronauer si scontra infatti continuamente col feroce razzismo che domina il panorama politico, ma a cui si contrappone sia indirettamente – intrecciando sinceri rapporti con la popolazione locale – sia direttamente – prendendo di petto le ingiustizie, pure a costo di scatenare una rissa.

E, più in generale, il suo comportamento è ben diverso dal resto dei suoi conterranei anche per come affronta l’educazione dei vietnamiti, non limitandosi ad un’istruzione di base, ma fornendo ai suoi nuovi amici degli strumenti effettivi per affrontare la scomoda presenza straniera.

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

In maniera invece ben più irriverente, la sua posizione ribelle è ben raccontata dalla scelta di diffondere ufficiosamente una delle più tristi e recenti realtà del conflitto – l’attentato al bar – proprio a risvegliare le coscienze di un esercito che vive di un sogno filtrato dalle comunicazioni ufficiali.

Ma quindi cosa vuole davvero raccontarci Good Morning, Vietnam?

Speranza

Robin Williams in una scena di Good Morning, Vietnam (1987) di Barry Levinson

Pur nella sua semplicità, Good Morning, Vietnam è un racconto di speranza.

La pellicola non vuole né semplificare né attenuare la gravità del conflitto, ma anzi la vuole sottolineare proprio affiancando ad una piacevole comicità pochi momenti struggenti e significativi, come a rappresentare il sogno fittizio di pace venduto agli statunitensi che viene facilmente svelato. 

E lo fa anche e soprattutto nel rappresentare i rapporti impossibili fra Cronauer e la popolazione locale: come una possibile relazione con Trinh è scoraggiata fin dall’inizio, anche la stessa amicizia con Tuan sembra minata dal profondo risentimento del giovane ragazzo verso la insopportabile presenza straniera.

Eppure, nonostante lo scoraggiamento temporaneo, il protagonista rimane fino all’ultimo una voce libera e irriverente, capace persino di sbeffeggiare il suo stesso presidente, rappresentazione, a più di dieci anni di distanza, della risposta di un paese affranto da una guerra bugiarda.