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Il ragazzo e l’airone – Come vivrai?

Il ragazzo e l’airone (2023) – traduzione piuttosto impropria di 君たちはどう生きるか, lett. E voi come vivrete? – è l’ultimo (per ora) film creato dalla meravigliosa mente di Hayao Miyazaki.

A fronte di un budget piuttosto importante per un film animato orientale – 64 milioni di dollari – si sta rivelando uno dei maggiori incassi del genere degli ultimi anni: 137 milioni di dollari in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Il ragazzo e l’airone (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Il ragazzo e l’airone?

Tokyo, 1943. Nel bel mezzo del Secondo Conflitto Mondiale, il giovane Mahito e il padre si ritirano nella loro tenuta di campagna. Sarà l’occasione per il protagonista per riscoprire sé stesso e il suo passato…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il ragazzo e l’airone?

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Dipende.

Non voglio assolutamente sminuire il grande valore artistico de Il ragazzo e l’airone, ma mi rendo conto che è un film che potrebbe lasciare spiazzati molti spettatori, soprattutto se abituati alle altre opere di Miyazaki, in cui l’elemento simbolico è sempre secondario rispetto all’impianto narrativo.

Al contrario, con la sua ultima fatica, il maestro nipponico confeziona un’opera incredibilmente metaforica e simbolica, che si apre a diverse e variegate interpretazioni, in cui i temi tanto cari al regista – l’ambientalismo e la guerra – si intrecciano al racconto del suo passato e del suo presente.

Insomma, un’esperienza a cui bisogna arrivare pronti.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Il ragazzo e l’airone il pericolo non esiste.

Perché?

Dopo tanti anni di attività, la Lucky Red ha finalmente deciso di affidare il doppiaggio a qualcuno che non sia Cannarsi. E, per questo, finalmente è un film godibile anche doppiato.

Evviva, evviva!

Questa recensione non sarà fatta in ordine cronologico, ma personaggio per personaggio, elemento per elemento, proprio per la natura stessa dell’opera.

Il ragazzo

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Mahito si presta ad un ampio ventaglio di interpretazioni.

La lettura più semplice è ritrovare nel protagonista Miyazaki stesso, andando a ricalcare alcuni momenti chiave della sua vita – pur con date e situazioni diverse – e il suo ritrovarsi sotto la guida di Yasuo Ōtsuka, il suo maestro, per poi intraprendere la propria personale carriera artistica.

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ribaltando invece i ruoli, il protagonista potrebbe in qualche misura rappresentare Hiromasa Yonebayashi, collaboratore storico dello Studio Ghibli, che ha lavorato alla maggior parte dei titoli prodotti dallo stesso, proponendone anche uno proprio – Quando c’era Marnie (2013)

…ma che nel 2015 ha scelto di distaccarsi da Miyazaki e fondare il proprio studio – lo Studio Ponoc.

Quindi forse una delle poche persone che erano interne allo Studio Ghibli in cui Miyazaki vede una sua possibile eredità artistica – lo stile di Yonebayashi è evidentemente erede di quello del maestro – davanti all’evidente incapacità del figlio – di cui bisogna fare un discorso a parte.

Il ragazzo e l’airone

Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Ad un livello invece più generale, Mahito può rappresentare la generazione post-atomica.

Il tema della rinascita dopo la tragedia della bomba atomica – e del secondo conflitto mondiale in generale – è estremamente tipico del cinema orientale – lo si può trovare esplicitamente in Gen di Hiroshima (1983) e City of life and death (2009), o, più indirettamente, in Akira (1988).

Di fronte alla drammaticità di eventi che segnarono così profondamente l’immaginario nipponico, il protagonista de Il ragazzo e l’airone potrebbe appunto rappresentare una generazione che ha deciso di non arrendersi, di non rifugiarsi in una realtà altra, ma di trovare il meglio possibile nella propria.

L’airone

L'airone in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’airone è una figura incredibilmente enigmatica.

Ad un livello prettamente narrativo, il suo personaggio è la maligna presenza che cerca di attirare il protagonista nella torre per volontà del prozio stesso, per poi riuscire a convincerlo a prenderne il posto.

Leggendo invece il suo personaggio da un punto di vista artistico, l’airone potrebbe rappresentare le creazioni stesse di Miyazaki – è infatti la creazione del prozio – che in più occasioni ha sperimentato con creature fra l’animale e l’umano – si veda Haku in La città incantata (2001) e, soprattutto, Howl in Il castello errante di Howl (2004).

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

In questo senso – e riabbracciando l’interpretazione per cui Mahito rappresenta Hiromasa Yonebayashi – l’airone rappresenterebbe l’eredità artistica di Miyazaki, e così il suo tentativo di conciliare la stessa con un suo possibile successore.

Questa interpretazione ben si accorda con la malvagità della pietra con cui è creato il mondo alternativo, come una sorta di ripensamento disilluso del maestro nipponico riguardo la sua opera, che appare ad oggi mancante di un vero futuro.

Il ragazzo e l’airone

L'airone e Mahito in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Secondo un’altra interpretazione, l’airone potrebbe essere Gorō Miyazaki.

Se infatti Yonebayashi si è dimostrato un buon erede del maestro, lo stesso non si può dire per il figlio di Miyazaki, particolarmente nel suo tentativo del tutto fallimentare di rilanciare lo studio con l’animazione 3D con Earwig e la strega (2020).

Forse nella severità del prozio nei confronti della sua creatura possiamo intravedere un sofferto ammonimento del maestro nei confronti del figlio, ma anche un tentativo di conciliazione delle parti – Yonebayashi e Gorō – per trarre il meglio della sua eredità.

Ma il figlio si può ritrovare anche in un terzo personaggio.

Il limbo

La realtà sotterranea rappresenta indubbiamente un mondo altro e forse ultraterreno – da cui la frase, tratta da Inf. III, 5, fecemi la divina podestate.

Proprio come l’airone, il mondo immaginario al di là della torre potrebbe essere una rappresentazione degli alti e dei bassi – almeno secondo la visione di Miyazaki – della sua produzione – e la difficoltà dello stesso di tenerla ancora insieme.

All’interno di questo mondo altro il Re Parrocchetto potrebbe essere una punzecchiata proprio al figlio, che si credeva ormai padrone dello Studio Ghibli, cercando di far cambiare totalmente strada allo stesso, ma risultando infine del tutto incapace.

In un altro senso, nel mondo sotterraneo è racchiusa un’amara riflessione sull’umano.

Trovandosi in una realtà in cui non si riconosce più, il prozio del protagonista si è rifugiato in un mondo alternativo, creandolo, proprio come un dio, secondo la sua visione, trovandosi tuttavia infine a creare un’alternativa per nulla migliore rispetto al mondo di partenza.

In questa realtà alternativa, infatti, l’umano si è comportato al suo peggio, in particolare nei confronti degli animali, diventati aggressivi e davvero umani, ma proprio perché costretti dallo stesso a diventare tali.

Non a caso, Kiriko spiega che in quel mondo ormai ci sono più morti che vivi.

Il creatore

Il prozio in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

L’azione del creatore è in ultimo fallimentare.

In questo senso è molto più probabile che in questa figura Miyazaki volesse rappresentare un sé stesso ormai incapace di tenere in piedi un mondo – lo Studio Ghibli – che lui stesso ha creato, nonostante ci siano tutte le possibilità per farlo – la pietra buona che infine trova per ricostruirlo.

Al contempo, la sua posizione è definita dai simboli della vita e della morte.

Questa dicotomia è racchiusa nelle due sorelle, Hisako e la zia Natsuko.

La gravidanza contenuta dentro al mondo del prozio potrebbe rappresentare un desiderio sopito, ma forse impossibile, di produrre ancora qualcosa – anche non in prima persona – all’interno dello Studio Ghibli.

In questo senso, non è decisamente un caso che questa pellicola, creata a seguito dal suo abbandono dalle scene, sia un’opera così poco tipica

Il ragazzo e l’airone

Mahito e Hisako in una scena de Il ragazzo e l'airone (2023) di Hayao Miyazaki

Allo stesso modo Hisako può rappresentare sia la tragedia storica – la bomba atomica – sia la tragedia personale – la morte della madre di Miyazaki e, soprattutto, l’improvvisa scomparsa del suo compagno ed amico, nonché cofondatore dello Studio Ghibli, Isao Takahata.

Il protagonista prende infine le mosse dalla stessa, accettandola dentro sé stesso e decidendo così di proseguire con la sua vita: così Miyazaki ripensa al suo essere riuscito a proseguire con la sua carriera pure dopo la morte dell’amico proprio con questa pellicola…

…volendo forse incoraggiare un suo possibile erede – chiunque sia – a continuare la sua eredità nonostante la situazione dubbia dello Studio.

Ma, proprio per questo, Miyazaki gli chiede: E tu, come vivrai?

A dieci anni di distanza, con Il ragazzo e l’airone Miyazaki porta nuovamente in scena la sua tecnica precisa e impeccabile, pure con qualche novità.

L’evoluzione più evidente è l’animazione di alcune scene particolarmente intense – specificatamente quelle dell’incendio – con una tecnica magnetica e ricca di movimento, che riprende le mosse da Si alza il vento (2013):

Se invece per buona parte dei volti umani Miyazaki rimane su tratti semplici e simili all’opera precedente…

…stupisce con le nuove e ampie sperimentazioni sui volti anziani:

E, al contempo, per la prima volta utilizza un modello di un volto maschile per un volto invece femminile:

Ma la punta di diamante è indubbiamente lo splendido character design dell’airone, con il suo aspetto estremamente mutaforme, e le splendide animazioni che lo portano in vita:

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Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Oscar 2024

Maestro – Virtuoso

Maestro (2023) è la seconda opera, dopo A Star Is Born, in cui Bradley Cooper si cimenta come regista.

Il film è stato distribuito limitatamente negli Stati Uniti, per poi essere rilasciato direttamente su Netflix.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Maestro (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Migliore attore protagonista a Bradley Cooper
Miglior attrice protagonista a Carey Mulligan
Miglior sceneggiatura originale
Migliori fotografia
Migliore trucco
Migliore sonoro

Di cosa parla Maestro?

La pellicola ripercorre per sommi capi la vita di Leonard Bernstein, importantissimo direttore d’orchestra e compositore di brani iconici, fra cui spicca West Side Story.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Maestro?

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

In generale, sì.

Bradley Cooper si cimenta in una regia ambiziosa, con interessanti tocchi e sperimentazioni artistiche, a fronte di una storia non particolarmente interessante, anzi che rappresenta dinamiche piuttosto comuni di un classico dramma familiare.

Oltre alla regia, l’attore statunitense si impegna anche in un‘interpretazione estremamente varia e coinvolgente, che riesce a portare sullo schermo in maniera verosimile un uomo dal carattere esplosivo quando estremamente imprevedibile.

Il sogno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il primo atto di Maestro è il momento del sogno.

Il protagonista si sveglia improvvisamente, appena visibile nelle tenebre della stanza, e comincia a parlare sommesso e ansioso al telefono, immerso in un’atmosfera quasi lugubre, che farebbe pensare a tutto tranne che ad una buona notizia…

…e invece la scena si rianima improvvisamente, immersa in una luce e in un’atmosfera festosa in cui il Leonard comincia a parlare concitato ed eccitato, correndo verso l’occasione della vita: condurre la sua prima orchestra in pubblico.

Bradley Cooper e Carey Mulligan in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Questa atmosfera festosa si trascina fino all’incontro con Felicia.

Per le loro sequenze Cooper sperimenta in maniera piuttosto equilibrata con l’elemento metanarrativo, per cui il protagonista e la futura moglie entrano ed escono più volte come dal palcoscenico…

…fino al momento in cui Leonard prende parte ad uno dei suoi brani più famosiNew York, New York – che racconta proprio il futuro che gli si apre davanti agli occhi e la crescente creatività ed emozione che accompagna la sua arte.

Ma non mancano gli elementi di disturbo…

Il risveglio

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

Il secondo atto è visivamente contraddittorio.

Negli ultimi momenti della prima parte già si intravedevano le prime ombre sia del personaggio, sia del suo rapporto con Felicia – il discorso sul desiderio di morte del padre e la malinconica chiusura della relazione con David.

Degli elementi che ben si integravano all’interno del rigoroso e romantico bianco e nero, ma che risultano davvero fuori posto nelle tinte piene della seconda parte, con un protagonista ormai incanutito, ma ancora del tutto incapace di rimanere fedele alla moglie.

Infatti, Leonard si sente in una gabbia.

Da un lato non è del tutto sicuro della sua prossima avventura artistica, sentendo la passione e la creatività che si spengono, vedendo che l’estate che non gli parla più come un tempo, mentre si districa in un mare di appuntamenti e riconoscimenti da cui non si sente rappresentato.

Al contempo, per quanto il protagonista cerca di chiudere gli occhi davanti alla ruggine che emerge con Felicia, la donna è sempre più evidentemente stanca ed insoddisfatta, quasi esasperata dal comportamento infantile del marito.

L’apice è raggiunto dall’angosciante confronto con la figlia, dopo essere stato comandato a bacchetta dalla moglie di non rivelare il suo segreto, una parte di sé che si sente sempre più esasperato nel dover nascondere…

Ritorno

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

A questo punto, si apre una breve parentesi di smarrimento.

Con il concerto successivo, finalmente Leonard si apre al mondo e si sottrae alla sua famiglia, diventando sempre più assente con gli affetti e incontrollato nei comportamenti, cercando ancora costantemente di scappare dai suoi legami.

Ma il ricongiungimento è possibile ancora tramite la musica: pur essendosi convinta di star bene da sola, in realtà Felicia cova una profonda tristezza nell’essersi separata dal marito, rianimandosi quando lo vede condurre con incontenibile passione l’orchestra che tanto ama.

Così, finalmente, capisce e apprezza il lato buono della sua personalità.

Bradley Cooper in una scena di Maestro (2023) di Bradley Cooper

I momenti conclusivi sono profondamente malinconici.

La chiusura di Felicia è la sezione più drammatica, con la regia che indugia costantemente sul suo volto provato, e non ci nasconde il suo struggimento, il suo desiderio di isolarsi, ormai inevitabilmente pronta alla morte.

Leonard dal canto suo riflette mestamente sugli ultimi anni della sua vita, in cui non si è mai veramente lasciato alle spalle le avventure sentimentali, riuscendo anche al contempo a mettersi da parte e a lasciare il posto ai futuri talenti.

Ma nel suo discorso commosso capiamo che l’unica parte della sua vita che ricorda davvero con felicità è quella con Felicia.

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2023 Biopic Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film

Ferrari – L’incontrollabile

Ferrari (2023) di Michael Mann è un biopic dedicato ad uno specifico momento della vita di Enzo Ferrari, storico fondatore di una delle aziende italiane più famose al mondo.

A fronte di un budget piuttosto ingente – 95 milioni di dollari – è probabile che si rivelerà un importante flop: nella prima settimana ha incassato appena 9 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla Ferrari?

Modena, 1957. Alle porte dell’importantissima Millemiglia, Enzo Ferrari deve fare i conti con la bancarotta prossima dell’azienda e con diversi problemi familiari…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ferrari?

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

In generale, sì.

La particolarità di Ferrari è la scelta di non portare in scena tutta la storia personale e imprenditoriale del protagonista, ma piuttosto di concentrarsi su uno specifico momento della sua vita, risultando una sorta di spaccato della stessa.

Così Mann evita di cadere in molte banalità tipiche del genere, regalandoci invece una pellicola con una regia precisa e curiosamente anche piuttosto claustrofobica, che riesce a bilanciare i due lati della personalità del suo protagonista, grazie anche alle ottime interpretazioni di Adam Driver e Penelope Cruz.

Sotto controllo…

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

In prima battuta Ferrari vuole farci credere che il suo protagonista abbia tutto sotto controllo.

Anche troppo.

Nonostante diversi personaggi cerchino di trascinarlo altrove, Enzo Ferrari ha gli occhi costantemente puntati in una sola direzione: la pista dove le sue macchine correranno, districandosi fra le diverse insidie e imprevedibilità sempre in agguato.

Patrick Dempsey in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Così la sua personalità sfuggente dedica il giusto tempo ad ogni elemento esterno alla pista: i nuovi e fin troppo intraprendenti piloti, i giornalisti sciacalli da comandare a bacchetta, il giro di soldi sempre più vorticoso…

E, sorprendentemente, Mann riesce a portare in scena un’Italia del boom economico piuttosto credibile, facendo muovere Enzo in ambienti familiari e autentici, in cui il cibo è un accessorio onnipresente e assolutamente fondamentale per rendere le situazioni verosimili.

…e fuori controllo

Patrick Dempsey in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Ma Ferrari non può controllare tutto.

Come anticipato, Mann riesce a mantenere costantemente una regia attenta al risultare il più possibile claustrofobica, persino nelle scene teoricamente aperte della corsa: le poche inquadrature ampie e ariose sono schiacciate dalla quantità di soggettive su panorami stretti e angoscianti, alternati da primi piani strettissimi e tormentati.

Adam Driver in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

Questa regia si accompagna perfettamente a questa costante e angosciosa urgenza che scandisce le dinamiche della pellicola, che raccontano come gli eventi sulla pista siano di fatto fuori dal controllo del protagonista: Enzo può solamente dare dei fulminei ammonimenti ai suoi piloti…

…ma non può controllare la loro intraprendenza e l’imprevedibilità della strada.

E, soprattutto, non può evitare la tragedia.

Fra due mondi

Penelope Cruz in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

La vicenda familiare del protagonista è raccontata con peculiare equilibrio.

Il punto di partenza della pellicola stessa è il panorama bucolico e apparentemente rilassante – in realtà ancora estremamente chiuso e angosciante – della seconda moglie, in una realtà in cui Enzo sembra star ricostruendo una vita familiare alternativa.

Ma tanto più preoccupante è la relazione con Laura, interpretata da una magnetica Penelope Cruz, che porta in scena una donna avvelenata, del tutto incapace di accettare la rottura del suo matrimonio e della sua vita familiare…

Adam Driver e Penelope Cruz in una scena di Ferrari (2023) di Michael Mann

…che cerca di tenere sotto controllo il marito con l’unico strumento che le rimane: i soldi.

L’unico esito positivo della pellicola è la risoluzione del loro rapporto, con la drammatica rivelazione della seconda vita di Enzo, che non poteva passare per sempre inosservata ad una donna così attenta e calcolatrice come Laura…

…la stessa che mostra in più momenti un’insostenibile testardaggine e incapacità di relazionarsi col marito.

Così, anche se i loro continui scontri appaiono leggermente didascalici, riescono a raccontare in maniera piuttosto tridimensionale il loro dramma relazionale – in cui la morte del figlio ne è stato solamente l’apice – che infine si risolve con l’ultima richiesta di Laura:

Finché lei resterà in vita, Enzo non avrà altro figlio se non quello defunto.

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C’è ancora domani – Il futuro è nostro

C’è ancora domani (2023) rappresenta lo splendido esordio alla regia di Paola Cortellesi, nonché uno dei più grandi successi commerciali e di pubblico del 2023.

Infatti, a fronte di un budget piuttosto contenuto – appena 8 milioni di euro – ha trionfato con 32 milioni di euro di incasso.

Di cosa parla C’è ancora domani?

Italia, 1946. Dalia è intrappolata in un matrimonio violento, con un marito che la maltratta e la umilia costantemente. Ma il futuro è ancora tutto da scrivere…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere C’è ancora domani

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Assolutamente sì.

C’è ancora domani è una splendida opera prima che riporta sullo schermo un elegantissimo neorealismo – che ricorda titoli fondamentali della nostra filmografia come Una giornata particolare (1977) e Ladri di biciclette (1948) – ma per raccontare un tema assolutamente attuale.

Così la tematica della violenza di genere è ben contestualizzata in un’Italia appena uscita dal Ventennio, per una pellicola che riesce ad appassionare per la bellezza dei suoi personaggi e l’ottima scrittura, non ricadendo quasi mai in scelte banali e prevedibili, anzi.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La passerella

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

C’è ancora domani si apre con la passerella della vergogna.

Dalia entra nel nuovo giorno con uno schiaffo che le ricorda la pochezza della sua condizione: una casalinga rintanata come un ratto in un deprimente seminterrato – con un simbolismo molto potente che ricorda alla lontana Parasite (2019) – e in balia della violenza di un mondo ingiusto.

Infatti, dopo aver sopportato l’umiliazione dei due grandi patriarca della casa – il marito violento e la manina del suocero – la protagonista si immerge in un mondo che giustifica costantemente la sua condizione, il suo stare ai margini e, sopratutto, la violenza di Ivano.

Paola Cortellesi in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Tuttavia, Dalia non è del tutto in balia degli eventi.

Un senso sotterraneo di ribellione, di rivalsa è in qualche modo presente in lei – come si nota soprattutto nel modo in cui tratta il vecchio Ottorino – fomentata sia dalle ingiustizie che vede intorno a lei, sia dall’intraprendenza della sua amica Marisa.

In particolare, Dalia è consapevole di non essere quello che il marito le dice, ovvero una donna inutile e senza valore: al contrario, si impegna a trovare il suo angolo di libertà, si destreggia fra più lavori, mette da parte un piccolo gruzzolo, medita su come aiutare la figlia…

La danza

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La danza con Ivano è rivelatoria.

Paola Cortellesi sceglie consapevolmente di non inserire una scena di violenza tanto per inserirla, ma proprio per caricarla di uno specifico significato: il ballo fra i due personaggi rappresenta la dualità del loro rapporto, fra violenza e amore.

Insomma, si racconta con una messinscena piuttosto indovinata la rete in cui ci si impiglia nelle relazioni violente: per quanto la violenza sia reiterata e devastante, la stessa è accompagnata da momenti di scuse, di giustificazioni, di bombardamento affettivo (love bombing) – infatti, successivamente, dopo averla picchiata, Ivano la invita a ballare.

Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Inoltre, nonostante Ivano sia un personaggio veramente terribile, il suo comportamento è ben contestualizzato nell’eredità della famiglia del Ventennio – e non solo – in cui è del tutto normale punire costantemente queste stupide donne.

E, soprattutto, la sua violenza è costantemente giustificata da sé stesso e dagli altri personaggi maschili – che lo scusano per l’essere nervoso, per aver fatto due guerre – e taciuta dai personaggi femminili, in particolare il terzetto dell’omertà delle donne del cortile che ascolta impotente le urla di Dalia…

Il tavolo

Paola Cortellesi e Romana Maggiora Vergano in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il tavolo è un simbolo costante e fondamentale in C’è ancora domani.

Il film fa indirettamente riferimento al concetto di sitting at the table, proprio del pensiero femminista, che ribadisce l’importanza per le donne di avere coraggio di sedersi al tavolo delle decisioni, e così riprendere in mano il proprio futuro.

Per questo Dalia non si siede mai al tavolo, ma è sempre in piedi, rinchiusa nella sua figura ancellare, con due eccezioni: quando si siede al tavolo secondario della cucina – in cui è più volte scacciata – con la figlia…

Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

…e, soprattutto, quando viene invitata dall’altro patriarca – il padre di Giulio – a sedersi al tavolo della domenica, per poi essere immediatamente scacciata dallo stesso dal marito, per poi riprovare a sedersi, ma proprio nel momento in cui i due uomini si alzano, per essere infine definitivamente esclusa quando Ottorino le ruba il posto.

Così Dalia cerca costantemente di far sedere la figlia Marcella al tavolo, quando nella prima scena la stessa si rifiutava di farlo, proprio nel suo costante tentativo di portarla lontano dalla sua deprimente condizione.

La gabbia

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Il rapporto fra Marcella e Dalia è fondamentale.

La loro relazione è fin da subito estremamente antagonistica, in particolare da parte della figlia, che disprezza esplicitamente la madre per non essere capace di liberarsi dalla sua condizione, ma anche del tutto ingenua davanti alla mancanza di alternative per Dalia.

Ma il maggior impegno della protagonista è proprio quello di poter offrire alla figlia una condizione di vita migliore – soprattutto dal punto di vista economico – mettendo da parte i soldi per portarle dare l’inizio migliore possibile: uno splendido abito da sposa.

Romana Maggiora Vergano e Francesco Centorame in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

Per questo il risveglio di Dalia è profondamente legato alla figlia.

Quando la protagonista comincia a notare le stesse dinamiche che caratterizzarono i primi momenti del rapporto con Ivano – proprio nella classica dinamica dell’uomo violento nascosto in ogni ragazzo perbene – comincia a capire di star regalando a Marcella non un futuro, ma una gabbia.

Per questo sceglie finalmente di agire, anche in maniera piuttosto pericolosa, per vanificare quel futuro matrimonio violento, dal momento che i suoi tentativi più cauti di dissuadere la figlia nell’andare ad incastrarsi nel suo stesso incubo cadono nel vuoto.

Ed è solo l’inizio.

L’alternativa

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

La condizione femminile non guarda alla classe sociale.

Per questo piuttosto interessante l’incrocio di sguardi fra Dalia, il ritratto della donna di un’epoca lontana nella casa in cui va a fare l’infermiera, e la padrona della casa stessa: con questo semplice rappresentazione, C’è ancora domani racconta una situazione femminile poco mutata nel tempo.

Se infatti persino una nobildonna del passato poteva godere di poco spazio nelle scelte politiche, così la padrona di casa che cerca di intervenire – sempre in piedi – nel tavolo di discussione degli uomini – figlio e marito – viene scacciata.

Paola Cortellesi e Emanuela Fanelli in C'è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi

L’alternativa è invece Marisa.

Fin da subito si racconta come l’amica sia in una situazione matrimoniale ben diversa, in cui riesce ad essere il capofamiglia e, sopratutto, a godere di un marito piuttosto affettuoso, e che, soprattutto, la sostiene come compagna, e non come serva.

Questo è particolarmente chiaro nella scena in cui Marisa vede passare una donna incinta e si intristisce, essendo probabilmente sterile, ma subito il compagno la cinge a sé, confermando che il suo amore non è vincolato al suo ruolo di madre e moglie.

Non a caso, quando si convince a ribellarsi, Dalia si raccoglie i capelli come l’amica.

Domani

Teoricamente, l’alternativa per Dalia è Nino.

Inizialmente infatti Dalia si convince a scappare con lui, così da sottrarsi al suo matrimonio da incubo e trovare finalmente qualcuno che la ama e la rispetta.

Questa scelta mostra un momento di un effettivo tentativo di indipendenza dal marito – in particolare nella fretta e nell’affronto di camminargli davanti – apparentemente del tutto vanificata dalla morte dell’altro patriarca.

Ma c’è ancora domani.

Con il suo splendido finale, la pellicola ci mostra qual è la vera alternativa alla società in cui viviamo: non scappare, non cercare una salvezza in uomini migliori, ma invece prendere un effettivo posto al tavolo delle decisioni.

E così finalmente Marcella guarda con rispetto e gioia la madre – che le sta regalando un vero futuro, con il voto e con la possibilità di un’istruzione – e finalmente Dalia non è in basso, per terra rispetto al marito, ma lo sovrasta in cima alle scale…

…spalleggiata da quelle stesse donne che non l’avevano aiutata fino a quel momento, che anzi l’avevano osteggiata, ma che ora diventano finalmente sue alleate.

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Grottesco La musa Racconto di formazione Yorgos Lanthimos

La Favorita – Pennellate di distruzione

La Favorita (2018) è la prima produzione di Yorgos Lanthimos in cui non appare anche come sceneggiatore e la prima collaborazione con la sua futura musa, Emma Stone.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 15 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale, con 95 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla La Favorita?

Inghilterra, 1708. Sul trono siede la Regina Anna, insidiata dalla sua vecchia amica e amante Lady Marlborough, che tiene in mano le redini del regno. Ma qualcosa sta per cambiare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La Favorita?

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

In generale, sì.

Per quanto l’abbia in generale rivalutato ad una seconda visione, non è un film che comunque mi entusiasma, ma se riuscirete a lasciarvi rapire dall’estetica barocca e da una storia per molti versi estremamente trucida, lo apprezzerete molto.

Personalmente per un period drama io preferisco una rappresentazione più romantica e dall’estetica più ricercata come in Marie Antoinette (2006), ma è indubbio che questo prodotto sia un passo avanti per l’opera di Lanthimos a livello di scrittura.

Peccato che non l’abbia scritto.

Controllo

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

La Favorita si basa sulla naturale debolezza che definiva la scena politica con al centro il potere regale.

Si poteva avere una regina che comandava con consapevolezza come un secolo prima Elisabetta I, oppure un personaggio molto più fragile come Anna Stuart, costantemente in balia dagli stimoli di personaggi esterni come Lady Marlborough, che di fatto governa al suo posto.

Olivia Colman e Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

E sono inutili i tentativi di Robert Harley di prendere di petto questa intraprendente nobildonna, e altrettanto futile provare a far ragionare una regnante del tutto incapace di comprendere la scena politica che dovrebbe essere in grado di governare.

Ma, come ci ricorda lo stesso Harley, il favore è un vento che facilmente cambia direzione…

Pennellata

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Come per tutto il terzetto di protagonisti, Lady Marlborough non è un personaggio del tutto negativo.

Sulle prime sembra abbozzato come il villain della storia, come una serpe che si approfitta dalle debolezze di Anna, lusingandola con l’attrattiva sessuale e approfittandosene per guidare le sorti del regno a vantaggio della sua famiglia.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Al contempo, la sua posizione sembra talmente inscalfibile che può persino permettersi di maltrattare e insultare la sua stessa regina, con un comportamento che stupidamente rende spesso infelice la stessa, che vorrebbe essere semplicemente adorata e coccolata come una bambina.

E proprio in questo problema si insidia Abigail.

Insidia

Emma Stone in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Inizialmente, Abigail è un personaggio passivo.

Una nobile decaduta ridotta ad essere una sguattera della cucina, costantemente vessata, nonostante le sue buone intenzioni, riuscendo a salvarsi grazie alla sua inventiva e alla sua intelligenza, che le permette di diventare improvvisamente interessante per Lady Marlborough.

Comincia così un’apparentemente timida risalita, in cui, come una bambina, la donna osserva attentamente le dinamiche e le tattiche della sua nuova padrona, e rimane sulle prime restia, anzi quasi imbarazzata dalla malignità e i sotterfugi che affiggono la corte.

Infatti, sulle prime non vuole partecipare.

 Robert Harley la tenta immediatamente al suo grande gioco politico, avvertendola anche sulla fragilità della sua posizione, su come i modi per rafforzarla e renderla definitiva ci sono, se solo li volesse accettare – altrimenti…

L’ultimo atto di questa resistenza è il confronto con Lady Marlborough, che, sorprendentemente si mostra del tutto allergica a questa presunta fedeltà della sua sottoposta, e la minaccia in maniera non dissimile dal suo nemico.

E allora è il momento di cambiare.

Spazio

Abigail deve trovare il suo spazio.

E la sua tattica è rendersi prima di tutto un’alternativa allettante all’attuale favorita della Regina, sia per l’amabilità del suo carattere – mai ostile né punitivo come quello di Lady Marlborough – sia per la sua attrattiva sessuale – mostrandosi casualmente nuda davanti alla sua preda.

E se la sua padrona cerca di cacciarla in fondo alle scale, la giovane donna non ci sta, e tenta il tutto e per tutto: mostrarsi anche lei vittima delle angherie della terribile Lady Marlborough, rendendosi uno specchio doloroso,- ma al contempo allettante – della condizione stessa della regina.

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Ma la Favorita non è un ruolo facile da ottenere.

Proprio quando sembra essersi presa il suo posto accanto alla Regina, Abigail si rende facilmente conto che non sarà semplice scalzare la sua contendente, che può godere di una relazione profonda e duratura con Anna.

Così sceglie di metterla forzatamente fuori scena, diventando la protagonista della vita della Regina, acquisendo alleati politici fruttuosi che le permettono di ottenere quello che ormai sente di possedere di diritto: il titolo che gli è stato rubato.

E ormai fa parte del gioco.

Status

Rachel Weisz in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Abigail e Lady Marlborough non hanno gli stessi obbiettivi.

Nell’ultimo atto le loro posizioni assumono dei contorni più netti: per quanto il principale risultato del suo status favorito per la Regina fosse una posizione politica chiave per la sua famiglia, Lady Marlborough aveva anche altri interessi in gioco.

Nella sua apparentemente malvagità e sfacciataggine, era evidentemente legata con un rapporto di profondo affetto per Anna, che sceglie infine di allontanarla non tanto per le sue ruberie, ma per averla costantemente tradita, per non aver mai cercato di risaldare i rapporti – o almeno così sembra…

Olivia Colman in una scena di La Favorita (2018) di Yorgos Lanthimos

Invece Abigail è fin troppo sicura.

Mentre si gode la sua nuova posizione nell’ultimissima scena del film, la donna dimostra un’assoluta predominanza della situazione, che la porta fisicamente a schiacciare uno dei figli di Anna – e, per estensione, Anna stessa – semplicemente perché può farlo.

A questo punto arriva la drammatica realizzazione della Regina, spogliata del suo status e derubata di un effettivo affetto al suo fianco, che cerca di riportare al suo posto quella terribile sanguisuga, in un disperato tentativo di rivalsa…

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Balto – Sottoterra

Balto (1995) di Simon Wells è uno dei pochi film prodotti al di fuori dei grandi studios che divenne negli anni un piccolo cult.

Eppure, al tempo fu un flop devastante: con un budget di 30 milioni di dollari, incassò appena 11 milioni in tutto il mondo, fra l’altro alla vigilia del fallimento della casa di produzione, la Amblimation.

Di cosa parla Balto?

Alaska, 1925. Balto è un cane randagio e meticcio, che fatica a trovare la sua identità all’interno di una cittadina che lo disprezza. Ma una situazione drammatica gli permetterà di rimettersi in gioco...

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Balto?

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Assolutamente sì.

Balto è uno di quei film che porto nel cuore, e che migliora non solo ad ogni visione, ma soprattutto ad una revisione con un occhio più adulto e maturo, che permette di coglierne i significati più sotterranei e nascosti, ma in realtà fondativi della pellicola stessa.

Al contempo, non lo considero propriamente un film adatto ai più giovani: nonostante si cerchi in più momenti di ammorbidire i toni con alcune gag più a misura di bambino, si tratta a prescindere di una storia piuttosto drammatica e angosciante.

Insomma…qualcuno pensi ai bambini!

La non-identità

Balto in Balto (1995) di Simon Wells

Non è un cane. Non è un lupo. Sa soltanto quello che non è.

Balto è un eroe di mezzo.

Il suo ambiente naturale sono le retrovie, i vicoli bui e malmessi della città, in cui viene ripetutamente cacciato e a cui, in qualche modo, sente di appartenere: Balto è insomma sempre ad un passo da un mondo a lui proibito.

Anzi, due mondi.

Infatti, il protagonista non riesce mai a trovare il coraggio di penetrare la realtà civile – quella degli uomini e dei cani – ma neanche è capace di spingersi fino al mondo selvaggio e misterioso – quello dei lupi.

Balto e Steel in Balto (1995) di Simon Wells

Così, quando osserva i lupi in lontananza che ululano nella sua direzione, è incapace di rispondergli, e si allontana sconsolato fino alla barca al confine fra la città e il mondo selvaggio – ovvero, proprio il luogo in cui sente di appartenere.

E solo molto timidamente sceglie prima di gettarsi all’ultimo nella corsa – ma solo per riportare il cappello a Rosy – e, infine, solo dopo grandi meditazioni, è capace finalmente di partecipare alla gara per scegliere chi salverà la comunità, e a battere tutti gli altri concorrenti.

Ma non basta.

Il sotterraneo

Boris in Balto (1995) di Simon Wells

Il destino del protagonista sembra ormai scritto.

Balto sembra infatti incapace di emergere dalla sua condizione anche perché è circondato da altri personaggi emarginati: Boris, un’oca incapace di volare insieme alle sue compagne, e così Muk e Luk, due orsi polari che hanno paura dell’acqua.

Una situazione che ovviamente si aggrava per via della cattiveria degli uomini della città, che premiano a prescindere i cani di razza pura solamente per la loro discendenza, incapaci di comprendere il valore del protagonista.

Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Ma la realtà sotterranea è fondamentale.

Emblematica in questo senso la scena in cui Balto conduce Jenna per una via nascosta al di sotto della casa di Rosy.

Infatti, in questa scena Jenna riesce finalmente a comprendere la condizione della ragazzina, e per il resto del film e anche senza Balto, sarà sempre in grado di avere la zampa della situazione, pur rimanendo ai margini della scena.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Nella stessa occasione, il protagonista mostra alla sua amata un elemento fondamentale per convincerla della sua bontà: quei cocci di bottiglia rotti, che sembrano solamente pericolosi, mera spazzatura, in realtà possono essere utilizzati per creare una splendida aurora boreale.

Allo stesso modo Balto, un meticcio, un emarginato, apparentemente selvaggio e pericoloso, è in realtà un personaggio di grande valore.

Multiforme

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Jenna è un personaggio femminile incredibilmente interessante.

Anzitutto, si sottrae al ruolo semplicemente di oggetto del desiderio – sia da una parte che dall’altra: inganna furbescamente Steel, quando questo cerca per l’ennesima volta di sedurla, e sceglie di avvicinarsi consapevolmente a Balto, nonostante la sua nomea.

Balto e Jenna in Balto (1995) di Simon Wells

Inoltre, non ha alcuna vergogna ad ammettere di aver interesse per il protagonista, nonostante questo sia considerato un emarginato e un bastardo – come si vede nella scena in cui Sylvie, una delle due cagne sue amiche, la mette alla prova.

Oltre a questo, per tutto il tempo rimane un personaggio estremamente attivo, sia quando spinge Balto all’avventura, sia quando lo salva dall’orso, sia poi nel momento in cui rimane l’unico personaggio che si sottrae alla narrativa fasulla di Steel.

L’ombra

Rosy in Balto (1995) di Simon Wells

La lugubre ombra della morte è costante in Balto.

La troviamo anzitutto in Rosy, una dei tanti bambini che si ammalano, prima quando comincia a tossire e viene richiamata a casa, poi nelle diverse e insistite sequenze in cui viene inquadrata a letto nella disperazione della malattia.

Ma la morte è presente anche in altri due momenti altrettanto inquietanti.

Nelle scene iniziali, quando Boris viene acciuffato dal macellaio, e l’ombra della lama si staglia sul suo collo, e poi quando ogni speranza sembra persa, e il giocattolaio, che poche scene prima aveva confezionato una slitta per Rosy, ora prepara la sua piccola bara…

Il gruppo spezzato

Il gruppo di salvataggio è troppo ingombrante.

Infatti, inizialmente tutti i personaggi partono all’avventura insieme a Balto, anche quelli più secondari e apparentemente inutili come i due orsi.

Invece saranno proprio loro a salvare Balto da morte sicura quando starà per affogare nel ghiaccio – trovando così la loro redenzione – e fondamentale sarà Jenna, che giungerà all’ultimo per sottrarlo dalle grinfie del terrificante orso, pur diventano poi lei stessa il motivo per cui il gruppo si spezza.

Ma l’avventura di Balto deve essere solitaria.

Il protagonista con questo viaggio non è solamente destinato a salvare la propria comunità – e nello specifico Rosy – ma si sta inconsapevolmente imbarcando verso un percorso per acquisire finalmente consapevolezza della sua identità.

Ma nel suo viaggio sono in agguato anche presenze che gli mettono i bastoni fra le ruote: la terribile bestia nera che lo attacca – assimilabile, per contrasto al Lupo Bianco, ad una figura quasi demoniaca – ma soprattutto Steel, disposto persino a rischiare la morte dei bambini per la propria gloria.

Rinascita

Infatti, la vera salvezza di Balto è l’incontro con il Lupo Bianco.

Inizialmente il protagonista aveva ingenuamente intrapreso il viaggio e il tentativo di salvataggio della medicina nelle vesti del cane – e proprio per questo aveva nuovamente fallito, trovandosi seppellito dalla neve in un dirupo…

…e così ancora una volta rinchiuso sottoterra, proprio come poco prima era stato seppellito dal ghiaccio dall’orso.

Ma stavolta deve salvarsi da solo.

Infatti, l’incontro con la misteriosa presenza – che può essere assimilabile alla figura dell’eredità di Balto, quanto a una figura quasi divina di salvezza – è l’occasione per il protagonista di riscoprirsi lupo.

Così Balto ricorda le sagge parole di Boris, che gli ricordano come una missione del genere non potesse essere portata avanti dei semplici cani – abituati alle comodità del mondo civilizzato ma solo da un lupo, capace di affrontare l’ignoto e il selvaggio, e uscirne indenne.

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1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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City of life and death – L’impossibilità della ragione

City of life and death (2009) di Lu Chuan è un film di produzione cinese che racconta, con un taglio il più possibile imparziale e asciutto, il dramma del cosiddetto Massacro di Nanchino.

A fronte di un budget di circa 12 milioni di dollari, incassò circa 10 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla City of life and death?

Sullo sfondo della tragedia di Nanchino, diversi personaggi si avvicendano sullo schermo con i loro drammi personali e collettivi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere City of life and Death?

Assolutamente sì.

Ma.

City of life and death è un’opera davvero di grande valore, che non solo racconta una delle vicende più agghiaccianti della storia del Novecento, ma sceglie di farlo con un taglio quasi documentaristico, preciso, e che non mostra più del necessario…

…ma che quel poco che mostra basta per raccontare dinamiche davvero difficili da digerire, e che probabilmente non tutti sono pronti ad affrontare, per quanto sia un prodotto che vale assolutamente la visione.

Insomma, vi ho avvertito.

City of life and death realtà

Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.

Il Massacro di Nanchino, conosciuto anche come Stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese a Nanchino, all’inizio della seconda guerra sino-giapponese.

La città, in quel periodo capitale della Repubblica di Cina, era caduta in mano all’Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e per circa sei settimane, tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938, i soldati giapponesi uccisero circa 300.000 persone.

Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.

L’impossibilità della ragione

Fin dal suo incipit, in City of life and death sembra rimbombare la domanda fondamentale de La sottile linea rossa (1998):

This great evil…where’s it come from?

Questo grande male…da dove viene?

Eppure inizialmente in scena vediamo quello che forse è il minore dei mali dello Stupro di Nanchino: un’uccisione sistematica della popolazione cinese, portata avanti sulle prime da un’idea dell’annientamento sistematico del nemico.

La radice di questo grande male può infatti facilmente essere ritrovata all’interno del pensiero e della propaganda anti-cinese tipica di quegli anni in Giappone – un sentimento che non si è ancora del tutto spento – che rendeva del tutto normali certi tipi di azioni.

Un’eliminazione quasi meccanica, fredda, dettata unicamente dal dovere di proteggere la propria nazione dal nemico…

Ma la situazione diventa sempre più incomprensibile più ci si addentra nell’esplosione di violenza incontrollata, fino al punto in cui i soldati giapponesi penetrano negli ospedali improvvisati dei rifugiati per sparare in testa a civili indifesi

E questo è solo il preludio di un atto ancora più incomprensibile.

Lo stupro sistematico.

Il male comune

C’è stato qualcuno che ha scritto: «L’inferno è l’impossibilità della ragione». Questo posto è così, è l’inferno.

Alle donne non basta privarsi del loro essere donne per poter non essere violate costantemente, così come agli uomini non basta fingere di non essere soldati per salvarsi come prigionieri civili: non esiste più la ragione, la razionalità.

L’unico elemento che rimane è la comunità.

E con due significati.

La comunità è quella che un pugno di donne, già ripetutamente violate e che hanno davanti agli occhi nient’altro che disperazione, miseria e lo stupro sistematico dei loro concittadini, scelgono di salvare.

Così, nella devastante sequenza dello stupro di gruppo, questi corpi ormai senza dignità – e, infine, anche senza vita – vengono sistematicamente violati, umiliati, distrutti, quasi a simboleggiare l’agghiacciante stupro che è calato sulla città stessa.

Ma il senso di comunità è anche quello che giustifica non un mero stupro, ma una costante violazione della vita e della dignità di altri esseri umani, una costante umiliazione e una violenza fuori controllo…

Perché, oltre al sentimento di comune disprezzo verso una razza inferiore, quello che muove le azioni dei soldati giapponesi è un senso di liberazione dalla colpa: se tutti sono colpevoli, se tutti stanno perpetrando lo stesso crimine, nessuno è davvero colpevole.

E allora cosa rimane?

Vita e morte

Life is more difficult than death

La vita è molto più ardua della morte

L’unico barlume di ragione dal lato giapponese è il personaggio di Kadokawa: il soldato cerca di ritrovare un qualche parvenza di normalità nel suo attaccamento a Yuriko, con cui spera di condividere qualcosa di più del semplice sesso.

Un amore e, forse, un matrimonio.

Ma la sua ricerca di un mondo razionale è costantemente contrastata da una realtà totalmente irrazionale, di cui fa inevitabilmente parte, e della cui colpa non può privarsi davanti al giudizio della Storia.

Per questo il finale si fonda su un tragico quanto potente contrasto.

Il soldato giapponese sceglie di togliersi la vita, ormai incapace di portarla avanti, tale è la colpa, tale è l’orrore che ha dovuto vedere e compiere, che non gli permetterebbe mai più di tornare ad una vita altra.

Ma la sua morte rappresenta anche la liberazione dei due prigionieri cinesi, in particolare il bambino, che corre spensierato con dei fiori fra i capelli, simbolo della profonda speranza, del profondo sentimento di rinascita che deve accompagnare un orrore che l’aveva ormai spenta.

Così, anche dal cadavere di Kadokawa, dalle rovine di Nanchino, potranno nascere nuovi boccioli.

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Vittime di guerra – L’incubo sommerso

Vittime di guerra (1989) è uno dei più interessanti film bellici del secolo scorso, per la regia di Brian De Palma, che poté dirigere due attori incredibili come Sean Penn e soprattutto Michael J. Fox, che dimostrò di saper fare anche molto altro oltre che Ritorno al futuro…

A fronte di un budget piuttosto contenuto per il tipo di produzione – appena 22 milioni di dollari, circa 54 oggi – fu comunque un pesante flop commerciale: 18 milioni di incasso (circa 44 oggi).

E i motivi sono piuttosto evidenti.

Di cosa parla Vittime di guerra?

Vietnam, 1966. Dopo avergli negato il ritiro in un bordello, Meserve ordina alla sua squadra di rapire una ragazza vietnamita per divertirsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vittime di guerra?

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Assolutamente sì.

Ma.

Vittime di guerra è uno di quei rari casi in cui un prodotto statunitense a tema bellico non si perde in una esaltazione degli eroi del fronte occidentale, ma sceglie di mostrare una realtà molto più amara e lontana dalla classica propaganda.

Tuttavia, se La sottile linea rossa (1998) è già di per sé un film piuttosto impegnativo emotivamente, la pellicola di De Palma può risultare una visione realmente devastante, visto il tipo di tematica trattata…

Ma ne vale assolutamente la pena.

Pedine

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è disumanizzante.

I soldati sono calati in un contesto fortemente gerarchico, in molti modi spersonalizzati e ridotti a mere pedine, tanto che l’importanza della loro morte è del tutto ininfluente nel grande schema delle cose – anzi rappresenta sostanzialmente la quotidianità.

Ma, del tutto consapevoli di quanto sia opprimente una vita vissuta schiacciati sotto al peso di una morte imminente e di una disciplina stringente, sono gli stessi superiori che perdonano le peggiori oscenità dei loro soldati e cercano anzi di trovare uno sfogo a queste mine vaganti.

Ma se vengono privati anche di questo sfogo…

Il valore?

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Lo stupro nel film ha molti significati, ma nessuno strettamente sessuale.

In primo luogo, lo stupro è una ribellione: vedendosi negato anche quel poco di libertà, di sfogo, Meserve si rivolta contro il sistema e organizza la sua rivincita – come un bambino che non può avere il giocattolo desiderato, e quindi lo ruba.

Ma la ribellione non basta.

Michael J. Fox e Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta rapire una donna e dire di volerla violentare, se poi non si è capaci di farlo.

In questo senso l’atteggiamento ambiguo del personaggio ne rivela le due facce: da una parte un atteggiamento più umano, comprensibile, che lo porta persino a cercare sulle prime di curare ed accudire la sua preda.

Dall’altra, lo scoppio della violenza è paragonabile ad un bambino che vuole vedere quanto in alto può saltare prima di essere punito: una reazione selvaggia, senza freni, che serve solamente a dimostrare che Tony può violentare quella donna, è capace di farlo.

Concetto che si va ben ad inserire nella bidimensionalità della mentalità militare.

La bidimensionalità

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è bidimensionale.

In un mondo in cui se non vuoi essere pedina, se non vuoi essere un perdente, devi essere un eroe, devi dimostrare di sapere fare la guerra, non ci sono vie di mezzo: americano o vietcong, amico o nemico, vero uomo o frocetto…

Per questo lo stupro è, di fatto, una prova.

È una prova anzitutto per Meserve, verso sé stesso e verso gli altri, ed è una prova a cui deve sottoporre tutti i suoi compagni, per capire se sono uomini di valore o solo destinati ad una cassa da morto

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Allo stesso modo, la donna non è più una donna, ma uno strumento, una puttana, da utilizzare e da buttare via all’occorrenza, per dimostrare di essere capaci di percorrere fino in fondo quella strada verso la dimostrazione della propria virilità.

Una virilità incredibilmente violenta, come racconta molto bene la posizione di potere di Clark – con le gambe divaricate – con cui afferma di averle dato diversi colpi – col coltello e col pene – e per come lo stesso Meserve definisce il fallo un’arma.

Proprio per questo ogni volta il sergente sceglie di lasciare per ultimo Clark – nel turno della violenza – o di escluderlo dall’uccisione della donna: Meserve sa già quanto quell’uomo sia la perfetta rappresentazione della virilità violenta, che non ha bisogno di essere dimostrata ulteriormente.

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

E così, anche la guerra è una prova.

Nelle sottili dinamiche della Guerra Fredda, un conflitto fatto più di sotterfugi e di mosse politiche che di vera forza fisica, una prova armata era fondamentale per riaffermare il dominio militare degli Stati Uniti – dovunque questo si potesse applicare.

E così il grosso fallo degli States affondò sul Vietnam.

Il risveglio

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Fra tutti, Eriksson è il personaggio più simbolico.

Se i suoi compagni raccontano la ferocia della guerra e di crimini spesso sommersi, il giovane soldato rappresenta una sorta di risveglio – o un auspicato risveglio – degli Stati Uniti, un ripensamento delle sue colpe.

In diverse occasioni Eriksson cerca di salvare o aiutare la donna, ma viene impedito dal peso della colpa dei suoi compagni: quando cerca di spogliarla per pulirle le ferite o di portarla via dall’accampamento, ogni volta la giovane si ribella.

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta infatti solo una buona azione, non basta l’intenzione di riparare una colpa, per impedire che questa scintilla venga ingoiata nell’abisso della terribile reputazione e dell‘infamia che ha ormai macchiato una nazione.

E, anche quando effettivamente la giovane si fida di lui, lo stesso Eriksson è frenato dalla sua morale, che gli impedisce di diventare effettivamente un vergognoso disertore, di puntare il fucile verso i suoi compagni, nonostante questi siano degli stupratori e degli assassini.

Con poche righe di sceneggiatura De Palma riesce a raccontare l’animo contrastato e autodistruttivo di una nazione, che, nonostante sia consapevole delle sue follie anacronistiche – fra tutti, il possesso delle armi – è così ubriaca di una certa mentalità che le è veramente impossibile disfarsene.

Ma forse un risveglio è possibile.

Il regista gioca doppiamente con l’elemento onirico: Eriksson si sveglia improvvisamente da quel sogno, da quella realtà opprimente e definitiva, per rendersi conto che – forse – un’altra realtà è possibile.

Una realtà in cui la giovane vietnamita non è mai stata rapita né violentata, ma vive serenamente la sua vita senza paura di essere aggredita o privata della sua casa, dove anzi suggerisce all’ex-soldato (?) che la tragedia bellica era solo un incubo.

Ma allora qual è veramente il sogno: la guerra o un mondo senza la stessa?

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Candidature Oscar 2024 per Napoleon (2023)

in neretto le vittorie

Migliore scenografia
Migliori costumi
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Napoleon?

La pellicola ripercorre le più importanti tappe della vita di Napoleone Bonaparte, con un particolare focus sulla turbolenta relazione con la prima moglie, Joséphine.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Napoleon?

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Dipende.

Se vi aspettate un racconto preciso e documentaristico della vita politica e della strategia militare di Napoleone, non è il film che fa per voi: anche per via di un obbiettivo squilibrio fra le parti, il film di Ridley Scott si propone di raccontarne solo le tappe più importanti – e spesso in maniera neanche molto approfondita.

Al contrario, se vi può interessare una visione più brutalmente verosimile del dietro le quinte, un’effettiva distruzione del mito di uno dei personaggi più importanti della storia europea, potrebbe essere una visione gratificante.

A voi la scelta.

L’uomo

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

La parte più strettamente umana di Napoleon è quella più discussa.

Il Napoleone presentato è piuttosto lontano dal mito creato da lui stesso e dai vari storici nel corso dei secoli, andando invece a tratteggiare un uomo quasi ridicolo, pieno di debolezze e piccole e grandi ossessioni.

Ma, a differenza di quanto potrebbe sembrare, il ritratto del Napoleone di Scott è molto credibile.

Per quanto fosse un abile stratega e osservatore – come viene fra l’altro rappresentato – è altrettanto vero che, agli occhi delle grandi case aristocratiche europee, Napoleone non era altro che un buzzurro con un’origine non particolarmente brillante – la tristissima Corsica.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, Bonaparte era profondamente legato alla tradizione corsa, nello specifico al suo stringente tradizionalismo – infatti non fece certamente sue grandi battaglie sociali – e mosso da una strabordante ambizione.

In questo senso, per quanto sia d’accordo sul fatto che Phoenix sembri un po’ imbrigliato in una recitazione a tratti limitante, allo stesso modo la performance che ci porta in scena racconta perfettamente questo carattere ambiguo, con le sue luci e ombre…

Lo stratega e…

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

In Napoleon Scott si impegna a rappresentare lodevolmente la parte più meritevole dell’opera di Napoleone.

Ovvero, la sua capacità da stratega.

Bonaparte visse una carriera militare piuttosto lampante, che gli permise di collocarsi nel solco della Rivoluzione Francese, e così acquisire una posizione di grande potere politico, fino a diventare l’Imperatore della Francia post-rivoluzionaria.

Pur piegando date ed eventi a suo favore, in particolare nella scena della decapitazione di Maria Antonietta – storicamente inesatta – l’occhio attento di Bonaparte sull’apice della Rivoluzione ne racconta indirettamente la consapevolezza del mutato scenario politico tutto da riscrivere.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Per questo si impegnò in diverse campagne militari, sempre necessarie per riuscire a mantenere il potere politico, con una serie di guerre lampo – forse in questo caso anche troppo frettolosamente raccontate – che lo portarono agilmente al successo.

Per questo la scena del bombardamento in Egitto e dell’incendio in Russia sono complementari: in entrambi i casi Scott racconta in maniera molto semplice ed immediata per uno spettatore inesperto due momenti fondamentali della carriera militare del protagonista.

Infatti come l’Egitto fu una vittoria schiacciante e determinante per la sua popolarità, allo stesso modo l’incendio a Mosca – nella realtà storica solo accidentale – rappresenta il fuoco distruttivo di tutte le altre potenze europee che, infine, lo schiacciarono.

E, nondimeno, quell’incendio fu anche rappresentazione di un successo molto precario e momentaneo: anche a fronte di ambiziose conquiste come una capitale così simbolica, allo stesso modo le fondamenta del suo potere erano fin troppo fragili…

Concetto raccontato anche, con un simbolismo piuttosto calzante, nella scena del faccia a faccia con la mummia, a cui un Napoleone ancora all’inizio della sua ascesa pone in testa il suo capello, quasi si rivedesse in quella rappresentazione di una gloria assai passeggera…

Josephine o…

Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Il focus fondamentale di Napoleon è il rapporto con Josephine.

Lo stesso, ha più funzioni.

Anzitutto, un racconto abbastanza naturale del proseguire degli eventi: tramite le lettere appassionate all’amata, Napoleone riesce a raccontare lo svolgersi degli eventi militari e politici, soprattutto quando era lontano dalla Francia.

In secondo luogo, rappresenta la grande debolezza del personaggio: anche se appassionatamente innamorato – come dimostrano le varie lettere a lei dedicate – Napoleone era anche un personaggio piuttosto opprimente dal punto di vista relazionale.

Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Se da una parte si dimostrò più volte un genitore e un amante affettuoso, è altrettanto vero che aveva una visione molto tradizionalista della donna, da cui l’atteggiamento oppressivo nei confronti di Josephine, e lo squallore delle scene di sesso, finalizzate unicamente ad un consolidamento della sua posizione.

E infine, Napoleone arrivò a soffocare la sua amante, tenendola da parte in un cassetto e portandola solamente ad essere più sola e triste, impedendole di vivere veramente una seconda vita relazionale al di fuori di lui.

Ma è possibile anche una seconda interpretazione.

…la Francia?

L’importanza del personaggio di Josephine all’interno della pellicola permette una seconda interpretazione.

In questa visione, la donna amata di Napoleone simboleggia la Francia stessa: qualcosa di cui Bonaparte, nonostante le sue origini, era profondamente innamorato, ma che gli portò anche diversi dispiaceri e angosce.

In questo senso il brusco ritorno in patria dall’Egitto – del tutto reale e documentato – per via del tradimento della moglie – non altrettanto veritiero – può essere letto come una sorta di presa di consapevolezza dello stato deplorevole della Francia in sua assenza – come testimoniato dal suo stesso scambio col Direttorio.

E così, la necessità di rimetterla in riga.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, la conclusione del matrimonio racconta un’altra tendenza del personaggio.

Napoleone non si accontentò mai di rendere sicura e compatta la Francia, ma aspirò sempre ad avere il controllo su molti altri territori, rivaleggiando con le diverse potenze europee, tanto da finire per utilizzare milizie non francesi per il suo esercito.

Una scelta spesso considerata motivo del fallimento finale della sua avventura, e che potrebbe essere proprio traslato nella scelta di abbandonare l’amore per Francia – Josephine – per conseguire le sue ambizioni politiche, proprio sposando una straniera – Maria Luisa d’Austria.

La riscrittura del mito

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Questa riscrittura storica potrebbe turbare molti spettatori.

Ma è proprio questo il punto.

La vera vittoria di Napoleone non è stata tanto l’aver incarnato il cambiamento della Rivoluzione e l’aver fatto tremare l’intera Europa per vent’anni, ma l’essere riuscito a costruire e a mantenere un mito personale che perdura tutt’oggi.

Questo elemento si nota particolarmente nell’ultima scena, che fa riferimento al fondamentale Memoriale di Sant’Elena: Napoleone fu, fino all’ultimo, attivo nel tramandare una storia e un’immagine di sé stesso il più vantaggiosa possibile, anche se deviata.

Non a caso, se si vanno meglio ad indagare i singoli eventi fondamentali – fra tutti, la possibile disfatta al Parlamento, salvata in extremis dal fratello Luciano – si scopre tutta la fragilità del mito e della quantità di momenti in cui la fortuna salvò la sua ascesa.

Per questo, è così sbagliato provare a mettere in bocca allo spettatore una storia che non ha mai sentito, piuttosto che la solita celebrazione di cui siamo ormai ubriachi?