1962, Stati Uniti. Dopo un importante lutto familiare, Neil Armstrong, il primo uomo che metterà piede sulla Luna, entra a far parte del progetto Gemini della NASA e la sua corsa disperata verso lo spazio.
Un viaggio per nulla semplice, e molto meno glorioso di quello che si potrebbe pensare…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Perchè First man è stato un flop e perché guardarlo comunque
Dipende.
Il flop di First man è facilmente spiegabile: Chazelle, invece che piegarsi al successo di La La Land, ha deciso di sperimentare con un genere diverso.
E ha prodotto una pellicola sublime, con una tecnica registica di altissimo livello, ma decisamente molto meno spendibile per il grande pubblico. Il film è infatti drammaticamente lento, ma con una lentezza voluta e necessaria.
E infatti va visto con calma, prendendosi il suo stesso tempo. E va vista perché è una pellicola spettacolare, con una tecnica e una scrittura che si avvicina a certi capolavori di Lars von Trier. Non a caso a me ha ricordato per certi aspetti Melanchonia(2011).
Quindi prendetevi il vostro tempo, ma guardatelo.
Storia di un fallimento
Soprattutto se non si fa parte della generazione che visse il periodo, è difficile immaginarsi il clima che circondò l’Allunaggio.
In piena guerra fredda, con questa isteria collettiva di contrasto alla Russia che si vede anche ne Il gigante di ferro(1999), e davanti ad una scia di morti e fallimenti che guastarono la credibilità del progetto. E, di conseguenza, un generale malumore dell’opinione pubblica.
Perché effettivamente per l’uomo comune statunitense esplorare lo spazio non era una grande scommessa.
E non lo è neanche per i contemporanei: basta solo pensare che gli astronauti che esploreranno altri pianeti oltre la Luna non sono, con ogni probabilità, ancora nati. E chissà quante generazioni passeranno prima che potremo vivere oltre la Terra o almeno sfruttare le risorse che gli altri pianeti ci offrono.
Fatte queste premesse, è più facile immedesimarsi nel sentimento popolare del tempo.
L’uomo sulla luna
Il racconto di Neil Armstrong è drammatico ma necessario: non un eroe, ma un uomo come tanti, con una situazione familiare complessa, e, soprattutto, un uomo assolutamente fallibile.
Si evita insomma un tipo di narrazione di predestinazione, come si può vedere in film molto più commerciali come Captain America (2011). L’unico elemento di predestinazione in qualche misura è il fatto che il protagonista guarda sempre verso la Luna.
Ma perché Luna è un luogo lontano, quasi rassicurante, dove per un attimo Neil può davvero distaccarsi dai suoi problemi terreni, dove può finalmente dirgli addio. Toccante la scena in cui si lascia scivolare dalle dita il braccialetto della figlia, di cui non aveva mai più parlato, ma la cui morte l’aveva profondamente turbato per quasi dieci anni.
E infine si riconcilia con la moglie, che accetta la sua mano tesa.
Una regia perfetta
Quando parlo di una regia perfetta non credo di esagerare: non poteva esserci una tecnica migliore di questa per raccontare questo tipo di storia. Chazelle fa infatti grande uso della camera a mano, dando un taglio molto intimo alla maggior parte delle scene.
E, con il suo continuo e sublime uso dei primi piani stretti e strettissimi, il suo indugiare sui particolari, fa sentire lo spettatore come se fosse veramente in quella stanza, in quella astronave, ad osservare la scena.
Ancora più splendida la scelta della rappresentazione dello sbarco: sulla Luna non ci sono rumori e, quando si incammina, Armstrong non può sentire nient’altro che se stesso, il proprio respiro affannoso.
Il Padrino (1972) è il primo film della trilogia cult omonima, diretta da Francis Ford Coppola. Considerato uno dei maggiori capolavori della Storia del Cinema, il film rilanciò Marlon Brando come attore e fece al contempo conoscere Al Pacino, fino a quel momento sostanzialmente sconosciuto, a livello internazionale.
Al tempo fu un incredibile successo commerciale: 243 milioni di incasso a fronte di un budget ridottissimo, circa 6 milioni. Fu candidato anche a ben 10 oscar, vincendone tre, e divenne un cult immortale nell’immaginario collettivo.
Di cosa parla Il Padrino
New York, 1946. Vito Corleone è a capo di una importante e potentissima famiglia mafiosa. La sua vita è scandita da una intricata rete di scambio di favori criminali, che terminano spesso con atti violenti…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché guardare Il Padrino anche oggi?
Il Padrino è un’opera irrinunciabile. Non solamente perché è un film assolutamente iconico ancora oggi, ma perché è un prodotto di altissimo livello, con interpreti che hanno regalato prove attoriali indimenticabili.
E, soprattutto, rivedere le frasi e le scene iconiche nel contesto del film gli dà tutto un altro sapore.
Tuttavia,Il Padrino non è un film per nulla semplice: oltre alla durata decisamente importante della pellicola, è un film che va seguito con molta attenzione per non perdersi nel marasma di nomi e di rapporti racconti.
Tuttavia, prendetevi un pomeriggio e regalatevi questa esperienza: non ve ne pentirete.
Vito Corleone: Il primo padrino
Come detto, Vito Corleone appare inizialmente come il centro dell’azione. Parallelamente alla realtà festosa e felice del matrimonio della figlia, il Padrino deve gestire la processione di persone che gli chiedono i favori più disparati, la maggior parte con una componente violenta e omicida.
A primo impatto lo spettatore non assocerebbe mai a questa figura così contenuta e riflessiva a degli atti di tale violenza, come la famosa testa di cavallo nel letto.
Proprio per questo probabilmente Vito si è capo della famiglia, divenendo punto di riferimento come figura saggia e imperscrutabile. Riuscendo in ultimo anche a salvare la vita del figlio, Michael, rivelandogli come scovare il chi l’ha tradito.
Marlon Brando è riuscito a regalare una performance che è divenuta immediatamente iconica, per l’incredibile posatezza e particolarità del personaggio, che gli valse infatti la statuetta agli Oscar come Miglior Attore Protagonista.
Michael Corleone: l’erede
Michael Corleone viene sapientemente presentato come personaggio di contorno, che decide consapevolmente di non partecipare agli affari di famiglia.
Il primo momento di azione è l’omicidio di Sollozzo: Michael si presenta alle sue vittime come le persone al di fuori dei fatti, assolutamente innocuo, a differenza dell’animoso fratello, Sonny.
E infatti tutta la scena dimostra un Michael impacciato, con la mano tremante e indecisa sul da farsi.
Ma che infine agisce.
La trasformazione definitiva avviene durante il periodo in Sicilia. Il suo primo scambio da boss è con il padre della sua prima moglie, Apollonia. Michael aveva infatti notato la ragazza e che l’aveva subito scelta come sua sposa.
Così, adottando l’atteggiamento posato e la fermezza dello sguardo del padre, contratta.
E vince.
Da qui in poi il suo volto diventerà sempre più imperscrutabile, con questi occhi vitrei e minacciosi.
L’atto finale è il ritorno a New York: dopo la morte di Sonny, Michael acquista sempre più potere e comincia a riordinare gli affari di famiglia: prima il giuramento davanti al prete per il battesimo della sorella, con un montaggio alternato che mostra tutti gli omicidi a sangue freddo di cui è il mandante.
E infine la scena di chiusura, in cui viene definitivamente riconosciuto come il nuovo Padrino, con gli astanti gli baciano le mani.
La rappresentazione degli italoamericani
Uno scoglio non da poco per il film era raccontare la realtà della mafia italo americana in maniera che non fosse stereotipata e appiattita, come abbiamo visto anche in prodotti come House of Gucci (2021).
Cominciamo col dire che ovviamente alcuni passaggi faranno sanguinare le orecchie a qualunque italiano, anche solamente per Corleone pronunciato Corleoni.
Tuttavia, ne Il Padrino comunità italo americana è in realtà ben raccontata. Infatti nella maggior parte delle scene si parla in inglese, con qualche parola e frase in italiano di tanto in tanto.
L’unica eccezione sono alcuni personaggi che parlano principalmente in italiano, ma che sono attori effettivamente italiani e in un contesto, come quello della fuga siciliana di Michael, che lo giustifica. Una rappresentazione per una volta credibile, insomma.
Anzi, nota di merito alla scelta di rendere la difficoltà di Michael di parlare in italiano quando appunto si trova in Sicilia, con una pronuncia stentata e inquinata dalla sua parlata americana.
Cosa, complessivamente, non mi ha convinto
Ci sono due aspetti che non mi hanno del tutto convinto della pellicola o che comunque mi hanno reso difficoltosa la visione.
Anzitutto, la quantità di nomi e personaggi raccontati, in cui ho fatto fatica ad orientarmi. Ho infatti avuto qualche problema nel finale a capire quali fossero i personaggi più importanti del tradimento.
Così, lo scorrere del tempo.
Nonostante sia abbastanza chiaro, se non fosse per gli indizi visivi in scena (come il bambino di circa un anno di Michael e Kay) non avrei mai percepito effettivamente il passaggio del tempo, di cui non ho colto appieno il senso di alcune ellissi, che mi sono parse futili.
Le citazioni iconiche
All’interno della pellicola ci sono due momenti assolutamente iconici, ma che acquisiscono veramente significato quando vengono contestualizzati nella pellicola.
Questa famosissima citazione è quanto più interessante se contestualizzata: non si può rifiutare l’offerta del Padrino non perché sia assolutamente conveniente, ma perché, se non la si accetta la prima volta, si avranno delle conseguenze, solitamente molto sanguinose. E infatti nel dialogo in cui viene citato questo elemento si dice anche
Un’altra scena assolutamente iconica è quella della testa del cavallo nel letto. Una sequenza ottimamente costruita, introducendo prima il cavallo e mostrandolo come qualcosa di prezioso per la vittima, che pagherà le conseguenze per il rifiuto alle richieste del Padrino.
La scena è un climax sensazionale, sia per la regia che dalla musica utilizzata, con infine la chiusa incorniciata dalle urla di orrore di John Marley. Una scena di una tale violenza visiva e sonora che non poteva non rimanere nell’immaginario collettivo, per poi essere citata da innumerevoli prodotti successivi.
Emma. (2020) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Jane Austen, diretto da Autumn de Wilde, fotografa statunitense nota per i suoi ritratti e per la regia di videoclip musicali, nella sua prima opera cinematografica.
Purtroppo la pellicola uscì proprio in concomitanza con l’inizio della pandemia, quindi incassò veramente poco: appena 26 milioni di dollari,pur non risultando un flop per il budget contenuto – 10 milioni.
Di cosa parla Emma.
La protagonista della pellicola è Emma, giovane nobildonna inglese non ancora sposata, ma molto abile a tessere le relazioni altrui. In particolare si preoccupa di far sposare la sua protetta, Harriet.
Da qui seguono diversi intrighi e vicissitudini che coinvolgeranno la protagonista ed un ampio gruppo di personaggi secondari.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Emma.?
Assolutamente sì.
Emma. ed è tutto quello che potreste aspettarvi da Jane Austen: una storia romantica di matrimoni e intrighi nel contesto della piccola nobiltà inglese. Ma il suo merito è non scadere nel facile dramma che caratterizza spesso prodotti di questo tipo, e, sopratutto, non cercare di attualizzare le vicende.
Al contempo è anche una commedia frizzante e divertente, che intrattiene facilmente e dimostra come sia possibile portare in scena un dramma storico con una storia avvincente e articolata, senza dover scadere in banalità o in esagerazioni fuori contesto e luogo.
L’abito fa il monaco
Emma è in una posizione sociale superiore alla maggior parte dei personaggi, e sfrutta appunto questo suo potere per tessere le relazioni delle persone che gli stanno intorno. La sua posizione sociale prominente è evidente in ogni scena, soprattutto in quelle in cui è nel mezzo di personaggi che sono socialmente inferiori a lei.
La scelta dei costumi in questo senso è azzeccatissima.
Infatti, i personaggi di una classe più elevata si notano subito, soprattutto quelli femminili, per via di un abbigliamento più chiassoso e ricco, mentre i personaggi più socialmente svantaggiati indossano abiti più umili e contenuti.
Il percorso di Emma
Emma è un personaggio incredibilmente tridimensionale.
Compie un interessante percorso di crescita e consapevolezza, e il suo punto di arrivo non è né il matrimonio né l’innamoramento. Il fine della sua storia è infatti quello di comprendere la sua posizione e di non abusarne malignamente.
Il momento della realizzazione è quando deride pubblicamente Mrs. Bates, la quale, per la sua posizione inferiore, non può controbatterle.
E così Emma capisce di non voler diventare una persona sgradevole e vanesia come Mrs. Elton, la moglie del canonico, ma anzi di voler appunto usare la sua posizione per aiutare gli altri. Fra l’altro questo aspetto del suo carattere era il motivo Mr. Knightley si era innamorato di lei.
Un casting particolare
Scelta peculiare quella del casting dei protagonisti: per quanto consideri Anya Taylor Joy di una bellezza quasi divina, non ha comunque un volto convenzionalmente gradevole, anzi.
Il suo volto presenta dei tratti molto marcati e particolari, che la rendono una splendida scelta per il ruolo. Così Johnny Flynn, che incarna più l’ideale di bellezza del periodoche quella odierna: labbra pronunciate, sguardo assorto, capigliatura tormentata.
Al contrario, Callum Turner, che interpreta Mr. Churchill e che abbiamo (purtroppo) visto recentemente che in Animali fantastici: I segreti di Silente (2022), presenta una bellezza più convenzionale. Ma è totalmente funzionale alla trama: Emma, oltre anche per l’idea che si è fatta su di lui, deve esserne immediatamente ammaliata.
Personaggi secondari esplosivi
La pellicola può godere di personaggi secondari scoppiettanti.
Anzitutto Mr. Woodhouse, il padre di Emma, interpretato da un esplosivo Bill Nighy, che ricorderete sicuramente per essere stato il Ministro della Magia a partire da Harry Potter e il Principe Mezzosangue (2009).
Un uomo che spinge la figlia a non sposarsi per non abbandonarlo, ma alla fine dà indirettamente la sua benedizione alla nascente coppia, barricandosi dietro ben due paraventi per concedere loro un po’ di intimità.
Così Josh O’Connor, che interpreta il canonico: viscido e macchinatore, con una presenza scenica al limite del grottesco, e che ben si sposa con la maligna stravaganza di Augusta, la moglie nuova di zecca che si procura dopo il rifiuto di Emma.
Due personaggi sgradevoli e bizzarri in maniera davvero spassosa.
Inoltre, Tanya Reynolds (Augusta) e Connor Swindells (Robert Martin) insieme a Josh O’Connor (Il canonico) sono tutti presi da Netflix: gli ultimi due da Sex Education(rispettivamente Lily e Adam) e Josh O’Connor lo ricorderete per aver interpretato Carlo, figlio di Elisabetta, nelle ultime due stagioni di The Crown.
L’innamoramento
Anche se potrebbe sembrare, la storia d’amore rappresentata non è la classica situazione enemyto lovers.
Infatti, Emma e Mr. Knightley sono amici da tempo per legami familiari, e lui, sapendo che a lei piace essere l’ape regina che controlla tutti e che è sempre al centro dell’attenzione, la punzecchia (per esempio esaltando la raffinatezza di Jane), ma cerca anche di riportarla coi piedi per terra, come nel caso della questione del matrimonio fra Harriet e Mr. Elton.
La seconda metà del film è il momento dell’innamoramento: Mr. Knightley mostra di apprezzare profondamente Emma, non solo per la sua bellezza, ma per altre doti intellettive e sociali, come fra l’altro Emma si aspettava da lui.
Nella scena del ballo a casa di Mr. Weston si percepisce una tensione di erotica non indifferente, che fortunatamente non si conclude in una scena di sesso anacronistica e volgare come in altri prodotti.
E alla fine arriva l’inevitabile dichiarazione d’amore, con una scena profondamente romantica e tormentata. Ma il momento è rimandato dall’urgenza di Emma di risolvere i suoi errori e di far sposare Harriet con Mr. Martin, intervenendo in prima persona.
E solo in chiusura del film il loro rapporto viene concretizzato, fra l’altro sdrammatizzando col già citato piccolo siparietto comico del padre di Emma. E non potrò mai ringraziare abbastanza questa pellicola di non essersi persa nel facile dramma strappalacrime, ma di essersi invece impegnata nella costruzione di un rapporto credibile e ben raccontato.
La storia della principessa splendente(2013) è un lungometraggio animato nipponico, opera di Isao Takahata, uno degli animatori di punta dello Studio Ghibli.
Una produzione lunghissima: otto anni, di cui solo cinque per lo storyboard. All’uscita in sala ottenne incassi discreti, ma un grande riconoscimento di pubblico e critica.
Di cosa parla La storia della principessa splendente?
La principessa splendente, trovata per caso da un tagliatore di bambù all’interno di un fusto, la principessa è un essere magico che cresce a velocità incredibile. Ma diventa anche in fretta un oggetto del desiderio…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere La storia della principessa splendente?
Dipende.
In generale, consiglierei questa pellicola a persone che hanno già dimestichezza con lo Studio Ghibli e con un tipo di animazione giapponese piuttosto riflessiva e legata all’elemento magico ed enigmatico.
L’ho trovato tra i film più difficili per questa casa di produzione, ma comunque un tassello importante nella storia della stessa.
Se non ve la sentite di approcciarvi a questo tipo di visione, cosa assolutamente comprensibile, vi consiglio di provare altri prodotti più accessibili dello Studio. Sicuramente non è la pellicola che consiglierei a chi si approccia per la prima volta a questa produzione o addirittura all’animazione giapponese in toto.
Una tecnica unica
La tecnica di animazione de La storia della principessa splendenteè assolutamente unica, almeno secondo la mia esperienza.
Si ispira evidentemente ai dipinti su rotolo della tradizione giapponese, portando personaggi definiti con pochi tratti, talvolta addirittura caricaturali, dispersi su grandi spazi bianchi.
Questa tecnica di animazione non è neanche del tutto nuova allo Studio Ghibli: molti dei film di questa casa di produzione hanno degli sfondi che sembrano dei dipinti. In questo caso il risultato è di grande raffinatezza, che può piacere o meno a seconda del proprio gusto.
A me personalmente ha convinto a metà.
Una favola, un archetipo
Essendo una favola, è evidentemente un racconto archetipico, in cui è facile riconoscere degli stilemi piuttosto comuni sia nel cinema occidentale che orientale.
Questo aspetto può essere più o meno di vostro gusto, a seconda anche di quanto conoscete o volete conoscere del folklore giapponese e di un tipo di impostazione così tanto favolistico.
Oltre a questo, la pellicola racconta anche una cultura antichissima, profondamente sessista e segregante per entrambi i sessi, tanto che la principessa è per molto tempo tenuta quasi prigioniera all’interno del palazzo.
In questo senso torna un tema molto caro allo Studio Ghibli, ovvero il contrasto fra la realtà urbana e artificiosa e quella naturale e più genuina.
La durata immensa
Visto che la storia è allungata moltissimo rispetto all’opera originaria, la pellicola è appesantita da una durata veramente immensa. Inoltre, nonostante l’apparente semplicità della trama, verso la fine il film diventa complesso e non facile da seguire.
D’altra parte, il tipo di trama archetipica, quindi per certi versi veramente prevedibile, toglie in parte godibilità alla visione. Infatti, per la maggior parte del tempo, possiamo già intuire le svolte di trama.
La storia della principessa splendente
L’approfondimento dell’esperta
La pellicola è tratta da un racconto anonimo risalente al X secolo, tradizionalmente considerato il primo esempio di monogatari, un genere fondamentale per la letteratura giapponese classica.
Il contesto storico
Nel X secolo il Giappone si trovava in piena epoca Heian, un periodo di pace e di fioritura delle arti. Le uniche testimonianze giunte fino a noi sono quelle della vita di corte, che raccontano una società poligamica.
La norma era infatti che un uomo avesse una moglie ufficiale e varie concubine, mentre la poligamia delle donne era solo sopportata. Una realtà omosociale, ossia c’era una netta divisione tra gli ambienti maschili e quelli femminili, i quali non si intersecavano mai, se non di notte, quando l’uomo raggiungeva in segreto l’amante.
Il motivo della riscrittura
La trama del Taketori monogatari è molto ampliata nel film, soprattutto per la prima parte, che racconta una situazione di iniziale equilibrio e pace: della vita in campagna con la famiglia adottiva e agli amici nel testo originale non vi è traccia.
Di conseguenza le scene di conflitto tra il padre e Kaguyahime (lett. principessa splendente) che si fondano sulla nostalgia della vita agreste, più semplice e autentica, non avevano motivo di esistere.
Perché allora riscrivere la storia originale, allungandola e rischiando di risultare pesanti?
In effetti un motivo c’è: il finale del Taketori monogatari non è lieto perché, secondo le interpretazioni, sarebbe una sorta di punizione per aver violato la netta separazione tra terreno e alieno, avvenuta nel momento stesso in cui il tagliabambù ha deciso di accogliere nella sua vita lo spirito della principessa.
Dalla rottura di questo tabù (ricorrente nella cultura giapponese antica) nascevano i conflitti del testo fino al ritorno di Kaguyahime al regno della luna, causa di grandissimo dolore per i genitori.
Un finale diverso
La pellicola vuole invece fare luce su un altro tipo di conflitto: il contrasto tra la bellezza altra e la sofferenza terrena viene riadattato e applicato al contrasto tra natura e urbanizzazione.
La vita in campagna era idilliaca, perfetta, semplice; quella nella capitale finta, costrittiva, crudele. Da qui nasce la brama della protagonista di ritornare ai luoghi della sua giovinezza, che scoprirà poi essere irrimediabilmente diversi: muore in lei anche la speranza della nostalgia.
Questo film, come molti altri dello studio Ghibli, presenta una pesante critica dello stile di vita moderno ed evoluto e allo stesso tempo piange la perdita di uno più antico e idealizzato.
Per dare questo effetto si è manipolato il principio estetico di epoca Heian detto mono no aware, concetto di difficile traduzione che indica il senso di meraviglia misto a nostalgia che gli animi sensibili provano di fronte alla bellezza della natura in relazione alla sua caducità.
La giovanissima Maria Antonietta, figlia di Maria Teresa d’Austria, viene catapultata nella realtà della Corte di Versailles, un luogo a lei particolarmente antagonistico…
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Vale la pena di vedere Marie Antoinette?
Assolutamente sì.
Anche se il trailer lo fa sembrare un dramma in costume di seconda categoria, in realtà è molto di più: Sofia Coppola ha voluto rivisitare l’estetica del periodo con colori molto carichi e canzoni pop di sottofondo.
Ma non eccedendo mai in questo senso.
Anzi, il suo tocco registico ben si adatta al contesto storico, riuscendo anzi ad alleggerire la pesantezza complessiva della vicenda. Non un film non del tutto leggero o spensierato, ma un racconto profondamente autoriale e con tematiche non del tutto semplici.
Tuttavia, anche se la storia procede abbastanza speditamente, ricca di avvenimenti, manca di quel drama che potrebbe tenervi facilmente attaccati allo schermo.
Raccontare Marie Antoinette
Raccontare Marie Antoinette non è semplice.
La sua figura è stata inquinata dai fiumi di inchiostro versati degli intellettuali del tempo (e oltre): l’ultima regina di Francia divenne un capro espiatoriodella Rivoluzione Francese, fu odiata dentro e fuori Versailles perché austriaca (e quindi straniera).
E, sopratutto, divenne simbolo di tutti gli eccessi della nobiltà dell’ancien regime.
Invece, se ci informa da fonti più super partes, Maria Antonietta era quella che si vede nel film: una ragazza molto semplice, financo frivola, per nulla pronta alle responsabilità che le furono messe sulle spalle.
Inoltre, non volle mai essere una spia per la sua patria né si interessò mai di politica. Preferì invece godersi il suo lusso e i suoi privilegi, nonostante l’ambiente soffocante della corte di Francia e i suoi problemi matrimoniali.
La regista ha infatti reso la figura di Maria Antonietta il più vicino possibile alla realtà storica, andando anche a smentire i pettegolezzi che la circondarono per secoli, portando un personaggio tridimensionale e ben esplorato.
Un matrimonio disastrato?
Altra finezza della sceneggiatura è di aver raccontato nella maniera più credibile e storicamente accurata il rapporto fra Luigi XVI e Maria Antonietta.
Infatti, il loro matrimonio non andava in porto non perché il Delfino disprezzasse la moglie, ma perché aveva un blocco con lei in quanto austriaca.Per questo ho preferito vedere Luigi XVI interessato più alle sue passioni e molto meno al rapporto sessuale con la moglie.
Sarebbe stato piuttosto facile raccontare – sbagliando – un marito crudele e vendicativo che si intratteneva con altre donne, ignorando la sua sposa. Invece si mostra come la loro relazione si costruì col tempo, arrivando se non all’amore, quantomeno ad un rapporto di affetto e di rispetto reciproco.
Splendido sempre in questo senso il modo in cui viene raccontata la loro relazione sessuale: per nulla smaccato o volgare, ma anzi genuinamente divertente e sottile.
Gli eccessi della nobiltà
Altro elemento fondamentale è la rappresentazione di Versailles.
Un luogo di frivolezza, formalità al limite dell’assurdo ed un pettegolezzo continuo. Quindi la realizzazione del sogno del Re Sole, Luigi XIV, che portò tutti i nobili di Francia presso la sua corte per poterli controllare e di fatto privare del loro potere politico.
E infatti non vediamo mai questi personaggi complottare politicamente, ma solo vivere una vita dissoluta e frivolissima, interessati solo all’ultima chiacchiera e all’ultimo scandalo di corte.
Gli unici personaggi che parlano di politica, e in pochissime scene, sono Luigi XVI e i suoi collaboratori, e vagamente anche Maria Teresa alla nipote Maria Antonietta.
Tuttavia, come anticipato, non si racconta una nobiltà dissoluta al limite della volgarità, magari con scene di sesso piuttosto spinte come in altri prodotti già citati. Le scene di sesso ci sono, ma sono rese piuttosto artisticamente e ben amalgamate all’interno del contesto raccontato.
The Northman (2022) è l’ultima pellicola diretta da Robert Eggers, cineasta attivo solo da pochi anni, ma che ha già lasciato un’impronta importantissima nel mondo del cinema. Infatti le sue due prime pellicole, The Witch (2015) e The Lighthouse (2021), sono dei piccoli capolavori.
The Northman è il primo prodotto ad alto budget in cui Eggers viene coinvolto, riuscendo comunque a mantenere la sua inconfondibile forma autoriale. Tuttavia, essersi aperto al cinema mainstream potrebbe non essere la scelta migliore per questo regista.
Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla The Northman
La trama prende ispirazione dall’Amleto di Shakespeare ed è ambientata nell’Europa del Nord del X sec. a. C. Il giovane Amleth è il primogenito ed erede al trono della dinastia del padre, il Re Corvo. Il genitore viene tuttavia ucciso davanti ai suoi occhi da un terribile tradimento, costringendo il giovane alla fuga, ma giurando vendetta.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
C’è un po’ di Eggers in questo film
Io sono una grande fan di Eggers: ho apprezzato il suo The Witch per la freschezza che ha portato al genere, e mi ha incantato con la sua follia in The Lighthouse. Quindi le mie aspettative erano ovviamente altissime.
E, nel complesso, non posso dire che siano state deluse. Come anticipato, la firma di Eggers si sente: splendide sequenze oniriche, sempre al limite del fantastico e del delirio, l’elemento magico ben contestualizzato soprattutto nella figura dell’animale simbolo sempre presente nelle sue pellicole, personaggi potenti e monumentali.
Tuttavia, questa pellicola non è Eggers fino in fondo, e i problemi produttivi sono esplicativi in questo senso: il montaggio è derivato da un compromesso fra la produzione e il regista. Quindi se da una parte abbiamo un film comunque complesso, costruito con grande cura, con una ricerca storica precisa e lucida, dall’altra abbiamo il tentativo di rendere un prodotto più digeribile per il grande pubblico.
Quindi, come The Lighthouse mi era sembrato il punto di arrivo di una carriera già fulminante di un cineasta di altissimo livello, The Northman mi è parsa in parte una soluzione di compromesso. Insomma, una pellicola che, se Eggers fosse stato lasciato a briglie sciolte, mi sarebbe piaciuta probabilmente di più.
Ma non per questo mi sento di bocciarlo, tutt’altro.
Il cast delle grandi occasioni
All’interno di una trama con uno scheletro narrativo complessivamente semplice, il protagonista è invece complessoe tridimensionale. Interpretato dall’ottimo Alexander Skarsgård, che è anche produttore e ideatore del film, Amleth è un personaggio profondamente tormentato, violento e ossessionato, oltre che estremamente fallibile. Quindi tutt’altro che un eroe di un’epopea in senso classico, ma un uomo guidato ed accecato da una profonda e terribile vendetta.
Oltre a questo, Eggers ha avuto come sempre a disposizione un cast di altissimo livello: anzitutto Anya Taylor Joy, attrice praticamente scoperta da questo regista, conosciuta soprattutto per la serie tv La regina degli scacchi, ma che ha dato prova di grandi capacità anche in prodotti più di nicchia come appunto The Witch e il più recente Emma (2020). Inoltre, un’ottima prova attoriale di Nicole Kidman: nonostante la difficoltà dell’espressività del volto dovuta alla pesante chirurgia plastica cui si è sottoposta (per sua stessa ammissione), è stata premiata da una regia indovinata, che le è stata cucita addosso per esaltare al meglio le sue capacità recitative. E infine l’inarrestabile Ethan Hawk, che appare per poco ma che è ancora in splendida forma (per quanto mi avesse fatto perdere le speranze nel recente Moonknight).
Un cast delle grandi occasioni, appunto.
The Northman fa per me?
C’è solo un prodotto a cui mi sento di paragonare The Northman, ovvero la serie Sky nostrana Romolus, creata dall’ottimo Matteo Rovere. Quindi se vi è piaciuta quella serie, guardate The Northman.
Nello specifico, se apprezzate le saghe epiche, con una contestualizzazione storica praticamente perfetta, un ritmo incalzante, in un contesto assolutamente brutale e violento, può fare certamente per voi. Tuttavia, se siete fan puristi di Eggers come me, ridimensionate le aspettative.
Rimandare la vendetta
Una delle cose che mi hanno poco convinto della pellicola è stato l’andamento del piano di Amleth: si ha la sensazione che il protagonista continui ad annunciare la sua vendetta, ma si prenda tantissimo tempo prima di metterla in atto.
Allo stesso modo, ho trovato quasi estenuante questo continuo rimando dello scontro finale, come se dovesse essere per forza costruito a tavolino. Capisco che Amleth volesse seguire la sua profezia, ma sembra quasi doverla forzare perché si avveri: ne è un esempio chiarissimo il fatto che debba darsi un appuntamento sul vulcano per il maledetto duello con Fjölnir, come prescritto dalla predizione, e questo non possa avvenire quando i due si trovano faccia a faccia, con ai piedi i cadaveri dei loro congiunti. Ma è l’unico problema effettivo che mi sento di segnalare, dovuto fra l’altro, a mio parere, al compromesso di montaggio di cui sopra.
Personaggi femminili vincenti
Una delle cose che riesco meno a sopportare, più dei personaggi femminili stile Mary Sue, sono i personaggi femminili forzati in situazioni dove appaiono totalmente fuori luogo. Uno degli esempi che per primo mi viene alla mente è quello della bambina protagonista di Dumbo (2019): povera in canna, realisticamente analfabeta, anacronisticamente interessata alla scienza, con un personaggio falsamente al passo coi tempi.
Invece la bellezza di questo film è anche di non aver neanche pensato a provare ad introdurre personaggi femminili irrealistici, magari donne guerriere fuori dal tempo. Invece si è deciso di sfruttare quello che si aveva disposizione nella realtà storica rappresentata, forti anche di una solida ricerca al riguardo: anzitutto Olga, ridotta schiava, legata al mondo della magia e dell’esoterismo, che si rifiuta violentemente di sottomettersi alla sua condizione e che aiuta il protagonista ad attuare il suo piano.
Ma soprattutto nota di merito per il personaggio di Nicole Kidman, Gudrún: invece di essere ridotta al ruolo di madre e moglie fedele, è una donna che ha ritrovato una vita felice alle spalle di un marito che l’aveva forzata ad una gravidanza e ad un matrimonio che non la rendeva felice. Un personaggio femminile che non ha paura di essere violento persino verso il figlio e di rivoltare la situazione del tradimento fratricida a suo vantaggio. Una donna terribile, certo, ma non ingabbiata in uno stereotipo pesante e datato. E, per questo, decisamente più interessante di quanto mi sarei aspettata.
Spencer è l’ultima opera di Pablo Larraín, cineasta cileno che si era già fatto notare nel cinema occidentale per Jackie (2016). In questo caso la pellicola racconta di Diana, la Principessa Triste.
Una pellicola che mi ha convinto appieno, con un comparto tecnico di primo livello e un taglio narrativo che mi ha sorpreso.
Poi c’è Kristen Stewart.
E quello è tutto un altro discorso.
Di cosa parla Spencer
Per chi seguisse The Crown, la storia prende temporalmente le mosse dal finale della quarta stagione, ovvero la famosa cena di Natale del 1991. Spencer ci porta in medias res, quando i rapporti fra Diana e Carlo sono già tesi, anche per via della relazione, ormai nota a tutti, fra il primogenito di Elisabetta e Camilla.
La narrazione si svolge nei tre giorni passati da Lady Diana durante le vacanze invernali nella tenuta della regina a Sandringham, con la famiglia reale al completo.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea.
Perché Spencer funziona
Il film non ha alcuna pretesa di realismo in senso stretto, quindi non aspettatevi qualcosa come The Crown appunto (anche se anche la serie stessa inventa a sua volta). Il taglio della pellicola è molto intimo e favolistico, con elementi pseudo-magici, anche se ben contestualizzati.
La narrazione ruota praticamente tutta attorno alla figura di Diana e al suo dramma personale, tanto che non arriva a parlare con altri personaggi della famiglia prima di quasi metà del film. Durante la maggior parte del tempo viene accentuata la sofferenza della sua solitudine, del suo essere lasciata da parte, con grandi inquadrature profondamente vuote.
Un casting azzeccato
In particolare la sua diversità viene raccontata dai colori: nella maggior parte dei casi Diana indossa colori brillanti e carichi, che emergono dal grigiume delle tinte desaturate degli altri personaggi in scena.
Differentemente da The Crown, tuttavia, i membri della famiglia reale non sono rappresentati come persone deprecabili, ma semplicemente come freddi e distanti, ingabbiati in un rigido protocollo a cui Diana non riesce ad adeguarsi. Le scelte di casting in questo senso sono azzeccatissime: attori che già di per sé hanno dei volti taglienti e aristocratici, in particolare la Regina Elisabetta e il Principe Carlo.
Nota di merito anche a Timothy Spall, ottimo caratterista noto al grande pubblico per aver interpretato il personaggio di Codaliscia, il tirapiedi di Voldemort, nella saga di Harry Potter. In questo caso interpreta il maggiordomo Alistar Gregory, agli occhi di Diana estensione della rigidità delle regole della famiglia reale.
Poi c’è Kristen Stewart.
Il mio problema con Kristen Stewart
Partiamo dal presupposto che mi sono approcciata a questa pellicola con la stessa tranquillità del suocero di Giacomo in Tre uomini e una gamba (1997), quando lo aspetta all’entrata della casa col fucile in mano.
Io sono personalmente piuttosto scettica nei riguardi delle capacità recitative di Kristen Stewart. Dopo Twilight, a differenza di Robert Pattinson, non è mai riuscita a decollare. Ha preso pure parte a pellicole di importanti autori, come Café society (2016), dimenticabilissima pellicola di Woody Allen dove ha dato una dimenticabilissima interpretazione. Ma, a differenza di Gal Gadot, che nonostante tutte si impegna, ma almeno non viene esaltata, Kristen Stewart ha pure una schiera di sostenitori che rivendicano la sua capacità recitativa contro ogni evidenza.
Scomparire nel personaggio
Per comprendere il livello della recitazione di Kristen Stewart in questa pellicola bisogna pensare dell’annosa questione degli attori che interpretano se stessi: i casi più celebri sono Will Smith e Dwayne Johnson. In molte pellicole dove sono coinvolti questi non devono fare lo sforzo di entrare nei personaggi, perché i personaggi sono loro.
Non voglio dire che Kristen Stewart faccia parte di questo gruppo (anche perché non ha il carisma necessario), ma risulta evidente il motivo per cui Pablo Larraín l’abbia scelta. Il regista cileno voleva appunto raccontare la storia dellaprincipessa triste. E chi meglio di Kristen Stewart, la cui espressione naturale del viso è un misto di disperazione e confusione?
Tuttavia appunto la capacità di un buon attore è quello di riuscire a scomparire dietro al personaggio che interpreta. I più talentuosi sono ovviamente capaci di destreggiarsi nei ruoli più diversi, come l’ottimo Joaquin Phoenix, capace di raccontare un ingenuo solitario in Her (2013) e uno squilibrato delirante in Joker (2019).
Do nuovo, questo non è il caso di Kristen Stewart.
In Spencer funziona?
Nel complesso, mentirei se vi dicessi che Kristen Stewart in Spencer è stata pessima. Come spiegherò meglio nella parte spoiler, riesce ad essere complessivamente convincente nelle parti in cui deve essere genericamente triste, ma semplicemente perché questo non le richiede un grande sforzo interpretativo: quella è semplicemente la sua espressione normale.
Stesso potrei direi per la recitazione corporea, impacciata e rigida, che non è tanto diversa del suo normale portamento. Tuttavia quando deve cimentarsi in espressioni più complesse, quando deve piangere o essere in qualche modo spiritosa (per fortuna non succede spesso) non è per nulla convincente.
Io avrei preferito senza dubbio che fosse stata scelta un’altra attrice, possibilmente inglese (la differenza fra l’accento reale degli attori britannici e il suo affettato si sente) e che avesse una potenza espressiva ben più convincente.
Per me in definitiva Kristen Stewart non ha veramente nulla a che vedere con l’ottima Emma Corrin in The Crown, che riusciva perfettamente a modulare la sua recitazione per una perfetta Diana.
Spencer fa per me?
Se siete già fan di The Crown come me, molto probabilmente sì, anche se, come spiegato, la pellicola ha un taglio un po’ diverso. Non aspettatevi una pellicola scandalistica (come in parte immaginavo) che copra i principali momenti della seconda parte della vita di Diana e del suo rapporto con Carlo. Aspettatevi piuttosto una pellicola molto intima e profonda, con una messinscena ottima e una fotografia che lo fa sembrare un film veramente risalente agli anni in cui è ambientato.
Non un film perfetto, ma sicuramente da vedere.
Due parole in più con spoiler
Fin dall’inizio ci viene mostrata la freddezza della situazione contro la spensieratezza di Diana: da una parte rigidi militari che trasportano il cibo per famiglia reale, con pure regole severissime da seguire per i cuochi. E dall’altra parte opposta Diana, che si perde, che sogna la sua infanzia, che vuole ritornarci.
Tutto il film non è infatti altro che il racconto di come Lady D riesca a riappropriarsi della propria identità, quindi del suo cognome, che ha ovviamente perso con il matrimonio con Carlo. Non a caso, appunto, il film sia chiama Spencer e non Diana. Nel contesto storico, il film racconta la scelta di Diana divorziare da Carlo.
La solitudine
La solitudine di Diana è potente per tutta la pellicola: come detto, la vediamo conversare con un membro della famiglia reale solamente dopo 50 minuti di film. Per il resto del tempo è isolata, sola nella sua stanza, al massimo conversa coi domestici, che sono i suoi principali interlocutori.
La casa sembra una prigione: è opprimente, tutti i personaggi intorno a lei sono distanti e freddi, la rimproverano, la umiliano, la forzano. Lei è davvero ingenua, disperata e, molto spesso, delirante.
La malattia
Uno dei temi principali è la malattia di Diana: la vediamo in una sola scena mangiare effettivamente, il resto del tempo vomita o scappa dai pasti imposti dalla famiglia. O, peggio, si ingozza di nascosto. E Kristen Stewart ha proprio quel volto emaciato e magrolino che la rende molto credibile.
Eppure il tema del cibo è sempre presente: Diana è sempre richiamata ai pasti, le scene dei cuochi sono molte, e continuano costantemente a parlare del prossimo pasto da cucinare.
L’unica scena in cui mangia è veramente potente: Diana cerca di strapparsi quella collana, quasi una catena al collo, e ingioia sofferente la zuppa, che noi spettatori vediamo piena di perle, che sono come sassi di cui si ingozza.
L’unica scena che non mi è davvero piaciuta è il montaggio quando nella sua casa natale e sta per cadere dalle scale, una sorta di flusso di pensieri. Oltre a non esserne riuscita a coglierne la logica, avrebbe decisamente potuto durare di meno ed è essere molto più efficace.
Due parole in più su Kristen Stewart
Ci sono un paio di scene che mi hanno particolarmente colpito, e non positivamente. Anzitutto la scena iniziale alla tavola calda: Diana si comporta come se fosse una scolaretta impacciata, in maniera così caricata che ero in imbarazzo per lei.
Così riesce a fallire anche in una scena di sofferenza: quando parla col cuoco dei suoi sogni, sembra che cerchi di forzare l’espressione del viso, in maniera totalmente innaturale. Probabilmente complice anche il fatto che non riesce a parlare naturalmente con l’accento britannico.
Ma la cosa peggiore è la scena della notte di Natale con i due figli. Provate a fare questo esperimento: fate partire quella scena e ascoltatela senza guardare. Poi guardatela normalmente: sembra che siano due attrici diverse. Per quanto riesca a modulare adeguatamente la voce, la sua espressività risulta rigida e per nulla eloquente. Quasi come si fosse ridoppiata.
Sul resto mi sono già espressa, ma in conclusione posso affermare con grande sicurezza non gli andava riconosciuto alcunché.
La questione degli Oscar 2022
Come anticipato, Kristen Stewart non doveva essere premiata per nulla, neanche con una candidatura. È stata vagamente meglio del solito, ma presenta una recitazione veramente altalenante. Comunque infine non ha vinto, ma il premio è andato alla ben più meritevole Jessica Chastain per Gli occhi di Tammy Faye(2021).
Questo film poteva essere invece candidato a Miglior colonna sonora e anche Miglior fotografia. Un peccato, secondo me, che venga presentato con la sua parte più difettosa.
Miglior film Miglior regista Migliore sceneggiatura originale Miglior attore non protagonista a Ciarán Hinds Migliore attrice non protagonista a Judi Dench Miglior sonoro Migliore canzone
Belfast (2021) è l’ultima pellicola scritta e diretta da Kenneth Branagh, che abbiamo visto recentemente come regista ed interprete in Assassinio sul Nilo (2021). Belfast è una lettera d’amore alla sua città natale, da cui il film prende il titolo, il racconto di un episodio particolarmente sentito della sua infanzia, sullo sfondo della guerra civile che scoppiò nel suo quartiere nel 1969.
Di cosa parla Belfast
Come anticipato, Belfast è un racconto semi autobiografico: Buddy, protagonista della pellicola interpretato dal giovanissimo e talentuoso Jude Hill, vive a Belfast, nell’Irland del Nord. Davanti ai suoi occhi sgomenti scoppia la terribile guerra civile dei lealisti protestanti, che si accaniscono con violenza contro i cattolici del suo quartiere. La vita procede fra i problemi familiari e i piccoli drammi personali di Buddy, in un bozzetto di quotidianità d’altri tempi veramente ben riuscito.
Vi lascio il trailer per farvi un’idea:
Un racconto d’infanzia
La particolarità della pellicola risiede soprattutto nel taglio narrativo, che mi ha ricordato molto Il buio oltre la siepe (1960, Harper Lee) e Quel che sapeva Maisie (1887, Henry James): la visione infantile e ingenua della vita, un mondo adulto lontano e incomprensibile. Infatti in quasi ogni scena, anche se a lato e come semplice spettatore, Buddy è lì, che guarda e ascolta. E ci offre le sue ingenue e semplici interpretazioni.
Il tema della guerra civile non è altro che lo sfondo della vera vicenda, ovvero la famiglia di Buddy, con le sue diverse vicissitudini. Di fatto un susseguirsi di quadretti familiari e bozzetti realistici, semplici scene di quotidianità in un quartiere come tanti. Un casting ottimo, con le facce giuste e attori di primo livello, che raccontano un’Irlanda dei tempi che furono.
Proprio come si addice ad un racconto infantile, i personaggi non hanno nome: sono la madre e il padre, la nonna e il nonno. Persino Buddy, il protagonista, non ha un vero nome: buddy in inglese è infatti un appellativo affettivo per indicare un amico.
Lo sguardo profondo
Per rappresentare la semplicità e la familiarità degli ambienti e delle scene, Branagh privilegia inquadrature fisse, in cui la scena si compone da sé e i personaggi esplorano l’ambiente. Uno spazio scenico fra l’altro ristretto ma profondo, con figure messe in primo, secondo e terzo piano nella stessa inquadratura
Ambienti sempre animati e popolati da diverse figure, anche semplici comparse, che passano sullo sfondo o addirittura in mezzo alla scena, donandogli una grande verosimiglianza e vivacità. Addirittura per simulare il punto di vista di Buddy che origlia, in una scena Branagh sperimenta con la camera a mano, rendendo l’inquadratura leggermente (e volutamente) traballante.
Nonostante questo, lo scorrimento del tempo è abbastanza serrato: gli eventi si svolgono uno dietro l’altro, anche con stacchi improvvisi, proprio a simulare l’andamento della memoria del protagonista.
Belfast può fare per me?
Per quanto sia un ottimo prodotto registico, Belfast è tutt’altro che un prodotto complesso, anzi.
Si guarda con grande facilità, ci si appassiona abbastanza istintivamente alle vicende dei personaggi e alla storia raccontata. Persino io, che non sono una grande fan dei drammi familiari, sono comunque riuscita a sentirmi coinvolta della storia e commossa per le scelte sofferte dei personaggi.
Diciamo che se si apprezza il genere dei drammi familiari, è un film che sicuramente può fare per voi, mentre se li mal sopportate, potrebbe non appassionarvi. È l’unico discrimine che mi sentirei di dare in questo caso.
Una recente uscita nelle nostre sale, Assassinio sul Nilo (2022) è una pellicola maledetta sotto molti punti di vista. In senso più ampio, questa intera operazione di revival di Poirot si porta dietro un’aurea oscura: due film su due di questo franchise hanno hanno fra gli attori principali personaggi travolti da scandali sessuali. Per Assassinio sull’Orient Express (2017) c’era Johnny Depp, ancora oggi in un intricatissimo caso di violenza domestica (apparentemente) subita e data dalla ex-moglie Amber Heard, scoppiato poco prima dell’uscita del film. Questo scandalo ha portato fino al licenziamento di Depp dal cast del franchise di Animali Fantastici. In questo caso, però, il film non ne era stato toccato, anzi era stato un successo non indifferente al botteghino (352 milioni contro 55 di budget).
Per Omicidio sul Nilo, invece, lo scandalo sessuale di Harmie Hammer (tutto ancora da chiarire), ha danneggiato fortemente la pellicola. Il film sarebbe infatti dovuto uscire a fine 2019, poi, fra la pandemia e il caso Hammer, è arrivato in sala solamente all’inizio di quest’anno. Tuttavia, la pellicola sta andando abbastanza bene al botteghino: nonostante l’alto budget di 90 milioni, ne ha già incassati 38. E chissà dove può arrivare.
Incrociamo le dita.
Di cosa parla Assassinio sul Nilo (2022)
Assassinio sul Nilo (2022) porta in scena un noto caso di Erculè Poirot, il fortunatissimo personaggio di Agatha Christie. Questa volta il famoso detective si trova in Egitto, testimone prima di un particolare triangolo amoroso e poi di un misterioso omicidio.
Un cast abbastanza scoppiettante, anche se non stellare come in Assassinio sull’Orient Express: la fascinosa Gal Gadot, per la prima volta in un ruolo rilevante sul grande schermo dopo Wonder Woman, la stella nascente Emma Mackey, nota soprattutto come Maive in Sex Education, e, appunto, Harmie Hammer, prima dello scandalo noto soprattutto per Chiamami con il tuo nome (2017).
Lascio la parola al trailer per farvi un’idea.
Cosa funziona
Una cosa che proprio non mi aveva convinto dello scorso film era la plasticosità degli ambienti, che sembravano veramente cartoonesschi, complice anche la fotografia a mio parere poco azzeccata. Al contrario, questa pellicola, forse anche per il budget quasi raddoppiato, porta sullo schermo della ambientazioni convincenti e dal grande fascino. Una regia piuttosto indovinata e che non manca di qualche guizzo e soluzione scenica interessante.
La vicenda è intrigante e, nonostante tutto, lo spettatore (a differenza del primo) può diventare facilmente investigatore lui stesso e risolvere il mistero prima della rivelazione finale.
Un plus del film, che davvero non mi aspettavo, è la bravura di Emma Mackey, che supera di molte lunghezze la sua ben più famosa collega Gal Gadot, soprattutto nelle scene dove recitano insieme. Davvero promossa.
Farà strada.
Cosa non funziona
In qualche modo il film soffre dello stesso problema del suo predecessore, ovvero la sua fedeltà all’opera di partenza: una trama che ci mette parecchio a partire sulla parte investigativa. Non annoia per forza, ma parte pre-omicidio potevano essere tolti almeno un quindici minuti. Una sottotrama che sembra apparire di punto in bianco e che interessa fino ad un certo punto. Una messinscena piuttosto caricata e irrealistica (dico solo, la passerella alla fine).
Gal Gadot, ma meno di quello che mi aspettavo: considero personalmente l’attrice di Wonder Woman come davvero poca talentuosa, con una bella presenza scenica, ma una capacità recitativa davvero scarsa. Le devo riconoscere però un miglioramento evidente rispetto al primo Wonder Woman, complice forse anche la buona direzione di Branagh, ma Emma Mackay recitativamente la seppellisce.
La risoluzione è piuttosto fantasiosa, e può piacere o non piacere. A me ha convinto a metà. Ma non mi voglio mettere a discutere con Agatha Christie e le sue scelte di trama.
Assassinio sul Nilo fa per me?
Per apprezza Assassinio sul Nilo deve piacere un certo tipo di narrazione delle investigazioni vecchio stile, simile aKnives Out(2019). Non sono una lettrice di Agatha Christie, quindi non mi posso esprimere per i fan dei romanzi, ma ho notato un fandom molto diviso.
In generale, penso possa essere un film abbastanza piacevole per tutti.
Candidature Oscar 2022 per The Nightmare Alley (2021)
(in neretto le vittorie)
Miglior film Miglior fotografia Migliori costumi Migliore scenografia
Partiamo mettendo un po’ di mani avanti: The Nightmare Alley non è un brutto film. Non è un film eccelso, ma non è il film che mi aspettavo.
Parlando in generale, io ultimamente ho un problema con Del Toro. Infatti non è la prima volta che mi capita questa situazione di non ritrovarmi in una sua pellicola. Era già successo con La forma dell’acqua(2017): io mi aspettavo più un film del tipo Il gigante di ferro(1999), quindi con uno dei miei trope preferiti, ovvero quello di un umano che si trova a contatto con una creatura che deve difendere o proteggere, e intanto si crea un rapporto di amicizia.
Se avete visto il film sapete che non è così:La forma dell’acqua parla di una storia d’amore. E in realtà in quel caso la campagna marketing era stata piuttosto esplicativa in quel senso, quindi è stata colpa mia. Con The Nightmare Alley, invece, mi sento giustamente illusa.
Di cosa parla The Nightmare Alley
La trama è un po’ il punto di tutto. Senza andare troppo nel dettaglio, la pellicola parla di Stan, un vagabondo con un passato oscuro, che viene assunto all’interno di un circo. Qui imparerà i segreti dei poteri psichici, o meglio di come riuscire a raggirare ignari spettatori fingendo di avere poteri psichici. E su questo costruirà la sua vita.
Vi lascio al trailer per farvi un’idea.
Cosa non funziona (secondo me)
L’elemento principale che mi ha dato fastidio di questo film sono state le aspettative che il trailer e la pellicola stessa cercano di creare: entrambi ti danno molto l’idea che ci sia un grande mistero dietro al personaggio di Stan, probabilmente, conoscendo Del Toro nell’ambito fantastico e orrorifico. Niente di tutto ciò: The Nightmare Alley è fondamentalmente un thriller, e secondo me un thriller che funziona fino ad un certo punto.
Valutando il film di per sé, a mio parere non è una pellicola particolarmente interessante, non un livello che mi aspetterei da questo regista: la trama non è per nulla originale, le dinamiche sono piuttosto tipiche e prevedibili, così come il finale, che è davvero telefonato.
Non bucare lo schermo
Un ulteriore problema secondo me riguarda gli attori scelti: perfetta Cate Blanchett nei panni della fascinosa psicologa che appare nella seconda parte del film, convincente William Dafoe come presentatore del circo spietato e senza scrupoli. Molto meno convincente Bradley Cooper e, soprattutto, Rooney Mara.
Del Toro ha scelto per Bradley Cooper un personaggio che non gli si addice: a mio parere se siamo abituati a vedere questo attore in ruoli comici o comunque in cui parla moltissimo (soprattutto ne Il lato positivo, 2012), c’è un motivo. Come figura tragica e silente non è riuscito a convincermi, nonostante fosse ben diretto e la regia lo premiasse continuamente. Ha fatto indubbiamente del suo meglio, ma Cate Blanchett lo seppellisce, recitativamente parlando.
Per Rooney Mara è un altro discorso: questa attrice ha interpretato su molti ruoli nella sua carriera, anche di successo come Carol (2015), ma non è mai riuscita a dirmi molto. È un ottimo materiale registico, e infatti le sue scene sono quelle forse più riuscite a livello scenico. Ma finisce lì: non è tanto espressiva e interessante da interpretare un ruolo importante nella storia in maniera convincente.
Del Toro è sempre Del Toro
La pellicola ha degli innegabili pregi tecnici: la regia è, come sempre, veramente ottima ed ispirata, la fotografia è ben modulata e incornicia perfettamente le scene. La scenografia, per cui è stato candidato all’Oscar, è sicuramente un pregio della pellicola che riporta in scena gli Statui Uniti degli gli Anni Quaranta e Cinquanta.
Tanta bellezza sprecata, per quanto mi riguarda.
Perché guardare comunque The Nightmare Alley
Come già detto, non penso sia un film da buttare: oltre all’ottima regia, la trama non è malvagia. Tuttavia non dove aspettarvi molto, soprattutto se siete amanti di Del Toro. È un film di medio livello, che può allietarvi una serata annoiata. Ma non molto di più.
Evidentemente non sono l’unica a cui la pellicola non ha convinto: il film è stato un flop clamoroso al botteghino (35 milioni contro 60 di budget), davanti appunto ad una produzione neanche troppo costosa. Anche se di solito i suoi film non fanno mai incassi mostruosi, mi spiace per questo passo falso.
Previsioni Oscar 2022
Il film è stato candidato come Miglior Film, Miglior fotografia, Migliori costumi e Migliore scenografia. In tutte le categorie si scontra con contendenti veramente tosti, per cui penso che sia più probabile che vinca Migliore scenografia. Dubito che possa vincere per Migliori costumi: sono sicuramente belli, ma rimangono molto meno nella memoria rispetto a Cruella (2021), che credo appunto vincerà.