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Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

I Vitelloni – Costretti alla vita

I Vitelloni (1953) è uno dei film più noti della fase neorealista della filmografia di Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, la pellicola è stata un successo internazionale, riuscendo ad arrivare molto oltre i confini italiani, dove comunque incassò più di 28 mila euro.

Di cosa parla I Vitelloni?

La vicenda si incentra sulle vicende di un gruppo di bambini troppo cresciuti, incapaci di abbracciare la vita adulta…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere I Vitelloni?

Assolutamente sì.

Come era stato per il precedente Lo sceicco bianco (1952), anche in questo caso Fellini porta in scena un racconto dissacrante della società italiana, della fragilità del sogno piccolo borghese intrappolato in una serie di codici che non riesce a sostenere…

…ben rappresentato dai cinque protagonisti che si fanno largo in una vita dove vogliono essere capifamiglia, inguaribili dongiovanni, artisti incompresi…per ritrovarsi ad essere solo dei bambinoni (o Vitelloni, appunto) incapaci di diventare adulti e di prendersi anche solo la minima responsabilità sulle spalle.

Incidente

Riccardo Fellini e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

L’incipit è un perfetto spaccato della condizione iniziale dei protagonisti.

La simpatica occasione di incontro paesano ruota intorno all’incoronazione della reginetta di bellezza, ultimo momento del racconto di un sogno di giovinezza che sembra non avere mai fine, in cui i Vitelloni ne sono il degno contorno…

…ma che viene spezzato da un temporale improvviso e inarrestabile, quanto è inarrestabile l’incidente della gravidanza di Sandra, che, soffocata dal peso della responsabilità, sviene in mezzo alla folla rivelando così il peccato giovanile che la forzerà immediatamente alla vita adulta.

Franco Fabrizi e Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

In questo senso Fausto è l’apoteosi dei Vitelloni, che sogna una vita al di fuori di ogni responsabilità, soprattutto quella di una donna fissa al suo fianco, che cerca di fuggire alla prima occasione, ma che viene subitamente riportato coi piedi per terra dall’arcigno patriarca.

Ed è solo l’inizio.

Fuga

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

I Vitelloni vivono in una continua fuga.

Fausto cerca ogni occasione per fuggire dalle responsabilità del suo matrimonio, non scegliendo una particolare alternativa allo stesso, ma semplicemente avventandosi su ogni donna gli sembri anche vagamente interessante, incapace di rimanere fedele alla dolce e innocente Sandra.

E per lui è ancora più straziante rimanere bloccato in un limbo costrittivo e soffocante, in cui è tecnicamente un adulto – in quanto sposato – ma deve sottostare ai controlli pressanti di una famiglia che non è neanche la sua e che lo trattiene come in un bozzolo, in attesa che possa sbocciare – o maturare.

Franco Fabrizi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

E la sua immaturità non è solo nel suo continuo e testardo rifuggire la trappola matrimoniale, ma nel comportarsi senza aspettarsi nessuna conseguenza – che sia per le donne o per gli stupidi furti – finendo anzi continuamente punito e sconfitto.

E gli altri?

Ruolo

E se il sogno fosse troppo?

Nessuno dei Vitelloni è capace di affrontare davvero la vita adulta: persino il sognatore Leopoldo, che vede finalmente le sue notti di studio maturare i primi frutti nelle lodi e promesse entusiastiche del commediografo, con la promessa di evadere la realtà provinciale in cui è costretto…

…fugge spaventato davanti ad una realizzazione del sogno non così idealizzata come si immaginava, in cui la via per la gloria può essere lastricata di insidie e di attenzioni non richieste, come quelle ambigue che gli rivolge il drammaturgo sulla spiaggia.

Alberto Sordi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Ma quello più bloccato in un limbo paradossale è Alberto.

Fra tutti, è il protagonista che abbraccia di più il suo lato infantile, che ha il suo apice nella festa di Carnevale, in cui si traveste scioccamente da donna, ma che si manifesta anche nelle stupide scommesse di cavalli e nelle ubriacature deliranti che gli impediscono di assumere quel ruolo tanto ricercato.

Infatti Alberto vorrebbe essere il patriarca di una famiglia senza padre, vorrebbe proteggere la sorella, anzi decidere della sua vita, quando la stessa è ormai economicamente indipendente, e sceglie consapevolmente di evadere ogni norma sociale con il suo amante…

…e infine fuggendo da una realtà che ormai gli sta troppo stretta.

Ma il lieto fine è possibile?

Futuro

Come spesso nei film di Fellini, il finale de I Vitelloni è volutamente ambiguo e amaramente ironico.

Il punto di arrivo dovrebbe rappresentare finalmente la maturazione di Fausto, messo davanti alle conseguenze delle sue malefatte, rischiando di perdere la moglie che diventa finalmente il suo unico desiderio, tanto da scacciare la femme fatale su cui aveva messo avidamente gli occhi qualche mese prima.

Eppure, le parole di chiusura di questa scena sono estremamente eloquenti:

La storia di Fausto e Sandra finisce qui, per ora.

Così Fellini non prospetta un finale lieto in cui il sogno borghese si è ricomposto, ma piuttosto ci lascia con una chiusura provvisoria che non esclude che nel futuro Fausto possa ricadere nei medesimi comportamenti, né risolve di fatto nessuna delle vicende dei suoi protagonisti.

Franco Interlenghi in una scena di I Vitelloni (1953) di Federico Fellini

Nemmeno la fuga di Moraldo è risolutiva, anzi è significativa per confermare il limbo in cui i protagonisti sono intrappolati, immaginandoli come passeggeri del medesimo treno con una destinazione ancora incerta, e infine in bilico su una rotaia solitaria, fra due vite, senza appartenere a nessuna delle due…

…proprio come Gaetano nella chiusura della pellicola.

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Animazione Avventura Commedia Commedia romantica Disney Dramma storico Drammatico Film Il medioevo

Robin Hood – Definire l’eroe

Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman è il ventunesimo Classico Disney basato sulla leggenda dell’omonimo eroe popolare.

A fronte di un budget medio per i prodotti animati del periodo – 5 milioni di dollari – è stato un enorme successo commerciale: 33 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Robin Hood?

In un medioevo occidentale dominato da animali antropomorfi, Robin Hood e la sua gente devono vivere sotto lo scacco dell’avido principe Giovanni, usurpatore al trono. Ma una ribellione è ancora possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Robin Hood?

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Assolutamente sì.

La versione animalesca di Robin Hood riesce ad essere particolarmente vincente grazie al viscerale e irresistibile umorismo della pellicola, che vivacizza una storia che in realtà è tutt’altro che felice, non mancando anzi di frangenti piuttosto drammatici e angoscianti.

Ma Robin Hood è soprattutto vincente nel riuscire a dare la giusta importanza ad ogni momento della pellicola: anche quelli che potevano essere semplici siparietti comici, sono invece perfettamente integrati all’interno di una storia avvincente e ben strutturata, popolata da personaggi divenuti iconici.

Insomma, da riscoprire.

Parti

Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Robin Hood è un ottimo esempio di come gestire i caratteri in scena. 

Infatti fin da subito vengono introdotte le parti in gioco, con un antagonismo fra l’eroe e il villain che si esplica ancora prima che si incontrino: Robin Hood, nelle vesti di un’agile e furbissima volpe, è piuttosto abile nel mutare aspetto e nell’adattarsi alle diverse situazioni ed insidie.

Il Principe Giovanni si succhia il pollice in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Al contrario, il principe Giovanni, una versione felina di Giovanni Senzaterra, è un leone che non ha alcuna caratteristica tipica della sua specie: il corpo fragile e sottile affoga nei suoi vestiti regali e regge a malapena una corona che evidentemente non è fatta per lui.

E infatti basta pochissimo per gabbarlo.

Con un facile gioco di costumi, Robin e Little John diventano due avvenenti chiromanti che predicono il futuro che il principe si aspetta, ovvero quello di una vittoria sconfinata della sua persona e della sua dinastia…

…che lo distrae dal presente in cui viene sistematicamente derubato.

Irresistibile la dinamica che si esplica già da questo frangente, con il serpentesco consigliere, unico personaggio capace di vedere gli inganni di Robin Hood, che viene costantemente maltrattato e zittito, spesso persino confinato in spazi minuscoli che gli tolgono ogni accesso alla scena.

Ma se questo è il lato più giocoso…

Pugno

Lo sceriffo di Notthingam ruba la moneta a Scheggia in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Da solo, il Principe Giovanni non può essere un villain credibile.

Infatti la malvagità del suo personaggio è definita dalle figure che gli stanno intorno: oltre alla ben sorvegliata carrozza da animali imponenti e minacciosi, l’effettiva negatività del Principe si esplica nella figura dello Sceriffo di Nottingham, un lupo proponente e borioso.

Robin Hood come mendicante in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Viene così dipinta la tragicità di un regnante che riduce allo stremo la sua popolazione, come ben racconta la scena del compleanno del piccolo Saetta, che non può neanche godersi la minuscola moneta in regalo, perché per lo Sceriffo ogni occasione è buona per far cassa e per rivalersi sui più deboli.

Ma questa dinamica permette allo stesso Robin di definirsi definitivamente come protagonista positivo: non solo un abile furfante che fa le scarpe all’usurpatore di turno, ma bensì un eroe popolare che cerca di contrastare la fragile condizione dei suoi compaesani, regalandogli tutte le ricchezze che riesce a sottrarre.

Ma ancora non basta.

Obbiettivo

Lady Marian guarda il manifesto di Robin Hood in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Se la storia si fosse fermata qui, Robin Hood sarebbe stato fin troppo ripetitivo .

Infatti l’idea di salvare il suo popolo è vincente come obbiettivo, ma altrettanto importante che lo stesso si intrecci con altri obbiettivi secondari: in particolare, conquistare il cuore di Marian, personaggio quasi trascinato in scena dall’intrufolarsi maldestro della freccia di Scheggia nel suo castello.

Una piccola introduzione essenziale anche per dare maggior valore alla successiva gara di tiro con l’arco, che altrimenti poteva sembrare una sequenza fine a sé stessa, ma che invece non solo conferma le abilità del protagonista come teatrante – cambiando perfino specie di appartenenza – ma anche il suo ruolo centrale nella salvezza del regno.

Ed è arrivato il momento di farlo davvero.

Conferma

Fino a questo Robin non aveva fatto che grattare la superficie del problema…

…finché questo non diventa ben più incisivo di quanto anticipato.

La tristissima sequenza delle segrete del castello, accompagnata dalla melanconica melodia di Cantagallo, è l’occasione perfetta per Robin per dare una chiusura degna alla vicenda, per riuscire davvero ad umiliare Giovanni, di cui ormai è diventato il nemico designato.

Robin Hood ruba il sacchetto dei soldi al Principe Giovanni in una scena di Robin Hood (1973) di Wolfgang Reitherman

Così la pellicola mette in scena un divertentissimo teatrino che replica sostanzialmente le stesse dinamiche di Giovanni e Sir Bliss, con il borioso sceriffo che è così sicuro di sè da non voler dare ascolto alle giuste proteste delle sue guardie, che lo avvertono del pericolo imminente.

E così la liberazione fisica della popolazione si accompagna ad una liberazione sociale, con ogni soldo sottratto che viene recuperato, con un Robin disposto persino a rischiare la sua stessa vita per mettere tutti in salvo, portando alla angosciosa sequenza della sua presunta morte…

…che invece ci accompagna alla definitiva sconfitta del Principe Giovanni, ultimo atto di una tirannia ormai giunta al termine, come conferma il lieto finale, in cui il sogno d’amore di Robin e Marian riesce definitivamente a coronarsi…

…benedetto anche dal ritorno dal tanto sospirato Giovanni Cuor di Leone, che, con la sua robustezza e bonarietà, anticipa un futuro luminoso per Nottingham.

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Dramma familiare Drammatico Film Surreale

The Father – La mente a pezzi

The Father (2020) di Florian Zeller è un dramma familiare con protagonista Anthony Hopkins.

A fronte di un budget molto piccolo – appena 6 milioni di dollari – anche grazie alla vittoria del suo attore protagonista agli Oscar 2021 – è stato un ottimo successo commerciale: 24 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla The Father?

Anthony è un anziano signore piuttosto strambo e sopra le righe, che sembra riuscire a vivere serenamente da solo. Sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Father?

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Assolutamente sì.

La visione di The Father vale anche solo per la straordinaria performance di Anthony Hopkins, che riesce magistralmente a spaziare fra una grande varietà di toni e di tagli interpretativi, rendendo il suo personaggio incredibilmente tridimensionale e vicino allo spettatore.

Oltre a questo, la pellicola è una rappresentazione sostanzialmente perfetta del punto di vista di un paziente malato di Alzheimer, intrappolato in un incubo surreale senza via d’uscita, in cui le scene sembrano ripetersi sempre uguali, ma con facce diverse e sconosciute…

Insomma, da non perdere.

Tempo

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Inizialmente, Anthony sembra un personaggio assolutamente nella norma.

Le sue stramberie riguardo al presunto furto del suo prezioso orologio da parte della badante appaiono come i più classici, quanto innocui, deliri di un anziano che detesta avere sconosciuti nei suoi spazi personali – e la crisi sembra immediatamente risolta con il ritrovamento del maltolto.

E invece l’orologio è un simbolo incredibilmente significativo.

Anthony è costantemente alla ricerca del suo orologio, disperato quando non lo trova e sicuro che qualcuno glielo abbia sottratto, proprio a rappresentare la sua costante angoscia di non avere più il controllo sulla propria vita, sul proprio tempo…

…e che lo stesso gli sia stato sottratto da misteriose figure che si intrufolano all’interno del suo prezioso appartamento, rappresentazione della sua stessa, labirintica mente, in cui avvicendano diversi personaggi e facce, senza che riesca sempre a riconoscerli.

Ma, di fatto, i protagonisti della scena sono due.

Intruso

Il personaggio di Paul è quello forse più inafferrabile.

Scopriamo solo alla fine che la sua figura è contaminata dalla faccia dell’infermiere, che si va a sovrapporre al volto del vero marito di Anne, che assume sostanzialmente il ruolo di antagonista della vicenda, il colpevole dell’abbandono della casa, e della conseguente reclusione all’interno della casa di cura.

Anthony Hopkins in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

Infatti fin da subito Paul è un intruso, che si trova nel bel mezzo della casa del protagonista senza che questo sappia neanche chi sia, e la sua presenza diventa sempre più ingombrante quando esplica i suoi veri pensieri riguardo alla salute precaria di Anthony.

Ma la realtà di questi episodi non è mai realmente chiara: verrebbe da pensare che l’unica scena veramente accaduta è il bisticcio a cena, e che i successivi maltrattamenti – fino all’effettiva aggressione fisica – siano una proiezione delle paure del protagonista, che si vede sbattere in faccia una verità che non può accettare.

Ovvero, non avere più il controllo sulla propria vita.

Abbandono

Anthony Hopkins e Olivia Coleman in una scena di The Father (2020) di Florian Zeller

La figura della figlia – anzi, delle figlie – è legata alla paura dell’abbandono.

Tutta la vicenda sembra infatti svolgersi nel giro di una giornata, i cui contorni temporali sono sempre più confusi, ma il cui obbiettivo è chiaro: Anthony deve riuscire a superare la prova definitiva che gli permetta di essere ancora padrone della propria casa e della propria famiglia…

…ma la stessa è resa ancora più complessa dall’aspetto – probabilmente fittizio – della sua nuova badante, che così tanto assomiglia alla figlia scomparsa, che il protagonista continua a richiamare come ancora di salvezza davanti all’inevitabile abbandono della figlia maggiore.

Anthony Hopkins nel finale di The Father (2020) di Florian Zeller

Si articola così un climax piuttosto angosciante, in cui la Anne deve infine accettare l’idea di dover proseguire con la propria esistenza senza il padre, che infine si ritrova rinchiuso all’interno di una stanza che non conosce, popolata da volti che non riesce a collocare…

…riconoscendo infine l’abbandono della figlia, di essere lasciato solo in balia della sua mente e dei suoi ricordi contraddittori, finendo infine per recedere alla fase fetale, richiamando una impossibile figura materna che ha ricercato – quanto rinnegato – più e più volte…

…e che ora può solo concretizzarsi solo nella figura dell’infermiera.

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Animazione Avventura Commedia Disney Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Film Il medioevo

Gli Aristogatti – L’iconicità del secondario

Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman è il ventesimo Classico Disney e il film di apertura del cosiddetto Medioevo Disney.

A fronte di un budget medio per le produzioni animate del periodo – 4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 18 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Gli Aristogatti?

Duchessa e i suoi cuccioli vivono in una condizione di assoluto privilegio, come beniamini di una vecchia signora che li assicura tutti i comfort. Eppure un’insidia è proprio dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gli Aristogatti?

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In generale, sì.

Per me Gli Aristogatti, parlando di altri film animaleschi, si pone fra l’ottimo La carica dei centouno (1961) e il più mediocre Lilli e il vagabondo (1955): non propriamente una raccolta di scenette fine a sé stesse come il secondo, ma neanche una storia così d’impatto come il primo.

Ed è tanto più curioso notare che sono stati proprio gli intermezzi della storia a diventare i più noti della pellicola, forti di una grande originalità di scrittura e nel loro essere piuttosto pittoreschi – quanto efficaci – nell’umanizzare in maniera divertita i personaggi animali.

Insomma, da riscoprire.

Privilegio

Duchessa e Adealide in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

La condizione iniziale dei gatti protagonisti è volutamente alienante…

…ma nondimeno mai banale.

Gli Aristogatti si sarebbe potuto incastrare in una dinamica che avrà una grande fortuna nel cinema del secolo successivo, in cui il gruppo di protagonisti è viziato, snob e in una condizione di assoluto privilegio, per poi essere catapultato in una realtà molto più difficile…

…il cui contrasto avrebbe rappresentato l’intera comicità del film.

Matisse in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E invece la pellicola ci stupisce.

La caratterizzazione degli Aristogatti è piuttosto variegata, e li vede da una parte alle prese con attività del tutto umane – in una delle sequenze più iconiche del film – ma non manca anche di tratteggiare i cuccioli di Duchessa come dei bambini piuttosto litigiosi ed attaccabrighe.

Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E tutta la dinamica in cui le loro passioni si intrecciano e si scontrano è irresistibilmente comica, ma mai esasperata, anzi controllata proprio dalla figura materna, che li osserva amorevolmente mentre si sbizzarriscono nelle loro passioni in maniera disordinata quanto divertita.

E l’intrusione del villain è piuttosto…naturale?

Avidità

Edgar in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Come Crudelia un decennio prima, anche la profondità della malvagità di Edgar non è di immediata comprensione per un pubblico infantile.

Infatti l’ascolto delle intenzioni della padrona lo porta ad un ragionamento piuttosto bislacco, quanto rivelatorio della sua spregevole avidità: incapace di avere la pazienza e la bontà di continuare a vivere nella magione della nobildonna insieme ai suoi amati gatti, il maggiordomo capisce che deve liberarsi di loro.

Bizet, Matisse e Minou e Contessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

E la modalità è ancora più malvagia: i protagonisti, fidandosi totalmente delle sue buone intenzioni, si gustano la sua famosa prelibatezza – l’iconica Crema della Crema alla Edgar – del tutto ignari di essere caduti vittime della sua trappola, il cui svelamento è affidato ad un personaggio che, come altri nella pellicola, è totalmente strumentale: il topolino Groviera.

Così la dinamica della fuga notturna fa da apripista per forse il punto più forte del film, ovvero le scene estremamente dinamiche, che riescono ad utilizzare la comicità slapstick in maniera mai banale, con punte di assurdità nell’inseguimento sotto al ponte dei due cani contro Edgar.

E così il primo atto si chiude sulla triste inquadratura della cuccia dei gatti abbandonata sotto la pioggia, mentre un pensieroso Groviera comincia a mettere insieme i pezzi del machiavellico piano del maggiordomo prima che lo stesso glielo sbatta in faccia.

E l’atto centrale è tutto un programma.

Quadri

I gatti jazzisti in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Forse la narrazione centrale de Gli Aristogatti non si può definire propriamente per quadri

…ma poco ci manca.

All’interno di un road movie solitamente i personaggi incontrati lungo la strada sono funzionali alla maturazione dei protagonisti, confluendo spesso nel finale in un ruolo funzionale, proprio per dare organicità alla narrazione e non ridurla appunto ad una semplice collezione di intermezzi.

Le sorelle BlaBla in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

In linea generale, Gli Aristogatti riesce a seguire questa direzione, tramite il personaggio di Romeo – indispensabile aiutante e vettore della narrazione e della morale della storia – e con la scena che sembra il più fine a sé stessa possibile, e che invece diventa fondamentale per più motivi nel finale: i gatti jazzisti.

Al contrario, l’incontro con le sorelle Blabla è davvero un semplice intermezzo che non ha particolare utilità all’interno della storia, se non inserire delle colorite gag che vedono il loro apice con l’entrata in scena dello Zio Reginaldo, condito da un umorismo anche piuttosto pesante, e che permette alle due oche di uscire presto di scena.

Infine, è presente un fil rouge di grande interesse all’interno della pellicola.

Morale

Romeo e Duchessa in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

Nonostante il finale sia sostanzialmente lo stesso di Lilli e il vagabondo, Gli Aristogatti ha qualcosa in più.

L’incontro con Romeo è puntellato da più momenti – soprattutto all’inizio – in cui il gruppo sembra destinato a separarsi prima del tempo, ma che si ritrova invece abbastanza a lungo insieme per allargare le proprie vedute: come Romeo non crede nella bontà dell’uomo e soprattutto della padrona del quartetto di protagonisti…

Bizet, Matisse e Minou in una scena di Gli Aristogatti (1970) di Wolfgang Reitherman

…al contrario, Duchessa ribadisce più volte la sua affezione per Adelaide e la volontà di rimanerle fedele, nonostante le numerose richieste di Romeo di unirsi al suo mondo, in quanto la protagonista più volte dimostra una sincera curiosità e divertimento nell’essere coinvolta nello stesso.

Per questo il finale è tanto più importante.

L’ingenuo ritorno a casa del quartetto finisce per farli nuovamente cadere nella trappola di Edgar, definendo il momento di confluimento di (quasi) tutti i personaggi nel loro salvataggio, con anche il simpatico siparietto fra Groviera e i gatti jazzisti che diventano protagonisti di un ulteriore scontro incredibilmente dinamico e avvincente.

E a questo punto è solo normale che la casa di Adelaide sia aperta anche agli altri gatti randagi, confermandone così la valenza di personaggio positivo che vuole utilizzare le sue ricchezze per dare la vita migliore possibile non solamente ai suoi gatti, ma ad ogni randagio ne abbia bisogno.

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Avventura Commedia Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Federico Fellini Film

Lo sceicco bianco – Un sogno chiamato cinema

Lo sceicco bianco (1952) è uno dei primi film della filmografia di Federico Fellini.

A fronte di un budget sconosciuto, ha avuto un riscontro economico molto piccolo – pur venendo riscoperto nel tempo.

Di cosa parla Lo sceicco bianco?

Wanda è una giovanissima donna fresca di matrimonio, in viaggio a Roma per volontà del marito. Ma il suo sogno dimora altrove…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Lo sceicco bianco?

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

In generale, sì.

In Lo sceicco bianco si trovano già tutte le caratteristiche del primo Fellini: la classica commedia all’italiana ma molto più pungente, e fortemente contaminata dall’elemento magico e surreale che rende questa fase della filmografia del maestro italiano così identitaria.

Una pellicola che funziona ottimamente anche a livello di scrittura, scandendo la narrazione in tre atti perfetti, definiti da un climax ascendente – e discendente – genuinamente appassionante e coinvolgente.

Insomma, da riscoprire.

Controllo

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Inizialmente, Ivan ha il totale controllo della scena.

L’uomo definisce meticolosamente ogni mossa della neonata famiglia, dall’ordine in cui scaricare le valige dal treno fino allo strettissimo programma di visita della città, il cui culmine sarà la benedizione del matrimonio dal Papa in persona.

Ma basta poco perché l’attenzione si sposti altrove.

Brunella Bovo e Leopoldo Trieste in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Come la remissiva Wanda era fissa al braccio del suo nuovo marito, in un attimo è fuori dal suo controllo, salendo autonomamente in camera per cercare una non ancora precisata destinazione, col chiaro obbiettivo di evadere dalle anguste mura domestiche.

E, nonostante Ivan cerchi subito di riportare tutti all’ordine, già la moglie ha messo in atto il suo piano, orchestrando un apparentemente innocuo bagno caldo, che invece sarà proprio rappresentazione dello strabordare del caos che sta per abbattersi in scena.

E allora la ricerca ha inizio.

Ricerca

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

La ricerca di Wanda è appassionata quanto sofferta.

La giovane donna riesce in realtà abbastanza facilmente ad intrufolarsi all’interno dell’ufficio del tanto sognato Sceicco Bianco, in cui finalmente mette in mostra la sua ardente passione per questo mitico personaggio – per ora ancora fuori di scena.

Ed è così che veniamo facilmente coinvolti all’interno della sua struggente ricerca, che sembra continuamente rimandata dall’arrivo in scena di altri pittoreschi personaggi che rappresenteranno lo sfondo fondamentale della vicenda…

…il cui grande protagonista è ancora drammaticamente assente.

Ma proprio perché la sua entrata in scena è fondamentale.

Sogno

Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Nel suo atto centrale, Lo Sceicco Bianco si articola su due piani.

Il sogno e la realtà.

Dopo essere stata trascinata fuori da Roma – e quindi definitivamente fuori dal controllo del marito – Wanda può finalmente vedere il sogno concretizzarsi davanti ai suoi occhi, con lo Sceicco Bianco che appare in scena come una visione, dondolandosi su un’altalena che sembra appesa in cielo.

E tutta la dinamica successiva è definita da un abile inganno dell’attore, che alimenta i desideri della protagonista inventandosi persino una tragica fiaba ad hoc sul suo matrimonio fallito pur di portare a termine il suo spietato corteggiamento.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ma il contorno racconta qualcos’altro.

Come in altri contesti, Fellini utilizza abilmente l’ambientazione cinematografica per raccontarne la realtà molto meno idilliaca, di interpreti che hanno una presenza quasi mitica agli occhi degli spettatori, ma che nella realtà non sono altro che un gruppo di buzziconi capricciosi e viziati.

Brunella Bovo e Alberto Sordi in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E, anche se Wanda riesce a vedere Fernando solamente con gli occhi del sogno, è lampante quanto lo stesso sia una prima donna, con la sua totale insofferenza per le regole e il suo continuo bisticcio con il regista che si alternano alle pose statuarie.

Ma, infine, la realtà torna a bussare alla porta.

Realtà

Il passaggio al terzo atto è magistrale.

Come Ivan è costantemente incalzato dalla sua famiglia per dare prova del suo nuovo status, con dei primi piani piuttosto stringenti e claustrofobici sui volti dei personaggi che hanno come unico desiderio di vedere coi loro occhi l’importante conquista del protagonista…

…il coronamento della sua angoscia è ben rappresentato dallo spettacolo a teatro, che da momento di unione familiare si trasforma nello svelamento della realtà, con il celebre scambio fra Zerlina e Don Giovanni, che, sullo sfondo della telefonata, racconta l’innegabile tradimento in atto.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

E la sua crescente angoscia si accompagna con la fine dell’illusione, che va di pari passo con il dileguarsi di Fernando, che, all’arrivo della moglie, nonostante i disordinati tentativi di Wanda di tenere in piedi il sogno d’amore, si riappropria delle vesti borghesi e si congeda dalla scena.

A questo punto Wanda intraprende una parabola di annientamento, che la porta prima ad annullare il matrimonio, e poi a cercare di terminare la sua stessa esistenza – in una dinamica volutamente parossistica – per poi ricongiungersi col marito in un luogo vuoto dove può riprendere a sua volta le vesti borghesi.

Brunella Bovo in una scena di Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini

Ed è tanto più pungente che Fellini, nella sua parodia dissacrante della famiglia borghese, scelga come punto di arrivo di Wanda non una presa di consapevolezza e una conseguente accettazione del proprio ruolo sociale, ma bensì la tenga imprigionata all’interno di un sogno mai finito, solo con un protagonista diverso:

Il mio Sceicco Bianco sei tu.

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Avventura Bong Joon-ho Commedia Commedia nera Drammatico Film Nuove Uscite Film Satira Sociale

Mickey 17 – Il mosaico dello sfruttamento

Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho è una commedia nera fantascientifica.

A fronte di un budget abbastanza importante – 118 milioni di dollari – si prospetta un disastro commerciale, con un weekend di apertura davvero deludente.

Di cosa parla Mickey 17?

Terra, futuro imprecisato. Mickey e il suo socio, Timo, sono nei guai per un accordo andato male con uno strozzino. E allora la soluzione è andare il più lontano possibile…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Mickey 17?

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

In generale, sì.

Non riesco a sbilanciarmi l’apprezzamento di questa pellicola perché, nonostante con una seconda visione abbia rivisto la mia posizione decisamente in positivo, Mickey 17 non mi ha lasciato un ottimo sapore in bocca: sarà per le alte aspettative dopo Parasite (2019)…

…sarà perché, arrivati alla fine del secondo atto, non riuscivo a comprendere quale fosse il punto della pellicola – e la storia della stessa mi sembrava molto fine a sé stessa – ma l’ultima opera di Bong Joon-ho non mi ha lasciato entusiasmato come avrei sperato.

Però, dategli una possibilità.

Condizione

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Mickey ha accettato la sua condizione.

Il percorso del protagonista sembra ormai tracciato, costretto ad essere succube del potente di turno che lucra sulla sua pelle – letteralmente – e che, per sua ingenuità e scarsa scolarizzazione, si riduce ad essere l’ultimo gradino della scala alimentare: un sacrificabile.

In questo modo la sua esistenza diventa assolutamente insignificante, come dimostrano le numerose scene in cui Mickey sembra scomparire dalla scena, scalzato da un tappeto, da un lanciafiamme e persino da un enorme masso che lo supera di diverse spanne per importanza.

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Con queste dinamiche Bong Joon-ho riprende – seppur in maniera decisamente più comica – uno dei temi cardine della sua produzione: l’assoluta insignificanza degli ultimi, degli emarginati, che tutti possono sfruttare, di cui tutti si possono nutrire – e sono totalmente giustificati nel farlo.

Infatti i personaggi intorno a Mickey ci tengono più volte a ribadire come il protagonista abbia scelto la sua condizione attuale, ignorando del tutto una serie di fattori determinati – scarsa alfabetizzazione, estrazione umilissima – da cui è davvero difficile smarcarsi.

E, allora, Mickey non è altro che un corpo.

Corpo

Il corpo è il vero protagonista di Mickey 17.

Tutto parte, come detto, dal corpo del protagonista, che diventa lo strumento chiave per la riuscita dell’intera missione, tanto che può essere continuamente riprodotto e utilizzato per i più diversi fini, financo distrutto nella sua essenza – e senza possibilità di replica.

Una dinamica di sfruttamento che si esprime anche nei contesti più impensabili: la stessa gara per appropriarsi del suo corpo da parte delle due figure femminili, Nash e Kai, ribadisce ulteriormente come si tratti di un oggetto che può essere sfruttato, barattato e financo negoziato a proprio piacimento.

Robert Pattinson in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Ma il momento di passaggio fondamentale è proprio la vicenda dello strozzino.

Una trama apparentemente secondaria, apparentemente solo un MacGuffin per dare avvio alla storia, che si rivela invece uno spaccato crudelissimo della posizione dei potenti nella società attuale: quando i soldi non sono più così importanti, il potere e il controllo sono il nuovo desiderio insaziabile.

Infatti il suo personaggio gode fisicamente nell’osservare come può fare sostanzialmente quello che vuole su dei corpi che ha in qualche modo comprato, anzi incastrato all’interno di un sistema ben congegnato che può risolversi solo con la loro morte.

Ma non è l’unico corpo sfruttato.

Colonialismo

Mark Ruffalo in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Lo sfruttamento ha diverse forme.

Infatti la missione di Marshall era finalizzata ad una presa di possesso senza possibilità di scampo del nuovo pianeta, raccontata quasi come un atto sessuale – spargere il seme – financo come un atto parassitarioinfestare il nuovo ambiente.

Ed effettivamente il comportamento dei protagonisti è quello proprio del colonizzatore di turno, che distrugge qualunque ostacolo si ponga sul suo cammino, e che anzi identifica qualunque essere non uguale a lui come un nemico da distruggere ad ogni costo.

E invece risulta col tempo chiaro che il comportamento dei cosiddetti striscianti – in originale creepers – era di naturale curiosità verso i nuovi arrivati, tanto da volerli toccare, assaggiare in maniera del tutto pacifica, senza desiderare di fargli guerra o di annientarli come gli invasori quali sono.

Eppure, lo sfruttamento deve andare fino in fondo.

Sfruttamento

Mark Ruffalo e Toni Collette in una scena di Mickey 17 (2025) di Bong Joon-ho

Il terzo atto mette, anche se potrebbe non sembrare, un punto alla riflessione.

Se fino a questo momento avevamo assistito allo sfruttamento del corpo di Mickey, l’abuso infine si espande oltre i confini della nave, andando a coinvolgere gli innocui striscianti – che diventano bersaglio dell’interesse morboso di Qwen, la cui salsa è sostanzialmente il loro sangue…

…sia, più in generale, il pianeta intero.

In questo modo Mickey 17 definisce la portata del suo racconto: una narrazione graffiante quanto parossistica di quanto la mano dei potenti si espanda ben oltre il semplice arricchimento, andando a coinvolgere uno sfruttamento del corpo – umano o animale – e dell’ambiente – svuotandolo delle sue risorse e, inevitabilmente, danneggiandolo.

Ma rimane un ultimo punto da chiarire.

Mickey 17 sogno e finale significato

All’interno di una condanna piuttosto definitiva alla classe dirigente, Bong Joon-ho sceglie di includere anche una sorta di presa di consapevolezza degli oppressi, ricordando loro come possono essere la causa dello sfruttamento quanto il motore del cambiamento.

Infatti nel sogno Mickey osserva Qwen mentre stampa nuovamente Marshall, incoraggiandolo a nutrirsi della sua nuova salsa – il sangue, forse quello dello stesso marito? – e che gli ricorda che questo è quello che vuole veramente.

Ne consegue così un’enigmatica invettiva verso la parte bassa della società che finisce per sostenere personaggi davvero inaccettabili – i cui esempi contemporanei si sprecano – che non hanno mai desiderato la loro salvezza – da cui la profonda disparità di trattamento – ma che li hanno sempre e solamente sfruttati per i loro fini.

Per questo, quando Qwen cerca nuovamente di ingannare Mickey, cercando di convincerlo della sua esistenza – ed importanza – il protagonista ha un risveglio di consapevolezza riflettendo su come il suo alter ego – Mickey 18 – avrebbe reagito…

…ovvero, togliendo definitivamente importanza allo sfruttatore.

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Bong Joon-ho Commedia Commedia nera Drammatico Film Grottesco

Parasite – Ritornare sottoterra

Parasite (2019) è considerato ad oggi il capolavoro della filmografia di Bong Joon-ho, che contribuì alla riscoperta del cinema coreano in Occidente.

A fronte di un budget piccolino – 11.4 milioni di dollari – è stato un ottimo successo commerciale: 262 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Parasite?

La famiglia Kim vive ai margini della società in una condizione di povertà devastante, districandosi nei problemi della vita fra furbizie e lavori occasionali. Ma forse la possibilità di riscatto è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Parasite?

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Assolutamente sì.

Parasite è uno spaccato dolorosissimo della società sudcoreana, già tratteggiato nei precedenti film della produzione di Bong Joon-ho, ma qui raccontato in maniera ancora più tagliente e devastante, creando un sottofondo comico sublime quanto ingannevole…

…che infine esplode in un thriller totalmente inaspettato, ma che svela la realtà di una dinamica apparentemente comica e irriverente, ma che risulta infine fin troppo reale e drammatica – e senza possibilità di scampo.

Insetto

La famiglia Kim in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

La famiglia Kim è un insetto.

Il paragone cardine della pellicola viene inaugurato immediatamente, e continuamente insistito perché rimanga nella mente dello spettatore per tutto il primo comicissimo atto: i protagonisti sono parassiti persino della connessione WiFi dei loro vicini…

…cannibalizzando tutto quello che possono, persino mettendo a rischio la loro stessa vita, pronti anche a farsi intossicare col veleno per le blatte pur di ottenere qualcosa gratuitamente.

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Una dinamica che diventa ancora più drammatica quando scopriamo progressivamente quanto la famiglia non manchi di inventiva e di conoscenze che però non ha la possibilità di mettere in pratica, frenata dalla propria condizione limitante, e capace di esprimerla esclusivamente per fini non esattamente onesti.

Eppure forse l’occasione di riscatto è a portata di mano…

Ingenuità

Choi Woo-shik e Park So-dam in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Il primo atto è fin troppo celere.

Ancora una volta Bong Joon-ho ci incastra in una trama comica che è solamente uno specchietto per le allodole, da cui uno svolgimento piuttosto rapido e fin troppo semplice della dinamica della famiglia Kim che si intrufola nella magione dei Park.

E infatti tutta la situazione è irresistibilmente comica, e ci fa involontariamente parteggiare per la famiglia protagonista, che finalmente ottiene il suo riscatto nel fare la pelle a quella classe sociale che l’ha sempre messi ai margini, spinta sottoterra, lontano dalla loro vista.

Choi Woo-shik in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

Eppure, è tutto un grande miraggio.

La dinamica del primo atto racconta chiaramente l’illusione di una classe sociale irreversibilmente impoverita, ma che sogna di potersi smarcare anche piuttosto facilmente dalla propria situazione, riuscendo ad ingannare un sistema che invece la tiene bloccata nella propria, tragica posizione.

Una consapevolezza che è propria solamente del patriarca, Ki-taek, che prima incoraggia il figlio ad avere un piano di vita che lui invece rigetta, proprio per consapevole di come diversamente le situazioni infauste si abbattano sulla sua famiglia rispetto ai Park.

E infatti la pioggia è estremamente rivelatoria.

Posizione

La pioggia di Parasite è il momento della rivelazione.

La gita fuori porta della famiglia Park sembra l’apice del riscatto della famiglia Kim, che finalmente può godersi liberamente la casa tutta per sé, la magione che ha così furbescamente sottratto ai suoi proprietari, già sognando di potersene definitivamente impossessare.

E invece la verità viene a bussare alla porta.

Il ritorno dell’ex-governante, Moon-gwang, porta i protagonisti a ridiscendere nella realtà della loro condizione parassitaria, di una classe sociale devastata dal debito e dalla povertà che può solo raccogliere le briciole di chi sta sopra.

E, al di là della grottesca guerra fra poveri che si instaura nell’atto centrale, il momento più significativo è la rivendicazione di Geun-sae, il cui discorso è totalmente funzionale a creare un collegamento strettissimo fra la sua condizione inumana e quella della famiglia Park…

… ulteriormente ribadita dal ritorno dei veri proprietari.

La sequenza notturna della casa è il momento di sottile quanto devastante presa di consapevolezza da parte di Ki-taek: i protagonisti perdono la propria umanità, sgusciando negli anfratti della casa come insetti, nascondendosi sotto ai letti, sotto ai tavoli…

E, in questa nuova posizione, il patriarca della famiglia Kim origlia i veri sentimenti della classe che l’ha oppresso per tutta la vita, in un climax di umiliazione sempre più angosciante, passando dall’aperto disgusto – il loro odore – alla esplicita feticizzazione – le mutande di Ki-jung.

E non è finita qui.

Limite

La scena della casa allagata di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

La sequenza del ritorno a casa è estremamente rivelatoria.

La famiglia Park si ritrova a nuotare nei propri escrementi, ma, mentre la figlia si arrampica sul gabinetto per evadere – come per tutto il resto della pellicola – dal disgusto della sua condizione, al contrario Ki-taek rimane immerso nella sua posizione, non volendola più negare.

Song Kang-ho in una scena di Parasite (2019) di ‎Bong Joon-ho

E così, conseguentemente, se tutti i componenti della famiglia accettano più o meno di buon grado la proposta della famiglia Park di farsi comprare, il patriarca cova evidentemente un senso di angoscia e insofferenza, che già si intravede nella preparazione dello spettacolo, quando il Signor Park ribadisce:

Ti stiamo pagando un extra.

Ma la miccia che scatena la rivolta è quanto piu significativa: non l’aggressione dell’ormai fuori controllo Geun-sae, ma piuttosto la reazione del miliardario, totalmente disinteressato alla sorte dell’assassino, anzi apertamente disgustato per il fetore che rappresenta quella gente.

E allora tocca a Ki-taek spezzare definitivamente le apparenze e accoltellare il suo padrone, in una scintilla improvvisa di consapevolezza, di cui si pente immediatamente, ritorno ancora una volta al suo posto sotto la famiglia Park e continuando a vivere il sogno evidentemente irrealizzabile di riscatto sociale…

…adorando la figura del defunto Signor Park come salvatore e martire.

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Bong Joon-ho Drammatico Fantascienza Film Racconto di formazione

Okja – La cattiva favola

Okja (2017) di Bong Joon-ho è un dramma fantascientifico e il suo secondo film in lingua inglese.

È stato distribuito direttamente su Netflix.

Di cosa parla Okja?

USA, 2007. Lucy Mirando è la nuova CEO della problematica azienda di famiglia, e cerca di rilanciarsi con un progetto curioso quanto intraprendente: allevare una nuova specie di super maiali.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Okja?

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, sì.

Per quanto Okja non possa essere certamente considerato uno dei film più brillanti della filmografia di Bong Joon-ho, risulta al contempo una buona favola ambientalista con poche sbavature, e che mi ha lasciato complessivamente un buon sapore in bocca.

Infatti, per quanto il taglio non sia certamente graffiante come in altre pellicole del regista sudcoreano, al contempo riesce ad essere una pellicola con i piedi per terra, che non vuole accontentare lo spettatore, ma bensì educarlo.

Insomma, dategli una possibilità.

Introduzione

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La qualità della scrittura di Okja si nota fin dall’introduzione dei protagonisti.

Dopo un rapido prologo dedicato al progetto Mirando, il film ci catapulta nel presente per farci conoscere da vicino i protagonisti della storia, definendone i caratteri con pochi tratti essenziali e con una assoluta naturalezza di scrittura – in altre parole, senza scadere nel facile didascalismo.

Infatti, anche se i protagonisti non si scambiano che poche parole, comprendiamo immediatamente il loro stretto rapporto, definito dal crescere insieme e dal supportarsi l’un l’altra, in particolare sottolineando come Okja non sia una bestia da soma, ma anzi un animale piuttosto ingegnoso.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Il quadro si conclude col breve dialogo con il nonno di Mija, che racconta la fin troppo ingenua illusione della protagonista di poter continuare a vivere con Okja sulle montagne senza le interferenze di Mirando – scenario che noi spettatori intendiamo fin da subito come impossibile.

E, infatti, la multinazionale sta già bussando alla porta.

Apparenze

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

La strategia di Mirando è tutta apparenza.

Lo dimostra anzitutto l’arrivo del Dr. Wilcox, la cui insofferenza per dei luoghi effettivamente naturali e selvaggi racconta come non sia nient’altro che un becero prodotto televisivo – con, fra l’altro, un Jake Gyllenhaal in uno dei ruoli probabilmente più divertenti della sua carriera.

Altrettanto di facciata è tutta l’operazione dei supermaiali, solo apparentemente una nuova razza scoperta e allevata in maniera certosina per premiare il più meritevole, in realtà semplicemente un’ambiziosa strategia di marketing per vendere un prodotto OGM.

Tilda Swinton (Lucy Mirando) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

In generale, Okja riesce a raccontare anche in maniera piuttosto vincente i metodi estremamente ingannevoli con cui da anni le multinazionali cercando di ripulirsi l’immagine per rendersi più vendibili ad un pubblico almeno sulla carta più consapevole riguardo alle questioni ambientali…

…ma con una costruzione talmente artefatta che basta veramente poco perché – come si vede appunto nel film – la stessa crolli su se stessa, vivendo di una costante strumentalizzazione di simboli e personaggi che vengono sistematicamente svuotati del loro significato originario.

Ma l’altra parte è davvero migliore?

Costo

Paul Dano in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Un grande merito di Okja è il non dare una divisione netta delle due parti.

Se infatti Lucy Mirando non è una spietata calcolatrice, ma una figlia sana del capitalismo, al contempo le figure del gruppo FLA non appaiono come dei salvatori senza macchia, ma anzi vengono ritratti nella loro più interessante scala di grigi.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Infatti, per quanto si propongano come gli eroi della storia, in realtà finiscono anche loro per strumentalizzare Okja per dimostrare la loro tesi – come si rendono ben conto davanti alla visione raccapricciante della fecondazione forzata che il super maiale deve subire anche per colpa loro.

E, soprattutto nella conclusione della pellicola, diventa tanto più fondamentale definire i limiti di entrambe le parti in gioco, proprio a rappresentare una situazione spinosa e dalla non facile soluzione, per un film che non vuole illudere lo spettatore, ma dargli anzi uno spaccato realistico del suo presente.

Infatti, l’unica che vince è proprio Mija.

Consapevolezza

La maturazione di Mija è forse il lato più amaro della pellicola.

La protagonista viene infatti catapultata all’interno di uno scenario che non contempla una parte assolutamente positiva che si contrappone ad uno schieramento assolutamente negativo, ma bensì un sistema profondamente corrotto e la cui salvezza è ancora lontana.

Una situazione tanto più angosciante all’arrivo al mattatoio, sequenza che cerca il più possibile di rimanere coi piedi per terra per un racconto che poteva essere facilmente dato in pasto al pubblico, ma che invece nel suo realismo è già abbastanza impattante.

Ahn Seo-hyun (Mija) in una scena di Okja (2017) di Bong Jo-Hoon

Ed è tanto più interessante che la pellicola, diversamente da altri prodotti analoghi, non si concluda positivamente, ma anzi diventi sempre più amara nel rappresentare come, nonostante la situazione inumana degli allevamenti sia sotto agli occhi di tutti, un prodotto conveniente riuscirà sempre a vincere sul mercato.

Per questo la grande consapevolezza di Mija nel finale è che, almeno per ora, non può battere il sistema, e se vuole ottenere quello che vuole – la salvezza di Okja – può solo ragionarci con le sue stesse armi: diventare la prima acquirente del tanto desiderabile super maiale.

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Avventura Azione Bong Joon-ho Drammatico Film Postapocalittico

Snowpiercer – Lo scontro di tendenze

Snowpiercer (2013) è il primo film in lingua inglese di Bong Joon-ho.

A fronte di un budget abbastanza importante – 40 milioni di dollari – non è stato purtroppo un gran successo commerciale, riuscendo appena a doppiare i suoi costi di produzione.

Di cosa parla Snowpiercer?

2031. In un mondo in cui l’umanità è stato sterminata da una nuova Era Glaciale, gli ultimi sopravvissuti vivono stipati in un treno che viaggia ininterrottamente intorno alla Terra. Eppure i problemi sono gli stessi di sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Snowpiercer?

Chris Evans e Song Kang-ho in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In generale, sì.

Grazie a questa seconda visione ho complessivamente rivalutato Snowpiercer, in quanto, con una consapevolezza maggiore dell’opera del maestro coreano, è riuscito più facile cogliere il racconto tematico che viene imbastito in maniera anche piuttosto vincente…

…ma che, a mio parere, rimane comunque sporcato da una tendenza al sensazionalismo spicciolo, che finisce spesso per appiattire un riflessione ben più profonda, rendendo in molti punti la narrazione claudicante e poco pensata.

Però, dategli comunque un’occasione.

Coda

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il primo atto del film è un’ottima introduzione da tutti i punti di vista.

La narrazione riesce infatti ad abbracciare solidamente i personaggi e la loro condizione iniziale, mostrandoli, grazie anche ad una fotografia piuttosto desaturata e ricca di chiaroscuri, costretti in una bolgia senza scampo, ammassati uno sopra l’altro.

Ed altrettanto ben definito è il trattamento opprimente da parte del resto del treno, che vede la Coda come un peso insopportabile, un invasore che può godere solamente del minimo indispensabile, e che deve anzi sopportare ogni tipo di sopruso.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

In questo frangente è anche ben definito l’elemento più strettamente intrattenitivo: la costruzione di un climax crescente di tensione verso il misterioso piano di Curtis, che sembra quasi dialogare con il pubblico stesso, intimandolo di aspettare il momento giusto.

E, con l’arrivo della malefica Mason, il quadro tematico è completo.

Piede

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Il discorso del personaggio di Tilda Swinton non è altro che l’esplicazione di un concetto già definito.

Memore della famosa parabola di Agrippa, Mason accompagna la dolorosa punizione del ribelle con un sermone educativo, che ribadisce l’importanza dei ruoli all’interno del corpo e quindi del treno, in cui ognuno ha il proprio posto definito all’interno di un grande schema che altrimenti crollerebbe su se stesso.

Un discorso che si collega perfettamente alla contemporaneità – con discorsi e immagini poi riprese anche in Parasite (2019) – di una società – nello specifico quella sudcoreana – in cui l’ascensore sociale è fermo e il classismo è il grande protagonista di un sistema che rivendica il suo ordine naturale.

Tilda Swinton in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

Ma il discorso si aggrava, diventando, anche più attuale, se si pensa che gli abitanti della Coda si trovano in una condizione di assoluta miseria proprio per l’azione stessa della Testa del treno, che ha distrutto l’ambiente e ha poi concesso solamente ai suoi simili di salvarsi.

Per questo il tunnel di Curtis è tanto più significativo, perché rompe – letteralmente e metaforicamente – le barriere impenetrabili che dividono le classi sociali, forzando un sistema che risponde colpo su colpo ad ogni tentativo di ribellione. 

E da questo elemento si sviluppa l’ottimo concetto finale. 

Contenere

L’ultima classe è sacrificabile in più sensi.

La filosofia di un sistema perfetto da mantenere integro, anche eliminando le sue parti più deboli, racconta come ogni tentativo di ribellione sia in realtà orchestrato in funzione della sopravvivenza della Testa, all’interno di una filosofia apparentemente razionale, in realtà totalmente discriminatoria.

Un utilizzo delle leve di pancia della massa che ricordano più da vicino tendenze politiche emerse quasi un decennio più tardi dall’uscita del film, in cui improbabili – ma molto furbi – capipolo irrobustiscono la loro posizione di potere lucrando sulle paure del popolo in maniera sempre più viscerale.

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

E la debolezza del sistema è tanto più significativa con lo svelamento di un motore a pezzi, che può essere salvato solamente costringendo le nuove generazioni della Coda a compiere attività meccaniche e alienanti – esattamente come la classe operaia un tempo, e la realtà proletaria ed immigrata oggi.

Eppure, questo discorso è costantemente indebolito.

Sensazionalismo

Chris Evans in una scena di Parasite (2013) di Bong Joon-ho

È evidente che Snowpiercer non sia del tutto una creatura di Bong Joon-ho.

Infatti, per quanto tutti i discorsi di cui sopra siano validissimi e il regista coreano abbia fatto veramente del suo meglio per farli emergere, si è altrettanto pesantemente dovuto scontrare con una produzione che ha cercato il più possibile di rendere il prodotto vendibile – per cui i noti scontri con Weinstein sono solo la punta dell’iceberg.

Questo si traduce con due tendenze che ho davvero poco apprezzato.

Da una parte, un devastante sensazionalismo, visivo e di scrittura, che rende molte scene fin troppo eccessive e caricate nei toni, quasi ad esasperare un taglio grottesco da sempre proprio del regista coreano – in cui spicca la famosa scena della scoperta di cosa contengono le barrette proteiche.

Dall’altra, scene di azione spesso piuttosto affrettate e fin troppo confusionarie, con personaggi che entrano ed escono di scena senza che gli sia concesso il dovuto spazio, andando soprattutto a colpire l’atto finale, che risulta molto meno vincente proprio per una poca chiarezza della messinscena.

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Dramma familiare Drammatico Film Giallo Mistero Thriller

Madre – L’occhio della madre

Madre (2009) di Bong Joon-ho è un thriller poliziesco e il suo terzo film in lingua coreana.

A fronte di un budget piccolissimo – 5 milioni di dollari – anche per la sua distribuzione limitata, ha avuto un riscontro piccolo ma significativo: 17 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Madre?

Yoon Do-joon è un ragazzo con una disabilità mentale totalmente sotto la protezione della madre, che farebbe qualunque cosa tenerlo al sicuro…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Madre?

Assolutamente sì.

Al pari di Memorie di un assassino (2003), anche Madre è un incontro piuttosto curioso – ma assolutamente vincente – fra un thriller sanguinoso e una commedia nera dai toni a tratti estremamente amari, con un utilizzo del climax e dei colpi di scena semplicemente perfetto.

Così Bong Joon-ho riesce ancora una volta – e costantemente – a stupire lo spettatore sbarigliando le carte in tavola in maniera assolutamente inaspettata, e includendo al contempo la sua onnipresente riflessione sulla problematica situazione sociale in Sud Corea.

Insomma, da non perdere.

Guardia

La Madre è un guardiano.

La costante soggettiva della donna nei confronti del figlio dall’altro lato della strada è indicativa della sua onnipresente sorveglianza, che, con lo scontro con la macchina, ne svela l’insita fragilità, che la fa scoppiare in urla di disperazione.

Ed farebbe davvero di tutto per proteggerlo.

Un personaggio in realtà rappresentativo delle angosce di una classe media estremamente impoverita, che vive alla giornata, tramite sotterfugi e lavori improvvisati – e spesso, neanche del tutto legali – necessari per la propria sopravvivenza.

Un quadro che si carica di note anche più drammatiche con la scoperta del tentato omicidio – suicidio, dettato da una disperazione crescente verso una situazione economica irrisolvibile – che il figlio rigetta nella sua totale inconsapevolezza.

E, infatti, Do-joon è incontrollabile.

Innocuo

Do-joon è un ragazzo…innocuo?

Nonostante il continuo susseguirsi di controlli scrupolosi da parte della Madre, il protagonista appare come una figura profondamente imprevedibile, che fin da subito mette in scena la sua violenza sopita quanto inconsapevole, che esplode improvvisamente in più momenti della pellicola.

Eppure, al contempo, il film è piuttosto credibile nel raccontarci questi frangenti come tutto sommato innocui, e a farci credere che Do-joon in realtà non farebbe male neanche ad una mosca, motivo per cui infine ci dispiacciamo nel vederlo bistrattato dalla polizia.

Anzi, ci sembra tanto più prevedibile la sua inconsapevole firma all’atto di confessione, apparentemente dovuto alla violenza ingiusta da parte dei poliziotti – già ampiamente esplorata in Memorie di un assassino – che il ragazzo legge come un atto di rivendicazione, come ben racconta la sua battuta:

Posso essere anche cattivo.

Eppure, c’è un fondo di verità che non cogliamo subito…

Strada

La strada per scoprire il vero colpevole sembra ormai tracciata.

Infatti Bong Joon-ho ci fa imboccare un percorso del tutto illusorio di svelamento dei veri colpevoli: prima lo scapestrato compagno di Do-joon, poi la pista più fertile dei clienti della vittima, che raccontano una rete sotterranea di prostituzione minorile, in cui omicidio non è che l’ovvia conseguenza.

Insomma, ancora una volta il regista ci intrappola nel suo inganno delle semplicità e prevedibilità della storia, prendendo le mosse da un topos narrativo piuttosto comune e dalla facile risoluzione, che ci porta facilmente a empatizzare con l’apprensiva Madre.

Ed è tanto più interessante quanto la protagonista, nella sua piccola statura, riesca abilmente ad agire nell’ombra, mai cercando lo scontro fisico, ma delegando ad altri la parte attiva, nonostante i diversi ostacoli che le vengono messi lungo la strada.

Eppure, alla fine tutto cambia.

Inconsapevolezza

Il finale, ancora una volta, sembra già scritto.

L’epifania di Do-joon sembra il tassello risolutore di un quadro già definito, di cui manca solamente il colpevole, individuato nell’oscura figura del raccoglitore di rifiuti, che, una volta consegnato alla polizia, scarcererebbe infine lo sfortunato e innocente ragazzo.

E invece il sicuro colpevole diventa il testimone chiave della vicenda, che ci narra quanto Do-joon sembra genuinamente non ricordare: la furia feroce e improvvisa con cui ha scagliato un enorme masso in testa alla ragazza che l’aveva rifiutato, e gettando la Madre in uno stato di profondo sconforto…

…che esplode in una furia omicida disperata che la porta per la prima volta ad essere protagonista dell’azione, per poi tornare totalmente passiva e impotente davanti alla cattura del vero colpevole, a cui chiede disperata se anche lui abbia una madre che lo possa proteggere come lei ha fatto per Do-joon.

Il quadro si conclude nella comprensione della totale inconsapevolezza di Do-joon, che racconta in terza persona le vere motivazioni dell’esposizione del corpo e che, infine, consegna senza rendersene conto l’unica prova che collegava la Madre alla scena del crimine…

…portando la donna a cancellare con le sue stesse mani il ricordo degli orrori di cui si è macchiata per liberare il figlio, gettandosi infine nel giubilo della folla festante che balla, rappresentazione indiretta della medesima inconsapevolezza del figlio, che probabilmente mai si ricorderà della verità della vicenda.