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The Menu – Un piatto (quasi) perfetto

The Menu (2022) di Mark Mylod è un thriller-horror che ha fatto abbastanza parlare di sé verso la fine del 2022. Non ho potuto vederlo in sala, ma l’ho recuperato in streaming, dopo che mi era stato ampiamente consigliato.

E non ne sono rimasta delusa.

Davanti ad un budget abbastanza contenuto di 30 milioni di dollari, ha avuto incassi medi: 76 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla The Menu?

Tyler porta l’affascinante Margot ad un’esperienza culinaria esclusiva del noto chef stellato. Ma la situazione fin da subito appare disturbante…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Menu?

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

In generale, sì.

È un film che ho trovato piacevole e complessivamente ben fatto, che non mi ha solo convinto per un elemento della trama un po’ scricchiolante…

Ma nel complesso è una pellicola assolutamente godibile, un thriller con un taglio decisamente elegante e fascinoso, con attori di primo livello.

L’esperienza esclusiva

Ralph Finnes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nonostante in diversi punti la pellicola presenti un taglio più corale, la protagonista è assolutamente fondamentale e funzionale per lo spettatore.

Anche se la situazione iniziale è già abbastanza esplicativa da sé, sono le sue occhiate, le sue soggettive che sottolineano due elementi essenziali per la costruzione della tensione: la barca che si allontana e la porta che si chiude.

Proprio ad indicare come questa esperienza sia talmente esclusiva che esclude ogni tipo di via di fuga.

Il pubblico sbagliato

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Margot è fin da subito messa in un rapporto antagonistico con Tyler, che rappresenta uno dei personaggi peggiori che definiscono il mondo della cucina gourmet: l’esaltato superficiale, che si beve qualsiasi cosa che lo chef gli propone.

Al contrario la protagonista è continuamente contraria a questo eccessivo sperimentalismo e cucina concettuale, che non permette davvero di godersi l’esperienza del cibo.

Anya Taylor-Joy e Nicolas Hoult in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Ma è una mosca bianca all’interno di una varietà di personaggi secondari che raccontano il pubblico tipico di questo tipo di esperienze: gli arroganti raccomandati, i ricchi annoiati, i critici snob, e via dicendo.

Tutti personaggi che sono il motivo dell’insoddisfazione dello chef, che vorrebbe forse degli adepti al pari dei suoi cuochi, che vivono profondamente l’esperienza che vuole portare in tavola.

Fino ad arrivare agli estremi.

Ma qui nasce il problema.

Il problema della morte

Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

L’unico elemento che proprio non mi ha convinto del film è la gestione della morte, la cui inevitabilità viene annunciata fin troppo presto.

Sarebbe stato meglio, secondo me, tenerla in sottofondo, abbastanza evidente da tenere alta la tensione, ma senza rivelarla fino alla fine. Il film avrebbe funzionato comunque, facendo giusto qualche aggiustamento.

Inoltre, non sono riuscita a trovare credibile questa totale sottomissione degli altri chef a Slowik, elemento per cui vengono poste delle buone basi, ma per cui avrei preferito una costruzione più profonda e convincente.

Il piano di Margot

Anya Taylor-Joy e Ralph Fiennes in una scena di The Menu (2022) di Mark Mylod

Nel finale, Margot riesce effettivamente a salvarsi tramite un piccolo trucco.

Fondamentalmente il suo piano per scappare è di giocare allo stesso gioco dello Chef, invece che andargli contro direttamente come gli altri personaggi – e lei stessa fino a poco prima. Così lo riporta con i piedi per terra, comportandosi come si comporterebbe effettivamente in un ristorante, mandando indietro il piatto e chiedendo di portare a casa gli avanzi – come tipico negli Stati Uniti.

E evidentemente Slowik preferisce essere trattato in questa maniera reale, che essere inutilmente e superficialmente esaltato – o non considerato.

E così infatti Margot guadagna la sua libertà

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Fantasy Film Film Netflix Nuove Uscite Film Oscar 2023 Racconto di formazione

Pinocchio di Guillermo del Toro – La caducità della pigna

Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro, prodotto e distribuito da Netflix, è una piccola sorpresa dell’animazione.

Un prodotto che ha avuto una produzione molto travagliata: pensato fin dal lontano 2008, si è potuto realizzare solo recentemente per l’acquisto dei diritti da parte della piattaforma, a causa degli alti costi, dovuti all’uso della tecnica stop motion (la stessa di Fantastic Mr. Fox, per capirci).

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per Pinocchio (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film d’animazione

Di cosa parla Pinocchio?

A sorpresa, non di Pinocchio.

L’opera di del Toro riprende alcuni elementi della favola originale, ma li reinventa in direzioni differenti, con anche una morale e un’ambientazione del tutto diversa.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Pinocchio?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Assolutamente sì.

Dopo essermi asciugata le copiose lacrime che mi ha fatto versare, mi sono resa conto dell’incredibile qualità che il Pinocchio di Guillermo del Toro può vantare, allontanandosi anche molto dall’omonimo Classico Disney.

Ma da questo regista non mi aspettavo niente di meno

Oltre alla bellezza dell’animazione, l’originalità dei disegni, ho semplicemente adorato la preziosa reinterpretazione da parte di del Toro, che è riuscito a riportare in scena un classico italiano con un’opera di rara bellezza.

Guardatelo, e non ve ne pentirete.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro doppiato o in originale?

Meglio guardare il film doppiato o in originale?

Alcuni di voi potrebbero sentirsi personalmente infastiditi dal modo in cui vengono pronunciati alcuni termini italiani, fra cui i nomi dei personaggi.

Io preferisco sempre guardare i film in lingua originale a prescindere, in particolare i prodotti animati che hanno solitamente alle spalle un voice casting di alto livello.

Nel caso di Pinocchio, meno che non siate particolarmente sensibili, non avrete più fastidio di quanto ve ne avrebbe potuto dare Luca (2021), con la differenza che in questo caso il cast vocale proviene da attori inglesi e non statunitensi.

E vi assicuro che solo questo ci salva da molte storpiature…

Non il solito Pinocchio

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Nell’opera di Collodi, Pinocchio era un bambino totalmente scapestrato e ribelle, che non voleva andare a scuola, ma solo divertirsi, anche frequentandosi con personaggi poco raccomandabili...

Il Pinocchio di Guillermo del Toro mantiene l’idea di base, ma la sviluppa in altre direzioni. In questo caso Pinocchio non è semplicemente un bambino da rieducare, ma un bambino che deve riscoprire il mondo dall’inizio, e non ha idea di come lo stesso funzioni.

E per questo si comporta in maniera incontrollabile, nella sua incontrollabile voglia di scoprire e osare.

Tuttavia tutto viene portato su un piano più storicamente realistico quando si accorge di essere un peso per il padre adottivo – secondo lo stesso Grillo – e per questo abbandona il tetto familiare con l’illusione di poter lavorare e sostenere Geppetto.

Il dramma di Geppetto

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro con Geppetto e Pinocchio

Probabilmente la parte più straziante del Pinocchio di Guillermo del Toro è il dramma di Geppetto.

La sua tragicità prende le mosse anzitutto dall’insensata morte del figlio Carlo, che non riesce a superare, e che lo porta a creare un burattino che ne riprenda le forme. Ma solo grazie ad uno spirito della foresta – una fata turchina molto reinventata – riesce a ritrovare, dopo tanti anni, una luce nella sua vita.

E per tutto il film perde più e più volte il figlio adottivo, per la morte o per la fuga, distruggendosi – anche economicamente – per ritrovare l’unica cosa che poteva dargli felicità, nonostante non fosse proprio il figlio che voleva…

E qui si trova una grande sorpresa della pellicola.

Un bambino vero?

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Per tutta la pellicola mi aspettavo un finale analogo a quello di Collodi, in cui l’umanità di Pinocchio era una sorta di premio per la sua buona condotta. Nell’opera originale infatti l’idea era di insegnare ai bambini della neonata Italia unita che, se avessero seguito la retta via, avrebbero trovato anche una sorta di riconoscimento sociale.

Al contrario, nel Pinocchio di del Toro il protagonista non diventa mai umano.

Ed è lo stesso film che spiega perché questa scelta andrebbe a snaturare la pellicola, quando Pinocchio, davanti alle parole di Geppetto che gli dice che non vuole che sia niente di diverso da sé stesso, risponde:

Then I’ll be Pinocchio.

Perché in realtà questo finale racconta Geppetto deve finalmente accettare la morte di Carlo, e essere felice del dono che nonostante tutto la vita gli ha concesso.

Da un punto di vista più storico-politico, il Fascismo accetta Pinocchio perché è immortale e, soprattutto, perché è fatto di vero pino italiano, quindi di una buona materia prima che può essere plasmata.

Invece, anche con le sue azioni, Pinocchio rifiuta di sottomettersi, non diventando veramente un bambino della Gioventù Fascista, e quindi non snaturando in alcun modo la sua vera natura.

E qui si apre un altro elemento interessante.

Raccontare il fascismo

Una scena di Pinocchio (2022) di Guillermo del Toro

Mentre guardavo la pellicola mi sono resa conto di quanto questa rappresentazione del fascismo, semplice ma molto diretta, mi lasciava un po’ contraddetta.

E ripensandoci mi sono resa conto che – per diversi motivi che potete immaginare da soli – il Nazismo e l’Olocausto sono portati anche sul piccolo e grande schermo fino alla nausea, con prodotti di minore o maggiore qualità.

Assolutamente non si può dire lo stesso con il fascismo italiano.

Ovviamente non nego che ci siano anche delle produzioni dedicate a quel periodo storico ancora oggi, magari in un cinema europeo meno esplorato, ma a livello di produzioni mainstream è un tema del tutto assente.

E come scelta in questo caso è stata del tutto azzeccata e interessante.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro Il simbolismo della pigna

Il simbolismo della pigna è più sottile, ma diventa assolutamente chiaro alla fine della pellicola.

La pigna è un elemento di vita e di morte insieme.

È un elemento di vita quando diventa un giocattolo per Carlo, per l’albero che nasce dalla stessa, con le pigne cresciute sullo stesso che rappresentano il ciclo della vita, quindi sempre la vita e la morte insieme.

Ma è definitivamente un simbolo di morte per la sua drammatica somiglianza con la granata, con un angosciante foreshadowing già nei momenti prima della morte di Carlo…

Ma la morale del Pinocchio di del Toro non vive di opposti.

Il Pinocchio di Guillermo del Toro La morale amara

La morale finale del Pinocchio di del Toro è molto amara, ma al contempo confortante.

Il regista ci nega totalmente un finale da favola, senza quella tipica e indefinita felicità, ma preferendo un racconto su come la vita continui, felice anche se profondamente caduca.

E ci racconta come anche la morte, probabilmente arrivata alla fine per Pinocchio, sia l’amara ma giusta conclusione per una vita soddisfacente, proprio perché ha avuto una fine…

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Avventura Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Il cinema di James Cameron Racconto di formazione Recult Titanic

Titanic – Un dramma monumentale

Titanic (1997) di James Cameron è uno dei film ad aver incassato di più nella storia del cinema, ad oggi al terzo posto dopo Avengers Endgame (2019) e Avatar (2009) dello stesso Cameron.

Una pellicola che fu la conferma di come questo autore fosse abile nel portare al cinema prodotti più diradati nel tempo, ma capaci di ottenere grandissimi successi, sia di pubblico che di critica.

Ma il grande incasso si accompagna alla qualità?

Di cosa parla Titanic?

Rose e Jack si imbarcano nel viaggio inaugurale del Titanic, la nave mastodontica e inaffondabile. Due personaggi con storie molto diverse: l’una intrappolata in un matrimonio infelice, l’altro un artista giramondo senza un soldo…

Eppure le loro storie si incontreranno in maniera inaspettata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Titanic?

Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

In linea generale, sì.

Vi consiglio di non farvi frenare dal fatto che sia principalmente un film romantico, anche se non è il vostro genere: nonostante qualche (anche vistosa) sbavatura, da questo punto di vista gode di una buona costruzione e non è eccessivamente zuccheroso.

Oltre a questo, nonostante la regia non mi abbia così tanto colpito, è tutto al limite dello spettacolare, nel suo incredibile dramma.

E la durata non l’ho sentita più di tanto.

La trappola dell’istant love

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Quando si costruisce una storia romantica, la fase più delicata è il racconto del momento dell’innamoramento. I più pigri saltano a piè pari questa fase e fanno innamorare i protagonisti immediatamente, cadendo nella trappola del cosiddetto instant love.

E, come conseguenza, lo spettatore più attento non riesce ad essere in alcun modo coinvolto con la relazione dei personaggi.

Per fortuna Titanic non cade in questo errore.

Lo sbocciare della relazione viene seguito abbastanza passo passo, in maniera complessivamente credibile e abbastanza coinvolgente. Non un meccanismo perfettamente oliato – non manca qualche piccola forzatura – ma complessivamente una relazione funzionante.

Ma la vittoria è molto sbilanciata.

Vincere e perdere

Kate Winslet e Leonardo Di Caprio in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Come ho trovato questo Di Caprio alle prime armi brillante e smaliziato, non posso dire lo stesso per Kate Winslet. Non arriverei a definirla una cagna maledetta (cit.), ma l’ho trovata del tutto fallimentare in alcune scene.

E le stesse scene le ho trovate anche molto forzate, e fatte apposta per essere citabili: fra queste, quando Rose chiede a Jack di guidarla fino alle stelle, oppure quando va a liberarlo e ammette che dentro di sé sapeva sempre che Jack non aveva rubato il diamante.

E per questo mi sembra di vedere un pattern.

L’estetica vince su tutto

Kate Winslet in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Ho la leggera sensazione che, in certi casi, Cameron privilegi la scelta degli attori per il lato estetico piuttosto che per la loro bravura.

Era il caso di Arnold Schwarzenegger in Terminator, ad esempio.

Kate Winslet è un’attrice con un’estetica semplicemente perfetta per il ruolo, un’icona romantica in tutto e per tutto: pelle molto chiara, che contrasta con il rosso dei capelli, messo continuamente in evidenza con il trucco – dal rossetto alle occhiaie profonde.

Tuttavia, forse non era l’attrice giusta per questo ruolo, dovendo tenere sulle spalle un personaggio per nulla semplice.

Cal: un villain al limite del comico

Billy Zane in una scena di Titanic (1997) di James Cameron

Cal dovrebbe essere il grande villain della pellicola, ma, per quanto sia effettivamente irresistibile nel suo ruolo, in certe scene appare quasi comico.

In particolare nel terzo atto più e più volte, invece che scegliere di salvare la propria vita, insegue la sua vendetta per salvare la sua virilità tradita dal comportamento della futura moglie.

Ed è davvero incredibile.

Ma è tanto più vincente come villain in diverse sequenze, come le varie volte in cui aggredisce Rose, o quando, nella maniera più meschina possibile, acchiappa una bambina per avere un posto sulla scialuppa.

Semplicemente iconico.

Mostrare i muscoli

Per quanto, come detto, la regia in questo caso non mi abbia particolarmente colpito, è indubbio che ci sia stato un particolare impegno dal punto di vista tecnico.

Tutto il terzo atto, in cui siamo catapultati nel dramma della tragedia del Titanic, è incredibile da vedere e trasmette perfettamente il senso di costante angoscia dei personaggi, ed è anche piuttosto credibile nelle sue dinamiche.

Altrettanto nelle inquadrature aeree della nave, dove non si vede quasi per nulla che questo film è uscito più di vent’anni fa.

Tuttavia, riguardo a questo ho percepito un problema…

Un senso di scollamento

Un elemento che alla lunga ho sentito nella pellicola è una sorta di scollamento fra il dramma del Titanic e il dramma romantico di Jack e Rose.

Insomma, ho avuto la sensazione che i due elementi non fossero ottimamente amalgamati.

I momenti dove ho avuto di più questa sensazione sono stati quando, nel presente, i personaggi discutono animatamente dell’assurdità del naufragio del Titanic, e Rose, come se la cosa non la toccasse minimamente, attacca a raccontare di come Jack le avesse fatto il ritratto.

E così quando Jack e Rose si trovano sul ponte con la nave che è quasi in verticale, Rose gli dice Questo è il luogo dove ci siamo incontrati, come se la cosa fosse di alcuna rilevanza.

Insomma, ad un certo punto mi viene anche da chiedermi: con qualche aggiustamento, la stessa storia romantica poteva funzionare anche al di fuori della tragedia del Titanic?

Per me sì.

Lode alla porta per due in Titanic

La questione di come la porta potesse in realtà contenere sia Rose che Jack è incredibilmente dibattuta, anche nei modi più stupidi possibili.

Tuttavia, andando ad analizzare la scena, tutto acquista totalmente senso: Jack in prima battuta cerca di salire lui stesso sulla porta, ma si accorge che, facendolo, la stessa si ribalta e rischia di far finire entrambi in acqua.

Per questo, sempre tenendo fede alla volontà incredibilmente drammatica del film, decide di rischiare la propria vita restando nell’acqua ghiacciata e di salvare invece Rose, facendola stare sulla porta.

Quindi la questione è molto meno forzata di come appaia.

Una produzione incredibile

Non penso sia un mistero che la produzione di questa pellicola sia stata assolutamente incredibile.

Le riprese cominciarono da quando lo stesso James Cameron si impegnò nel filmare il vero relitto del Titanic. Da lì cominciò un ampio lavoro di scrittura della storia, impegnandosi nello studio della storia dell’affondamento e costruendoci intorno una storia d’amore per muovere profondamente lo spettatore.

La nave fu effettivamente costruita quasi per intero, compresi gli interni, e immersa in un’enorme piscina con la capienza di più di 260mila litri, dove gli attori erano effettivamente immersi per le scene in acqua.

Una produzione che costò non meno di 200 milioni di dollari, ma che sorprendentemente è solo al 48esimo posto nella classifica dei film più costosi nella storia del cinema.

Tuttavia, bisogna anche considerare che, con l’inflazione, 200 milioni nel 1996 sarebbero quasi 380 milioni di dollari ad oggi…

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2022 Dramma storico Drammatico Film Film Netflix Nuove Uscite Film

The wonder – Il peso del martirio

The Wonder (2022) è un film Netflix del regista cileno Sebastián Lelio, il primo a vincere l’Oscar al miglior film straniero nel 2017 per Una donna fantastica.

Non un novellino, insomma.

Quindi ancora una volta vediamo il lato più positivo di Netflix, che investe (anche in pubblicità) su autori meno noti e che in sala purtroppo non avrebbero lo stesso riscontro che in streaming, sopratutto in questo periodo…

Di cosa parla The Wonder?

1862, Irlanda. Elizabeth è una giovane infermiera vedova che viene chiamata ad essere testimone di un miracolo…

Non vi consiglio di guardare il trailer, ma ve lo lascio comunque qui:

Vale la pena di vedere The Wonder?

Florence Pugh in una scena di The Wonder (2022) è un film Netflix per la regia di Sebastián Lelio

Sì, ma con un grosso avvertimento.

In questo caso è quanto mai dovuto un trigger alert: per quanto non ci sia niente di esplicito, si parla di violenza su bambini, in momenti che mi hanno profondamente angosciato.

Non è infatti un film leggero, anzi ha un ritmo molto lento e compassato, nonostante la durata contenuta. Se vi piacciono i film dal taglio mistery e profondamente psicologico, guardatelo.

Ma, come detto, vi sconsiglio di guardare il trailer: per come è raccontato, sembra uno di quei prodotti del sottogenere horror delle possessioni che hanno intestato (e infestano ancora) il nostro cinema.

E non potrebbe essere più lontano da quel tipo di film.

Quando Dio è vicino

Florence Pugh, Tom Burke e 
Kíla Lord Cassidy in una scena di The Wonder (2022) è un film Netflix per la regia di Sebastián Lelio

Per quanto la rappresentazione della religiosità del film sembri molto lontana da noi, era una mentalità del tutto normale fino a non molto tempo fa. Anche nel nostro paese.

Una religiosità popolare, per cui Dio è vicino ed è ovunque e per cui, come si dice nello stesso film, chiunque può essere scelto come santo e martire. E non a caso, i protagonisti della prima tradizione martiriale erano molto spesso personaggi di umilissime origini, che però avevano mostrato una fede particolarmente sentita.

Ed è proprio questo il punto del film.

Il valore della penitenza

Niamh Algar in una scena di The Wonder (2022) è un film Netflix per la regia di Sebastián Lelio

In quel contesto la fede era particolarmente sentita in realtà molto povere e umili. Con un aldilà visto anche come un premio, un traguardo da raggiungere dopo una vita di stenti.

Ma era anche una religiosità molto materiale: fare tanto con il poco che si poteva, solitamente penitenza quindi fisiche, legate al cibo o al sesso. In particolare una penitenza per sciogliere o alleviare i dolori dei purganti o, in questo caso, liberare un dannato dalle fiamme dell’Inferno.

E così la piccola Anna si prende sulle sue fragili spalle l’assoluzione del fratello davanti al terrificante incubo dell’aldilà infernale. E per una colpa che è stata fatta contro lei stessa…

Raccontare la morte

Per quanto si veda, tutto sommato, di come questo film sia stato fatto con un budget abbastanza contenuto, la messinscena è davvero affascinante.

Una fotografia molto spenta, quasi gotica, che racconta un paesaggio brullo e desolante, dove solamente la luce di un miracolo può portare sollievo. Persino quando quel miracolo diventa morte e malattia, nel racconto così sentito e vicino di una bambina priva di forze per mancanza di cibo. La stessa bambina che all’inizio, anche per l’essere venerata come una santa, sembrava florida e in salute…

Un aggancio emotivo semplice, ma che ho fortemente sentito.

L’importanza del martirio

Kíla Lord Cassidy in una scena di The Wonder (2022) è un film Netflix per la regia di Sebastián Lelio

I martiri sono dei simboli.

Per una persona di fede sono di fatto dei modelli da cercare il più possibile di seguire, che sopportano le peggiori torture e disgrazie grazie alla forza della loro fede, venendo anche ovviamente premiati.

In questo caso non si tratta strettamente di un martirio, ma di un miracolo, che si trasforma inevitabilmente in un martirio. Ed è davvero agghiacciante come la comunità intorno ad Anna la porti a fare un sacrificio, che in un certo senso è a beneficio di tutti.

Perché in qualche modo, come lei può raggiungere la beatitudine, gli altri possono vivere della sua luce e avere Dio ancora più vicino…

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Avventura Cinema gelido Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Racconto di formazione

Piccole donne – Che chiasso!

Piccole donne (2019) di Greta Gerwig è un period drama tratto dal celebre romanzo omonimo. Un film che fu circondato da un grande chiacchiericcio, e non sempre per i motivi giusti. E non a caso ottenne numerose candidature, in parte per me assolutamente inspiegabili.

O, meglio, spiegabili nel contesto degli Oscar.

Un prodotto che ebbe anche un buon riscontro di pubblico: a fronte di un budget di appena 40 milioni, ne incassò complessivamente 206 in tutto il mondo.

Di cosa parla Piccole donne?

Inghilterra, seconda metà dell’Ottocento. La vicenda ruota intorno alle quattro sorelle March, con caratteri molto diversi ma che incarnano i topos delle eroine romantiche tipiche di quel periodo.

Fra matrimoni e amori infelici, un classico dramma strappalacrime, ma fatto con una certa cura.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Piccole donne?

Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh e Eliza Scanlen in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Dipende.

Dal mio personale punto di vista, non ha un grande valore artistico, ma potrebbe essere un film molto coinvolgente, se siete pronti a farvi catturare da certi ganci emotivi.

Io personalmente mi sono lasciata agganciare.

Infatti Piccole Donne è una storia molto emotiva, con una profonda esplorazione della psicologia dei personaggi, anche in maniera facilmente coinvolgente. E possono essere due ore molto piacevoli in un prodotto che vuole essere sicuramente lacrimevole, ma anche molto confortante, tutto sommato.

Innamorati di Saoirse Ronan

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Molti registi, soprattutto ad inizio carriera, hanno i loro attori feticcio. Di Caprio per Scorsese, Johnny Depp per Burton, e via dicendo.

Per Greta Gerwig è Saoirse Ronan, con cui aveva già lavorato per Lady Bird (2017).

E proprio come nel precedente film, non vedeva l’ora di farle interpretare un personaggio che si oppone testardamente a tutti, ma è fragile internamente. Per figure di questo tipo, che potrebbero risultare in qualche modo antipatiche allo spettatore, si lascia sempre loro lo spazio per ammettere le proprie debolezze.

E così è anche il caso di Jo.

Saoirse Ronan in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Tuttavia io non sono riuscita a farmi conquistare. Ammetto che mi ha non poco emotivamente colpito la sequenza sul finale, in cui Jo ammette che avrebbe infine sposato Laurie se glielo avesse chiesto, soprattutto per il suo senso di solitudine.

E non di meno ho apprezzato la costruzione di un personaggio femminile che risolve i suoi problemi al di fuori di una relazione romantica, ma piuttosto tramite una propria realizzazione personale.

Tuttavia per tutto il film non ho potuto fare a meno che darle ragione quando ammette che la sua situazione di tristezza sia unicamente colpa sua, della sua superbia e testardaggine.

Insomma, non sono riuscita a stare dalla sua parte.

Dalla parte di Amy

Florence Pugh in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Amy è il personaggio più bistrattato dell’intero film.

Anche se spiega comunque abbastanza esplicitamente il suo disagio sul business dei matrimoni, comunque viene complessivamente raccontata come la sorella invidiosa e aggressiva, che si oppone alla sorella ben più meritevole dell’affetto dello spettatore.

E al contempo appare anche come il personaggio che deve starci meno simpatico, perché non si sottrae al sistema oppressivo del mercato dei matrimoni come la sorella, appunto.

Eppure io sto dalla parte di Amy.

Sono riuscita molto di più ad empatizzare con la sorella non particolarmente brillante e che si sente la seconda scelta, ma che alla fine realisticamente riesce a sistemarsi economicamente e emotivamente con Laurie.

E l’ho sinceramente preferita, perché il suo dolore mi è sembrato molto più sincero rispetto a quello di Jo.

E non è neanche l’unico problema del suo personaggio.

Il premio dell’odio

Scherzosamente tra me e me mi piace pensare che avrebbero dovuto dare il Premio dell’odio alla costumista di Piccole donne per come ha vestito Florence Pugh. E con lei anche il reparto make-up.

Ma probabilmente tutto viene dalle mani della regista, per nulla innamorata di questa attrice, anzi.

Se si fa un confronto fra come è vestito e gestito esteticamente il personaggio di Jo rispetto ad Amy, la differenza salta subito all’occhio. Saoirse Ronan è alta e snella, e la fotografia, la scelta dei colori e dei vestiti la fanno apparire molto slanciata e ne esaltano la figura.

Florence Pugh è ben più bassa, ha il volto tondo e paffuto, e il fisico più massiccio. E giustamente si è deciso nei flashback di metterle le trecce e la frangetta, pessime per il suo volto, e di vestirla per la maggior parte delle volte con linee dritte e vestiti chiusi fino alla gola che la ingoffiscono.

Purtroppo non è la prima volta che lei o altre attrici non perfettamente snelle non siano messe in risalto, ma anzi si cerchi di nascondere il loro fisico ed ingoffirle.

Era successa una cosa non molto differente in Black Widow (2021): mentre Scarlett Johansson ha la tutina attillata senza nulla sopra e che esalta il suo fisico, Florence Pugh è in molte scene ancora una volta ingoffita da una giacca smanicata sopra la tuta, oppure con abiti molto meno aderenti.

L’altra femminilità di Meg

Saroise Ronan e Emma Watson in una scena di Piccole donne (2019) di Greta Gerwig

Un grande pregio del film è di saper raccontare diversi tipi di femminilità e soprattutto di eroine romantiche. Oltre all’eroina che va contro la femminilità imposta (Jo) e quella che invece vi cerca il suo posto (Amy), Meg è il personaggio femminile che sceglie l’amore nonostante l’aspetto economico.

E il classismo dilaga quando lei sente pesantemente il peso della sua scelta, di non poter essere felice come le altre sue coetanee ben più ricche e con i vestiti più belli. Ma alla fine anche lei trova la sua dimensione e accetta la bellezza che la sua vita comunque può offrirle.

Beth: l’eroina tragica

Beth è in tutto e per tutto l’eroina tragica.

Un elemento tipico della narrazione romantica è proprio quello della malattia, soprattutto quella che disabilitante.

In questo caso Beth è l’aggancio emotivo principale della pellicola, soprattutto per la scena della sua morte. All’inizio lo spettatore tira un sospiro di sollievo quando scopre che Beth sette anni prima non è morta, ma è altrettanto distrutto quando scopre che nel presente è invece successo.

Una figura fra l’altro angelica e innocente, con un genio inesplorato che riesce solo marginalmente a mostrare nella sua brevissima vita. Forse un personaggio un po’ di contorno, ma che ha una tutta una sua funzione molto ben bilanciata all’interno della pellicola.

Il posto giusto, il momento sbagliato

Qui non voglio togliere importanza a Greta Gerwig con autrice e regista, ma contestualizzare il successo che hanno avuto i suoi film.

Non me ne vogliano gli appassionati, ma secondo me Gerwig non è al momento il meglio che abbiamo nella scena del cinema contemporaneo, e credo che ci siano autrici decisamente più interessanti di lei, anche solo Jane Campion Il potere del cane (2021).

Già solo in Piccole donne la regia secondo me non è così eccezionale, non particolarmente ispirata, e anche troppo chiassosa.

Per ora questa regista per quanto mi riguarda ha fatto dei prodotti buoni, ma non eccezionali, che meritavano molto meno plauso di quanto hanno ricevuto.

E purtroppo, sopratutto per i discorsi che si facevano al tempo, ho paura che questa autrice sia diventata una sorta di token in un contesto delle premiazioni, soprattutto gli Oscar, dominate da registi uomini…

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Avventura Damien Chazelle Dramma familiare Dramma storico Drammatico Film Il racconto dello sbarco

First man – L’altro lato della luna

First man (2018) di Damien Chazelle è il terzo lungometraggio del regista famoso per La La Land (2016).

Purtroppo questo nuovo progetto non ebbe per nulla lo stesso riscontro, anzi fu sostanzialmente ignorato al di fuori del circuito dei festival.

E fatti fu un flop commerciale: appena 105 milioni di dollari di incasso contro un budget di 59.

Di cosa parla First man

1962, Stati Uniti. Dopo un importante lutto familiare, Neil Armstrong, il primo uomo che metterà piede sulla Luna, entra a far parte del progetto Gemini della NASA e la sua corsa disperata verso lo spazio.

Un viaggio per nulla semplice, e molto meno glorioso di quello che si potrebbe pensare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Perchè First man è stato un flop e perché guardarlo comunque

Ryan Gosling in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Dipende.

Il flop di First man è facilmente spiegabile: Chazelle, invece che piegarsi al successo di La La Land, ha deciso di sperimentare con un genere diverso.

E ha prodotto una pellicola sublime, con una tecnica registica di altissimo livello, ma decisamente molto meno spendibile per il grande pubblico. Il film è infatti drammaticamente lento, ma con una lentezza voluta e necessaria.

E infatti va visto con calma, prendendosi il suo stesso tempo. E va vista perché è una pellicola spettacolare, con una tecnica e una scrittura che si avvicina a certi capolavori di Lars von Trier. Non a caso a me ha ricordato per certi aspetti Melanchonia (2011).

Quindi prendetevi il vostro tempo, ma guardatelo.

Storia di un fallimento

Ryan Gosling e Corey Stoll in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Soprattutto se non si fa parte della generazione che visse il periodo, è difficile immaginarsi il clima che circondò l’Allunaggio.

In piena guerra fredda, con questa isteria collettiva di contrasto alla Russia che si vede anche ne Il gigante di ferro (1999), e davanti ad una scia di morti e fallimenti che guastarono la credibilità del progetto. E, di conseguenza, un generale malumore dell’opinione pubblica.

Perché effettivamente per l’uomo comune statunitense esplorare lo spazio non era una grande scommessa.

E non lo è neanche per i contemporanei: basta solo pensare che gli astronauti che esploreranno altri pianeti oltre la Luna non sono, con ogni probabilità, ancora nati. E chissà quante generazioni passeranno prima che potremo vivere oltre la Terra o almeno sfruttare le risorse che gli altri pianeti ci offrono.

Fatte queste premesse, è più facile immedesimarsi nel sentimento popolare del tempo.

L’uomo sulla luna

Ryan Gosling e Claire Foy in una scena di First Man (2018) di Damian Chazelle

Il racconto di Neil Armstrong è drammatico ma necessario: non un eroe, ma un uomo come tanti, con una situazione familiare complessa, e, soprattutto, un uomo assolutamente fallibile.

Si evita insomma un tipo di narrazione di predestinazione, come si può vedere in film molto più commerciali come Captain America (2011). L’unico elemento di predestinazione in qualche misura è il fatto che il protagonista guarda sempre verso la Luna.

Ma perché Luna è un luogo lontano, quasi rassicurante, dove per un attimo Neil può davvero distaccarsi dai suoi problemi terreni, dove può finalmente dirgli addio. Toccante la scena in cui si lascia scivolare dalle dita il braccialetto della figlia, di cui non aveva mai più parlato, ma la cui morte l’aveva profondamente turbato per quasi dieci anni.

E infine si riconcilia con la moglie, che accetta la sua mano tesa.

Una regia perfetta

Quando parlo di una regia perfetta non credo di esagerare: non poteva esserci una tecnica migliore di questa per raccontare questo tipo di storia. Chazelle fa infatti grande uso della camera a mano, dando un taglio molto intimo alla maggior parte delle scene.

E, con il suo continuo e sublime uso dei primi piani stretti e strettissimi, il suo indugiare sui particolari, fa sentire lo spettatore come se fosse veramente in quella stanza, in quella astronave, ad osservare la scena.

Ancora più splendida la scelta della rappresentazione dello sbarco: sulla Luna non ci sono rumori e, quando si incammina, Armstrong non può sentire nient’altro che se stesso, il proprio respiro affannoso.

E, così, avere un momento di pace.

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Il Padrino – L’origine di un cult

Il Padrino (1972) è il primo film della trilogia cult omonima, diretta da Francis Ford Coppola. Considerato uno dei maggiori capolavori della Storia del Cinema, il film rilanciò Marlon Brando come attore e fece al contempo conoscere Al Pacino, fino a quel momento sostanzialmente sconosciuto, a livello internazionale.

Al tempo fu un incredibile successo commerciale: 243 milioni di incasso a fronte di un budget ridottissimo, circa 6 milioni. Fu candidato anche a ben 10 oscar, vincendone tre, e divenne un cult immortale nell’immaginario collettivo.

Di cosa parla Il Padrino

New York, 1946. Vito Corleone è a capo di una importante e potentissima famiglia mafiosa. La sua vita è scandita da una intricata rete di scambio di favori criminali, che terminano spesso con atti violenti…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea.

Perché guardare Il Padrino anche oggi?

Marlon Brando nei panni di Vito Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Il Padrino è un’opera irrinunciabile. Non solamente perché è un film assolutamente iconico ancora oggi, ma perché è un prodotto di altissimo livello, con interpreti che hanno regalato prove attoriali indimenticabili.

E, soprattutto, rivedere le frasi e le scene iconiche nel contesto del film gli dà tutto un altro sapore.

Tuttavia, Il Padrino non è un film per nulla semplice: oltre alla durata decisamente importante della pellicola, è un film che va seguito con molta attenzione per non perdersi nel marasma di nomi e di rapporti racconti.

Tuttavia, prendetevi un pomeriggio e regalatevi questa esperienza: non ve ne pentirete.

Vito Corleone: Il primo padrino

Come detto, Vito Corleone appare inizialmente come il centro dell’azione. Parallelamente alla realtà festosa e felice del matrimonio della figlia, il Padrino deve gestire la processione di persone che gli chiedono i favori più disparati, la maggior parte con una componente violenta e omicida.

A primo impatto lo spettatore non assocerebbe mai a questa figura così contenuta e riflessiva a degli atti di tale violenza, come la famosa testa di cavallo nel letto.

Proprio per questo probabilmente Vito si è capo della famiglia, divenendo punto di riferimento come figura saggia e imperscrutabile. Riuscendo in ultimo anche a salvare la vita del figlio, Michael, rivelandogli come scovare il chi l’ha tradito.

Marlon Brando è riuscito a regalare una performance che è divenuta immediatamente iconica, per l’incredibile posatezza e particolarità del personaggio, che gli valse infatti la statuetta agli Oscar come Miglior Attore Protagonista.

Michael Corleone: l’erede

Michael Corleone viene sapientemente presentato come personaggio di contorno, che decide consapevolmente di non partecipare agli affari di famiglia.

Il primo momento di azione è l’omicidio di Sollozzo: Michael si presenta alle sue vittime come le persone al di fuori dei fatti, assolutamente innocuo, a differenza dell’animoso fratello, Sonny.

E infatti tutta la scena dimostra un Michael impacciato, con la mano tremante e indecisa sul da farsi.

Ma che infine agisce.

La trasformazione definitiva avviene durante il periodo in Sicilia. Il suo primo scambio da boss è con il padre della sua prima moglie, Apollonia. Michael aveva infatti notato la ragazza e che l’aveva subito scelta come sua sposa.

Così, adottando l’atteggiamento posato e la fermezza dello sguardo del padre, contratta.

E vince.

Da qui in poi il suo volto diventerà sempre più imperscrutabile, con questi occhi vitrei e minacciosi.

L’atto finale è il ritorno a New York: dopo la morte di Sonny, Michael acquista sempre più potere e comincia a riordinare gli affari di famiglia: prima il giuramento davanti al prete per il battesimo della sorella, con un montaggio alternato che mostra tutti gli omicidi a sangue freddo di cui è il mandante.

E infine la scena di chiusura, in cui viene definitivamente riconosciuto come il nuovo Padrino, con gli astanti gli baciano le mani.

La rappresentazione degli italoamericani

Al Pacino nei panni di Michael Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Uno scoglio non da poco per il film era raccontare la realtà della mafia italo americana in maniera che non fosse stereotipata e appiattita, come abbiamo visto anche in prodotti come House of Gucci (2021).

Cominciamo col dire che ovviamente alcuni passaggi faranno sanguinare le orecchie a qualunque italiano, anche solamente per Corleone pronunciato Corleoni.

Tuttavia, ne Il Padrino comunità italo americana è in realtà ben raccontata. Infatti nella maggior parte delle scene si parla in inglese, con qualche parola e frase in italiano di tanto in tanto.

L’unica eccezione sono alcuni personaggi che parlano principalmente in italiano, ma che sono attori effettivamente italiani e in un contesto, come quello della fuga siciliana di Michael, che lo giustifica. Una rappresentazione per una volta credibile, insomma.

Anzi, nota di merito alla scelta di rendere la difficoltà di Michael di parlare in italiano quando appunto si trova in Sicilia, con una pronuncia stentata e inquinata dalla sua parlata americana.

Cosa, complessivamente, non mi ha convinto

Al Pacino nei panni di Michael Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

Ci sono due aspetti che non mi hanno del tutto convinto della pellicola o che comunque mi hanno reso difficoltosa la visione.

Anzitutto, la quantità di nomi e personaggi raccontati, in cui ho fatto fatica ad orientarmi. Ho infatti avuto qualche problema nel finale a capire quali fossero i personaggi più importanti del tradimento.

Così, lo scorrere del tempo.

Nonostante sia abbastanza chiaro, se non fosse per gli indizi visivi in scena (come il bambino di circa un anno di Michael e Kay) non avrei mai percepito effettivamente il passaggio del tempo, di cui non ho colto appieno il senso di alcune ellissi, che mi sono parse futili.

Le citazioni iconiche

All’interno della pellicola ci sono due momenti assolutamente iconici, ma che acquisiscono veramente significato quando vengono contestualizzati nella pellicola.

Marlon Brando nei panni di Vito Corleone in una scena di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola

My father made him an offer he couldn’t refuse

Mio Padre gli ha fatto un’offerta che non poteva rifiutare.

Questa famosissima citazione è quanto più interessante se contestualizzata: non si può rifiutare l’offerta del Padrino non perché sia assolutamente conveniente, ma perché, se non la si accetta la prima volta, si avranno delle conseguenze, solitamente molto sanguinose. E infatti nel dialogo in cui viene citato questo elemento si dice anche

Luca Brasi held a gun to his head, and my father assured him that either his brains – or his signature – would be on the contract.

Luca gli puntò una pistola alla testa e mio padre disse che su quel documento ci sarebbe stata la sua firma, oppure il suo cervello. 

Un’altra scena assolutamente iconica è quella della testa del cavallo nel letto. Una sequenza ottimamente costruita, introducendo prima il cavallo e mostrandolo come qualcosa di prezioso per la vittima, che pagherà le conseguenze per il rifiuto alle richieste del Padrino.

La scena è un climax sensazionale, sia per la regia che dalla musica utilizzata, con infine la chiusa incorniciata dalle urla di orrore di John Marley. Una scena di una tale violenza visiva e sonora che non poteva non rimanere nell’immaginario collettivo, per poi essere citata da innumerevoli prodotti successivi.

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Commedia romantica Dramma storico Drammatico Film Film Primavera 2022

Emma. – Rimanere coi piedi per terra

Emma. (2020) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, diretto da Autumn de Wilde, fotografa statunitense nota per i suoi ritratti e per la regia di videoclip musicali, nella sua prima opera cinematografica.

Purtroppo la pellicola uscì proprio in concomitanza con l’inizio della pandemia, quindi incassò veramente poco: appena 26 milioni di dollari, pur non risultando un flop per il budget contenuto – 10 milioni.

Di cosa parla Emma.

La protagonista della pellicola è Emma, giovane nobildonna inglese non ancora sposata, ma molto abile a tessere le relazioni altrui. In particolare si preoccupa di far sposare la sua protetta, Harriet.

Da qui seguono diversi intrighi e vicissitudini che coinvolgeranno la protagonista ed un ampio gruppo di personaggi secondari.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Emma.?

Mia Goth e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Assolutamente sì.

Emma. ed è tutto quello che potreste aspettarvi da Jane Austen: una storia romantica di matrimoni e intrighi nel contesto della piccola nobiltà inglese. Ma il suo merito è non scadere nel facile dramma che caratterizza spesso prodotti di questo tipo, e, sopratutto, non cercare di attualizzare le vicende.

Al contempo è anche una commedia frizzante e divertente, che intrattiene facilmente e dimostra come sia possibile portare in scena un dramma storico con una storia avvincente e articolata, senza dover scadere in banalità o in esagerazioni fuori contesto e luogo.

L’abito fa il monaco

Mia Goth e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Emma è in una posizione sociale superiore alla maggior parte dei personaggi, e sfrutta appunto questo suo potere per tessere le relazioni delle persone che gli stanno intorno. La sua posizione sociale prominente è evidente in ogni scena, soprattutto in quelle in cui è nel mezzo di personaggi che sono socialmente inferiori a lei.

La scelta dei costumi in questo senso è azzeccatissima.

Infatti, i personaggi di una classe più elevata si notano subito, soprattutto quelli femminili, per via di un abbigliamento più chiassoso e ricco, mentre i personaggi più socialmente svantaggiati indossano abiti più umili e contenuti.

Il percorso di Emma

Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Emma è un personaggio incredibilmente tridimensionale.

Compie un interessante percorso di crescita e consapevolezza, e il suo punto di arrivo non è né il matrimonio né l’innamoramento. Il fine della sua storia è infatti quello di comprendere la sua posizione e di non abusarne malignamente.

Il momento della realizzazione è quando deride pubblicamente Mrs. Bates, la quale, per la sua posizione inferiore, non può controbatterle.

E così Emma capisce di non voler diventare una persona sgradevole e vanesia come Mrs. Elton, la moglie del canonico, ma anzi di voler appunto usare la sua posizione per aiutare gli altri. Fra l’altro questo aspetto del suo carattere era il motivo Mr. Knightley si era innamorato di lei.

Un casting particolare

Callum Turner e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Scelta peculiare quella del casting dei protagonisti: per quanto consideri Anya Taylor Joy di una bellezza quasi divina, non ha comunque un volto convenzionalmente gradevole, anzi.

Il suo volto presenta dei tratti molto marcati e particolari, che la rendono una splendida scelta per il ruolo. Così Johnny Flynn, che incarna più l’ideale di bellezza del periodo che quella odierna: labbra pronunciate, sguardo assorto, capigliatura tormentata.

Al contrario, Callum Turner, che interpreta Mr. Churchill e che abbiamo (purtroppo) visto recentemente che in Animali fantastici: I segreti di Silente (2022), presenta una bellezza più convenzionale. Ma è totalmente funzionale alla trama: Emma, oltre anche per l’idea che si è fatta su di lui, deve esserne immediatamente ammaliata.

Personaggi secondari esplosivi

Josh O'Connor e Tanya Reynolds in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

La pellicola può godere di personaggi secondari scoppiettanti.

Anzitutto Mr. Woodhouse, il padre di Emma, interpretato da un esplosivo Bill Nighy, che ricorderete sicuramente per essere stato il Ministro della Magia a partire da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (2009).

Un uomo che spinge la figlia a non sposarsi per non abbandonarlo, ma alla fine dà indirettamente la sua benedizione alla nascente coppia, barricandosi dietro ben due paraventi per concedere loro un po’ di intimità.

Così Josh O’Connor, che interpreta il canonico: viscido e macchinatore, con una presenza scenica al limite del grottesco, e che ben si sposa con la maligna stravaganza di Augusta, la moglie nuova di zecca che si procura dopo il rifiuto di Emma.

Due personaggi sgradevoli e bizzarri in maniera davvero spassosa.

Inoltre, Tanya Reynolds (Augusta) e Connor Swindells (Robert Martin) insieme a Josh O’Connor (Il canonico) sono tutti presi da Netflix: gli ultimi due da Sex Education (rispettivamente Lily e Adam) e Josh O’Connor lo ricorderete per aver interpretato Carlo, figlio di Elisabetta, nelle ultime due stagioni di The Crown.

L’innamoramento

Johnny Flynn e Anya Taylor Joy in una scena del film Emma. (2020) diretto da Autumn de Wilde e tratto dal romanzo di Jane Austen

Anche se potrebbe sembrare, la storia d’amore rappresentata non è la classica situazione enemy to lovers.

Infatti, Emma e Mr. Knightley sono amici da tempo per legami familiari, e lui, sapendo che a lei piace essere l’ape regina che controlla tutti e che è sempre al centro dell’attenzione, la punzecchia (per esempio esaltando la raffinatezza di Jane), ma cerca anche di riportarla coi piedi per terra, come nel caso della questione del matrimonio fra Harriet e Mr. Elton.

La seconda metà del film è il momento dell’innamoramento: Mr. Knightley mostra di apprezzare profondamente Emma, non solo per la sua bellezza, ma per altre doti intellettive e sociali, come fra l’altro Emma si aspettava da lui.

Nella scena del ballo a casa di Mr. Weston si percepisce una tensione di erotica non indifferente, che fortunatamente non si conclude in una scena di sesso anacronistica e volgare come in altri prodotti.

E alla fine arriva l’inevitabile dichiarazione d’amore, con una scena profondamente romantica e tormentata. Ma il momento è rimandato dall’urgenza di Emma di risolvere i suoi errori e di far sposare Harriet con Mr. Martin, intervenendo in prima persona.

E solo in chiusura del film il loro rapporto viene concretizzato, fra l’altro sdrammatizzando col già citato piccolo siparietto comico del padre di Emma. E non potrò mai ringraziare abbastanza questa pellicola di non essersi persa nel facile dramma strappalacrime, ma di essersi invece impegnata nella costruzione di un rapporto credibile e ben raccontato.

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Animazione Animazione giapponese Avventura Dramma storico Drammatico Fantasy Film Film Primavera 2022

La storia della principessa splendente – La difficoltà di raccontare una favola

La storia della principessa splendente (2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.

Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.

Di cosa parla La storia della principessa splendente?

La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?

Dipende.

In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.

L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.

Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.

Una tecnica unica

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

La tecnica di animazione de La storia della principessa splendente è assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.

Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.

Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.

A me personalmente ha convinto a metà.

Una favola, un archetipo

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.

Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.

Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.

In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.

La durata immensa

La principessa splendente in una scena del film La storia della principessa splendente (2013) diretto da Isao Takahata

Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.

D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.

La storia della principessa splendente

L’approfondimento dell’esperta

La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.

Il contesto storico

Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.

La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.

Il motivo della riscrittura

La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.

Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.

Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?

In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.

Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.

Un finale diverso

La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.

La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.

Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.

Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.

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Dramma storico Drammatico Film Film Primavera 2022

Marie Antoinette – Morte all’austriaca

Marie Antoinette (2006) è uno dei primi film di Sofia Coppola, e uno dei miei preferiti della sua produzione.

A fronte di un budget abbastanza consistente – 40 milioni – fu un discreto flop: appena 60 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Marie Antoinette

La giovanissima Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria, viene catapultata nella realtà della Corte di Versailles, un luogo a lei particolarmente antagonistico…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Marie Antoinette?

Mary Nighy, Kirsten Dunst e Judy Davis in una scena del film Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola

Assolutamente sì.

Anche se il trailer lo fa sembrare un dramma in costume di seconda categoria, in realtà è molto di più: Sofia Coppola ha voluto rivisitare l’estetica del periodo con colori molto carichi e canzoni pop di sottofondo.

Ma non eccedendo mai in questo senso.

Anzi, il suo tocco registico ben si adatta al contesto storico, riuscendo anzi ad alleggerire la pesantezza complessiva della vicenda. Non un film non del tutto leggero o spensierato, ma un racconto profondamente autoriale e con tematiche non del tutto semplici.

Tuttavia, anche se la storia procede abbastanza speditamente, ricca di avvenimenti, manca di quel drama che potrebbe tenervi facilmente attaccati allo schermo.

Raccontare Marie Antoinette

Raccontare Marie Antoinette non è semplice.

La sua figura è stata inquinata dai fiumi di inchiostro versati degli intellettuali del tempo (e oltre): l’ultima regina di Francia divenne un capro espiatorio della Rivoluzione Francese, fu odiata dentro e fuori Versailles perché austriaca (e quindi straniera).

E, sopratutto, divenne simbolo di tutti gli eccessi della nobiltà dell’ancien regime.

Invece, se ci informa da fonti più super partes, Maria Antonietta era quella che si vede nel film: una ragazza molto semplice, financo frivola, per nulla pronta alle responsabilità che le furono messe sulle spalle.

Inoltre, non volle mai essere una spia per la sua patria né si interessò mai di politica. Preferì invece godersi il suo lusso e i suoi privilegi, nonostante l’ambiente soffocante della corte di Francia e i suoi problemi matrimoniali.

La regista ha infatti reso la figura di Maria Antonietta il più vicino possibile alla realtà storica, andando anche a smentire i pettegolezzi che la circondarono per secoli, portando un personaggio tridimensionale e ben esplorato.

Un matrimonio disastrato?

Altra finezza della sceneggiatura è di aver raccontato nella maniera più credibile e storicamente accurata il rapporto fra Luigi XVI e Maria Antonietta.

Infatti, il loro matrimonio non andava in porto non perché il Delfino disprezzasse la moglie, ma perché aveva un blocco con lei in quanto austriaca. Per questo ho preferito vedere Luigi XVI interessato più alle sue passioni e molto meno al rapporto sessuale con la moglie.

Sarebbe stato piuttosto facile raccontare – sbagliando – un marito crudele e vendicativo che si intratteneva con altre donne, ignorando la sua sposa. Invece si mostra come la loro relazione si costruì col tempo, arrivando se non all’amore, quantomeno ad un rapporto di affetto e di rispetto reciproco.

Splendido sempre in questo senso il modo in cui viene raccontata la loro relazione sessuale: per nulla smaccato o volgare, ma anzi genuinamente divertente e sottile.

Gli eccessi della nobiltà

Kirsten Dunst in una scena del film Marie Antoinette (2006) di Sofia Coppola

Altro elemento fondamentale è la rappresentazione di Versailles.

Un luogo di frivolezza, formalità al limite dell’assurdo ed un pettegolezzo continuo. Quindi la realizzazione del sogno del Re Sole, Luigi XIV, che portò tutti i nobili di Francia presso la sua corte per poterli controllare e di fatto privare del loro potere politico.

E infatti non vediamo mai questi personaggi complottare politicamente, ma solo vivere una vita dissoluta e frivolissima, interessati solo all’ultima chiacchiera e all’ultimo scandalo di corte.

Gli unici personaggi che parlano di politica, e in pochissime scene, sono Luigi XVI e i suoi collaboratori, e vagamente anche Maria Teresa alla nipote Maria Antonietta.

Tuttavia, come anticipato, non si racconta una nobiltà dissoluta al limite della volgarità, magari con scene di sesso piuttosto spinte come in altri prodotti già citati. Le scene di sesso ci sono, ma sono rese piuttosto artisticamente e ben amalgamate all’interno del contesto raccontato.