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La spada nella roccia – Il coming of age della Storia

La spada nella roccia (1963) è il diciottesimo Classico Disney, nonché l’ultimo uscito prima della morte di Walt Disney – e l’ultimo che supervisionò direttamente.

A fronte di un budget di 2 milioni di dollari, fu un buon successo commerciale: 4,75 milioni di dollari nella sua prima distribuzione.

Di cosa parla La spada nella roccia?

Artù è un giovane ragazzo orfano destinato a diventare uno scudiero. Ma il destino ha in mente qualcosa di diverso per lui…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La spada nella roccia?

Assolutamente sì.

Anche se spesso è considerato un film minore nella storia della Disney di questo periodo, La spada nella roccia è una pellicola da riscoprire: ereditando la narrazione per quadri di Lilli e il Vagabondo (1955), questo Classico è un tipico coming of age

…ma che riesce a distinguersi da molti suoi simili grazie ad un umorismo piacevolissimo, una morale che rappresenta un incontro fra realtà storica ed evoluzione del protagonista piuttosto peculiare, e momenti ormai diventati iconici.

Insomma, da vedere.

La spada nella roccia Produzione

La spada nella roccia era nei piani della Disney fin dal 1939.

Infatti quell’anno Walt Disney acquistò i diritti per trasporre l’opera di T. H. White, ma in piani produttivi saltarono più volte negli anni, prima di tutto per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, e poi per il progressivo disinteresse nei confronti del progetto.

Proprio come La carica dei 101 (1961), anche la sceneggiatura de La spada nella roccia fu sviluppata da un unico autore, che richiese non meno di due rielaborazioni, anche per la difficoltà intrinseca di adattare l’opera di partenza.

Il casting vocale fu turbolento.

La prima scelta per il doppiaggio di Artù fu Rickie Sorensen, che però crebbe considerevolmente durante la produzione, al punto da dover essere sostituito da due figli del regista, Wolfgang Reitherman.

Ne consegue che, fra una scena e l’altra, e persino all’interno della stessa scena, si può notare un cambiamento vocale per il personaggio di Artù.

Per la parte animata si utilizzò ancora una volta la tecnica Xerox, con l’aggiunta della tecnica touch-up per la fase di pulizia delle bozze che andavano poi effettivamente a comporre le immagini della pellicola.

Grazie a questa nuova idea, gli assistenti di animazione, che prima avrebbero dovuto trasferire gli schizzi degli animatori della regia su nuovi fogli di carta, scrivevano invece direttamente sugli schizzi degli animatori, riuscendo così a risparmiare molto tempo.

Immaturità

Pur con qualche perdonabile ingenuità, il racconto dell’immaturità storica de La spada nella roccia è davvero ottimo.

Il periodo portato in scena può essere volgarmente collocato nell’Alto Medioevo, sicuramente in un’epoca pre-carolingia: per quanto secoli non così devastanti come spesso raccontati, comunque rappresentarono un momento di grande povertà e di dispersione culturale.

Il deterioramento del sistema scolastico, la frammentazione del panorama intellettuale, dovuta anche alla devastazione politica, rende infatti credibile un analfabetismo diffuso e un’epoca basata unicamente sul valore della forza.

E proprio qui si inserisce Merlino.

Prospettiva

Merlino rappresenta lo spettatore…

…e con lo stesso dialoga.

Avendo una prospettiva – seppur non chiarissima – dell’evoluzione umana, quasi da umanista incallito, Merlino non riesce a sopportare questo guazzabuglio medievale, quasi come se fosse lo spettatore contemporaneo calato in una realtà senza elettricità, senza idraulica, senza cultura…

Proprio per questo, l’educazione di Artù non è fine a sé stessa.

Merlino non vuole solo educare il futuro Re di un’Inghilterra mancante di una guida, mancante di alcun tipo di lungimiranza, ma vuole fare in modo che lo stesso sia il punto di svolta per la stessa, soprattutto culturalmente parlando.

In questo senso il mago esagera anche nel suo coinvolgimento – proponendo materie, come la biologia, che non esistevano proprio in quel periodo – ma proprio perché nella sua prospettiva è fondamentale gettare le basi per un’Europa acculturata e con una visione proiettata verso il futuro.

Per questo Artù non è Artù…

Corrispondenza

Senza voler portare un’eccessiva sovralettura, il personaggio di Artù, più che corrispondente al mitico condottiero britannico del VI sec., è una rappresentazione più o meno consapevole di Carlo Magno.

Saltando qualche secolo in avanti e spostandoci a livello geografico, il leggendario Re dei Franchi era sostanzialmente una analfabeta che gettò le basi culturali fondamentali per la rinascita intellettuale dell’Occidente fra il Basso Medioevo e l’Età Umanistica.

Insomma, una figura storica capace di cambiare prospettiva.

Ed è proprio questa la base della sua apparentemente stramba educazione.

Merlino cerca di porre il giovane pupillo in vesti diverse e molto più indifese, dove Artù deve capire come salvarsi la pelle grazie al suo intelletto e non più (solamente) tramite la forza, proprio per portare ad una visione molto più a lungo raggio.

In questo modo Artù potrà effettivamente essere il Re che farà cambiare prospettiva al suo Paese e all’Occidente tutto, proprio mentre l’Inghilterra sta cercando il suo prossimo regnante – e la sua prossima guida – ancora tramite una prova di forza.

Ostacolo

Perché Artù può estrarre la spada?

Anche se la sfuriata di Merlino quando il giovane protagonista sceglie di diventare uno scudiero sembra troppo improvvisa, in realtà è del tutto giustificata: nonostante i suoi grandi sforzi, il suo pupillo sceglie comunque di sottomettersi alla cultura dominante…

…e di porsi anzi in secondo piano in un mondo definito da scontri all’ultimo sangue e da una totale dimenticanza del vero simbolo che avrebbe definito il futuro del Paese – la Spada nella Roccia – che viene riscoperto proprio dal protagonista.

E Artù può estrarre la spada perché, nonostante la sua poca forza fisica, ha dimostrato in più occasioni di sapersi – anche solo potenzialmente – adattare a circostanze cangianti e sfidanti, e quindi di essere capace, a differenza dei suoi compatrioti, di diventare la guida di cui il suo Paese ha bisogno.

Per questo Merlino sceglie di tornare da Artù proprio nel momento di maggior bisogno, quando lo stesso ha mosso il primo passo nella sua evoluzione, ma quando ha ancora bisogno di una insegnante che gli faccia guardare al futuro con una maggior consapevolezza e intelligenza.

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Tremila anni di attesa – Un qualunque desiderio

Tremila anni di attesa (2022) di George Miller, traduzione abbastanza impropria di Three Thousand Years of Longing, è un incontro piuttosto curioso fra il genere fantastico e il dramma storico.

A fronte di un budget di ben 60 milioni di dollari, è stato un terrificante flop commerciale, con appena 20 milioni di dollari di incasso…

Di cosa parla Tremila anni d’attesa?

Alithea è una studiosa britannica che da tempo soffre di apparenti allucinazioni. Ma qualcosa di molto concreto sta per accadere nella sua vita…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Tremila anni di attesa?

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Assolutamente sì.

Dopo Fury Road (2015), anche con Tremila anni d’attesa George Miller ha dimostrato di essere un autore estremamente creativo e multiforme, sostanzialmente incapace di fossilizzarsi sul genere che gli ha sostanzialmente definito il successo ad Hollywood…

…ma volendo sperimentare, qui e altrove, con generi e dinamiche molto diverse fra loro, riuscendo comunque a confezionare un racconto avvincente, impreziosito da una morale per nulla scontata.

Insomma, da riscoprire.

Aspettative

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Con tematiche di questo tipo è facile risultare banali…

…soprattutto nel tentativo di essere originali.

Invece, fin da subito, Miller sorprende con dinamiche ben equilibrate e, in qualche modo, persino credibili: Alithea non prova a strofinare la lampada perché pensa che ci sia dentro un genio, ma piuttosto la pulisce con uno spazzolino elettrico…

…e così il djinn non parla immediatamente in inglese, ma comincia col la lingua di Omero.

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Allo stesso modo, la reazione della protagonista è piuttosto graduale.

La donna è sulle prime molto – giustamente – sospettosa nei confronti del genio, memore delle innumerevoli storie in cui diversi umani sprovveduti sono stati intrappolati dai loro stessi desideri mal espressi…

E, per questo, deve essere convinta del contrario.

Vittima

Il djinn è, in un certo senso, la vera vittima della storia.

Dopo essere stato imprigionato in una trama dal forte sapore biblico, finisce sfortunatamente nelle mani della classica protagonista delle storie di questo tipo: una sciocca ragazza che si sente fin troppo sicura dei suoi desideri, e che per questo finisce schiacciata dagli stessi.

E, al contempo, il djinn dimostra la sua impotenza.

Nonostante sia una creatura millenaria, con poteri inimmaginabili, può poco davanti al reticolo di inganni e di autodistruzione che avvelena la corte, in cui basta un sussurro, un dubbio, per fare cadere un castello di carte già piuttosto fragile…

Ed il genio è tanto più impotente davanti alla scarsa lunghezza di vedute della ragazza, che si dimostra incapace di reagire e di salvare sé stessa – e di conseguenza anche il djinn – andando proprio a sottolineare la sua forte dipendenza dall’umano.

Occasione

Quello che potremmo chiamare l’atto centrale di Tremila anni d’attesa funge più quasi intermezzo.

Il djinn rimane per lungo tempo sullo sfondo della sua stessa storia, ancora una volta articolata su un domino invisibile di eventi che si concatenano e che cambiano da un momento all’altro la sorte dei personaggi – compreso lo stesso genio.

 Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Così l’umore altalenante del sultano viene solo temporaneamente quietato da un innamoramento fin troppo breve, e la sua improvvisa morte getta nel caos il regno stesso, che finisce nelle mani di un bambinone e delle sue concubine, incapaci di gestire alcunché…

…fra cui la sorte dello stesso djinn.

Ma sembra che il destino abbia qualcosa in serbo per lui…

Legame

L’ultima avventura del djinn sembra essere quella decisiva.

Finito nelle mani di una giovane donna con un intelletto sgargiante, imprigionata in un matrimonio soffocante, il djinn ha finalmente la possibilità di realizzare dei sogni che arricchiscono non solo la sua padrona, ma anche lui stesso.

Ma proprio questo è la sua rovina.

Avendo desiderato per millenni di entrare nell’aldilà promesso dei djinn, il protagonista finisce per legarsi in maniera inaspettata con Zefir, con cui concepisce persino un figlio, ma che, nonostante l’incredibile conoscenza acquisita, è come tutti vittima delle sue debolezze.

Infatti, basta un momento di incomprensione per fare esprimere involontariamente alla donna il suo ultimo desiderio, che effettivamente rappresenta la profondità del suo cuore in quel momento, ma che la condanna ad una vita di oblio.

Allora è questa la volta buona per il djinn?

Desiderio

Tilda Swinton in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Cosa desidera veramente Alithea?

A differenza di tutti gli altri umani prima di lei, la donna non sembra essere mossa da particolari necessità.

Tuttavia, questa sua ritrosia nel trovare un desiderio soddisfacente è in realtà specchio del suo essersi ormai in qualche modo arresa alla vita: avendo bruciato quell’unica occasione di fuga dalla solitudine, ormai la sua esistenza non ha più bisogno di altri sconvolgimenti.

Tilda Swinton e Idris Elba in una scena di Tremila anni d'attesa (2022) di George Miller

Eppure, è proprio questo il suo più intimo desiderio.

Il desiderio che la protagonista infine esprime è di realizzare finalmente una relazione duratura e travolgente, che possa compensare a quella solitudine che l’ha turbata più di quanto sarebbe disposta ad ammettere…

…e che porta ad incatenare il djinn su un piano dell’esistenza che non è il suo.

Per questo il finale è così calzante.

Proprio rinunciando al suo desiderio, Alithea si differenzia dagli altri umani che, in un modo o nell’altro, si erano fatti distruggere dalle loro stesse passioni, scegliendo invece una serena esistenza puntellata da poche ma essenziali felicità.

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La bella addormentata nel bosco – Una protagonista di sfondo

La bella addormentata nel bosco (1959) è il sedicesimo classico Disney basato sull’omonima fiaba dei Fratelli Grimm e sull’opera di Perrault in I racconti di Mamma Oca (1697).

A fronte di 6 milioni di dollari, fu un pesante insuccesso commerciale: appena 5,3 milioni di incasso, portando ad una perdita finanziaria tale da portare lo stesso Walt Disney a cominciare a disinteressarsi all’animazione…

Di cosa parla La bella addormentata nel bosco?

Il re Stefano e la regina Leah riescono dopo anni ad avere una bellissima bambina. Ma un invito mancato cambierà decisamente le carte in tavola…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La bella addormentata nel bosco?

Assolutamente sì.

Con mia sincera sorpresa, La bella addormentata nel bosco potrebbe essere fra i miei Classici Disney preferiti di questa fase – e per un motivo molto semplice: la storia di Aurora e Filippo è incredibilmente accessoria, mentre il fulcro della trama è altrove.

Raramente si vede in un film Disney una presenza così preponderante del villain e dei personaggi – almeno sulla carta – secondari, che invece appaiono come i veri protagonisti della stessa – o, comunque, i motori dell’azione.

Insomma, ve lo consiglio molto.

La bella addormentata nel bosco Produzione

La bella addormentata nel bosco rappresentò l’inizio della rottura di Walt Disney con l’animazione.

La lavorazione del film cominciò infatti nel 1951, ma proseguì con grande lentezza quasi fino alla fine del decennio: se inizialmente si pensava di far uscire la pellicola nel 1953, la produzione venne rimandata di ben due anni per l’impegno di Walt Disney nell’apertura di Disneyland.

La produzione riprese effettivamente nel 1956 e si programmò la nuova uscita per il 1957, ma la costruzione del parco assorbì talmente tante risorse e budget che i tempi si allungarono ancora, e Walt Disney visionò il progetto solo nell’agosto del ’57…

…ma con poco ed effettivo interesse.

La direzione artistica si rifece molto ad una produzione precedente e simile: Biancaneve e i sette nani (1937), riprendendo alcune idee scartate da Walt Disney, come tutta la dinamica della cattura del principe e la danza nel bosco fra Aurora e Filippo.

Tuttavia, si presero importanti distanze dal primo Classico: anche se l’ispirazione estetica era simile, Walt Disney volle che questo nuovo prodotto si distinguesse in maniera netta dai precedenti…

…e per questo si scelse di abbandonare lo stile più dolce e arrotondato usato in precedenza per abbracciare invece un tratto più stilizzato e spigoloso, rifacendosi anche all’estetica propria del periodo storico rappresentato.

Inoltre, La bella addormentata nel bosco fu il primo Classico ad essere fotografato secondo il nuovo processo di widescreen – il Super Technirama 70 – riservato nella storia Disney a pochissimi prodotti, ma che permetteva una cura più articolata e complessa per gli sfondi.

Inoltre, fu anche l’ultimo classico Disney inchiostrato a mano: a partire dal successivo La carica dei 101 (1961) ci si sarebbe spostati all’uso della xerografia per trasferire i disegni degli animatori dalla carta alla celluloide.

Protagonista

Aurora è così poco protagonista del suo stesso film da non apparire se non a storia già avviata.

Invece, le vere figure centrali sono subito in scena.

Dopo il breve prologo introduttivo che getta le basi della trama, appaiono fin da subito le sagge fate madrine, invitate per benedire la nascita di Aurora con un regalo a testa, dimostrando fin da subito il loro appoggio politico (?) al futuro del regno.

Questo sottile sottofondo è ben definito dall’arrivo di Malefica: i primi a reagire non sono i genitori di Aurora, ma bensì una delle tre fate, Serenella, profondamente offesa di essere definita plebaglia dalla nobile strega.

Ed è sempre la fatina ad affermare che Malefica non è benvoluta in quell’occasione, motivo per cui la Regina Leah, piuttosto impensierita, chiede – o, meglio, prega – la strega di non reagire all’offesa subita.

E la risposta di Malefica è piuttosto subdola…

Possibilità

Malefica avrebbe potuto uccidere Aurora immediatamente.

E invece sceglie una via ben peggiore.

Come si vedrà più avanti anche nel film, la punizione di Aurora non è niente di personale nei confronti della bambina, ma piuttosto una presa di posizione piuttosto forte politicamente parlando da parte della strega.

Infatti, maledicendo la protagonista con un destino crudele, Malefica si pone in una posizione di grande vantaggio rispetto a Re Stefano: la sua minaccia sarà presente sul suo regno e sul suo futuro per i prossimi sedici anni, a meno che…

…a meno che il Re non si faccia perdonare.

Infatti, anche se non viene detto esplicitamente, con la sua risposta Stefano prende una posizione molto chiara: invece che provare a porre rimedio all’offesa, appella Malefica in malo modo – strega, in inglese creature…

…e cerca, molto ingenuamente, di impedire che la profezia si avveri, distruggendo tutti gli arcolai.

E a questo punto la palla passa di nuovo alle fate.

Schema

In quanto veri motori dell’azione positiva della storia, le tre fate scelgono un modo ben più intelligente per proteggere Aurora.

Andando a nascondersi nel bosco, scegliendo abiti per così dire borghesi e rinunciando di fatto alla loro magia, il terzetto capisce che il modo migliore per impedire che la maledizione di Malefica faccia il suo corso è di nascondere Aurora.

In questo contesto decisamente serio prende piede l’umorismo piuttosto piacevole della pellicola, finalizzato evidentemente ad ammorbidire una storia con un taglio molto cupo, nonché ricca di momenti al limite dell’orrorifico.

Inoltre, la scena del compleanno di Aurora cerca anche un po’ di ridimensionare le fate.

Non delle abili strateghe e macchinatrici come si era visto all’inizio, ma delle fatine un po’ pasticcione e testarde, che finiscono per rovinare un piano lungo sedici anni per via una contesa che, per quanto umoristicamente davvero gradevole, appare altresì assai sciocca.

Tuttavia, come vedremo anche successivamente, questa dinamica del piano che si rovina in pochi attimi offre anche il fianco ad un sottofondo piuttosto inquietante: la presenza di Malefica, per quanto la si combatta, è sempre in agguato.

E Aurora?

Desiderio

Aurora è la più classica principessa Disney.

Per quanto, come detto, non sia veramente la protagonista della storia, ma bensì una pedina nelle mani di diversi personaggi, ad Aurora viene regalato un ampio segmento centrale per riuscire a definirsi.

Di fatto la principessa non è tanto dissimile da Biancaneve – vive in armonia nel bosco e parla con gli animali – ma è soprattutto dotata di un elemento che si era visto finora solo con Cenerentola: la cosiddetta canzone del desiderio.

Del tutto ignara delle dinamiche politiche che si stanno svolgendo alle sue spalle, Aurora canta il suo desiderio – incontrare il principe dei suoi sogni – definendosi proprio come personaggio quasi onirico, del tutto slegato dalle brutture terrene.

Ed effettivamente il suo sogno si realizza: quello per Filippo – il primo principe effettivamente caratterizzato fino a questo momento – è un innamoramento a prima vista, un amore predestinato – soprattutto politicamente…

Ombra

Malefica è fin troppo sottovalutata.

Per quanto le fate abbiano progettato un piano apparentemente perfetto per salvaguardare il futuro di Aurora, si lasciano facilmente battere non solo facendosi scoprire in maniera piuttosto ingenua, ma soprattutto lasciando Aurora sola nel momento di maggior pericolo.

Purtroppo, la giovane principessa può poco davanti alla maledizione di Malefica: come in trance, si incammina obbediente verso il proprio nefasto destino, accompagnata da un commento sonoro estremamente incalzante…

…e a poco servono i suoi timidi tentativi di sottrarsi ai comandi della strega, finalmente vittoriosa di aver reso inerme il futuro del regno, e di aver così realizzato la sua maligna vendetta nei confronti di Stefano.

E, a questo punto, ancora una volta, la palla passa alle fate.

Campione

La maggior parte dei personaggi sono all’oscuro di quello che sta succedendo.

Le fate scelgono programmaticamente di nascondere la loro grave mancanza, immergendo tutto il castello in un limbo di sonno profondo, al pari di Aurora, così da poter avere il tempo di risolvere la spinosa vicenda.

In particolare, le fate hanno bisogno del loro campione.

Filippo è, al pari di Aurora, una pedina.

Conscia che il principe potrebbe mettergli i bastoni fra le ruote, Malefica non solo lo rapisce, ma lo carica di un destino persino peggiore di quello della principessa: potrà lasciare il castello e tornare dalla sua amata solo quando sarà vecchissimo e sostanzialmente inerme.

E, visto che evidentemente lo stesso è incapace di liberarsi da solo – e di salvare Aurora – le fate devono ancora una volta intervenire non solo per eliminare le sue catene, ma anche per dotarlo degli strumenti per battere Malefica.

Ne segue un duello particolarmente incalzante, in cui la strega fa di tutto per impedire a Filippo di arrivare al castello, persino affrontarlo di persona nelle vesti di un diabolico drago nero, che infine il principe riesce a battere…

…mostrando, per la prima volta, il cadavere di un villain Disney.

E a queste note piuttosto lugubri segue una chiusura invece piuttosto dolce e sognante, che meglio si accompagna alla coppia di innamorati, che danzano fra le nuvole in una perfetta armonia.

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Last night in Soho – Salvare il sogno

Last night in Soho (2021) è la prima sperimentazione di Edward Wright con il genere drammatico e orrorifico.

Purtroppo, anche per via dall’annata sfortunata in cui uscì, fu un pesante flop commerciale: con un budget di 43 milioni di dollari, ne incassò appena 22 in tutto il mondo…

Di cosa parla Last night in Soho?

Ellie è un’aspirante stilista con una particolare passione per gli Anni Sessanta. E quando sembra che il suo sogno si stia per realizzare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Last night in Soho?

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Assolutamente sì.

Last night in Soho è una fantastica sperimentazione registica di Edward Wright, che riuscì nuovamente a raccogliere ancora l’eredità del suo film più iconico, Shaun of the dead (2004), e a riproporlo in un’opera veramente inedita per la sua produzione.

Infatti non solo la trama è decisamente drammatica, viaggiando fra il thriller e l’horror, ma per la prima volta il regista britannico mise al centro di una sua storia un personaggio femminile, riuscendo a portare in scena temi attualissimi e in maniera mai banale.

Insomma, da riscoprire.

Sogno

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Ellie sembra finalmente aver realizzato il suo sogno.

Nonostante i diversi ammonimenti della nonna, nonostante il passato che la tormentata, la giovane protagonista è semplicemente entusiasta di questo nuovo capitolo della sua vita, sicura che nulla potrà andare storto, tanto è vivido il suo entusiasmo e la sua immaginazione.

E invece basta mettere un piede nella città per essere già in pericolo.

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Wright dimostra una particolare empatia nel raccontare il senso di pericolo e di inquietudine che accomuna purtroppo l’esperienza ancora di molte donne: vedere potenzialmente dietro ad ogni uomo troppo espansivo un potenziale stalker – o peggio…

Ma neanche a casa può sentirsi al sicuro.

Equilibrio

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Last night in Soho gode di un particolare equilibrio nella rappresentazione dei personaggi.

Una sceneggiatura ben più banale avrebbe mostrato un contrasto netto fra i personaggi femminili e maschili: nei primi la protagonista avrebbe trovato conforto, nei secondi gli antagonisti principali della pellicola.

E invece Ellie si trova incastrata in una situazione di bullismo piuttosto tipica: una ragazza particolarmente crudele che guida il comportamento altrettanto spiacevole delle altre compagne, costringendo la protagonista a sentirsi costantemente fuori posto.

Ma che infine sceglie di cercare altrove i suoi spazi.

Illusione

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La nuova stanza è il prologo del sogno.

Ellie non scappa solamente dalle sue nuove compagne, ma da quel presente opprimente in cui non riesce a ritrovarsi, vestendo i panni di un suo alter ego ideale: una giovane donna in cerca di fortuna, che si trova sotto la protezione di un uomo fascinoso e pieno di promesse.

Thomasin McKenzie e Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Tutte le dinamiche, anche quelle più tristemente sessiste – Sandie è onorata di essere salvata dalle molestie di un altro uomo – fanno parte di un racconto dalle note fiabesche, la cui protagonista sembra un’eroina del cinema popolare.

E, per rendere la dualità della protagonista, Wright utilizza un calzante quanto psichedelico gioco di specchi, oltre all’indimenticabile sequenza del ballo in cui Ellie e Sandie si alternano fra le braccia di Jack – con anche un certo sottofondo erotico che non guasta.

Identità

Thomasin McKenzie in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Immergendosi sempre di più nel sogno, Ellie perde progressivamente la sua identità.

Dalla scelta di cambiare colore di capelli, fino all’acquisto del costoso impermeabile vintage, la protagonista cerca prepotentemente di portare il suo sogno nella realtà, nella sua persona, quando ancora è certa che sia tutto quello che potrebbe mai desiderare.

E apparentemente in questo modo la protagonista diventa anche più sicura di sé stessa, comincia ad ottenere i primi successi come stilista, venendo elogiata per la sua inventiva e il suo pensare fuori dagli schemi.

Ma basta poco perché tutto crolli…

Climax

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La scoperta del vero destino di Sandie è devastante.

La pellicola costruisce un efficace climax narrativo in cui prima la donna viene ridotta a ballerina di sfondo di uno squallido burlesque, avendo unicamente il ruolo di oggetto sessuale per un pubblico di uomini allupati…

…e infine viene incastrata, come altre donne prima di lei, in una rete di false promesse, che la porta progressivamente a distruggersi con l’abuso di alcol e di droghe, finendo per gettare all’aria i suoi sogni nel tossico circolo della prostituzione coatta.

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

Con uno splendido piano sequenza si racconta effettivamente il destino di tante donne che furono ingoiate dai loro stessi sogni, dalle false illusioni di lupi nell’ombra, che si approfittarono delle loro ingenuità per impossessarsene in maniera meschina e sistematica.

E non c’è via d’uscita.

Infatti, anche se Linsday prova a salvarla, i suoi modi così supponenti e spiacevoli – confermati anche nella sua versione presente – sono per la donna solo una conferma di come non si può fidare di questi uomini, soprattutto quelli che gli promettono soluzioni fin troppo facili…

Salvarsi

E allora è il turno di Ellie.

Sicura della sorte sfortunata del suo alter ego, la protagonista comincia a crollare su sé stessa, fino a scivolare in un incubo senza via d’uscita apparentemente per le droghe che le scivolano nel bicchiere, in realtà dando sfogo ad un turbamento con radici ben più profonde…

Wright racconta infatti l’importanza del peso di una tradizione di abusi e tradimenti che difficilmente ci si può lasciar scivolare di dosso, e che portano la protagonista a minare la sua felicità presente in nome di un passato che sembra impossibile da salvare.

Elemento che si nota particolarmente nella scena della scoperta del presunto omicidio di Sandie, portato in vita con una regia magistrale che compara indirettamente la penetrazione sessuale con la penetrazione violenta del coltello nel corpo della giovane donna.

E così Ellie vive ancora più drammaticamente l’impossibilità di certe donne, soprattutto nel passato, di potersi salvare, ma neanche di avere una rivincita almeno in un presente più consapevole e accogliente.

E invece Sandie si era già salvata.

Vendetta

Anya Taylor Joy in una scena di Last night in Soho (2021) di Edward Wright

La rivelazione di Sandie non era semplice da gestire.

La sua via d’uscita è stata compiere una serie di omicidi sistematici, deturpando i volti di quegli odiosi uomini, seppellendoli sotto le sue scarpe e facendoli dimenticare da tutti, esattamente come Jack avrebbe voluto fare con lei.

Si racconta in questo modo un passato violento e impossibile da salvare, con un equilibrio di forze totalmente sbilanciato, in cui vi erano solamente due strade per la protagonista della storia: divorare o essere divorata.

E la spietatezza di Sandie si vede anche nel presente, quando non riesce neanche a fidarsi di una giovane e innocente ragazza che voleva solo salvarla, finendo per ritirarsi a morire nell’amarezza della sua stanza, del suo passato…

Infine Ellie si trova davanti ad un dilemma morale, a cui deve arrendersi: non può né salvare gli uomini vittime di Sandie, figli di una cultura usurpatrice e violenta, né il suo alter ego, che infine viene ingoiata dalle sue colpe, incoraggiando la protagonista a salvare sé stessa.

E Ellie può davvero salvarsi.

Alternativa

Ellie ha un’alternativa.

Nonostante viva in una realtà ancora pericolosa e ostile, può contare su nuove prospettive, generalmente incarnate nel personaggio di John: il ragazzo è il modello ideale del nuovo uomo, rispettoso, accogliente e premuroso.

E anche se ci troviamo in bilico su un possibile tokenism, in realtà il ragazzo è un faro di speranza essenziale all’interno di un film così profondamente drammatico, che invece accompagna la protagonista ad un finale se non positivo, comunque speranzoso.

Nonostante Sandie sia ancora una presenza, un ricordo di un passato che non può essere cancellato, nonostante realisticamente non c’è alcun passo indietro da parte di Jocasta, nonostante le visioni della madre siano ancora presenti…

…infine Ellie trova finalmente una sua identità in cui calibra il sogno del passato con il presente nella sua linea di vestiti, e riesce a guardare con un minimo più di ottimismo ad un futuro potenzialmente più promettente.

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Jin-Roh – Uomini e Lupi – Sottostare al ruolo

Jin-Roh – Uomini e Lupi (1999) di Hiroyuki Okiura è un anime ucronico e di spionaggio.

A fronte di un budget sconosciuto, ha incassato circa 100 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Giappone, 1950. Kazuki Fuse fa parte dell’ormai odiato corpo di polizia Kerberos. E una incomprensibile esitazione lo porterà fuori strada…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Jin-Roh – Uomini e Lupi?

Assolutamente sì.

Jin-Roh – Uomini e Lupi è un crocevia di diversi generi, in cui dominano le dinamiche tipiche dello spy movie, pur all’interno di una più ampia riflessione che si intreccia in maniera piuttosto straziante con la favola di Cappuccetto Rosso.

Insomma, una pellicola che non si sbilancia mai in un senso né nell’altro, che lascia aperte diverse domande a cui forse solo lo spettatore è capace di trovare una risposta, all’interno di un susseguirsi di rivelazioni e colpi di scena che tengono costantemente col fiato sospeso.

Superato

Non c’è più spazio per Kerberos.

Ma neanche per il suo contrario.

La dicotomia di Cappuccetto Rosso e i Lupi, propria dell’immediato dopoguerra nipponico, si è ormai esaurita ed è considerata superata, in un Giappone che vuole guardare ad un futuro più sfumato, più concentrato sull’idea di rinascita che di distruzione interna.

Proprio qui si inserisce Kazuki, che si trova spaesato davanti all’incomprensibilità di questo presente, davanti ad una ragazzina che sembra voler abbracciare gli estremismi di questo gruppo terroristico, che conduce alla domanda fondamentale per il suo percorso riflessivo:

Perché?

Ruolo

Non c’è spazio per i perché.

Ma solo per i ruoli.

Il protagonista cerca invano una comprensione delle parti che sembrano solo imposte – Lupo e Cappuccetto – e da cui sembra impossibile evadere, nonostante tutta la società intorno agli stessi stia cercando di smantellarli.

E la sua via di fuga sembra proprio Kei Amemiya, una ragazza così simile alla sua vittima, con un comportamento fin troppo accomodante e accogliente nei suoi confronti, che sembra proporgli di sfuggire proprio agli schemi in cui è intrappolato.

Ma non è abbastanza.

Pedina

Nonostante la ragazza lo spinga costantemente a fuggire, nonostante venga continuamente interrogato sul perché abbia scelto di non uccidere direttamente la ragazza ribelle, Kazuki è semplicemente incapace di reagire, di rispondere, di sfuggire da questo limbo.

E allora i personaggi sono solo pedine.

Entrambi si riscoprono legati a doppio filo con quello schema che tanto detestano, delle pedine mosse da mani nell’ombra che giocano con la loro carne per avere il controllo sulla situazione politica, per risolverla unicamente a loro vantaggio.

Una rappresentazione che potrebbe far riferimento alla complessa situazione politica nipponica nel secondo dopoguerra, con un paese ancora più immobile e incapace di reagire ai nuovi scenari politici, impotente nella sua sofferenza, sottomesso agli impulsi esterni.

Ed è ancora più straziante quando il protagonista sembra aver finalmente la libertà di scegliere se seguire il piano di altri oppure se proteggere il suo nuovo amore, con una chiusa che mostra un cecchino nell’angolo che avrebbe in ogni caso scelto per lui…

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2023 Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2024

La zona di interesse – L’insostenibile indifferenza

La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer è una delle proposte più interessanti a tema Olocausto degli ultimi anni.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – ha incassato 40 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per La zona d’interesse (2023)

in neretto le vittorie

Migliori film
Miglior regista
Miglior film internazionale
Migliore sonoro
Miglior sceneggiatura non originale

Di cosa parla La zona di interesse?

Polonia, Anni Quaranta. La famiglia Höß conduce una vita semplice in una località amena: Auschwitz.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La zona di interesse?

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Assolutamente sì.

La zona d’interesse si propone in un mercato ormai saturo sull’impegnativo tema della Shoah, e, proprio come JoJo Rabbit (2019), propone un punto di vista diverso: l’insostenibile indifferenza dei complici della tragedia.

E a fronte di prodotti in cui spesso si cannibalizza sul tema, mostrando la violenza e il dolore nella maniera più sfacciata e strappalacrime possibile, Glazer sceglie invece una regia fredda per raccontare una tragedia che per i protagonisti non era nient’altro che un sottofondo…

Insomma, davvero imperdibile.

Spettatore

Una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Una particolare finezza de La zona di interesse è il taglio registico.

Una regia molto statica, con montaggio rapido e analitico che racconta i diversi momenti della vita di questa famiglia, senza mettere quasi mai un vero protagonista in scena, ma lasciando che questo gruppo di personaggi si muova liberamente negli spazi filmici.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Tanto più che non penetriamo mai la mente di questi individui, ma ne scopriamo i caratteri nei loro brevi dialoghi, o nei rarissimi momenti in cui gli stessi esprimono a parole i loro sentimenti, limitandosi per il resto ad essere raccontati dal contesto.

In questo modo lo spettatore diventa il testimone inconsapevole della vicenda, assorbendo così un concetto fondamentale che la pellicola suggerisce in maniera molto sottile: in circostanze diverse, avremmo potuto essere noi al loro posto.

Sottofondo

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

La pellicola è definita dalla mancanza.

In rari e sfuggenti momenti sentiamo effettivamente e chiaramente la testimonianza sonora dello sterminio in atto, mentre per la maggior parte del tempo le urla di dolore e l’abbaiare feroce dei cani in sottofondo si mischia alle voci, alle risate e alle urla felici dei protagonisti.

In questo modo risalta in tutta la sua potenza l’insostenibile indifferenza della famiglia Höß, nello specifico di Hedwig, la padrona di casa, mentre gestisce la delicata economia domestica, mentre mostra ai suoi ospiti la bellezza di questo felice spazio vitale che è riuscita a costruirsi.

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Il resto si definisce nei dettagli.

Scampoli di dialoghi, che coinvolgono tutti i personaggi, dalla felicità nello scovare nuovi vestiti sottratti agli ebrei, così come i loro preziosi ingegnosamente nascosti, il giocare coi denti d’oro dei bambini fino alle più serie conversazioni su come ottimizzare lo sterminio.

Così i protagonisti non vengono mai raccontati come malvagi, ma piuttosto sono ritratti nella loro serena indifferenza, mentre ridono delle loro vittime, mentre ragionano freddamente sulle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale.

Sporco

Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

L’elemento più disturbante dei protagonisti de La zona d’interesse è la loro scala valoriale.

Libero dalla pesante eredità di prodotti che negli anni hanno banalizzato la figura del nazista, Glazer carica i suoi protagonisti non sono di una devastante indifferenza, ma anche di una serie di priorità quasi surreali.

Infatti, nel cuore dello sterminio, la più grande preoccupazione della famiglia Höß è il contatto con quegli sporchi ebrei: così l’emergenza si scatena quando per caso si scoprono immersi nelle ceneri delle loro vittime, e si impongono una pulizia quasi ossessiva…

…e la stessa riappare quando il capofamiglia, pur concedendosi ad un’ebrea, si infila nei sotterranei per ripulirsi clinicamente e sistematicamente quella parte di sé che è venuta a contatto con un essere indegno, in una scena ai limiti dello squallido.

E questo contribuisce molto di più a caratterizzarli e a contestualizzarli di quanto abbiano fatto molti decenni di cinema sul tema finora.

Paradiso

Christian Friedel e Sandra Hüller in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Hedwig Höß non vuole andarsene.

L’unico momento in cui davvero si scompone è quando viene minacciata di essere sottratta di quell’angolo felice di paradiso che ha creato per sé stessa e per la sua famiglia, in un luogo da cui milioni di vittime avrebbero voluto fuggire, ma che lei invece ricerca disperatamente.

E infatti questa stringente normalità è rifiutata solamente da una felice arrampicatrice sociale, quando per la prima volta viene messa davanti al conto da pagare per la sua nuova posizione: la suocera, l’unica che abbandona volontariamente questo luogo paradossale.

Christian Friedel in una scena de La zona di interesse (2023) di Jonathan Glazer

Ma noi siamo davvero non indifferenti?

Nell’unica semi-soggettiva che Glazer concede a Rudolf Höss, è come se il gerarca spiasse verso il futuro, verso il nostro presente, osservando come Auschwitz sia diventata una sorta di tempio, che freddamente racchiude una testimonianza fondamentale del suo presente.

E, mostrando le inservienti che puliscono in maniera pedissequa, ma senza mostrare altresì alcun sentimento o emozione, il film parla direttamente a noi: anche se non siamo stati complici nel passato, stiamo affrontando con la giusta profondità una macchia così devastante della nostra storia?

Forse no.

La zona d’interesse bambina bianco e nero significato

La bambina che porta le mele è una scena apparentemente incomprensibile e distaccata dal resto del film.

In realtà il regista ha spiegato che le sequenze dedicate al suo personaggio hanno diversi significati: anzitutto, raccontano un frammento di speranza nell’oscurità rappresentata sia dal contesto storico, sia dai personaggi che lo popolano.

Infatti la bambina porta un elemento di nutrimento, di vita.

La mela.

Ma ha anche un valore storico.

Il personaggio della misteriosa bambina è ispirato ad una donna polacca, Alexandria, che ha raccontato di aver lavorato per la resistenza polacca durante il Nazismo quando aveva solo 12 anni, girando con la sua bicicletta per distribuire mele.

Non a caso, la casa in cui la bambina torna dopo le sue spedizioni, la bicicletta e i vestiti indossati dall’attrice sono proprio quelli di Alexandria, che è morta poche settimane dopo essersi incontrata col regista.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantastico Film Horror Misterioso Oriente Surreale Thriller

Millennium Actress – Una vita da ricordare

Millennium Actress (2001) è la seconda opera del compianto Satoshi Kon, che riprende e per certi versi amplia le tematiche dell’opera prima, Perfect Blue (1997).

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 1,2 milioni di dollari – anche per la distribuzione limitata e la poca permanenza in sala, ebbe un riscontro molto modesto al botteghino, con 37 mila dollari di incasso.

Di cosa parla Millennium Actress?

Con l’arrivo del nuovo millennio, l’intervista alla ex-star del cinema Chiyoko Fujiwara apre le porte ad una riscoperta del suo misterioso passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Millennium Actress?

Chiyoko Fujiwara come Gheisha in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Assolutamente sì.

Per quanto personalmente preferisca Perfect Blue, Millennium Actress è un’opera di grande eleganza stilistica e narrativa, che evita di incastrarsi in spiegazioni delle dinamiche fantastiche e surreali presenti in scena…

…e lascia semplicemente che la storia respiri e si sviluppi da sé stessa, con un impianto metanarrativo piuttosto pervasivo, che fa da cornice ad una riflessione sulla vita e su come la stessa si intrecci – e a volte corrisponda – alla finzione.

Insomma, da non perdere.

Macerie

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Millennium Actress si apre su un panorama di macerie.

Mentre quel che rimane di uno studio cinematografico che ha fatto la storia del Giappone viene fatto a pezzi nella totale indifferenza generale, una voce fuori campo cerca di riportarci alle vecchie glorie.

Così Chiyoko Fujiwara è la protagonista fin da subito, anche solo nell’appassionato ricordo di Genya, in profondo contrasto con invece la totale ignoranza e indifferenza di Kyōji, che derubrica il personaggio a vecchia stella ormai tramontata.

Chiyoko Fujiwara vecchia in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Ma la donna che si trovano davanti è una versione solo più invecchiata, ma ancora incredibilmente in forma, di un’attrice che ha segnato la storia del cinema, ma che da anni ha scelto di ritirarsi a vita privata.

E serviva solo qualcosa che gli sbloccasse i ricordi…

Chiave

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Chiyoko nasce in un mondo turbolento.

Il venire alla luce durante un terremoto è indicativo della storia del Giappone fra le due guerre: un paese che subì profondi cambiamenti per forze sia esterne che interne, risultando in una ferita incurabile nell’immaginario collettivo.

Ma, in questo tsunami di mutamento, la madre della protagonista cerca ancora di rimanere salda alle tradizioni più stringenti, negando alla giovane ragazza la possibilità di servire il suo paese in maniera del tutto inedita.

Chiyoko Fujiwara trova la chiave in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

E, se all’inizio la giovane protagonista accetta timidamente un destino che sembra esserle imposto, tutto cambia quando con l’incontro con uno sconosciuto, che infine si rivela essere uno dei principali motori del cambiamento di un paese che non era pronto a cambiare.

Con la chiave stretta in pugno, comincia così l’inseguimento di Chiyoko di uno spettro di cui non ricorda neanche il volto, ma anche lo slancio per la comprensione di un simbolo che si era ripromessa di comprendere, che risulta fino alla fine indecifrabile.

Ma, ancora una volta, è un destino imposto.

Destino

Chiyoko non può scappare.

Le prime tappe della sua ricerca vengono coronate dall’incontro con una presenza altrettanto misteriosa, una sorta di parca che ha già tessuto il suo destino, e che le impone di vivere una vita di ricerca per un amore impossibile e sempre più fumoso.

Un personaggio che si può leggere in due direzioni: sia come rappresentazione del cruccio interiore della protagonista, che in tutti i suoi film sembra ripercorrere sempre la medesima storia di ricerca impossibile del suo amato…

Ti odio più di quanto tu possa sopportare, e ti amo più di quanto io possa sopportare.

…e al contempo, in una connotazione più strettamente storica e politica, come rappresentazione dei sentimenti discordanti che caratterizzarono la società giapponese in quel periodo, nel dramma della brusca fine di un’epoca, definito da un connubio di odio e amore.

Un cambiamento, appunto, repentino quanto inevitabile.

Perdita

Chiyoko Fujiwara nelle macerie in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

L’atto centrale della vita di Chiyoko è caratterizzato dalla perdita.

La vita e i temi centrali dei film passano dal romanticismo anche struggente di film sul Giappone che fu, verso una realtà ben più drammatica e realistica della guerra e, soprattutto, del dopoguerra.

Ma se Chiyoko si aggira malinconica nelle macerie, è sempre lì che trova l’immagine del suo passato, un primo punto di arrivo della sua ricerca: un dolce frammento della sé stessa di tanti anni prima, ancora intatto pur nella distruzione generale.

Un ritrovamento che drammaticamente si accompagna, come si scopre a posteriori, dalla morte fuori scena del suo amato, rendendo tutta la ricerca da questo punto in poi sostanzialmente inutile…

…e viziata da un inganno perpetuo da parte di diversi personaggi che le sottraggono la chiave e che cercano forzatamente di riportare il suo personaggio a quella che era il suo destino originale: la moglie perfetta di un matrimonio infelice.

Scoperta

L’ultimo momento della vita di Chiyoko è, apparentemente, la distruzione.

Ripercorrendo i nuovi orizzonti dell’umanità nello spazio, questo ultimo slancio viene troncato dal riapparire del trauma originario che l’ha perseguitata per tutta la vita, e che la porta a chiudersi definitivamente in sé stessa per mantenere la sua immagine intatta.

Ma l’effettiva e definitiva distruzione degli studios fuori scena è in realtà l’occasione per la riscoperta e la conseguente rinascita: la protagonista si ricongiunge con la misteriosa chiave e finalmente ne comprende il suo importante significato.

Chiyoko Fujiwara sulla luna in una scena di Millennium Actress (2001) di Satoshi Kon

Una chiave che serve a Chiyoko quanto al suo stesso paese per non dimenticare il suo passato, per non togliere valore ad un’esperienza sicuramente drammatica come quella del Novecento, che si è rivelata, infine, l’occasione per rinascere da quelle macerie.

Così la protagonista si volge verso un futuro ancora incerto, ma che potrà regalarle molto di più della sofferta reclusione, riscoprendo la bellezza di una ricerca complessa quanto avvincente, in cui il punto di arrivo è, forse, la parte meno importante…

Perché dopo tutto, è il fatto di inseguirlo ciò che amo davvero

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Avventura Commedia nera Dramma storico Drammatico Emerald Fennell Film Humor Nero Satira Sociale

Una donna promettente – Provocazione

Una donna promettente (2020) è l’opera prima di Emerald Fennell come regista, in cui dimostrò fin da subito la sua attitudine provocatoria.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari – riuscì appena a rientrare nelle spese, con neanche 20 milioni di incasso…

Di cosa parla Una donna promettente?

Cassie è una giovane donna che si trova in un tragico limbo della sua vita, la cui unica finalità è vendicarsi per un torto passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Una donna promettente?

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

In generale, sì.

Una donna promettente è un film che personalmente apprezzo molto, anche solamente perché a livello emotivo è estremamente appagante, in quanto riesce perfettamente a mettere in scena sentimenti più o meno sotterranei comuni a molte donne.

Tuttavia, mi rendo anche conto dei limiti intrinsechi di questo progetto: per quanto sia deliziosamente provocatorio, manca totalmente di una parte riflessiva, anche minima, che metta a frutto la sua provocazione costante.

In ogni caso, da vedere.

Cristo

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

La prima apparizione di Cassie la definisce esplicitamente come una figura cristologica.

Accasciata sul divanetto di uno squallido locale come Cristo in croce, attira le attenzioni di quello che apparentemente è l’unico bravo ragazzo, l’unico che vuole solo aiutarla all’interno di un gruppo di uomini fin da subito caratterizzato come negativi.

In questo senso è ancora più significativa la scelta di casting di Adam Brody – e degli altri bravi ragazzi del film – appositamente per vanificare un’idea molto in voga sul tema, che derubrica la violenza di genere a personaggi poco raccomandabili di lombrosiana memoria.

Al contrario, il comportamento di Jerry racconta proprio una società che giustifica, financo incoraggia un certo tipo di comportamento, che potrebbe scaturire persino dal volto più rassicurante, dai modi più affettuosi…

Contrasto

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ma il contrasto estetico non è una prerogativa dei personaggi maschili.

Emerald Fennell evita alla sua protagonista un look da vamp vendicativa, che ben si adatterebbe al suo carattere impulsivo, ma sceglie piuttosto di vestirla di colori candidi e pastello, addirittura di metterle alle spalle un’aureola per quasi santificarla.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ancora di più, la sua figura è quella di Cristo quando si incammina verso casa, con la salsa del panino che le cola sulle braccia come se fosse sangue, mentre irreprensibile si rifiuta di abbassare lo sguardo davanti ad una violenza – il cat calling – che vorrebbe umiliarla.

In questo senso Cassie sarebbe al contempo una Salvatrice, che si carica sulle spalle tutte le colpe degli uomini e tutte le tragedie delle donne, e una Vendicatrice, che finalmente vendica e punisce quanto è rimasto per troppo tempo impunito.

Potere

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Gli uomini adescati da Cassie non solo si approfittano di lei.

Ma, soprattutto, la trattano come una bambina.

Sia Jerry, che la rassicura come se fosse un infante mentre la sta violentando, sia poi Neil, quando la imbocca con la droga, mostrandosi anche piuttosto scocciato quando Cassie crolla addormentata, proprio come una stupida ragazzina…

Questa rappresentazione piuttosto provocatoria abbraccia una teoria molto in voga – ma ancora non provata in maniera convincente – secondo la quale la violenza nei confronti delle donne deriva da un desiderio di avere potere sulle stesse, e non tanto da un ardore sessuale.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Proprio per questo Cassie improvvisamente torna in sé, guarda in macchina e sbatte irrimediabilmente questi personaggi davanti al loro comportamento, arrivando apertamente a terrorizzarli – nel caso di Neil persino con delle dinamiche proprie del cinema horror.

Come se non bastasse, questi uomini sono ingiustificabili: Cassie non dà mai, neanche lontanamente, consenso al rapporto sessuale, ma invece offre in più momenti a questi uomini una via di fuga, chiedendo di andare a casa o sottolineando ancora di più a parole la sua condizione di incapacità di intendere la situazione.

Ma non funziona mai…

Catarsi

La vendetta di Cassie è quasi sempre esclusivamente psicologica.

E i colpevoli sono sia maschili che femminili, proprio a raccontare una colpa comune: dalla direttrice dell’università, capace di empatizzare con un’evidente violenza solamente quando uno dei suoi affetti è coinvolto, preferendo il vantaggio politico all’umana pietà…

…e così anche Madison, che aveva scelto di alimentare l’omertà collettiva, mettendo prima in dubbio la veridicità della storia della vittima, che invece scopre quanto è facile farsi manipolare e rischiare la propria sicurezza personale.

Ma il vero alleato della protagonista è un personaggio maschile.

Per Jordan Green, una macchina da guerra che si nutriva delle disgrazie di ragazze indifese e manipolabili, pur di portare a casa succulenti bonus elargiti dai loro carnefici, Cassie aveva preparato una vendetta forse persino violenta.

Invece, l’avvocato si rivela un insospettabile alleato, che ha perso il sonno, divorato dai peccati passati, che si inginocchia davanti alla protagonista chiedendole pietà, diventando infine l’unica persona di cui Cassie effettivamente si fida per portare a termine la sua vendetta.

Occasione

Bo Burnham in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

La tragicità del personaggio di Ryan è anche più sottile.

All’apparenza il suo personaggio sembra veramente un ragazzo per bene, anzi un compagno davvero affettuoso e divertente, e nondimeno rispettoso, che accetta tutte le ritrosie di Cassie, impegnandosi fino in fondo per far funzionare la loro relazione.

E proprio con Ryan Cassie poteva avere la sua occasione per andare avanti.

Bo Burnham e Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Ma un’altra situazione religiosa cambia ogni cosa.

La consegna della prova definitiva, il cellulare, davanti al quale la protagonista si inginocchia in stato di venerazione, piangendo di dolore quando finalmente viene messa davanti a quella violenza che fino a quel momento aveva potuto solo immaginare…

La rivelazione di Ryan è quindi il coronamento del tema di fondo: la colpevolezza è comune, si nasconde anche nella persona più insospettabile, che crede di non essere parte del problema, ma che invece, col suo silenzio complice, è ugualmente colpevole.

Colpevole

Ma chi è veramente il colpevole?

Il colpevole è Al, il violentatore, da cui Cassie vorrebbe solamente una sincera confessione, ma che è solo capace di nascondersi – come tutti gli altri – dietro a moltissime ed inutili scuse, e invece incapace di concepirsi come il villain della storia.

Ma il colpevole è anche Joe, rappresentante della società omertosa, che riscrive la storia sempre a suo favore, per derubricare il tutto come un incidente, per coprire le colpe e scappare come un coniglio quando la polizia viene a chiedere il conto.

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

Cassie è colpevole?

Il mondo raccontato da Una donna promettente è dominato dalla violenza, che viene perpetrata senza mai riuscire a riconoscerla come tale, portando ad altra violenza, ad una violenza vendicativa, a quella vendetta privata che sembra l’unica via possibile…

Carey Mulligan in una scena di Una donna promettente (2020) di Emerald Fennell

E infatti infine Cassie diventa altrettanto violenta, sceglie violentemente di prendersi la sua rivalsa, marchiando a fuoco il violentatore sulla sua stessa carne, incidendo un segno indelebile che non potrà mai più togliersi.

In questo frangente Emerald Fennell avrebbe potuto osare di più, aprire una riflessione finale su una società in cui ci divoriamo a vicenda, ma ha preferito invece coinvolgere tutte le donne in una sorellanza, con un occhiolino che ci urla bruciate tutto!

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Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Ingmar Bergman

Fanny e Alexander – Summa

Fanny e Alexander (1982) è l’ultima opera da regista di Ingmar Bergman, per molti versi considerabile il punto di arrivo della sua produzione.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6 milioni di dollari – l’incasso fu corrispondente alle spese produzione…

Di cosa parla Fanny e Alexander?

Svezia, 1907. Fanny e Alexander sono due fratelli facenti parte di un’ampia famiglia, di cui si esplorano i drammi e le contraddizioni…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Fanny e Alexander?

Bertil Guve e Pernilla Allwin in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Dipende.

Fanny e Alexander è una pellicola piuttosto anomala per la produzione di Bergman: pensato inizialmente come una serie tv, il girato venne pesantemente castrato, passando da cinque ore a appena tre, così da renderlo fruibile alla sala.

Purtroppo, la natura originale è piuttosto evidente: la storia principale diventa dominante nella seconda parte del film, mentre le altre storie secondarie sono evidentemente state tagliate in più punti, tanto che mancano dei raccordi piuttosto fondamentali.

Nondimeno, può essere l’occasione di scoprire un Bergman diverso, a fine carriera, in un momento di profondo ripensamento della sua vita e della sua opera, di cui la pellicola è ricca di citazioni.

Ego

Bertil Guve in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Alexander è l’alter-ego.

Tramite gli innocenti, quanto ribelli, occhi del ragazzino protagonista, Bergman racconta prima di tutto sé stesso, anche se non direttamente: in questa figura l’autore non si immerge totalmente, ma la usa come vettore per il racconto della famiglia protagonista.

La famiglia è infatti il luogo in cui Alexander si rifugia, è tutto il suo mondo: non a caso la prima scena rappresenta il giovane protagonista che ricerca gli affetti familiari e, non trovandoli, si rannicchia in un angolo, in attesa.

Bertil Guve e Pernilla Allwin in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

In questo panorama familiare si alternano momenti giocosi – nelle varie occasioni di divertimento, anche triviale, durante la festa di Natale – anche direttamente collegati alla vita di Bergman – come la bugia del circo, che effettivamente l’autore raccontava da bambino…

…a momenti effettivamente più profondamente drammatici, il cui cuore è indubbiamente la morte del padre, che si trascina per diverse scene, richiamando direttamente Sussurri e grida (1972), e sfociando, infine, nel nuovo matrimonio della madre.

Padre

Ewa Frölin e Allan Edwall in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La figura del padre è un elemento chiave non solo del film, ma anche della vita dello stesso regista.

Il primo padre, Oskar, è profondamente legato al mondo del teatro e della finzione: la sua dipartita, la sua uscita di scena, comincia direttamente sul palcoscenico, quando dimentica le sue battute, e quindi il suo personaggio, ritirandosi nel letto di morte.

Allan Edwall in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La sua natura paurosa, da fantasma, è evidente fin dagli ultimi momenti della sua vita – quando dice proprio ora potrei interpretare il fantasma – e che poi prosegue nelle varie apparizioni spettrali che puntellano la pellicola.

Una presenza che in realtà vorrebbe essere protettiva – quasi come un angelo custode che veglia sul figlio anche dopo la sua morte, rappresentante proprio quella figura paterna che Bergman avrebbe sempre desiderato avere nella sua vita.

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

La figura paterna secondaria è invece quella più distruttiva, più vicina alla realtà autobiografica del regista, in cui si ritrova anche la radice della sua ossessione religiosa – ampiamente esplorata soprattutto in Il settimo sigillo (1957).

Durante la sua infanzia, infatti, Bergman dovette subire un’educazione religiosa piuttosto stringente ed opprimente, ben rappresentata proprio dal perfido Edvard Vergerus, che lentamente attrae la madre del protagonista nella sua trappola.

Maria

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Se la figura del nuovo padre è quasi diabolica, la madre è una figura mariana.

Non caso la sua prima apparizione è proprio nelle vesti della Madonna, in occasione della rappresentazione teatrale ad inizio film, proseguendo nel suo ruolo soprattutto durante la morte di Oskar, quando le sue urla dominano l’ambiente domestico.

Ma, con il nuovo matrimonio, Emilie assume, almeno agli occhi del nuovo marito, le vesti di donna deviata e peccatrice, che deve essere spogliata dai vizi e dal suo passato, per essere invece traghettata verso la sua unica e fondamentale funzione.

Ewa Frölin e Jan Malmsjö in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

Essere la madre.

Significativa in questo senso la scena in cui il vescovo le comunica il suo nuovo futuro, e lei infine si inginocchia davanti a lui, proprio in una condizione di reverenza, di ricerca di un conforto e, soprattutto, di totale sottomissione.

Infine, negli ultimi atti del suo matrimonio Emilie sembra una figura ormai senza speranza, ma in qualche modo accompagnata dalla mano benevola del destino – o di Dio – che le permette di liberarsi dalla pesante figura di Edvard senza doversi sporcare le mani…

Spettatore

Qual è il ruolo di Fanny?

Nonostante il suo nome sia presente nel titolo, la sorella di Alexander sembra una figura estremamente secondaria, defilata nella maggior parte delle scene, a cui il film dedica una marginale importanza.

In realtà, Fanny può rappresentare lo spettatore stesso del film e, più in generale, di questa sorta di biografia che Bergman sta portando sullo schermo, una presenza silenziosa ma attenta, premiata da qualche primo piano che la mette al centro della scena.

Bertil Guve in una scena di Fanny e Alexander (1982) di Ingmar Bergman, ultima opera da regista

L’elemento metanarrativo è infatti dominante nella pellicola.

Tramite la scena delle marionette, Bergman rappresenta un sé stesso intento a compiere le prime avventure registiche, creando di effettive scene – aspetto ulteriormente messo in luce dalle mirabolanti bugie e dalle storie improbabili che si inventa durante la pellicola.

Questo elemento ha il suo coronamento nella conclusione, in cui il regista sembra voler spogliare la pellicola del connotato autobiografico, preferendo invece portarla più vicino al regno della fantasia e della finzione:

Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni

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Avventura Azione Commedia Dramma storico Drammatico Film Spielberg's Spare Time

Prova a prendermi – La fuga eterna

Prova a prendermi (2002) è uno spy-movie firmato da Steven Spielberg con un terzetto di attori d’eccezione: Tom Hanks, Christopher Walken e un giovane Leonardo di Caprio.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 52 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 408 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Prova a prendermi?

New York, 1964. Frank è un giovane studente con una certa passione per il role play…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prova a prendermi?

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prova a prendermi è una piacevolissima spy-story con un cast di grandi talenti, fra cui spicca un brillante Leonardo di Caprio, che già qui dimostrava le sue incredibili capacità recitative, tanto da riuscire a portare in scena un personaggio estremamente complesso e variegato.

Personalmente ho anche apprezzato che, a differenza del poco successivo The Terminal (2004), in questo caso il film non si perde in un buonismo un po’ fine a sé stesso, non mancando comunque di un finale estremamente appagante.

Insomma, da vedere.

Orme

Leonardo di Caprio e Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Le tendenze criminali di Frank sono ereditarie.

Il ragazzo ha passato tutta la sua vita ad osservare, anzi ad essere coinvolto nelle truffe del padre, apprendendo un insegnamento fondamentale: l’apparenza e la convinzione sono la chiave del successo di ogni con artist.

E se si aggiunge la lusinghiera corruzione…

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Un gioco che prosegue finché non è il figlio stesso a volersi mettere in gioco, in maniera così brillante e convincente da riuscire a condurre una settimana intera come insegnante, arrivando persino ad organizzare un viaggio scolastico…

Una scelta che dovrebbe essere durante punita dal padre, ma che invece viene promossa con una risata condivisa.

Ma Frank è cieco di fronte a tutto il resto.

Persecuzione

Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Nonostante Frank Senior si sente come il topo furbo che è riuscito a gabbare il sistema…

…in realtà è affogato nello stesso.

Questa sua passione per le truffe lo porta infatti a distruggere dall’interno la sua famiglia, a vivere sostanzialmente perseguitato dall’IRS, e, soprattutto, a passare un’errata convinzione al figlio, che sente come di poter riscattare la memoria del padre con una truffa nuova di zecca.

Ma il giovane protagonista è ancora più ingenuamente miope davanti alla sensazione del padre di essere costantemente osservato, controllato, di non poter vivere serenamente neanche il regalo di un figlio per paura di essere messo dietro le sbarre…

Ruolo

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per interpretare un personaggio, la preparazione è fondamentale.

Frank si destreggia fra un ampio di ventaglio di ruoli primari e secondari, accettando persino situazioni di estremo disagio – assolutamente fondamentali ai fini narrativi per raccontare anche le debolezze di un protagonista apparentemente così infallibile.

Così comincia con un’importante ricerca sul campo, che lo porta a farsi raccontare da personaggi totalmente ignari tutte le informazioni necessarie per poter prendere parte al primo ruolo – il pilota – scoprendo ogni volta nuovi modi per riscattare assegni sempre più importanti.

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Ma se la mascherata del pilota è tutto sommato moralmente innocua, altro discorso è quando il protagonista si finge dottore per farsi assumere in ospedale, in realtà usando la sua posizione come un trampolino per sistemarsi con un matrimonio di comodo.

E, proprio a quel punto, la facciata comincia a cadere a pezzi.

Maschera

Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Carl è l’unico vero amico del protagonista.

Nonostante infatti cerchi costantemente di mostrarsi circondato da belle donne e da uomini che vorrebbero essere al suo posto, in realtà Frank è un individuo estremamente solo, che non può parlare realmente con nessuno dei suoi veri sentimenti e delle sue paure.

Per questo l’agente dell’FBI, inizialmente gabbato da un inganno assolutamente improvvisato – basato sempre sulla distrazione creata al momento giusto, andando a scavare i più profondi sentimenti e preoccupazioni di chi ha davanti…

…è l’unico che riesce davvero ad inquadrare il protagonista, l’unico che conosce la sua vera faccia, ed anche l’unico interlocutore a cui Frank si rivolge quando si sente del tutto abbandonato a sé stesso, nonostante così si metta costantemente in pericolo…

Prigione

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Fino agli ultimi momenti, Frank deve scegliere fra l’essere braccato o l’essere rinchiuso.

E il concetto di prigione nel suo caso è piuttosto ampio.

La galera è sia quella fisica – in Europa o negli Stati Uniti – sia quella provvisoria – l’aereo – sia, infine, gli uffici dell’FBI in cui è costretto a lavorare finché lo stesso Carl non deciderà diversamente – in una condizione che, per quanto molto vantaggiosa, gli appare estremamente angosciante.

In ogni occasione, anche quelle più improbabili e già perse in partenza, Frank tenta comunque la fuga – in particolare dall’aereo, riuscendo a svitare il gabinetto e sfilarsi da sotto al velivolo che sta atterrando…

Leonardo di Caprio e Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per questo nel finale Carl capisce che deve cambiare tattica.

Avendo ormai compreso che, pur dopo quattro anni, Frank sta cercando ancora un’occasione per scappare, l’agente lo intercetta solamente per ricordargli a cosa sta andando incontro – la prigione o una vita come quella del padre, braccato e paranoico – per poi lasciargli la libertà di scelta.

Così una perfetta regia ci accompagna verso un finale che riesce a tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, mostrando infine un Frank che è finalmente riuscito ad essere in pace con sé stesso e ad accettare una vita forse meno eccitante, ma certamente più serena.