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Porco rosso – Un’avventura italiana

Porco rosso (1992) è la prima avventura italiana di Hayao Miyazaki, nonché il primo suo lungometraggio con un protagonista maschile.

Un prodotto che confermò nuovamente l’andamento positivo del maestro nipponico a livello internazionale: sempre 44 milioni di dollari di incasso, a fronte di 9,2 milioni di yen (circa 7 milioni di dollari).

Di cosa parla Porco rosso?

Porco Rosso, soprannome dell’aviatore Marco Pagot, è un ex pilota dell’Aeronautica Italiana e cacciatore di taglie. Il nome deriva dal suo particolare aspetto…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Porco rosso?

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Assolutamente sì.

Porco rosso è fra i minori di Miyazaki che assolutamente preferisco, al pari del precedente Il mio vicino Totoro (1988). Solo la prima delle due avventure italiane del maestro nipponico, prima del più recente Si alza il vento (2013).

Una storia che unisce il realismo più stringente e l’elemento fantastico in maniera organica e ben pensata, con un protagonista carismatico e interessante. E non manca anche di un tono che mischia il drammatico e i momenti più gustosamente comici.

Da vedere, assolutamente.

ovvero quanto è pericoloso vedere questo film doppiato.

Conoscerete sicuramente la follia di Cannarsi per lo scandalo del doppiaggio Evangelion, che è stato solo lo scoppio di un problema già interno e che ha guastato negli anni la bellezza di moltissimi prodotti dello studio Ghibli.

Nel caso di Porco Rosso il pericolo è medio-alto.

Il solito appesantimento insostenibile dei dialoghi, con utilizzo di termini totalmente fuori contesto: insomma, al solito i personaggi parlano come dei libri stampati – e pure datati. Ci mancava solo che Cannarsi avesse tradotto il titolo Maiale cremisi

Proprio per questo, il mio consiglio rimane sempre lo stesso:

Non guardate i film dello Studio Ghibli doppiati e sarete per sempre al sicuro.

Una storia semplice e perfetta

Porco Rosso e Fio Piccolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

La bellezza della storia di Porco rosso è soprattutto nella sua semplicità.

Una piccola storia di pirati, che riprende i livelli di comicità degli analoghi personaggi di Laputa (1986) e un protagonista inedito Miyazaki, più complesso e non del tutto positivo, ma anzi con dei picchi drammatici piuttosto interessanti.

La vicenda è divisa in due atti e ruota intorno allo scontro fra Marco e Curtis, arricchendosi di tante sottotrame piacevoli e divertenti, e, al contempo, con approfondimenti sul protagonista e la sua storia, anche se non viene mai del tutto chiarita…

La donna oggetto?

Fio Picolo in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Anche in questo caso Miyazaki conferma la sua superba gestione dei personaggi femminili.

Ambientando la vicenda alla fine degli Anni Venti, sarebbe stato del tutto irreale inserire un personaggio come Fio senza un’adeguata contestualizzazione. E infatti la ragazza viene trattata in maniera estremamente verosimile: sottovalutandola, sminuendola e oggettificandola.

All’inizio Porco Rosso non vuole che lei si occupi del suo aereo, dicendo esplicitamente che non si fida perché femmina e troppo giovane. Ma basta poco perché la ragazza dimostri le sue capacità, al punto che, grazie alla sua forte intraprendenza, diventi persino motore dell’azione.

In seconda battuta, con i pirati, e soprattutto con Curtis, Fio diventa l’oggetto del desiderio, ma in realtà è anche il personaggio che riesce a risolvere la disputa in maniera ordinata e senza che nessuno si faccia veramente male, dimostrando arguzia e intelligenza.

Essere liberi

Porco Rosso in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Meglio maiale che fascista.

Il contesto storico è assai sottolineato durante la narrazione, con uno spiccato accento sul pacifismo e sull’opposizione al regime. Tuttavia, anche spogliando la narrazione del suo esplicito significato politico, la morale è un’altra.

Marco, dopo aver visto i suoi compagni morire, ha capito di dover volare da solo, libero, ma anche escluso dagli altri. Una libertà quindi guadagnata a caro prezzo, dovendo soffrire un aspetto repellente e al contempo l’essere nel costante mirino del Fascismo.

E a questo proposito…

Perché Porco Rosso è un maiale?

Il motivo della maledizione di Porco Rosso che lo rende un maiale non è esplicitato, ma si può intuire dal suo racconto.

Marco era un pilota dell’aeronautica, che ha visto morire amici e nemici insieme, trovandosi solo nel mondo, e capendo proprio in quel momento che quella doveva essere la maledizione della sua vita: volare da solo.

Una maledizione che forse è anche dovuto all’autosuggestione, a come il protagonista ha interpretato quella scena, decidendo anche di recidere ogni contatto personale e relazione potenziale, in particolare con Gina.

Cosa succede nel finale di Porco rosso?

Porco Rosso e Gina in una scena di Porco Rosso (1992) di Hayao Miyazaki

Quindi cosa succede nel finale di Porco Rosso?

La narrazione è affidata alle parole di Fio, che spiega l’esito della scommessa di Gina è un segreto, ma che lei comunque non ha più incontrato Porco Rosso. Quindi un finale aperto, che lascia però una speranza allo spettatore.

Io personalmente spero che Marco sia riuscito a ricongiungersi con Gina, a stringere una vera e profonda relazione con lei, e, in questo modo, si sia liberato di quella maledizione che in qualche modo si è autoimposto. Così da tornare umano.

E meno solo.

Le parole italiane in Porco rosso

Miyazaki, come altri autori nipponici, dimostra un profondo amore per l’Italia. E, per questo, mi viene più facile perdonargli alcuni errori di pura ingenuità.

Fra tutte le scritte in italiano che compaiono nella pellicola, ce ne sono alcune con piccoli errori, in particolare nell’officina Piccolo vi è il classico cartello che dice Non si fa credito, ma è scritto Non si fo credito.

Al contempo, l’ambientazione della storia è abbastanza generica, in particolare la Milano rappresentata sembra più ispirata a diverse città europee, e non specificatamente alla capitale lombarda.

In ultimo, nella sua totale ingenuità, Miyazaki evidentemente non si rendeva conto di quanto sia involontariamente comico il fatto che Fio chiami il protagonista Porco, che ha un altro significato in italiano…

In Porco Rosso Miyazaki sperimenta in nuove direzioni.

Anzitutto, qui per la prima volta si vede il nuovo modello per i personaggi femminili, principalmente quelli adulti, che si distinguono più nettamente da quelli invece più giovani, che restano costanti fin da Nausicaä della Valle del vento (1984).

Infatti, Fio Piccolo è sostanzialmente identica a Nausicaä:

Mentre Gina è il primo personaggio femminile adulto veramente differente, con un modello poi ripreso sia ne La città incantata (2001) che nel Il castello errante di Howl (2004):

Elemento curioso: è la prima volta che in un film di Miyazaki i personaggi fumano, elemento incredibilmente presente in La città incantata:

Inoltre, continua qualche passo avanti nella rappresentazione degli oggetti domestici, con un netto miglioramento:

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Dramma storico Drammatico Film L'ultima fatica di David Fincher

Mank – Il picco di complessità

Mank (2020) è l’ultimo film (finora) diretto da David Fincher, il primo ad arrivare quasi esclusivamente in streaming.

Tuttavia, ha incassato sorprendentemente bene: ben 100 milioni di dollari, a fronte di un budget di 25 milioni.

Di cosa parla Mank?

Herman Mankiewicz è un ottimo sceneggiatore, ma è anche fortemente detestato nell’ambiente. Si imbarca nella sua ultima, grande avventura: scrivere la sceneggiatura del primo film di un certo Orson Welles…

Vale la pena di vedere Mank?

Gary Oldman in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Dipende.

David Fincher rimane indubbiamente un ottimo regista, e a livello artistico è sempre superlativo. Tuttavia, è uno dei suoi pochi film che non mi ha quasi per nulla entusiasmato. Per vari motivi, ma principalmente perché – per sua stessa ammissione – è una pellicola incredibilmente verbosa e forse la più complessa della sua produzione.

Questo non vuol dire che non possa piacervi: come detto, la tecnica è sempre superba e la storia, soprattutto se siete appassionati del periodo storico e politico rappresentato – gli Stati Uniti degli Anni Trenta – potrebbe piacervi moltissimo. Altrimenti, è anche facile che vi perdiate nella sua pedante complessità…

Quando c’è la tecnica…

Tom Burke in una scena di Mank (2020) di David Fincher

David Fincher è sempre un autore impeccabile.

Persino nelle opere della sua produzione per me poco entusiasmanti, non mi ha mai deluso dal punto di vista registico. La sua presenza dietro la macchina da presa assicura sempre una tecnica sublime, curata ed elegante. E anche nel caso Mank non è assolutamente da meno.

In questo caso Fincher cerca di mimare proprio la regia di Orson Welles e in particolare quella – ovviamente – di Quarto potere (1941). E, almeno a livello tecnico, riesce a non essere da meno rispetto ad uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.

E quando c’è la tecnica…

…non sempre basta

Amanda Seyfried in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Mank non mima solamente la regia di Quarto potere.

L’opera prima di Welles, nonostante sia stata assolutamente rivoluzionaria dal punto di vista tecnico – il primo uso consapevole della profondità di campo – è un’opera che personalmente trovo davvero pesante.

E così anche Mank è incredibilmente e, per certi versi, inutilmente, complesso: l’alternanza fra presente e passato è in realtà ben calibrata, ma riuscire a seguire la rete intricata di eventi e la totale verbosità delle scene è stato un vero incubo.

Tanto più che il film si basa sulla consapevolezza del futuro, cercando di farci immergere nelle conversazioni ingenue di persone del tutto ignare degli eventi di portata epocale che da lì a poco avrebbero sconvolto l’umanità.

Io, personalmente, non sono riuscita ad immergermi.

La morale

Gary Oldman e Tuppence Middleton in una scena di Mank (2020) di David Fincher

Un aspetto che mi è sempre piaciuto dei progetti di Fincher è la morale.

In questo caso, la morale del film è legata alla parabola della organ grinder’s monkey, letteralmente la scimmia dell’arrotino, simbolo di una persona che vive a fianco dei potenti, ma non ha effettivamente un ruolo di potere.

E così è infatti il ruolo di Mank.

Nonostante fosse un ottimo sceneggiatore, nonostante avesse cercato di forzare la mano sulla sua posizione, alla fine si era ritrovato con un nulla di fatto, senza mai riuscire ad avere un ruolo veramente importante, anzi finendo del tutto escluso dal mondo del cinema.

Una morale indubbiamente interessante, ma forse quella meno graffiante fra quelle proposte nella cinematografia di Fincher, tanto più per il suo essere basata su una tesi la cui veridicità storica è molto dubbia, ovvero quella secondo la quale Mank sarebbe stato l’unico autore della sceneggiatura di Quarto potere...

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Accadde quella notte... Avventura Commedia Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione Road movie

Green book – Quando l’emozione è tutto…

Green book (2018) di Peter Farrelly è un film un road movie con protagonisti l’improbabile coppia composta da Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Un film che riscosse parecchio successo: venne candidato a cinque Oscar e ne vinse tre, fra cui Miglior film. Probabilmente proprio per questo – e per il budget davvero risicato di 23 milioni di dollari – fu un grande successo commerciale: 321 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Green book?

Per uno strano caso, Don Shirley, importante concertista nero, sceglie Tony come suo autista nel profondo Sud degli Stati Uniti degli Anni Sessanta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Green book?

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

In generale, sì.

Nonostante mi abbia leggermente annoiato sul finale, Green book è un prodotto complessivamente piacevole, con un andamento lineare e facile da seguire.

Non il solito buddy movie, ma una sua versione molto più drammatica, con due attori stellari come Viggo Mortensen e Mahershala Ali, che alzano decisamente il livello medio della pellicola.

Insomma, non imperdibile, ma abbastanza consigliato.

Un tema importante

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il tema centrale della pellicola è l’amicizia fra i due protagonisti.

Un’amicizia difficile, nata con i peggiori presupposti. Infatti Tony e Don sono due persone che si trovano veramente agli antipodi: l’uno molto raffinato e impettito, l’altro più guascone e quasi zotico.

Il loro rapporto nascerà incontrandosi a metà strada: Tony supererà i pregiudizi nei confronti di Don e quest’ultimo troverà nel suo autista un amico su cui contare.

Trovo sempre piacevole seguire il racconto di due persone così avanti nella loro vita che riescono comunque a stringere relazioni durature ed importanti.

Un bel messaggio, tutto sommato, raccontato anche con una scrittura complessivamente buona, che mette in scena un rapporto credibile e realistico.

Attori perfetti

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Gli attori protagonisti alzano di gran lunga il livello della pellicola.

Mahershala Ali riesce a raccontare in maniera piuttosto interessante un personaggio complesso e combattuto, financo anche piuttosto insostenibile. Purtroppo, nonostante gli intenti della pellicola fossero palesi, non sono riuscita a farmi coinvolgere col dramma umano di Don.

Infatti ho preferito di gran lunga il personaggio di Viggo Mortensen, che porta in scena un italo americano degli Anni Sessanta senza mai scadere negli stereotipi – nonostante la sceneggiatura lo spinga molto in quella direzione – anzi impegnandosi molto in una recitazione corporea eloquente e persino in alcune frasi in italiano non del tutto storpiate.

Il razzismo non è il tema ma…

Mahershala Ali in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

Il razzismo non è il tema centrale della pellicola.

Anzi, è un argomento piuttosto di contorno, raccontato per la maggior parte del tempo attraverso il razzismo benevolo di Tony: l’uomo dimostra di aver interiorizzato una serie di pregiudizi nei confronti della comunità nera, e cerca di farli aderire insistentemente alla persona di Don, nonostante lo stesso non vi si ritrovi per nulla.

E la creazione del loro rapporto si basa proprio sul superamento di questi preconcetti.

Non mancano comunque alcuni picchi drammatici – come l’arresto di Don – ma nel complesso, anche nei momenti più tragici, ci si limita ad un razzismo molto più polite, in cui il personaggio in diversi momenti viene escluso da determinati spazi e contesti – ma quasi mai con l’uso della violenza.

Viggo Mortensen in una scena Green book (2018) di Peter Farrelly

E per questo è molto digeribile per il pubblico medio statunitense.

E questo è anche il motivo per cui ha vinto come Miglior film.

Nonostante, a differenza di altri film – come 12 anni schiavo (2014) – non sia un prodotto scritto appositamente per entrare nel cuore dell’Academy attraverso trigger emotivi piuttosto smaccati, nondimeno l’ha fatto.

E così agli Oscar 2019 è stato premiato un film di medio livello, che gareggiava contro opere di invece altissimo valore come Vice (2018) e La Favorita (2018)

Ed è successo proprio perché portare in scena un razzismo così light, e in qualche modo più vicino allo spettatore odierno, ha pagato.

Nonostante in quel contesto storico un uomo nero poteva rischiare in ogni momento la sua vita e venir trattato decisamente peggio in molte le situazioni del film, come si vede per esempio in The Help (2011) – prodotto persino edulcorato da questo punto di vista.

Ed è anche il motivo per cui un film più sincero e veritiero sulla tematica come BlacKkKlansman (2018) non avrebbe mai potuto vincere.

Green book meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar 2019 vengono sopratutto ricordati per la chiacchieratissima interpretazione di Bradley Cooper e Lady Gaga, protagonisti di A star is born (2017). Come dopo dichiararono gli attori stessi, in quel momento si erano molto immedesimati nei personaggi – con tutto quello che ne consegue:

Inoltre, quell’anno, per la prima volta nella storia dell’MCU, venne candidato un prodotto supereroistico: Black Panther (2018), che era ormai diventato un fenomeno mondiale:

Personalmente, gli Oscar 2019 furono la mia epifania.

Dopo aver visto Vice – che tutt’oggi considero uno dei migliori prodotti di Adam McKay insieme a Don’t look up (2021) – andai a vedere con non poco interesse Green book, convinta che indubbiamente sarebbe stato il miglior film dell’anno.

E potete immaginare quanto mi indispettì quando mi resi conto che evidentemente non lo era, ma era stato comunque premiato come tale.

In quel momento compresi cosa muove veramente le premiazioni degli Oscar, che è stato anche il motivo di questa rubrica: accade spesso che, con una lista di film di grande valore candidati, il meno interessante – ma più politicamente orientato – ne esce vincitore.

Quindi direi che la domanda Green book meritava di vincere l’Oscar? ha più possibili risposte: trovate la vostra.

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2022 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Film Film di guerra Film Netflix Oscar 2023

Niente di nuovo sul fronte occidentale – L’altro lato del fronte

Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger è un film che racconta la fine della Prima Guerra Mondiale dal lato tedesco attraverso il punto di vista di uno dei soldati.

Il film è stato presentato al Toronto International Film Festival 2023 e distribuito in poche sale, per poi essere rilasciato a livello internazionale su Netflix. Fra l’altro un prodotto con un budget sorprendentemente contenuto: appena 20 milioni di dollari.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior film internazionale (Germania)

Miglior fotografia
Miglior scenografia

Miglior trucco e acconciatura
Migliori effetti speciali
Miglior sceneggiatura non originale
Miglior sonoro
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Niente di nuovo sul fronte occidentale?

1917, Germania. L’appena diciottenne Paul Bäumer si arruola nell’esercito tedesco per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Ma i suoi propositi di eroismo si dimostrano fin da subito un miraggio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Niente di nuovo sul fronte occidentale?

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Assolutamente sì.

Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film che mi ha veramente sorpreso: non sono una grande amante dei film di guerra – soprattutto quando vi trovo un’eccessiva idealizzazione o un pietismo troppo spinto.

E forse proprio per questo mi è piaciuta questa pellicola.

Un’opera profondamente cruda e realistica, che riesce a raccontare un’esperienza traumatizzante e profondamente ingiusta come la Prima Guerra Mondiale. Il tutto con una regia piuttosto indovinata, interpretazioni più che ottime e una fotografia spettacolare.

Anche per questo, un trigger alert è dovuto: si tratta di un film davvero molto realistico, con scene e inquadrature estremamente esplicite e di grandissimo impatto. Alcune probabilmente non ve le toglierete mai più dalla testa…

Ho voluto inserire nella recensione alcuni versi della canzone “La guerra di Piero” di Fabrizio De Andrè, che si adatta perfettamente alla pellicola.

Nessun eroe

Albrecht Schuch e Felix Kammerer in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

L’incipit racconta già tutto del film.

Siamo immediatamente portati al fronte, a seguire la storia di un giovanissimo soldato – Heinrich Gerber. A sorpresa, però, non è il protagonista del film: in appena cinque minuti vediamo come il ragazzo muore sul campo, viene spogliato dei suoi vestiti da soldato, che vengono raccolti e riciclati per le future reclute.

La pellicola ben racconta come i protagonisti della Prima Guerra Mondiale non erano uomini, ma pedine sul campo, soldatini usa-e-getta che potevano essere usati e buttati via, avendone sempre di nuovi per ogni occasione e necessità.

Un meccanismo terrificante, alimentato dalle false promesse di eroismo.

La guerra degli altri

Felix Kammerer in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora

A capo di questo meccanismo, gli uomini di potere alimentati da un arrogante desiderio di rivalsa, oltre ad una totale cecità sulla realtà del fronte.

Diverse inquadrature del film sono volte a sottolineare la vita agiata e priva di ogni preoccupazione che era condotta da chi decideva della vita e della morte di migliaia – se non milioni – di uomini. Fra l’altro un’esistenza immersa in ambienti silenziosi e quieti, con grande contrasto con il chiasso assordante del fronte.

Il personaggio più rappresentativo in questo senso è il Generale Friedrichs: per sua stessa ammissione non ha mai messo piede in un campo di guerra, ed insiste fino all’ultimo testardamente per portare a casa una vittoria che porti gloria al suo paese – e a sé stesso.

E ottiene solo un’altra carneficina senza significato.

L’alienazione

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore

Questa guerra era senza significato tanto più che nessuno dei soldati ha volontà di essere un eroe o difendere la propria patria.

Infatti, si combatte per la sopravvivenza.

Uomini che nella loro vita non avrebbero alzato le mani contro nessuno, costretti a gettarsi in campo come automi senza volontà, uccidendo con disperazione, prima di tutto per salvare la propria vita. Del tutto alienati, in una realtà dove l’umanità non esiste, dove implorare pietà è inutile.

In più momenti il protagonista si trova faccia a faccia con il nemico, e basta un momento per guardare negli occhi un altro uomo, un ragazzo non tanto diverso da sé stesso. Inquadrature drammatiche e travolgenti, in cui per pochi momenti il protagonista sfugge a questa alienazione e si rende conto delle sue azioni.

Ed è devastante.

Albrecht Schuch in una scena di Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) di Edward Berger

Da questo punto di vista emerge una possibile critica.

La scrittura dei personaggi non è particolarmente approfondita, ma definita da pochi tratti, e così la storia non è particolarmente originale, ma strettamente legata alla realtà storica. Insomma, al pari di Babylon (2022), è un film che vuole più raccontare delle situazioni e dei personaggi tipo piuttosto che una storia vera e propria.

E questo può piacere o non piacere.

Personalmente questo elemento – che comunque ho notato – non mi ha rovinato la piacevolezza complessiva del film, anzi per certi versi mi ha permesso di immergermi più profondamente nella vicenda raccontata: la poca caratterizzazione del protagonista lo rende un personaggio in cui chiunque può rivedersi.

La fortuna maligna

Proprio come non ci sono eroi, non serve alcuna abilità per sopravvivere alla guerra.

Solo la fortuna.

La sopravvivenza è determinata dalla pura coincidenza, dal non mettere il piede nel punto sbagliato, dal non far scoppiare una mina, dal non beccarsi un colpo mortale, dal non avere esitazioni…

E, proprio come ogni morte del finale si sarebbe potuta evitare se Paul e Kat non avessero rubato le uova, se il protagonista non avesse dovuto tornare in campo, più in generale si sarebbero salvate 37 milioni di vite se l’arroganza di pochi non avesse determinato la sorte di molti.

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Gli spiriti dell’isola – La piccola guerra

Gli spiriti dell’isola (2022) di Martin McDonagh – traduzione piuttosto maldestra del titolo originale The Banshees of Inisherin – è uno dei più importanti film candidati agli Oscar 2023, oltre ad essere una delle maggiori sorprese di quest’anno.

A fronte di un budget piuttosto risicato – appena 20 milioni di dollari – ha prevedibilmente incassato davvero poco: appena 33 milioni di dollari in tutto il mondo (finora).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Gli spiriti dell’isola (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Miglior attore protagonista a Colin Farrell
Miglior attore non protagonista a Brendan Gleeson
Miglior attore non protagonista a Barry Keoghan
Miglior attrice non protagonista a Kerry Condon
Migliore colonna sonora
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Gli spiriti dell’isola?

1923, Irlanda. L’amicizia fra Pádraic e Colm si interrompe improvvisamente, per volontà del secondo, che si rifiuta addirittura di parlargli. E la sua ottusità raggiunge livelli inaspettati…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli spiriti dell’isola?

Colin Farrell in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Assolutamente sì.

Gli spiriti dell’isola è un film particolarissimo, e neanche facilmente digeribile – complice l’umorismo veramente nerissimo e la profonda angoscia che lascia a visione conclusa. Una di quelle pellicole incredibili in cui, da un momento all’altro, riesci a passare da una risata fragorosa ad un totale ammutolimento.

Ma, proprio per questo, un film assolutamente da recuperare.

Il titolo originale è The Banshees of Inisherin.

Inisherin è semplicemente il luogo dove è ambientata la vicenda, mentre per le banshee bisogna fare un discorso a parte.

Il film dà abbastanza per scontata la conoscenza di tale figura mitologica, ma in realtà è meno diffusa di quanto si potrebbe pensare. Per esempio, io non conoscevo la mitologia specifica, ma le reinterpretazioni della serie tv Teen wolf e del videogame The Witcher 3.

La banshee è una creatura leggendaria dei miti irlandesi e scozzesi, la quale, a seconda delle tradizioni, ha un’accezione positiva o negativa. In generale, si tratta di una figura mitologica legata alla morte.

È infatti invisibile agli occhi degli esseri umani, se non quando questi sono prossimi al decesso, mostrandosi avvolta in un pesante velo, piangendo o addirittura gridando davanti all’inevitabile trapasso.

Sotto la superficie

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Apparentemente Gli spiriti dell’isola racconta la storia di un’amicizia finita, che prende delle vie sempre più surreali e grottesche per via dell’ottusità di Colm.

In realtà, la pellicola racconta molto di più.

L’indizio visivo principale viene mostrato quando, all’inizio del film, Pádraic vede una colonna di fumo che rappresenta i lontani disordini della Guerra Civile. E la stessa colonna di fumo la vede quando dà fuoco alla casa del suo amico.

E proprio in questo parallelismo si racchiude il vero significato del film.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Proprio parallelamente alla storia principale della pellicola, si svolgono gli avvenimenti della Guerra Civile Irlandese. La stessa scoppiò a seguito della Guerra d’Indipendenza Irlandese, che portò ad un trattato di pace con l’Impero Britannico.

Un trattato che, però, non venne accettato da tutti.

E, nonostante diversi tentativi di rappacificamento delle parti, scoppiò una guerra drammaticamente sanguinosa, dove si trovano a combattere l’uno contro l’altro amici e persino fratelli, tutto per l’ottusità, da entrambe le parti, di non voler arrivare ad un compromesso.

Il picco avvenne negli ultimi momenti del conflitto, quando ci furono il maggior numero di vittime e diversi incendi alle case dei nemici.

Vi suona familiare?

Gli spiriti dell’isola è sostanzialmente una Guerra Civile Irlandese in piccolo.

L’ottusità e le cinque dita

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Il perpetuarsi del conflitto è quasi del tutto dettato dall’ottusità di Colm, che si rifiuta insistentemente di riallacciare i rapporti con il suo amico.

E proprio la sua ottusità viene ben rappresentata dalla minaccia – e realizzazione – dell’amputazione delle dita, che si presta a diverse interpretazioni. Andando infatti ad indagare le intenzioni del regista, la stessa può essere ricollegata ad una paura atavica dell’artista: perdere lo strumento della sua arte.

Tuttavia Colm concretizza questa realtà volontariamente, quasi a volersi togliere ogni possibilità di diventare veramente l’artista che sogna di essere, ricordato nei secoli, in una sorta di perversa spirale autodistruttiva.

Ma, più semplicemente, può essere letta come rappresentazione di quanto Colm creda nella distruzione del rapporto con Pádraic.

Umani

Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

La forza de Gli spiriti dell’isola è di riuscire a raccontare, pur nella sua follia, una vicenda profondamente umana.

Colm e Pádraic hanno due caratteri totalmente opposti, ed è anche in qualche misura comprensibile che il più vecchio dei due non abbia voglia di perdere altro tempo con il più giovane e la sua insopportabile stupidità. Andandosi, fra l’altro, del tutto ad isolare in un contesto già molto isolato.

E le dinamiche con cui i due personaggi si relazionano appaiono vere e profonde, anche quando virano sul lato più surreale e grottesco.

La scena che mi ha più colpito è quella in cui Pádraic viene colpito dal poliziotto, e Colm lo raccoglie da terra e conduce il suo carro fino a casa. In quel momento di apparente calma e riconciliazione, Pádraic scoppia in un pianto sommesso ma profondamente sofferto, un pianto nostalgico per qualcosa di apparentemente irrisolvibile.

La morte

Barry Keoghan in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

Gli spiriti dell’isola parla non solo di amicizia e conflitto, ma anche e soprattutto di morte.

E il titolo ne è indizio fondamentale.

La banshee più facilmente identificabile è ovviamente Mrs. McCormick, che appare proprio come la vecchia megera, l’uccellaccio che prevede – e augura – la morte. In realtà, come abbiamo visto, queste figure mitologiche non sono altro che osservatrici e cassandre, quindi si limitano ad annunciare la morte imminente.

E il titolo non indica una sola banshee, ma diverse banshee.

Colin Farrell e Brendan Gleeson in una scena di Gli spiriti dell'isola (2022) di Martin McDonagh

In questo caso si aprono più interpretazioni: si potrebbe considerare come banshee tutti i membri della comunità dell’isola, che vedono chiaramente lo scoppio del conflitto con le sue nefaste conseguenze.

Oppure, più sottilmente, si potrebbero considerare banshee gli animali stessi, che sono parte dominante della scena in diverse occasioni, testimoni silenziosi del dramma in atto.

Da notare anche l’interessante foreshadowing sul destino nefasto di Dominic: fin dall’inizio il ragazzo tiene in mano uno strumento di morte, il bastone che serve per raccogliere i cadaveri caduti in acqua, dove infatti morirà.

E lo stesso bastone, dopo la sua morte, sarà in mano a Mrs. McCormick…

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Accadde quella notte... Avventura Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar

12 anni schiavo – Un insopportabile pietismo

12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen è un dramma storico che fu confezionato appositamente per colpire il cuore dell’Academy, portandosi infatti a casa tre statuette – fra cui il Miglior film – e nove nomination.

Una discreta delusione per un regista che si era dimostrato molto capace…

Come la maggior parte dei film di questo regista, costò pochissimo – appena 22 milioni di dollari -ma, proprio per la sua rilevanza a livello internazionale, incassò benissimo: 187 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 12 anni schiavo?

New York, 1841. Salomon è un uomo nero libero, che lavora come violinista e vive felicemente con la sua famiglia. Una serie di coincidenze sfortunate lo porteranno ad essere rapito e ridotto in schiavitù per più di un decennio.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 12 anni schiavo?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

È molto difficile rispondere oggettivamente per un prodotto che non ti è piaciuto.

Personalmente, non è un film che consiglierei.

Nonostante riesca tutto sommato a raccontare il complesso dell’esperienza dello schiavismo in maniera piuttosto completa, non è particolarmente interessante come dramma storico né presenta qualche riflessione sul tema di qualche rilevanza.

Insomma, se riuscite a farvi commuovere e coinvolgere da una storia molto lacrimevole e fatta apposta per far piangere lo spettatore, che tratta in maniera abbastanza superficiale il tema dello schiavismo, guardatelo.

Ma non fatevi grande aspettative.

12 anni?

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Uno dei più grandi problemi della pellicola è la sua incapacità di far sentire il passare del tempo.

Ci sono molti modi per riuscire a raccontare il tempo che passa, ma 12 anni schiavo ci prova una sola volta – e secondo me anche fallendo. Verso la fine del secondo atto, Salomon e gli altri schiavi di Epps vengono mandati a lavorare in un’altra piantagione.

A quel punto vi è un’evidente ellissi temporale: al loro ritorno non solo Patsey ha partorito la figlia del suo padrone, ma la stessa ha già qualche anno di età. Tuttavia, questo passaggio di qualche anno non si percepisce per nulla nella pellicola, che per quel tratto sembra coprire giusto qualche mese.

Allo stesso modo, anche accettando questa ellissi, nella pellicola in generale non sembrano passati più di quattro o cinque anni.

Non avere più nulla da dire

Chiwetel Ejiofor in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Verso il terzo atto ho avuto la terrificante sensazione che il film non avesse più niente da raccontare.

Ormai aveva raccontato sia il rapimento, il primo periodo di schiavismo, il secondo periodo. Mancava solamente il climax narrativo – che in realtà appare molto anti-climatico – per far piangere lo spettatore e infine lo scioglimento della vicenda.

E infatti tutta la parte finale l’ho trovata incredibilmente insipida, inutilmente allungata, e del tutto mancante di qualcosa di interessante da raccontare.

Un pietismo smisurato

Chiwetel Ejiofor e Lupita Nyong'o in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Il climax drammatico di 12 anni schiavo è per me anche il punto più basso e meno interessante del film.

Servirebbe teoricamente a concludere la storia di Patsey e Epps, a portarla ad un apice drammatico, con una scena strappalacrime. Io invece per tutto il tempo non ho avuto alcun moto di simpatia o di coinvolgimento per quello che succedeva in scena.

E non sono una che ha problemi a farsi commuovere, anzi.

Vedevo solamente una costruzione fatta apposta per farmi piangere, senza che i personaggi mi fossero stati adeguatamente costruiti, ma sembrandomi solamente delle figure bidimensionali in scena.

L’unica stella

Michael Fassbender in una scena di 12 anni schiavo (2013) di Steve McQueen

Una grave perdita della pellicola è l’utilizzo di Michael Fassbender.

Fra tutti gli attori mi è sembrato l’unico veramente valido – e non a caso è anche l’attore feticcio del regista. Nonostante la scrittura del suo personaggio, come detto, manca di qualsiasi tipo di profondità, questo fantastico attore si è indubbiamente impegnato nel suo ruolo.

Al contrario, non sono mai rimasta colpita né dall’interpretazione di Chiwetel Ejiofor nei panni del protagonista, né, sopratutto, da Lupita Nyong’o – che ho trovato di gran lunga più convincente in Us (2019). Entrambi gli attori mi sono semplicemente sembrati assorbiti nella recitazione al limite del lacrimevole della pellicola, costruita appositamente per entrare nel cuore dell’Academy.

E, purtroppo, riuscendoci.

12 anni schiavo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2014 vengono ricordati principalmente per il cosiddetto Ellen selfie:

Una foto che venne postata su Twitter ed ebbe il record di retweet sulla piattaforma. Un semplice scatto che identificò il cambiamento ormai evidente delle star che cominciavano a postare autonomamente contenuti virali sui propri spazi social – con buona pace dei paparazzi.

Quell’anno il grande vincitore fu Gravity (2013) di Alfonso Cuarón: 10 candidature e ben 7 vittorie. Altrettante candidature ebbe American Hustle (2013) di David O. Russell, che sembrava ormai lanciato per Il lato positivo (2012) – ma che alla fine si rivelò un fuoco di paglia.

Ma alla fine la vittoria per Miglior film andò a 12 anni schiavo.

E per me in questo caso possiamo parlare di Oscar rubato.

Ancora una volta emerse il grande valore politico di questi premi, a discapito della qualità, sopratutto dal momento che nella stessa categoria erano candidati prodotti di altissima qualità come Her (2013) e The Wolf of Wall Street (2013).

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Argo – Un egocentrico vittimismo

Argo (2012) di Ben Affleck è un film che racconta un’importante operazione top secret della CIA, diventata nota a quasi vent’anni di distanza.

Un film che avevo già visto al tempo, ma forse con una visione troppo ingenua…

Una pellicola che incassò molto bene (232 milioni di dollari a fronte di un budget 44 milioni), anche grazie alle sue tre vittorie agli Oscar.

Di cosa parla Argo?

Durante la Rivoluzione Islamica del ’79, in Iran un gruppo di rivoluzionari assalta l’Ambasciata Statunitense e prende come ostaggi più di 60 persone. Solo 6 riescono a fuggire, ma uscire dal paese non è così semplice…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Argo?

Ben Affleck e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

In generale, sì.

Da un punto di vista strettamente qualitativo, è un prodotto veramente valido, che riesce con poche mosse indovinate a tenerti sulle spine, soprattutto sul finale. Tuttavia, vedendolo dopo tanti anni, mi rendo conto di quanto possa risultare un film quasi ridicolo al di fuori del panorama statunitense, perché è davvero ubriaco di un certo tipo di mentalità.

E, sopratutto in tempi recenti, è decisamente meno digeribile.

La tensione equilibrata

Uno dei punti di forza della pellicola è indubbiamente la costruzione della tensione.

La tensione nella pellicola è costante, sopratutto nelle battute finali. I protagonisti sono costantemente in pericolo, la situazione potrebbe deragliare da un momento all’altro, e si gioca tutto sul filo dei secondi.

La pellicola riesce a mantenere un giusto equilibrio in questo senso, senza mai scadere nel cattivo gusto del ciclo Alta tensione di Italia 1, riuscendo al contempo a catturare costantemente l’attenzione dello spettatore.

Il protagonista indovinato

Ben Affleck in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

Un altro meccanismo della trama piuttosto indovinato è la caratterizzazione del protagonista.

Il film gioca con lo spettatore, che in prima battuta si fida dei personaggi in scena, facenti parte di uno degli organi di governo più importanti al mondo. Ma, in un attimo, il protagonista li smentisce, facendo capire di essere diametralmente più abile e intelligente.

E da quel momento lo spettatore ha piena fiducia in lui.

Stemperare

John Goodman e Alan Arkin in una scena di  Argo (2012) di Ben Affleck

La piccola parte centrale dedicata alla costruzione del falso film mi ha sorpresa.

Permette allo spettatore prendersi una breve pausa dalla grande tensione rappresentata dalla vicenda in toto, con risvolti piuttosto divertenti, grazie sopratutto all’irresistibile coppia Alan Armani e John Goodman.

E infatti questi due personaggi escono fondamentalmente di scena nel terzo atto, riapparendo solamente nelle battute finali per chiudere la vicenda.

L’egocentrismo

Il problema principale della pellicola – di cui sinceramente mi ero dimenticata – è quanto sia fortemente filo-statunitense e, di fatto, rappresentante il grottesco egocentrismo del paese di provenienza.

Anzitutto, anche se si dedica ampio spazio al racconto della situazione storica dell’Iran, mai all’interno della pellicola i personaggi si interrogano sulle colpe degli Stati Uniti per la situazione politica iraniana – e, per estensione, per quella che stanno vivendo.

Il focus è tutto sul costante senso di pericolo dei personaggi, che sono le vittime assolute della situazione stessa.

E qui si trova il difetto più importante.

Auspicabile

Vedendo la pellicola e ad una visione più ingenua, potrebbe risultare quasi realistica la caratterizzazione dei personaggi iraniani.

In realtà la stessa, per quanto indubbiamente funzionale alla trama, è del tutto negativa e polarizzata, e nel senso peggiore possibile. I nemici sono per la quasi totalità minacciosi, rumorosi, violenti.

Sembrano odiare i personaggi – e gli statunitensi in genere – quasi senza un motivo. Senza che mai si racconti effettivamente le radici di questa avversione e i dolori che questo popolo dovette soffrire anche per colpa degli Stati Uniti, senza mai problematizzare la situazione raccontata.

E, guardando The Hurt Locker (2008), è abbastanza evidente come la rappresentazione potesse essere più auspicabilmente onesta…

Argo meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2013 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Fu la prima volta che gli Oscar vennero chiamati effettivamente The Oscars, e non The Academy Awards, per venire incontro alla denominazione divenuta ormai comune.

Il film che vinse Miglior film, per la prima volta dopo 30 anni, non venne candidato anche per la regia.

Ma gli Oscar 2013 vennero ricordati sopratutto per il capitombolo di Jennifer Lawrence, che quell’anno vinse l’Oscar per Miglior Attrice non protagonista per Il lato positivo (2012):

I film che ottennero le maggiori candidature furono Lincoln (2012) di Spielberg (12 candidature) e Vita di Pi (2012) di Ang Lee (11 candidature). Ma nessuno dei due vinse come Miglior film: la vittoria andò appunto a Argo.

Si meritava di vincere?

La risposta è un po’ diversa dal solito: Argo non si meritava forse di vincere, ma era l’unica pellicola che avrebbe potuto farlo, per i motivi di cui sopra. Forse uno dei momenti nella storia dell’Academy in cui emerse maggiormente lo stampo politico e profondamente statunitense della cerimonia…

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2022 Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film

She said – Un film necessario

She said (2022) di Maria Schrader, basato sul romanzo omonimo di Jodi Kantor e Megan Twohey, racconta l’inchiesta del New York Times in riferimento alle numerose accuse di violenza sessuale ai danni di Harvey Weinstein.

Un film non solo necessario, ma anche ottimamente messo in scena.

A fronte di un budget abbastanza contenuto di 32 milioni di dollari, si sta rivelando – come purtroppo prevedibile – un flop commerciale, con appena 12 milioni di dollari di incasso in tutto il mondo.

Di cosa parla She said?

Le due giornaliste d’inchiesta Jodi Kantor e Megan Twohey intraprendono un’importante investigazione sui presunti abusi ad opera di Harvey Weinstein. Un’inchiesta che portò una rivoluzione inimmaginabile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere She said?

Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Assolutamente sì.

She said è un film importante e necessario, che riesce anche meglio di prodotti analoghi – come per esempio il recente Bombshell (2019) – a raccontare una storia che ha sconvolto – si spera – per sempre il mondo dello show business.

Due attrici ottime sotto la direzione di un’ottima regista, Maria Schrader, che già si era occupata di quel piccolo successo che era stato al tempo Unorthodox (2020). Pochi tocchi e scelte indovinate che riesco a non ridurre il prodotto ad una pellicola puramente scandalistica.

Insomma, da non perdere.

Cosa significa il titolo di She said?

Il titolo originale, She said, è stato purtroppo tradotto in italiano in maniera piuttosto infelice: Anche io, in riferimento al movimento MeToo, che però non è mai citato nel film e che nacque solo in conseguenza a questo e altri casi analoghi.

Il titolo originale fa riferimento ad un’espressione giuridica: he said, she said, che indica un caso in cui sono coinvolte due persone – solitamente uomo e donna – e ognuno presenta la sua versione dei fatti.

E non ci sono testimoni.

Un ritmo incalzante, una gestione ottima

Patricia Clarkson, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Un aspetto che ho molto apprezzato della pellicola è il suo ritmo estremamente incalzante, che ben racconta la frenesia delle giornaliste nel seguire il caso, dovendo scontrarsi con moltissime porte chiuse e accordi mancati.

Tuttavia non mancano anche i momenti più rallentati, in cui si lascia lo spazio alla narrazione delle vittime, in cui ben si racconta l’ottimo lavoro che fecero queste due donne nel gestire una situazione molto delicata.

Infatti, mai le due si pongono in maniera impositiva nei confronti delle vittime, anzi si interrogano continuamente su come comportarsi. Un elemento molto importante, che distinse questa inchiesta da un semplice scandalo da tabloid – come raccontato nella pellicola stessa.

E non è neanche l’unico elemento di interesse in questo senso.

Il dramma senza drama

Patricia Clarkson, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

A differenza appunto di Bombshell, ho molto apprezzato la gestione del racconto degli abusi delle vittime. Per la maggior parte le stesse non sono per nulla messe in scena, ma solo raccontate. Solo per un paio si sceglie di utilizzare la voce fuori campo delle vittime, e lasciare che gli ambienti parlino da sé.

Secondo me una scelta che riesce bene a trasmettere le giuste emozioni e farti immergere nel racconto.

E al contempo si è serenamente evitato di mettere in scena gli abusi stessi, come era stato fatto appunto in Bombshell, evitando di drammatizzare eccessivamente delle storie già piuttosto angoscianti e cadere così nel cattivo gusto.

Secondo la stessa linea, si è scelto di non sbattere il mostro in prima pagina, non inquadrando mai l’interprete di Weinstain.

Una storia per tutti

Patricia Clarkson, Andre Braugher, Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Un’altra ottima scelta della pellicola è quella di raccontare come fossero tutti coinvolti nella storia, per un caso che è stato estremamente intergenerazionale e, sopratutto, non solamente una storia di donne.

Una rappresentazione incredibilmente importante, per mostrare come queste situazioni siano un affare di tutti.

In questo senso è stato dato un ottimo spazio e un’ottima rappresentazione di Dean Baquet, il caporedattore, che non solo sostiene le sue giornaliste nel caso, ma che neanche per un momento si lascia corrompere da Weinstein – nonostante le chiamate minatorie – e usa tutta la sua autorità per proteggerle da eventuali abusi, che evidentemente erano dietro l’angolo.

Facili trigger emotivi

Zoe Kazan e Carey Mulligan in una scena di She said (2022) di Maria Schrader

Una critica che potrebbe essere mossa al film è il fatto che si punti tanto sui dolori personali e familiari delle due protagoniste, senza che – forse – ce ne fosse il bisogno.

Personalmente la rappresentazione di questa parte della loro vita non l’ho trovata mai smaccata, anzi ben bilanciata nei ruoli di genere all’interno della famiglia. Probabilmente è presente anche un piccolo accenno alla depressione post-partum: per tutta la pellicola, fino ad una delle scene finali, Megan non tiene mai in braccio sua figlia.

Era necessario?

A livello narrativo, non strettamente. Tuttavia, trovo che siano stati dei trigger emotivi semplici e in qualche modo necessari per coinvolgere lo spettatore medio in una storia che possa sentire come vicina.

Altrimenti, secondo me, togliendo queste parti il film sarebbe apparso molto più freddo e quasi un documentario – complice anche il tipo di regia utilizzata.

Nota a margine: ho potuto visionare il libro da cui è tratto il film, scritto dalle due giornaliste (Anche io. Il caso che ha dato inizio al movimento #MeToo, Vallardi, 2023). Non ho avuto il tempo per leggerlo per intero, quindi ho solo fatto una ricerca delle parole chiave per questo argomento e da quello che ho trovato si parla abbastanza genericamente del rapporto che le due avevano con la famiglia. Significa che è tutto inventato? Ad oggi non posso saperlo e mi rimetto a chi ha letto effettivamente l’opera.

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2022 Comico Damien Chazelle Dramma storico Drammatico Film Nuove Uscite Film Oscar 2023

Babylon – Il cinema che resta

Babylon (2022) è l’ultima pellicola di Damien Chazelle, regista che ha avuto il suo picco di popolarità con La la land (2016), ma che ha già dimostrato di poter spaziare in diversi generi.

Anche in questo caso.

Il film si sta purtroppo rivelando un flop commerciale: a fronte di un budget di 75 milioni di dollari, finora ne ha incassati solo 15…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Babylon (2022)

(in nero i premi vinti)

Migliori costumi
Miglior scenografia
Migliore colonna sonora

Di cosa parla Babylon?

All’interno del cinema della fine degli Anni Venti, sulla soglia della sua più grande rivoluzione, si intrecciano le storie di diversi personaggi.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Babylon?

Margot Robbie e Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Assolutamente sì.

Nonostante la pellicola sia stata seppellita dalla critica statunitense – anzi, forse proprio per questo motivo – Babylon è arte pura, un racconto del profondo amore di Chazelle per la Settima Arte.

Pur con una durata veramente importante, è un film che racchiude l’apice della capacità artistica di questo regista, con degli interpreti straordinari, in particolare una Margot Robbie al massimo della forma.

Consiglio a latere: se non avete mai visto Singing in the rain (1952), vi consiglio caldamente di recuperarvelo prima della visione.

Un cinema vero

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Un grande pregio di Babylon è il riuscire a raccontare, fra il drammatico e il grottesco, cosa significava – e cosa significa – girare un film.

Un cinema disordinato, caotico, genuinamente pericoloso, dove soprattutto le più umili maestranze e comparse venivano facilmente sacrificate – anche letteralmente. Un cinema più complesso, in cui si girava tutto con la luce naturale, con mezzi quasi casalinghi.

E il passaggio al cinema degli studios non rese le cose più semplici…

Con risultati fra il comico e il grottesco.

Jack Conrad

La morte del divo

Brad Pitt in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Jack Conrad è la figura più drammatica fra i protagonisti.

Inizialmente lo vediamo come il divo intoccabile, che si muove in una consolidata rete di conoscenze e favori, la quale, insieme alla sua furbizia, gli permette di avere successo. Tuttavia da metà film la sua stella comincia lentamente a calare, in maniera inizialmente quasi impercettibile.

Ma inevitabile.

Segue fondamentalmente lo stesso arco del protagonista di The Artist (2011), ma con un esito molto più drammatico.

Ma proprio intorno a lui si sviluppa il principale concetto della pellicola: essere parte di un cinema che rimarrà, anche se ora sembra spacciato. Ma, alla fine, la pesantezza di questa conclusione, la sensazione di non avere più posto nel mondo che dava tutto il senso alla sua esistenza, costringe Jack ad uscire di scena.

Nellie LaRoy

Un minuto di fama

Morgot Robbie in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Nellie racconta in maniera molto disincantata la difficoltà di sfondare ad Hollywood, su come sia tutto basato su raccomandazioni e colpi di fortuna.

Del tutto casualmente infatti Nellie riesce a mostrare il suo talento nella recitazione – la classica situazione di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E Margot Robbie regge perfettamente la parte, riuscendo con grande abilità ad entrare e uscire dal personaggio in scena.

Ma la fama improvvisa, come prevedibile, svanisce nel giro di pochi anni.

Perché, come tante dive prima di lei, Nellie è schiava dei vizi e dell’eccesso, e, quando arriva il momento, non riesce in alcun modo a riabilitare la sua immagine davanti alla buona società.

Così in qualche modo non riesce mai ad uscire dal suo personaggio, lo stesso che l’aveva portata alla gloria.

E infine viene inghiottita dal buio della scena.

James Mckay

La discesa nell’inferno

Tobey Mcguaire in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Prima di parlare del vero protagonista del film, voglio fare una menzione d’onore a Tobey Maguire.

Lontano dalle scene per tanto tempo e tornato solo recentemente per Spiderman – No way home (2021), in Babylon dimostra che qualcosa è cambiato. Sarà perché nelle abili mani di Chazelle, l’attore è riuscito a portare un personaggio che funziona perfettamente fra l’orrore e il grottesco.

La sua sequenza è un’effettiva discesa negli inferi, definita da lugubri tinte rossastre, in cui Mckay ci accompagna, ci trascina attraverso questa tenebra paurosa. Un paesaggio pieno di mostri, violenza e erotismo.

La versione orrorifica della sequenza iniziale della festa.

Manny Torres

Il cinema che rimane

Diego Luna in una scena di Babylon (2022) di Damien Chazelle

Manny Torres rappresenta perfettamente il modello del self-made man.

Partendo dal nulla, ricoperto da sterco di elefante, riesce, sempre grazie all’ultimo capriccio del divo, a farsi prepotentemente strada nel mondo dello show business. Ma il suo vero obbiettivo è quello di salvare Nellie, il suo oggetto del desiderio.

Da questo punto di vista è davvero interessante il racconto di come si costruisce – e ricostruisce – l’immagine pubblica di un attore.

Ma Nellie è insalvabile.

E alla fine Manny sceglie di scappare e salvare sé stesso, tornando ad Hollywood solamente molti anni dopo, quando il cinema è profondamente cambiato.

Regalandoci una scena di incredibile potenza visiva.

Raccontare il cinema

Se non si ha una conoscenza almeno basilare della storia del cinema – anche legittimamente – si potrebbe non comprendere fino in fondo la potenza della sequenza finale.

In generale, Babylon è un enorme omaggio a Singing in the rain (1952), che è proprio il film che Manny va a vedere in sala. In quel momento si rende conto di quanto, nonostante la fine drammatica degli altri personaggi, le loro storie abbiano contribuito a scrivere e costruire la storia del Cinema.

E da lì parte una lunga sequenza in cui sì va avanti e indietro nel mostrare tutto quello che il Cinema ci ha regalato – da L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) a Un chien andalou (1929), fino ad arrivare ad Avatar (2009).

Fino a distruggere l’immagine in semplici colori primari che si susseguono.

Con il finale che racconta la sua commossa consapevolezza.

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Accadde quella notte... Biopic Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Notte degli Oscar Racconto di formazione

Il discorso del re – Un film da Oscar

Il discorso del re (2010) di Tom Hooper è un dramma storico, vincitore di diversi premi, fra cui Miglior Film e Miglior Attore protagonista agli Oscar.

Un film che incassò ottimamente, sopratutto davanti ad un budget veramente risicato: appena 15 milioni di dollari, con un incasso di 423 milioni.

Di cosa parla Il discorso del re?

Il principe Alberto, futuro Giorgio VI e padre della compianta Elisabetta II, è balbuziente. Problema non da poco per un reale che deve sostenere dei discorsi in pubblico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Il discorso del re?

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Assolutamente sì.

Il discorso del re è un film veramente ottimo, sia per la regia, ma sopratutto per le superbe interpretazioni di Colin Firth e Geoffrey Rush – fra i migliori ruoli della loro carriera.

Un prodotto con ritmi lenti e compassati, ma al contempo una costruzione praticamente perfetta della storia, e sopratutto dei personaggi, nei loro turbolenti rapporti.

Un principe debole

Colin Firth e Geoffrey Rush in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

All’interno di una crisi serpeggiante della Corona Inglese, non era accettabile avere al proprio interno un membro debole e impresentabile.

E Bertie era davvero impresentabile, praticamente una vergogna per la sua famiglia.

Ma era altrettanto difficile abbassarsi ad accettare questa debolezza, così da riuscire a risolverla effettivamente. E infatti, per tutto il tempo, la strategia Lionel è quella di spogliare il futuro re della sua identità regale e di metterlo al suo livello, quasi infantilizzandolo.

Privandolo della sua identità, per dargliene una nuova.

E infatti alla fine lo chiama secondo la sua carica, riconoscendola in maniera definitiva.

Mostruosamente capace

Colin Firth in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Portare sullo schermo le balbuzie, lo sforzo, le difficoltà e le paure annesse, non è cosa da tutti.

Ma Colin Firth è stato mostruosamente capace.

Neanche per un momento all’interno della pellicola ho mai pensato stesse recitando, tanto era intensa e convincente la sua interpretazione. E funziona perfettamente anche nel modulare la sua evoluzione nel corso del film, sopratutto nel suo lento ma costante miglioramento.

Ed era fondamentale che ne fosse capace.

La costruzione drammatica

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Uno dei motivi del successo di pubblico di questa pellicola è la sua costruzione drammatica – semplice ma vincente.

Il protagonista del film – e così anche Lionel – è la vittima della situazione e ci coinvolge profondamente a livello emotivo perché gli antagonisti – il padre quanto il fratello – sono indifendibili.

Quindi si percorre una strada sicura nel raccontare la famiglia reale come un luogo rigido e opprimente, quasi militarista. La stessa strada che percorre anche The Crown, alternando le vittime a seconda della stagione – prima Margaret, poi Carlo, infine Diana.

Facendo fra l’altro leva su un trigger emotivo che facilmente coinvolge il pubblico: i rapporti familiari difficili.

La vera famiglia reale?

Colin Firth e Helena Bonam Carter in una scena di Il discorso del re (2010) di Tom Hooper

Vedere Il discorso del re oggi, dopo cinque stagioni di The Crown, fa tutto un altro effetto.

La mano dietro ai due prodotti è radicalmente differente, sopratutto nella scelta del casting: come Peter Morgan – per The Crown e The Queen (2006) – punta sulla somiglianza perfetta, Tom Hooper invece predilige i grandi nomi.

Anche se questi assomigliano veramente poco alle loro controparti reali.

Ed in generale forse è l’elemento che mi ha meno convinto dell’intero progetto, con una costante sensazione di messa in scena e dei personaggi molto caricati e un po’ finti, per certi versi. Ma le interpretazioni sono talmente buone che comunque non è niente di eccessivamente condannabile.

Il discorso del re meritava di vincere l’Oscar?

Gli Oscar del 2011 furono piuttosto interessanti per diversi motivi.

Oltre a Toy Story 3 (2010), terzo film d’animazione nominato nella categoria Miglior Film in tutta la storia degli Oscar, Il grinta (2010) fu nominato in dieci categorie. E le perse tutte – la seconda volta in tutta la storia dell’Academy.

Il discorso del re fu la pellicola a ricevere più nomination, ma si divise una buona fetta di premi con Inception (2010): entrambi si portarono a casa quattro statuette.

Le pellicola di Tom Hooper aveva dei contendenti molto forti nella categoria Miglior film, in particolare Inception e The Social Network (2010). Ma, per la qualità del prodotto, mi sento di confermare la scelta dell’Academy.

Tuttavia, devo dire che non è il film che personalmente avrei premiato: il mio voto sarebbe indubbiamente andato alla pellicola di David Fincher.

Ma è anche vero al contempo che Il discorso del re è uno di quei film che, pur essendo artisticamente validi, sono perfettamente confezionati per trionfare a queste premiazioni – per il cast stellare e il tipo di storia raccontata.

Farewell, my dear Hooper…

Il regista, Tom Hooper, ha avuto una sorte veramente infelice.

O meritata, a seconda di come la si guarda.

Ha vissuto degli anni felici come golden boy dell’Academy, a capo di film ampiamente discussi e premiati come Les Misérables (2012) e The Danish Girl (2015). Insomma, si era fatto un nome ad Hollywood e per quasi un decennio sembrava invincibile.

Poi è arrivato Cats (2019).

Cats è ancora oggi un mistero cinematografico: sulla carta sembrava un prodotto incredibile, destinato a far parlare molto di sé, essendo il primo adattamento cinematografico dell’omonimo spettacolo teatrale.

Ed effettivamente fece molto parlare di sé.

Ma non nel modo che Hooper probabilmente si aspettava.

Cats fu infatti un disastro sotto ogni punto di vista: fu un flop disastroso al box office, non riuscendo minimamente a coprire le spese di produzione, venne sbeffeggiato in ogni dove e, sopratutto, fece perdere ogni tipo di credibilità al regista.

Anche a livello umano Hooper fu sotterrato dalle critiche: vennero alla luce una serie di indiscrezioni per cui avrebbe sottoposto gli addetti agli effetti visivi – fra l’altro terribili – a dei ritmi massacranti, comportandosi anche in maniera incredibilmente scorretta nei loro confronti.

E vincendo un Razzie awards come peggior regista dell’anno.