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L’ora del lupo – L’incubo privato

L’ora del lupo (1968) è un’opera minore della filmografia di Ingmar Bergman, in cui il regista svedese sperimenta con l’elemento fantastico e orrorifico.

A fronte di un budget sconosciuto – ma come sempre probabilmente piuttosto basso – incassò 250 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla L’ora del lupo?

Johan Borg è un pittore ossessionato dal suo passato. E il suo soggiorno in un’isola sperduta non migliora la situazione…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere L’ora del lupo?

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

In generale, sì.

Non posso dire che L’ora del lupo sia uno dei titoli più memorabili della filmografia di Bergman: il regista sembra trovarsi in un momento di passaggio, in cui deve scegliere che taglio dare all’apparato simbolico che caratterizza ogni sua opera.

Tuttavia, il voler sperimentare in maniera così importante con il fantastico e il grottesco, rende questo film una classica opera del regista, ma mancante della brillantezza tematica e filosofica che caratterizzava le sue precedenti pellicole – in particolare, Il posto delle fragole (1957)

Eden

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Il primo approccio all’isola è promettente.

Inizialmente infatti Johan sembra riuscire ad apprezzare l’atmosfera idilliaca e bucolica del luogo, come testimoniano i brevi quadretti in cui si intrattiene con la moglie, in scambi di affetto e dialoghi spensierati e sognanti.

Ma l’elemento fondamentale è proprio la pittura, lo strumento con cui il protagonista effettivamente esprime sé stesso e i propri sentimenti: sulle prime, le sue opere sono ispirate alla stessa moglie, Alma, proprio all’interno di quello che è ancora un piacevole eden.

Ma basta poco perché il sogno si spezzi.

Incubo

Liv Ullmann e Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Già nel giro di poche scene il protagonista appare turbato e scostante, sempre più lontano da quella spensieratezza che l’aveva caratterizzato fino pochi momenti prima, angosciandosi via via sempre maggiormente con l’avvicinarsi delle tenebre.

Così, nella macabra oscurità, comincia a raccontare il suo conflitto interiore, rappresentato da creature deformi ed inspiegabili, dalle forme più strane e raccapriccianti, fra l’umano e il mostruoso.

E in questo modo si inizia anche a delineare l’incolmabile distanza fra il pittore e Alma, che a tratti appare turbata, a tratti prova a dare ascolto alle paranoie di Johan, nonostante queste rimangano per lo più incomprensibili…

Diario

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Anche Alma è all’interno dell’incubo.

Su consiglio di uno dei tanti spettri che popolano l’isola – e la mente del marito – sceglie infine di provare a comprenderne i più profondi segreti, proprio andando a scavare nel luogo in cui più direttamente Johan si esprime.

Il diario.

E la memoria più bruciante riguarda Veronica Vogler.

In passato Johan era stato protagonista di uno scandalo di costume, che l’aveva portato negli anni ad essere non tanto ossessionato dalla donna in sé, ma dal suo ruolo nella vicenda, in quella realtà mondana così lontana dal luogo in cui ora si è rifugiato.

E proprio nel diario Alma trova anche il passaggio in cui Johan racconta di essere stato chiamato a far nuovamente parte di quel circolo di personaggi mostruosi, gli stessi che furono – e saranno anche poi – il pubblico di quel particolare episodio.

Fuggire

Max von Sydow in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Fuggire è impossibile.

Nonostante la stessa Alma abbia espresso le sue inquietudini, Johan non riesce a distaccarsi da quella realtà, a cui viene nuovamente e in breve tempo invitato, a rappresentazione proprio del suo desiderio quasi inconscio di farne parte.

Il ritorno sui suoi passi è tanto più destabilizzante quanto segue allo svelamento di un altro segreto, ancora più raccapricciante: l’uccisione del bambino, apparentemente una figura innocente, in realtà un altro personaggio mostruoso del suo tormentato passato.

L’ultima sequenza nel castello è quella più strettamente teatrale.

Johan viene rivestito e riplasmato, come se dovesse prendere parte proprio ad uno spettacolo, uno spettacolo che lui stesso stava ossessivamente cercando, ma che lo rende anche inquieto, proprio per il taglio grottesco, surreale e quasi orrorifico dell’atmosfera che lo circonda.

In questo senso, è emblematico l’incontro con Veronica, prima morta, poi viva, poi mostruosa, che cerca di assalire il protagonista con un amore vorace, fino a renderlo deforme, ma ben adatto alla commedia dell’assurdo di cui ha scelto di far parte.

Colpevole

Liv Ullmann in una scena di L'ora del lupo (1968) è di Ingmar Bergman

Alma si sente colpevole.

Nonostante fosse stata ferita e cacciata dal marito a colpi di pistola, ha scelto comunque di stargli accanto mentre riversava sconvolto le sue memorie nel diario, per poi inseguirlo nel bosco, ancora decisa a salvarlo.

E davanti all’impossibilità di scacciare i suoi demoni, davanti all’impossibilità di strapparlo da quell’incubo, comunque nel presente la donna si domanda pensierosa se la sua colpa fosse di non averlo amato abbastanza…

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The Fabelmans – La magia del cinema povero

The Fabelmans (2022) è l’ultima opera di Spielberg, e quella più personale della sua produzione.

Più che un film, un commosso e sentito omaggio alla sua famiglia.

Purtroppo, a fronte di un budget di 40 milioni di dollari, ne ha incassati appena 45…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2023 per The Fabelmans (2022)

(in nero i premi vinti)

Miglior film
Miglior regista
Migliore sceneggiatura originale
Miglior attore non protagonista a Judd Hirsch
Migliore attrice non protagonista a Michelle Williams
Migliore colonna sonora
Migliore
scenografia

Di cosa parla The Fabelmans?

Un giovanissimo Sammy viene portato per la prima volta al cinema. Un’esperienza che lo segnerà per sempre…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Fabelmans?

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prima di vedere The Fabelmans, avevo dei grossi dubbi, dal momento che fa parte di un genere – quello del biopic – molto standardizzato nelle tematiche e nelle dinamiche, che gioca spesso su trigger emotivi facili e scontati, e che per questo non apprezzo particolarmente.

Non è il caso di The Fabelmans.

Vedendo questa pellicola si ha la costante sensazione di trovarsi davanti al racconto di una storia vera, che non cerca di farti piangere o emozionare per forza, ma piuttosto di coinvolgerti e intrattenerti attraverso dinamiche piacevoli, divertenti e genuine.

E con la splendida mano autoriale di Spielberg.

Una storia vera…

Paul Dano e Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Ovviamente non potremo mai sapere quanto Spielberg abbia inventato e quanto ci sia di vero in The Fabelmans.

Ma, se si è inventato tutto, ci ha ingannati perfettamente.

La pellicola è quasi una raccolta di aneddoti, senza focus così forte sull’aspirazione del protagonista di diventare un regista, né foreshadowing volti a celebrare il suo genio. Al contrario, un racconto vero e sentito della nascita della sua passione, ma all’interno di una storia più ampia e sentita su una famiglia imperfetta.

Per tutta la durata non sapevo cosa aspettarmi, perché non c’era niente di veramente scontato.

…per un cinema vero

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Nonostante appunto non sia del tutto il punto centrale della pellicola, il racconto dello sbocciare della passione del cinema per il protagonista è la parte più affascinante della storia.

Spielberg è riuscito a mostrarci, attraverso dinamiche credibili e interessanti, come riusciva a girare piccoli film muti, facendo leva sulla sua incredibile creatività e ingegnosità per creare degli effetti speciali caserecci, ma di grande effetto.

E mostrando già la sua capacità nel dirigere gli attori e l’occhio registico che stava sviluppando per i particolari da mettere in risalto, riuscendo a dare tridimensionalità e profondità alle scene e alle storie che portava in scena.

Fra l’altro con una perfetta corrispondenza fra la tecnica mostrata nei film amatoriali, e quella che caratterizza il film stesso.

Raccontarsi

Gabriel LaBelle in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Raccontare sé stessi non è mai facile.

Tanto più quando sei uno dei più grandi maestri del cinema.

Tuttavia, mai nella pellicola ho sentito che Spielberg volesse in qualche modo autocelebrarsi. Al contrario, mi è sembrato che volesse mettere in scena proprio lo sbocciare della sua passione e di come effettivamente avesse cominciato a guardare il mondo con l’occhio della macchina da presa.

Davanti a questo ottimo risultato, non posso che fare un paragone con un’altra opera di taglio autobiografico di recente produzione: Bardo (2022) di Alejandro Iñárritu. Per quanto mi renda conto che si tratta di due film molto diversi, in entrambi il regista si propone di mettere in scena la sua vita e la sua arte.

E, come Iñárritu si è decisamente troppo sbilanciato in una fragile – e pomposa – celebrazione della sua opera, Spielberg ha meglio raccontato la sua passione, lasciando al pubblico il giudizio.

A dimostrazione proprio di come raccontarsi in maniera genuina e senza stare sulla difensiva era non solo fattibile, ma auspicabile…

Una madre (troppo vera)

Michelle Williams in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

Come fondamentalmente tutto il film è assolutamente godibile, ho trovato leggermente più pesanti le sequenze dedicate a Mitzi, la madre del protagonista. Più che altro perché la stessa, ad uno spettatore esterno, appare un personaggio molto egoista e di fatto negativo, e non così facilmente perdonabile.

Al contrario, Sam – e di conseguenza il regista – la perdona totalmente.

Sicuramente un indizio del sentimento profondo e sincero di Spielberg verso la madre – fra l’altro venuta a mancare qualche anno fa. Tuttavia, una rappresentazione che ho trovato poco credibile e interessante, con uno scioglimento quasi troppo semplicistico.

Ridiamoci su

Paul Dano, Michelle Williams e Mateo Zoryon Francis-DeFord in una scena di The Fabelmans (2022) di Steven Spielberg

The Fabelmans presenta diversi elementi di ironia che scherzano anche su tematiche non facilissime da gestire: la morte e l’ebraismo.

Si ironizza facilmente e in maniera molto genuina sulla morte della nonna a metà film, e altrettanto sulle tradizioni ebraiche e le loro stranezze – che appaiono tali a chi non ne fa parte. Sulla stessa linea, appaiono quasi grotteschi – ma molto credibili – i comportamenti dei compagni di scuola di Sam verso la sua religione, l’assurda relazione con Monica, l’esilarante personaggio del prozio Boris…

Oltre a questo, assolutamente indovinata la scena su del colloquio con John Ford, con una simpatica trovata metanarrativa a chiusura della pellicola.

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Ready Player One – È solo un gioco?

Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, benché non sia stato forse l’incredibile successo economico che ci si aspettava, è diventato in poco tempo un piccolo cult.

Infatti, a fronte di un budget di 175 milioni di dollari, ha incassato appena 600 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Ready Player One?

Terra, 2045. Wade vive in un mondo che da decenni ha una sola ossessione: OASIS, un gioco multigiocatore il cui solo limite è la fantasia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Ready Player One?

L'avatar di Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In generale, sì.

Ready Player One è uno spettacolo per gli occhi, uno dei migliori progetti artistici ad alto budget degli ultimi anni, fra l’altro diretto con grande precisione ed eleganza da un regista del calibro Spielberg, che omaggia una pop culture che lui stesso ha contribuito a formare.

Tuttavia, il grande problema di questo film è la sua ossessione nel voler sminuire il mondo dei videogiochi e della realtà digitale, insistendo su come le stesse siano esperienze irreali e per questo poco significative, utilizzando fra l’altro motivazioni piuttosto triviali…

Insomma, da vedere, ma preparati.

Finzione

L'avatar di Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il mondo di OASIS è spettacolare.

La sequenza iniziale – così come quella finale – è uno dei migliori esempi di utilizzo consapevole della CGI, impreziosito da una regia attenta e precisissima, riuscendo a portare in scena una sequenza piuttosto affollata e apparentemente confusionaria in maniera chiara e comprensibile.

E bastano poche righe di sceneggiatura per raccontare le informazioni essenziali del mondo in cui la storia si muove, senza andarsi a perdere in una mitologia troppo complessa, ma invece introducendo gradualmente i diversi elementi in gioco.

L'avatar di Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In particolare, davvero indovinata la rappresentazione della morte degli avatar all’interno del gioco, con un’esplosione non solo di monetine, ma, come si vede nel finale, anche di tutti gli oggetti accumulati negli anni dal giocatore.

Ancora più incredibile è il character design semplicemente splendido dei diversi personaggi, che riescono a ricalcare l’aspetto reale degli attori con degli avatar che già da soli rappresentano uno splendido omaggio alla cultura pop.

E non è finita qui.

Quest

Il Fondatore in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Il film sarebbe già stato perfetto per la sua fantastica resa del mondo di gioco.

Ma la trama è persino impreziosita da un mistero intrigante ed avvincente, che si sviluppa all’interno di una quest piuttosto classica, ma che racconta la genuina passione degli autori per il tema fondante della pellicola.

Personalmente la mia tappa preferita è la prima: pur nella sua semplicità, mi colpisce sempre per la brillantezza della quest e della sua risoluzione, che riesce a ricalcare una sequenza già splendida – la corsa – ma riproponendola in una veste nuova e per nulla scontata.

Non meno splendidamente realizzata la seconda quest, dedicata a una rilettura di Shining (1980), che utilizza l’escamotage del personaggio ignorante sulla materia per riproporre in una veste nuova alcuni degli elementi più iconici del film.

Così l’ultima tappa è uno splendido omaggio ad uno degli elementi a tratti più avvincenti dell’esperienza videoludica: scovare gli easter egg nascosti, la cui scoperta è talvolta effettivamente più intrigante della banale vittoria contro il boss di turno.

Ma Ready Player One vive di omaggi.

Omaggio

Il gigante di ferro in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

In Ready Player One si contano quasi 140 citazioni.

Da Il gigante di ferro (1999) a Animal House (1978), da colossi del mondo videoludico – almeno al tempo – come Overwatch e Mario Kart fino a cult imprescindibili come Gremlins (1984) e Akira (1988), il film è un enorme omaggio alla cultura pop.

Ed è un omaggio che, nonostante l’affollamento di citazioni, non appare mai forzato o eccessivo, ma perfettamente integrato all’interno della narrazione, con elementi ora centrali alla scena, ora sapientemente relegati nelle sue retrovie.

E non è cosa da poco.

E proprio per questo un dubbio mi sale…

Gioco…

Wade e Halliday in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

È solo un gioco?

Davanti ad una costruzione così articolata, all’omaggio per nulla scontato, anzi quasi alla celebrazione della cultura pop e videoludica, mi ha sempre stranito quanto Ready Player One sembri odiare il mondo che porta in scena.

O, almeno, se non odiare, quantomeno profondamente sminuire, insistendo su un’idea veramente vetusta per cui i videogiochi – e il mondo virtuale in genere – siano un’esperienza irreale, che deve rimanere confinata al semplice passatempo.

Insomma, all’esperienza videoludica prima maniera.

Discorso che avrei potuto accettare forse negli Anni Ottanta e Novanta, ma che oggi quanto nel 2018, in una realtà così variegata e in continua ascesa, con alcuni titoli videoludici che rivaleggiano col cinema stesso, mi sembra un’idea davvero superficiale e superata.

Per questo mi disturbano profondamente gli ultimi due atti, in cui si cerca di sottolineare quasi ossessivamente la differenza fra realtà e finzione, come se un nome da noi creato online non ci potesse definire, come se i rapporti del protagonista non fosse già profondi ed importanti anche prima di incontrare nella realtà i suoi amici…

Villain

Sorrento in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

Secondo questo concetto, il villain è uno degli elementi più deboli della pellicola.

Il suo ruolo è definire in maniera netta la differenza fra un mondo videoludico – e digitale – passato e quasi privo di interessi economici, e una realtà futura – e in qualche modo ormai presente – ingoiata dalla pubblicità e guidata unicamente dal profitto.

In questo modo, il film rimane su un piano veramente semplice e ingenuo, non presupponendo neanche la possibilità di una serena via di mezzo, fra l’azienda assassina che crea campi di concentramento e un mondo digitale senza regole.

Allo stesso modo, la storyline dedicata alla sconfitta del villain l’ho trovata poco interessante, in quanto basata su schemi narrativi piuttosto classici, provenienti proprio dai tanto sospirati Anni Ottanta-Novanta, risultando però così l’elemento meno indovinato del film.

Tanto più che la storia di Sorrento, anche nella sua semplicità, non ha il coraggio di compiere il passo decisivo verso una riflessione più profonda riguardo alla penetrazione delle aziende all’interno del mondo dell’intrattenimento.

Ed è un’importante mancanza.

Realtà?

Wade e Samantha in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

La visione nostalgica di Ready Player One l’avrei anche potuta accettare se avesse fatto un passo in più verso una riflessione più sentita e contemporanea, invece che ridurre il tutto ad uno stereotipo piuttosto superato del nerd senza una vita sociale.

Infatti, se nel finale il film mi avesse raccontato che la sospensione settimanale dell’accesso ad OASIS fosse finalizzata a ricreare la comunità, a ricostruire le città distrutte, a smuovere il governo verso investimenti lungimiranti, sarebbe stato anche uno spunto riflessivo interessante…

Wade in una scena di Ready Player One (2018) di Steven Spielberg

…invece la messinscena e la sceneggiatura sembrano ridurre il tutto al protagonista che diventa più sessualmente intraprendente, andando a sanare la colpa di James Halliday, con una eloquente chiusura della pellicola su Wade e Samantha che si baciano appassionatamente.

Insomma, due protagonisti sono infine concentrati solo sulla loro piccola realtà, ma del tutto ignari di tante persone intorno a loro che potrebbero per i più svariati motivi – distanze fisiche incolmabili, disabilità… – non poter sentire per due giorni i loro più cari affetti…

…non potersi svagare da una realtà magari irrimediabilmente angosciante.

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2023 Dramma familiare Drammatico Film Giallo Legal drama Oscar 2024

Anatomia di una caduta – Dissezione

Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet è stato uno dei film più chiacchierati della Stagione dei Premi 2024, grazie alla vittoria della Palma d’Oro a Cannes.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 6,2 milioni di dollari – complessivamente è stato un successo commerciale: 26 milioni di incasso in tutto il mondo.

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Anatomia di una caduta (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior regia
Migliore attrice protagonista a Sandra Hüller
Miglior sceneggiatura originale
Miglior montaggio

Di cosa parla Anatomia di una caduta?

Samuel muore per via di una misteriosa caduta. E tutto punta verso la moglie, Sandra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Anatomia di una caduta?

Sandra Hüller e Swann Arlaud in una scena di Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet

Assolutamente sì.

Anatomia di una caduta è uno splendido legal drama che riesce dove molti film del genere di riferimento falliscono: essere una storia credibile, in cui molti spettatori possono potenzialmente riconoscersi.

Infatti, in qualche modo noi stessi diventiamo i giurati che assistono alla cinica e spietata dissezione della vita della protagonista e del suo rapporto col marito, tutto tranne che chiaro, anzi piuttosto fraintendibile…

Insomma, da non perdere.

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Avventura Darren Aronofsky Dramma familiare Dramma romantico Drammatico Fantastico Film Grottesco Horror

Requiem for a dream – Dipendenti e soli

Requiem for a dream (2000) è forse l’opera più profondamente sperimentale di Darren Aronofsky.

A fronte di un budget molto contenuto – 4,5 milioni di dollari – non fu un grande successo commerciale, con appena 8 milioni di incasso.

Di cosa parla Requiem for a dream?

Harry è un tossicodipendente che sembra vivere la vita perfetta piena di eccitazione e pericolo. Ma il dramma è dietro l’angolo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Requiem for a dream?

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Sì, ma…

Requiem for a dream è un film splendidamente scritto e diretto, con una tecnica incredibilmente sperimentale e una rappresentazione degli USA dei primi Anni Duemila piuttosto disincantata e tragicamente realistica.

Tuttavia, è anche un progetto per lunghi tratti estremamente disturbante, proprio nel suo spietato realismo, che però lavora molto più sul trasmettere emozioni che sul mostrare contenuti espliciti e scioccanti.

Insomma, da vedere, ma arrivandoci preparati.

Sogno

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Inizialmente Requiem for a dream sembra effettivamente un sogno.

Per quanto ci siano delle piccole crepe nel rapporto fra Harry e la madre, in realtà la donna gli vuole talmente bene da derubricare i suoi continui furti per comprarsi la droga a delle marachelle di quello che, purtroppo, è il suo unico figlio – e unico affetto ancora vivo.

Jared Leto e Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

E così Harry continua a fare uso di stupefacenti che rendono ancora più eccitante e quasi onirica la storia d’amore con Mary: i due appaiono sulle prime come una coppia giovane e immacolata, che vive fra la droga e le sciocche ragazzate.

Momenti impreziositi da una regia incalzante e frenetica, perfetta per raccontare l’immediatezza dell’eccitazione data dall’uso dell’eroina, che appena entra in vena rilassa, eccita, emoziona.

Ma è un sogno fragile.

Vuoto

Jared Leto in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Harry e Mary non sono solo dipendenti dalle droghe.

Più la storia prosegue, più appare evidente come i due siano ingenuamente immersi in un sogno che non sembra aver fine, avendo vissuto solamente del lato più eccitante e travolgente dell’esperienza…

…ma ignari di vivere in una realtà estremamente provvisoria, in quanto del tutto dipendente dalla presenza dell’ingrediente magico – l’eroina – che da un momento all’altro può uscire dalle loro vite, costringendoli a esperire un costante senso di vuoto.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Ma la caduta è progressiva.

Convinti di dover solo momentaneamente rimediare all’assenza della droga, Harry spinge Mary nelle braccia di un uomo che da sempre voleva approfittarsi di lei, in cambio dei soldi ormai necessari per ripristinare il sogno perduto.

Tuttavia, la complicata situazione politica dello spaccio rende la vicenda sempre più difficoltosa, la droga sempre più introvabile, e i modi per ottenerla sempre più disperati e umilianti.

Ma l’eroina non è l’unica droga.

Vincente

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Anche se inconsapevolmente, Sara è dipendente dalla televisione.

O, meglio, dal sogno del vincente che la televisione propone.

In maniera non tanto dissimile ai cori animaleschi che inciteranno Mary sul finale, la televisione è un mondo magico, i cui protagonisti – i vincenti – diventano modelli da seguire, acclamati da un pubblico festante e incontenibile.

E, proprio quando Sara ha la possibilità di mettere piede in quel mondo, si rende conto di non averne i requisiti.

Segue così una drammatica caduta nel precipizio della diet culture e della società dell’apparire, prima costringendosi alla fame per una dieta impossibile, poi diventando dipendente da pillole miracolose, che assume via via in maniera sempre più disordinata ed ossessiva.

Uno slancio sempre più disperato verso un sogno da cui infine si aliena, finché quell’alter ego perfetto per lo schermo viene a fargli visita, deridendola apertamente perché non adatta ad essere una vincente, ma invece perfetta per essere l’oggetto del ludibrio generale.

Aiuto

Ellen Burstyn in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

I personaggi di Requiem for a dream sono irrimediabilmente soli.

Potente e spietata in questo senso la critica al sistema sanitario statunitense, incapace di aiutare persone che hanno così evidentemente bisogno d’aiuto, prima spingendo Sara a cure sempre più drastiche e destabilizzanti…

…poi ignorando del tutto le richieste sia di Harry che di Tyrone, se non all’ultimo momento, quando l’unica soluzione rimasta è l’amputazione, e quindi, più in generale, l’eliminazione dell’individuo scomodo dal tessuto sociale.

Jennifer Connelly in una scena di Requiem for a dream (2000) di  Darren Aronofsky

Paradossalmente, la persona che viene più aiutata è Mary.

Totalmente lasciata da sola nella sua dipendenza e ossessione, alla ragazza non rimane che contattare il suo prossimo carnefice, che intuisce subito la possibilità di utilizzare questo corpo a suo piacimento, in quanto possessore dell’unica cosa di cui ha bisogno.

Così, nel disturbante quanto elegante montaggio finale, si racconta il sofferto e distruttivo punto di arrivo dei protagonisti, in cui spicca una Mary del tutto succube dalla folla di animali per cui si sta esibendo, ma infine rannicchiata felice che stringe come un feticcio il panetto di droga…

…proprio come Sara, ormai persa nel sogno del successo mai arrivato, e, forse, mai veramente possibile.

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Dramma familiare Drammatico Film Ingmar Bergman

Persona – Divorare l’io

Persona (1966) di Ingmar Bergman, con protagoniste Bibi Andersson e Liv Ullmann, è una delle opere più profondamente sperimentali della produzione dell’autore svedese.

A fronte di un budget sconosciuto – ma probabilmente molto basso – incassò circa 90 mila dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Persona?

Elisabeth Vogler è un’attrice che ha smesso improvvisamente di parlare. In compagnia della piuttosto loquace Alma, passa diversi giorni in una casa sul mare…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Persona?

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Assolutamente sì.

Per quanto rispetto ai suoi precedenti prodotti – nello specifico Il settimo sigillo (1957) – Persona manchi totalmente dell’elemento ironico, non manca della regia precisa ed elegante che caratterizza ogni film di Bergman.

In questo caso il regista si imbarca in un progetto incredibilmente sperimentale, impreziosito da una simbologia piuttosto complessa e intraprendente, che ragiona sui temi dell’io, della famiglia e della nascita.

Insomma, da non perdere.

Idolatria

La sequenza del figlio raccoglie in realtà una delle tematiche più viscerali della filmografia di Bergman.

La ricerca di Dio.

In nuce, la totale mancanza di identità sia del personaggio che dell’ambiente che lo circonda, eppure la ricerca quasi idolatrica dell’immagine divina – la Madre, la Creatrice – non allontana questo bambino dallo struggimento dal protagonista della sua opera più famosa: Antonius Block.

Un tema che ben si incasella nell’identità stessa del film, nella sua ricerca dell’io e dell’autodefinizione, in questo caso ricercata in una figura sempre più profondamente incomunicante: la madre.

Una scena tanto più dolorosa quando si arriva all’atto finale, alla rivelazione di questa maternità non voluta, eppure presente e ineluttabile, che porta Elisabeth ad essere, proprio come Dio, totalmente assente dalla vita del figlio.

Persona

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Elisabeth non è più una persona.

Sul palco, proprio quando era nei panni di un’eroina tragica, la protagonista si dissocia prima dal suo personaggio – la dramatis persona – con un’azione del tutto fuori contesto – la risata – poi da sé stessa, calando in un intenzionale mutismo.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

In questa afasia programmatica Elisabeth è passata dall’essere un’attrice, un personaggio del mondo, ad una osservatrice dello stesso, intenta a studiare un’altra figura piuttosto attraente: Alma.

Con la sua condizione, la protagonista diventa infatti l’ascoltatrice perfetta per i profondi drammi interiori della sua compagna, la quale, proprio nell’essere così libera e aperta nel parlare, svela anche l’insvelabile.

Ma già nelle sue parole la dinamica del suo rapporto con Elisabeth è lampante.

Divorare

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

La donna si dilunga nel raccontare esperienze sessuali travolgenti, andando a mettere l’accento proprio sull’atto penetrativo, di apertura e fusione dei corpi ripetuta e ricercata, che racconta indirettamente la stessa dinamica in atto con Elisabeth.

Si accenna anche al tema della maternità, intesa in questo frangente come nascita di un corpo da un altro, proprio in scene in cui le due donne sembrano non solo sovrapporsi, ma proprio unirsi per creare una creatura nuova di zecca.

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infatti, Elisabeth vuole divorare Alma.

La progressiva sovrapposizione delle loro identità è raccontata già solo dalle splendide e simmetriche inquadrature di Bergman, in cui spesso i visi si sovrappongono, si tagliano, si annullano l’un l’altro.

Emblematico anche il primario utilizzo del bianco, come se entrambe le protagoniste fossero personaggi ancora da scrivere: in particolare Alma sembra uno spettro, che splende nella notte col volto pallido, oscurato solo dal corpo della stessa compagna.

Tradimento

Bibi Andersson in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Il tradimento di Elisabeth ha due significati.

Ad un livello strettamente narrativo, rappresenta il risveglio dal sogno.

Leggendo la cinica e analitica lettera di quella che credeva ormai essere diventata la sua confidente – e potenziale amante? – Alma si risveglia improvvisamente dal torpore onirico con cui si era lasciata sedurre.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Questo svelamento si inserisce anche nel contesto simbolico della narrazione, in cui Alma è come se vedesse sé stessa – o quella parte di sé stessa che non voleva vedere – scritta su un foglio come il personaggio di una storia.

Al contempo, comprende la natura divorante di Elisabeth – che non a caso comincia a vestire di nero, il colore che assorbe tutti gli altri – e di come per lei sia solo uno strumento per riavvicinarsi al suo io.

Identità

Bibi Andersson e Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergmanv

Gli ultimi momenti della pellicola rappresentano la definizione.

Alma, proprio quando si accorge sempre di più di star perdendo la sua identità, facendola invece coincidere con quella di Elisabeth, esce dal personaggio e torna in un’altra veste: l’infermiera curante della protagonista.

E proprio in questa parte, ripaga la donna con la sua stessa moneta: prima la definisce malignamente con le più drammatiche e oscure verità del suo essere, poi la attrae e, quando questa cerca ancora di nutrirsi di un io che non è il suo, la punisce fisicamente.

Liv Ullmann in una scena di Persona (1966) di Ingmar Bergman

Infine, avviene l’annullamento.

Rivediamo Alma curare Elisabeth in un contesto nuovamente dominato dal candore del bianco, che in questa sequenza rappresenta il nulla, secondo le stesse parole che l’infermiera fa ripetere alla paziente, in un’azione definitivamente spersonalizzante.

A questo si aggiunge l’accenno metanarrativo: le due donne fanno i bagagli e disfano la scena, che appare ora come un palcoscenico, un set di uno spettacolo che era in corso e che ora si è concluso…

…con l’ultima inquadratura che chiude sul figlio di Elisabeth ancora alla ricerca di un personaggio che, forse, non è mai esistito.

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The Marvels — Un film ad ostacoli

The Marvels (2023) di Nia DaCosta è il sequel di Captain Marvel (2019).

A differenza del primo capitolo, la pellicola è stata un pesante flop commerciale: con budget di circa 220 milioni di dollari, ha incassato appena 206 milioni in tutto il mondo…

Di cosa parla The Marvels?

Per uno strano incrocio di eventi e destini, Carol Danvers, Monica Rambeau e Kamala Khan si ritrovano coinvolte in un’avventura per la salvezza della galassia…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Marvels?

Dipende.

Di per sé The Marvels è un film di qualità medio-bassa per l’MCU: non arriva ai picchi di orrore di Ant-Man and the Wasp: Quantumania (2023), ma al contempo è del tutto evidente come sia un prodotto piuttosto scarso – per scrittura, finalità e montaggio.

Da persona che si è lasciata per anni facilmente coinvolgere nell’umorismo anche molto sempliciotto targato Marvel, sono rimasta piuttosto fredda, anzi quasi imbarazzata, davanti ai tentativi di rendere simpatici e affabili due personaggi così freddi e seri come Carol Danvers e Monica Rambeau.

Ma l’errore più grande di questa pellicola è indubbiamente il suo sconvolgente gatekeeping: pur avendo visto entrambi i prodotti introduttivi dei personaggi – Wandavision (2021) e Ms. Marvel (2022) – mi sono ritrovata comunque confusa dalla totale mancanza di una reintroduzione degli stessi.

E se ero confusa io, posso solo immaginare come si sia sentito chi non sa neanche di chi si sta parlando…

Diversa

Carol appare fin da subito diversa.

Se il suo personaggio aveva preso una direzione caratteriale inedita fin dalla post-credit di Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli (2021), in The Marvels è fin da subito presentata come molto più ironica, affabile, pasticciona.

E così anche per il modo di vestire: se nel primo film prediligeva colori scuri e decisi, in questo caso opta per un abbigliamento molto più simpatico, quasi ironico, che ha il suo picco nella molto discutibile scena in cui diventa una principessa.

Un tentativo che si sposa perfettamente con tutte le difficoltà sia di riproporre in maniera vincente questo personaggio sullo schermo, poco spendibile sia a livello caratteriale – all’inizio appariva fredda e distante – sia per i suoi poteri spropositati.

Ma più che un tentativo di cambiamento, è un tentativo di adattamento.

Uniformare

In The Marvels, Carole deve essere sempre meno simile a sé stessa…

…e sempre più vicina a Ms. Marvel.

La serie di Kamala Khan è il punto di riferimento per il taglio della pellicola – o, almeno, il taglio che la pellicola avrebbe voluto avere – cercando di rendere il più possibile ironiche e divertenti le scene di combattimento quanto di team building.

Si passa così dall’assurdità del primo scontro – con lo scambio continuo ed imprevedibile fra le tre protagoniste – alle scene di training del terzetto, fino a momenti fra il comico e il grottesco di Goose e la sua famiglia che divorano l’equipaggio…

E se questo cambiamento tutto sommato potrebbe pure funzionare grazie alle capacità attoriali di Brie Larson, lo stesso non si può assolutamente dire per Monica Rambeau, personaggio nato in un contesto estremamente drammatico – ricordato anche nella pellicola…

…e i cui gli accenni comici – come quando non vorrebbe volare per salvare Ms. Marvel – mal si adattano alla figura più fuori luogo del terzetto: per quanto ci si sforzi in quella direzione, purtroppo il personaggio di Teyonah Parris è totalmente agli antipodi rispetto a Ms. Marvel.

Elemento che aggrava ancora di più il gatekeeping selvaggio della pellicola.

Ostacolo

The Marvels è una pellicola davvero poco accessibile.

Che sia per via di tagli in fase di post-produzione, che sia per una visione ormai tramontata di stretta connessione fra serie tv e cinema, in ogni caso il pubblico generalista si è trovato totalmente spaesato davanti a due personaggi di cui non sapeva nulla.

Discorso meno grave per Ms. Marvel, di cui quantomeno si recupera il taglio ironico e la regia frizzante ed originale della sua serie di riferimento, nonché le simpatiche dinamiche familiari – anche se le stesse, senza aver visto la serie, risultano molto meno godibili.

Monica Rambeau è invece un mistero.

Oltre alla già citata difficoltà di adattare un personaggio così drammatico ad un contesto così fortemente ironico, si aggiunge la totale mancanza di reintroduzione del suo personaggio, con pochi accenni alle dinamiche di Wandavision e un maggiore focus sul rapporto con Carol.

Tuttavia, trovo piuttosto ingenuo sperare di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un collegamento così debole, riferito non solo ad un film di diversi anni fa, ma soprattutto ad un personaggio che, per ovvi motivi, in Captain Marvel era interpretato da un’altra attrice.

E non è neanche l’aspetto peggiore della pellicola.

Quota

L’elemento più incomprensibile, anzi genuinamente ridicolo di The Marvels, è il suo villain.

Nonostante l’MCU abbia raramente brillato per i suoi antagonisti, in questo caso il villain di Captain Marvel aveva un’importanza non da poco, in quanto doveva giustificare i decenni di assenza della protagonista dall’universo cinematografico.

Purtroppo, la vicenda raccontata è ben poco efficace, e anzi toglie valore alla storia stessa di Captain Marvel, i cui problemi sembrano sostanzialmente limitati ad uno dei tanti mondi che avrebbe liberato dall’Intelligenza Suprema.

Ma il villain diventa praticamente parodistico per l’interpretazione dell’attrice, Zawe Ashton, costantemente sopra le righe, inutilmente eccessiva a dei livelli tali che è incredibile come non sia stata candidata ai Razzie Awards.

Per il resto, il villain si integra nella costante mediocrità del film, proponendo una motivazione banale e già ampiamente esplorata, e a cui la pellicola non sembra neanche particolarmente interessata, concedendogli un minutaggio abbastanza limitato.

Dove si colloca The Marvels (2023)?

Vista la quantità di personaggi presenti, The Marvels si colloca in maniera abbastanza precisa nell’universo MCU.

Il film è ambientato nell’autunno del 2025, subito dopo Ms. Marvel – a cui si collega direttamente – e Hawkeye (2021) – che era ambientato nel Natale del 2024 – e probabilmente anche dopo Secret Invasion (2023).

La pellicola si colloca nella Fase 5 e nella Saga del Multiverso.

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Captain Marvel – Un simbolo vuoto

Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck è stato uno dei più grandi successi commerciali dell’MCU – che fosse per il personaggio o per la vicinanza ad Endgame (2019), è ancora un mistero.

Infatti, a fronte di un budget di 152 milioni di dollari, ha incassato 1,1 miliardi di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Captain Marvel?

Vers fa parte della Starforce, una potente squadra di nobili guerrieri dell’impero Kree. Ma niente è quello che sembra…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Captain Marvel?

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Dipende.

Già al tempo dell’uscita fu piuttosto palese che Captain Marvel fosse niente più che un film molto medio dell’MCU, con un ottimo reparto tecnico – viene da piangere se confrontiamo la CGI di questo film con quella di Secret Invasion (2023) – e una struttura abbastanza classica.

Appare altresì piuttosto evidente, soprattutto ad una revisione ad anni di distanza, quanto la pellicola vada incasellata all’interno delle nuove tendenze del cinema post-metoo, con una Marvel che propose un film bandiera per far vedere di essere dalla parte giusta...

…finendo per produrre un prodotto estremamente vuoto e fine a sé stesso.

Costretta

Brie Larson e Jude Law in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

L’incipit risulta molto più eloquente a visione conclusa.

La protagonista si trova fra due fuochi – il suo caposquadra e allenatore, Yon-Rogg, e la Suprema Intelligenza con un aspetto misterioso – accomunati dalla volontà di limitarla nell’espressione dei suoi poteri e del suo potenziale.

Ma, oltre ad essere frustrata, Vers è totalmente indottrinata dalla propaganda politica dell’Impero Kree, che vorrebbe schiacciare totalmente il popolo degli Skrull – il quale, sulle prime, appare infatti piuttosto ostile ed intrigante.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Una situazione iniziale che metanarrativamente racconta tutt’altro.

La condizione della protagonista vorrebbe in altri termini rappresentare la situazione di donna media all’interno della società in cui vive, la quale cerca costantemente di soffocare le sue potenzialità e di tenerla sotto controllo, tramite una propaganda spicciola e pressioni sia fisiche che psicologiche.

Questa volontà così squisitamente politica finisce involontariamente per depotenziare la protagonista stessa, che manca totalmente di un arco evolutivo, fondamentale in ogni origin story per rendere l’eroe interessante e vicino allo spettatore.

Limitata

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

In altre parole, Captain Marvel è un personaggio totalmente fine a sé stesso.

Carol Danvers è infatti una figura già arrivata, che non deve veramente affrontare nessuna sfida fondamentale per diventare effettivamente un’eroina, ma il cui punto di arrivo è semplicemente la scoperta del suo vero potenziale.

Ma, nel frattempo, pur subendo le costrizioni imposte dai Kree, la protagonista è comunque un personaggio potente ed irriverente, i cui errori sono sostanzialmente inutili nell’economia narrativa, vista la facilità con cui li risolve…

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

…risultando così talmente perfetta da apparire per questo fredda, distante, potendo soddisfare solamente le necessità immediate del basso ventre del pubblico di quel periodo, ma rendendola sostanzialmente un personaggio senza futuro.

Non a caso, il film stesso si affretta a spiegare retroattivamente e in più momenti la mancata presenza del personaggio nelle avventure degli Avengers fino a quel momento, risultando però, in ultima analisi, ben poco credibile.

Importanza

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Captain Marvel non è un personaggio importante.

Neanche il tempo di essere introdotta, Carol Danvers fu messa immediatamente da parte nel film successivo: in Endgame ritorna solamente alla fine della battaglia, risultando comunque l’elemento meno interessante della scena, quasi un deus ex machina.

A posteriori, insomma, Carol Danvers rappresenta la poca lungimiranza dell’MCU post-Endgame, proprio nella scelta di introdurre un personaggio ben poco riutilizzabile, che non conquistò il cuore del pubblico, ma che anzi venne sempre più odiato negli anni.

Brie Larson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

E risulta particolarmente sconfortante che il primo personaggio femminile protagonista di un film dell’universo cinematografico ottenne una gestione così ingenua e superficiale, capace, come detto, solamente di guardare alle necessità immediate del pubblico…

…e invece totalmente incapace di costruire un’eroina tridimensionale e sfaccettata, della cui storia avremmo potuto appassionarci nei film successivi, portando invece ad un’icona vuota, che diventerà la futura protagonista di uno dei più pesanti flop della Marvel.

Contorno

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Paradossalmente, la parte più interessante di Captain Marvel è il suo contorno.

Se infatti mettiamo da parte le sequenze prettamente dedicate alla protagonista, il film è una spy story anche piuttosto intrigante nelle sue dinamiche – ovviamente dimenticandoci da come queste siano state in seguito mal sfruttate in Secret invasion…

In particolare, il personaggio che rimane più positivamente impresso è il giovane Fury, che rappresenta anche la linea comica della pellicola, assolutamente necessaria a fronte del carattere così freddo e insapore della protagonista.

Brie Larson e Samuel Jackson in una scena di Captain Marvel (2019) di Anna Boden e Ryan Fleck

Meno convincente invece, come detto, il tentativo di incasellamento e di importanza retroattiva per questo film, in particolare nello smaccato tentativo di collegare direttamente il personaggio agli Avengers.

Per questo a mio parere sarebbe stato molto più intelligente creare una storia di maturazione realistica e coinvolgente – come poteva essere quella del poco precedente Spider-Man: Homecoming (2017) – anche sacrificando il collegamento diretto con l’universo di appartenenza.

Dove si colloca Captain Marvel (2019)?

Captain Marvel si colloca nella preistoria dell’MCU: essendo ambientato nel 1995, volgarmente potremmo dire che si trova fra Captain America (2011) e Iron Man (2008).

E, proprio come il primo film di Steve Rogers, entrambe le post-credit collegano il film ad Avengers: la prima direttamente al successivo Endgame, la seconda – anche se più alla lontana – a The Avengers (2012)

Anche se alcuni folli consigliano, nella visione cronologica dell’MCU, di guardarlo dopo il film sul primo vendicatore, Captain Marvel è uno degli ultimi titoli dell’affollata Fase 3, conclusiva della Saga dell’Infinito.

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The Holdovers – Il club dei soli

The Holdovers (2023) di Alexander Payne è stata la grande rivelazione della stagione dei premi 2024, facendo incetta di riconoscimenti.

A fronte di un budget di circa 70 milioni, si sta purtroppo rivelando di un grande insuccesso commerciale, con appena 30 milioni di incasso…

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per The Holdovers (2023)

in neretto le vittorie

Miglior film
Miglior sceneggiatura originale
Migliore attore protagonista a Paul Giamatti
Miglior attrice non protagonista a Da’Vine Joy Randolph
Miglior montaggio

Di cosa parla The Holdovers?

Paul Hunham è un bisbetico professore di un collegio, che si trova a dover gestire un gruppo di adolescenti durante le vacanze natalizie…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere The Holdovers?

Dominic Sessa e Paul Giamatti in una scena di The Holdovers (2023) di Alexander Payne

Assolutamente sì.

The Holdovers è stata una piccola scoperta di quest’anno, per una commedia piacevolissima ed estremamente irriverente, che però riesce a rimanere sempre con i piedi per terra e a non scadere mai nel facile dramma – per quanto ce ne fossero tutti i presupposti…

Paul Giamatti e la stella nascente Dominic Sessa sono una coppia irresistibile in una storia agrodolce e che non manca di interessanti colpi di scena, oltre ad una morale di fondo che per lunghi tratti mi ha ricordato L’attimo fuggente (1989).

Insomma, da non perdere.

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Prova a prendermi – La fuga eterna

Prova a prendermi (2002) è uno spy-movie firmato da Steven Spielberg con un terzetto di attori d’eccezione: Tom Hanks, Christopher Walken e un giovane Leonardo di Caprio.

A fronte di un budget abbastanza contenuto – 52 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale, con 408 milioni di dollari di incasso.

Di cosa parla Prova a prendermi?

New York, 1964. Frank è un giovane studente con una certa passione per il role play…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Prova a prendermi?

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Assolutamente sì.

Prova a prendermi è una piacevolissima spy-story con un cast di grandi talenti, fra cui spicca un brillante Leonardo di Caprio, che già qui dimostrava le sue incredibili capacità recitative, tanto da riuscire a portare in scena un personaggio estremamente complesso e variegato.

Personalmente ho anche apprezzato che, a differenza del poco successivo The Terminal (2004), in questo caso il film non si perde in un buonismo un po’ fine a sé stesso, non mancando comunque di un finale estremamente appagante.

Insomma, da vedere.

Orme

Leonardo di Caprio e Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Le tendenze criminali di Frank sono ereditarie.

Il ragazzo ha passato tutta la sua vita ad osservare, anzi ad essere coinvolto nelle truffe del padre, apprendendo un insegnamento fondamentale: l’apparenza e la convinzione sono la chiave del successo di ogni con artist.

E se si aggiunge la lusinghiera corruzione…

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Un gioco che prosegue finché non è il figlio stesso a volersi mettere in gioco, in maniera così brillante e convincente da riuscire a condurre una settimana intera come insegnante, arrivando persino ad organizzare un viaggio scolastico…

Una scelta che dovrebbe essere durante punita dal padre, ma che invece viene promossa con una risata condivisa.

Ma Frank è cieco di fronte a tutto il resto.

Persecuzione

Christopher Walken in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Nonostante Frank Senior si sente come il topo furbo che è riuscito a gabbare il sistema…

…in realtà è affogato nello stesso.

Questa sua passione per le truffe lo porta infatti a distruggere dall’interno la sua famiglia, a vivere sostanzialmente perseguitato dall’IRS, e, soprattutto, a passare un’errata convinzione al figlio, che sente come di poter riscattare la memoria del padre con una truffa nuova di zecca.

Ma il giovane protagonista è ancora più ingenuamente miope davanti alla sensazione del padre di essere costantemente osservato, controllato, di non poter vivere serenamente neanche il regalo di un figlio per paura di essere messo dietro le sbarre…

Ruolo

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per interpretare un personaggio, la preparazione è fondamentale.

Frank si destreggia fra un ampio di ventaglio di ruoli primari e secondari, accettando persino situazioni di estremo disagio – assolutamente fondamentali ai fini narrativi per raccontare anche le debolezze di un protagonista apparentemente così infallibile.

Così comincia con un’importante ricerca sul campo, che lo porta a farsi raccontare da personaggi totalmente ignari tutte le informazioni necessarie per poter prendere parte al primo ruolo – il pilota – scoprendo ogni volta nuovi modi per riscattare assegni sempre più importanti.

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Ma se la mascherata del pilota è tutto sommato moralmente innocua, altro discorso è quando il protagonista si finge dottore per farsi assumere in ospedale, in realtà usando la sua posizione come un trampolino per sistemarsi con un matrimonio di comodo.

E, proprio a quel punto, la facciata comincia a cadere a pezzi.

Maschera

Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Carl è l’unico vero amico del protagonista.

Nonostante infatti cerchi costantemente di mostrarsi circondato da belle donne e da uomini che vorrebbero essere al suo posto, in realtà Frank è un individuo estremamente solo, che non può parlare realmente con nessuno dei suoi veri sentimenti e delle sue paure.

Per questo l’agente dell’FBI, inizialmente gabbato da un inganno assolutamente improvvisato – basato sempre sulla distrazione creata al momento giusto, andando a scavare i più profondi sentimenti e preoccupazioni di chi ha davanti…

…è l’unico che riesce davvero ad inquadrare il protagonista, l’unico che conosce la sua vera faccia, ed anche l’unico interlocutore a cui Frank si rivolge quando si sente del tutto abbandonato a sé stesso, nonostante così si metta costantemente in pericolo…

Prigione

Leonardo di Caprio in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Fino agli ultimi momenti, Frank deve scegliere fra l’essere braccato o l’essere rinchiuso.

E il concetto di prigione nel suo caso è piuttosto ampio.

La galera è sia quella fisica – in Europa o negli Stati Uniti – sia quella provvisoria – l’aereo – sia, infine, gli uffici dell’FBI in cui è costretto a lavorare finché lo stesso Carl non deciderà diversamente – in una condizione che, per quanto molto vantaggiosa, gli appare estremamente angosciante.

In ogni occasione, anche quelle più improbabili e già perse in partenza, Frank tenta comunque la fuga – in particolare dall’aereo, riuscendo a svitare il gabinetto e sfilarsi da sotto al velivolo che sta atterrando…

Leonardo di Caprio e Tom Hanks in Prova a prendermi (2002) di Steven Spielberg

Per questo nel finale Carl capisce che deve cambiare tattica.

Avendo ormai compreso che, pur dopo quattro anni, Frank sta cercando ancora un’occasione per scappare, l’agente lo intercetta solamente per ricordargli a cosa sta andando incontro – la prigione o una vita come quella del padre, braccato e paranoico – per poi lasciargli la libertà di scelta.

Così una perfetta regia ci accompagna verso un finale che riesce a tenere con il fiato sospeso fino all’ultimo minuto, mostrando infine un Frank che è finalmente riuscito ad essere in pace con sé stesso e ad accettare una vita forse meno eccitante, ma certamente più serena.