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Polar Express – In cosa credi?

Polar Express (2004) è una delle opere più iconiche della filmografia di Robert Zemeckis – il primo dei due film natalizi che produrrà nel giro di pochi anni insieme a A Christmas Carol (2009).

A fronte di un budget piuttosto ingente per un prodotto animato – 150 milioni di dollari – ebbe un riscontro discreto al botteghino: appena 314 milioni di incasso.

Di cosa parla Polar Express?

Un bambino senza nome, proprio la sera della Vigilia, sembra non riuscire più a credere al Natale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Polar Express?

Capotreno in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Il motivo per cui probabilmente Polar Express fu un discreto flop è che non è per nulla un film di Natale in senso classico, né un film propriamente per famiglie: le dinamiche sfiorano il surreale, le atmosfere sono più angoscianti che gioiose, e, sopratutto, la morale è molto atipica e non semplicissima da comprendere.

Infatti, Zemeckis sceglie di portare in scena una concezione del Natale che vada oltre il mero ambito materiale, raccontando degli insegnamenti piuttosto importanti e profondi sul vero significato che dovrebbe avere il periodo natalizio.

Insomma, una pellicola da riscoprire.

Il dubbio

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

I primi minuti di Polar Express sono quelli che forse meglio si adattano ad un pubblico infantile.

Infatti, l’incipit racconta dei dubbi del tutto legittimi e naturali che cominciano ad assalire i bambini quando si approcciano al passaggio all’adolescenza, ovvero il momento più tragico della crescita che rappresenta la fine del mondo dei sogni.

Tuttavia, il protagonista non sembra avere un atteggiamento disilluso e distruttivo, ma piuttosto speranzoso: sembra insomma che cerchi in ogni modo di riuscire a credere al Natale e alla narrativa che lo circonda.

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ma il Polar Express non arriva per convincerlo.

Il conducente del treno gli offre semplicemente la possibilità di salire sul treno e per questo riuscire a vedere con una nuova prospettiva il senso della festività. Tuttavia, non insiste più del dovuto: davanti all’incertezza del bambino, semplicemente, lo lascia a sé stesso.

E infatti è il protagonista che infine decide di accettare questa nuova avventura.

La tasca

Bambino in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il viaggio in treno è funzionale al mettere alla prova il protagonista – e non solo lui.

Il bambino si immerge in un panorama particolarmente festoso, ma in cui riesce a fatica a prendere parte tanto che, paradossalmente, le scene iniziali di questa sequenza sono quelle più propriamente natalizie e adatte al target di riferimento – nello specifico, il numero musicale della cioccolata.

Al contrario, più sottili le dinamiche riguardo alla tasca bucata rappresentano l’atteggiamento del protagonista: nonostante il biglietto sia presente nella tasca sana, il bambino prima di tutto cerca nella tasca fallata.

Insomma, gli occhi del protagonista sono fissi verso il lato più inevitabilmente e irreparabilmente disilluso del suo animo, sempre alla ricerca di una prova materiale che c’è ancora qualcosa in cui credere.

Per questo, i suoi coprotagonisti sono fondamentali.

I due opposti

Bambina in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

La ragazzina senza nome e Billy rappresentano due opposti.

La bambina, che fin da subito guarda il protagonista in maniera divertita e concitata, è l’unica che ha già compreso il vero valore del Natale – e che rappresenta la morale del film: non una semplice festa consumistica e materiale, ma un’occasione per essere migliori.

Non a caso, quando cerca di convincere Billy sulla bellezza delle festività, non cita mai i regali, ma piuttosto fa riferimento ai sentimenti positivi e alle atmosfere che rappresentano il periodo natalizio.

Billy in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Invece, Billy è molto più simile al protagonista.

Il suo personaggio non è sicuro di voler salire sul Polar Express – e quindi di voler credere al Natale – perché, essendo evidentemente molto povero, si rende conto che il periodo natalizio è molto meno piacevole e festoso di quanto si racconti.

Anche se non viene detto esplicitamente, è evidente che con ogni probabilità il sentimento primario di Billy verso il Natale non sia la gioia, ma l’invidia, l’invidia di non poter veramente vivere il periodo con dolci e balocchi, così da sottolineare ancora di più le differenze fra lui e gli altri bambini.

Il biglietto fantasma

Le dinamiche legate al biglietto e all’arresto del treno sono emblematiche.

In entrambi i casi, il protagonista dimostra di custodire dentro di sé i sentimenti che dovrebbero essere propri del Natale: aiutare gli altri – fermando il treno per far salire Billy – e essere onesti e altruisti – cercando sbadatamente di dare alla bambina il suo biglietto smarrito.

Da questo momento, parte la sequenza più surreale della pellicola.

La bambina scompare misteriosamente con il capotreno, e il protagonista sceglie di seguirla per aiutarla, con un susseguirsi di scene che abbracciano più di tutte il taglio onirico e surreale della pellicola.

Fantasma in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

In particolare, per quanto riguarda il fantasma.

Si comprende a posteriori che quel fantasma è assimilabile ai tre spettri che visitano Scrooge in A Christmas Carol (1843), ed infatti è uno dei personaggi che mette più alla prova il protagonista, quasi sbeffeggiandolo.

Non a caso, il fantasma chiede al bambino se crede agli spettri – quindi a lui stesso – proprio a dimostrargli come la sua disillusione nei confronti del Natale sia orientata nel verso sbagliato: la sua adesione allo spirito natalizio è sotto i suoi occhi.

Il freddo Natale

Come per la maggior parte del film, la città del Natale è più lugubre che natalizia.

Infatti, i tre protagonisti incidentalmente entrano all’interno della fabbrica di Babbo Natale, e vedono da vicino le dinamiche del dietro le quinte, muovendosi in ambienti freddi e vuoti, spiando gli elfi che si comportano in maniera quasi maligna.

Questa esplorazione è guidata dalla bambina – l’unico personaggio che conosce davvero il senso del Natale – che riesce a sentire il suono delle campanelle, rappresentative appunto dell’essere effettivamente vicini allo spirito natalizio.

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Il seguente arrivo di Babbo Natale è un momento genuinamente angosciante, in cui letteralmente il bambino non riesce a vederlo, nonostante questo sia davanti ai suoi occhi – e, allo stesso modo, non riesce a sentire la campanella, nonostante sia accanto al suo orecchio.

E qui avviene la svolta.

Il protagonista, dopo l’avventura rivelatoria che ha appena vissuto, si convince infine a riabbracciare lo spirito del Natale, al punto da chiedere a Babbo Natale proprio di poter portare con sé qualcosa che glielo confermi.

Per questo il finale è rivelatorio.

L’insegnamento immateriale

Campanella in Polar Express (2004) di Robert Zemeckis

Ognuno dei protagonisti ha imparato qualcosa.

Anche se la bambina sembrava quella che avesse meno bisogno di apprendere qualcosa, comunque riceve infine un incoraggiamento da parte del capotreno: continuare a credere in sé stessa ed essere una guida per gli altri.

Più complesso è il senso dell’insegnamento di Billy: sul biglietto è scritto count on fare affidamento: il bambino deve ricominciare a credere nel Natale e sulla buona volontà delle altre persone, smettendo di chiudersi in quella sconsolante disillusione.

Ma, sopratutto, si vuole insegnare a Billy – e agli altri bambini – quanto il Natale non sia solamente una festa materiale, basata sui regali che si riceve – e infatti il bambino deve essere capace di attendere il giusto tempo per aprire il suo regalo.

Ma l’insegnamento più importante è quello del protagonista.

Il bambino deve ricominciare a credere, ma non a credere semplicemente a Babbo Natale, ma piuttosto a saper mantenere nel suo animo gli insegnamenti che il Natale dovrebbe portare, indipendentemente dai suoi simboli più materiali.

Per questo la campanella gli viene ridata con una sorta di ammonimento, un feticcio da conservare per essere sicuro di saper ancora credere, a differenza proprio dei suoi genitori e di sua sorella: chi prima chi dopo, tutti loro smetteranno di sentire il suono della stessa.

In questo senso, è più che altro un insegnamento per gli adulti sul non limitare il senso del Natale all’ambito più materiale, e così di abbandonare in fretta il senso di meraviglia e di speranza che caratterizza l’infanzia, ma di mantenere quei sentimenti – e insegnamenti – per tutta la vita.

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Cast Away – Il crocevia

Cast Away (2000) è uno dei film più iconici della filmografia di Robert Zemeckis – che, fra l’altro, lo stesso anno fece uscire un altro prodotto totalmente diverso, Le verità nascoste.

A fronte di un budget piuttosto importante – 90 milioni di dollari – fu un ottimo successo commerciale: quasi 430 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Cast Away?

Chuck è un dipendente piuttosto appassionato della FedEx, che si trova in una situazione ai confini del mondo…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Cast Away?

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Assolutamente sì.

Cast Away è stata una bellissima sorpresa: Zemeckis riprese il sodalizio con Tom Hanks dopo l’ancora più iconico Forrest Gump (1998), per confezionare un prodotto piuttosto appassionante e splendidamente diretto.

Infatti, il regista statunitense sceglie consapevolmente di non abbracciare un taglio narrativo troppo idealizzato, preferendo invece una regia al limite del found footage, ma nondimeno ben dosata.

Insomma, da non perdere.

L’incastro perfetto

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

L’incipit di Cast Away è ingannevole.

La pellicola non ci introduce immediatamente il protagonista, ma ci accompagna alla scoperta dell’azienda di riferimento – la FedEx – per raccontarci il suo più appassionato dipendente, facendoci anche intendere che il suo lavoro lo tiene lontano da casa.

Così, nonostante l’insistenza del protagonista, le diverse chiamate senza risposta di Kelly ci fanno sospettare che la compagna sia insoddisfatta del comportamento di Chuck, fino al momento in cui va a trovarla in ufficio…

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

…e invece Kelly e Chuck sono fatti l’uno per l’altra: nonostante la turbolenta agenda del protagonista, i due riescono a trovare l’incastro perfetto nelle loro vite, con in sottofondo una proposta di matrimonio mai avvenuta.

L’ultimo incontro fra i due si chiude con un emozionante commiato, in cui Chuck sembra lasciare alla compagna qualcosa da cui tornare, così da rassicurarla che passeranno il Capodanno insieme come le aveva promesso.

Ma il destino è crudele.

Il grande silenzio

Tom Hanks in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Già con l’incidente aereo, Zemeckis sperimenta con la regia.

Un utilizzo piuttosto attento di inquadrature sbilenche e imprevedibili, che alternano fra particolari, primi piani e soggettive piuttosto drammatiche del protagonista, lasciando anche il giusto spazio ai frangenti più violenti, permettendo un’immersione nella scena davvero vincente.

Così anche per i primi momenti dell’isola si sceglie un taglio il più possibile verosimile: i tentativi impacciati e disordinati del protagonista di sopravvivere sono del tutto credibili, anzi rappresentano a grandi linee quello che noi stessi faremmo in una situazione analoga.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Così l’intera sequenza è dominata da un costante silenzio, inframmezzato solo dai gemiti e dalle poche parole che il protagonista pronuncia, mentre la frustrazione e la disperazione lo assalgono…

…soprattutto quando cerca di trovare qualche uso per quei pacchi della FedEx, un tempo fondamentali, ora di dubbia utilità.

Infatti appare evidente che la più grande sofferenza di Chuck non sia la mancanza di cibo, ma la profonda solitudine che lo divora, la devastante frustrazione che lo obbliga a stare in silenzio e non poter neanche esprimere ad alta voce i suoi pensieri…

E così avviene il cambiamento.

Wilson, mi ascolti?

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Il punto di svolta è definito da due momenti – l’uno conseguente all’altro.

Il primo ovviamente è Wilson, a cui Chuck sceglie di dare un volto per giustificare un dialogo con lui, riuscendo finalmente a vincere questo assordante silenzio, e così ad avere uno scambio utile non solo a non impazzire, ma anche a mettere in ordine le idee.

Questa scelta rappresenta proprio la consapevolezza di Chuck sul fatto che questa situazione anomala non si risolverà tanto in fretta.

Da qui, la scelta di togliersi violentemente il dente guasto.

Tom Hanks e Helen Hunt in Cast Away (2000) di Robert Zemeckis

Non a caso, proprio da qui parte un salto in avanti nel tempo di ben quattro anni, che ci rivela un protagonista ben più disperato, che ormai vive in funzione di due elementi: il ricordo di Kelly, che sia va via sbiadendo come la sua foto, e il dialogo con Wilson, che ha cercato di rendere un interlocutore sempre più credibile.

Così, quando sembra davvero al limite della disperazione e della follia, tornato al suo stato naturale, in realtà Chuck dimostra una sorprendente lucidità nel continuare a cercare di trovare una via di fuga – persino tramite il suicidio.

Per questo, l’effettivo abbandono dell’isola è un momento chiave piuttosto potente.

In particolare, per quanto riguarda Wilson: prima di partire Chuck gli regala una forma definitivamente umana – un corpo di legno – per poi perderlo nei flutti, disperandosi all’idea di aver maltrattato quello che per me anni era stato il suo unico compagno di vita.

Il crocevia

Nei suoi momenti finali, Cast Away sceglie di non banalizzarsi.

Sarebbe stato molto facile cavalcare l’onda emotiva di Chuck e Kelly, e così disfare quel matrimonio probabilmente di ripiego per ricomporre la coppia – e in effetti l’incontro a casa della donna, con anche la corsa disperata sotto la pioggia, farebbe intendere questa direzione.

E invece la scrittura ci sorprende.

Riportando Kelly a casa, Chuck prende finalmente consapevolezza di un concetto molto importante: come la sua vita non era finita il giorno in cui è naufragato, come non è finita quando ha provato a suicidarsi, così non è finita adesso che non può più realizzare il suo sogno d’amore.

Infatti, nel finale il protagonista si trova in un effettivo crocevia: il destino gli sta dando l’occasione di una nuova vita, di provarci con un’altra donna a cui sembra inevitabilmente collegato proprio per la sua avventura.

E così Chuck si posiziona al centro dell’incrocio e guarda serenamente in camera, come a dirci:

E adesso cosa facciamo?

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1917 Avventura Azione Dramma storico Drammatico Film Film di guerra i miei film preferiti Racconto di formazione

1917 – La guerra tragica

1917 (2019) di Sam Mendes è uno dei più ambiziosi film di guerra dello scorso decennio, anche solo per l’utilizzo totale del piano sequenza.

A fronte di un budget non poco importante – 90 milioni di dollari – è stato un grande successo commerciale: 384 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla 1917?

1917, Fronte Occidentale. I due giovani soldati Tom Blake e William Schofield vengono incaricati di fare da messaggeri per una comunicazione fondamentale…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere 1917?

Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Assolutamente sì.

1917 è un’opera di altissimo valore artistico, sia per l’utilizzo sapiente del piano sequenza – con diversi trucchi scenici per renderlo effettivamente possibile – sia per la grande sperimentazione sul lato della fotografia e della resa scenica.

Di fatto Sam Mendes riprende una trama tipica non tanto dei film di guerra, ma della narrativa bellica stessa – specificatamente quella statunitense – degli eroi per caso, riportandola però su un livello molto più terreno e realistico.

Insomma, da non perdere.

Il risveglio

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Io non so ben ridir com'i' v'intrai / tant' era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai (Inf. I, 10-12)

L’incipit di 1917 ci racconta già tutto del protagonista.

Will rimane per diversi minuti in primo piano, apparentemente addormentato, in realtà scegliendo consapevolmente di ignorare quello che gli succede intorno, preferendo invece sonnecchiare qualche momento in più.

Intanto, alle sue spalle, il compagno Blake si leva immediatamente, immediatamente è un soldato pronto all’azione, ed è anche il personaggio che incoraggia il protagonista a tirarsi in piedi e a cominciare la narrazione.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Così anche il dialogo seguente è rivelatorio.

Blake legge felicemente la sua lettera, dimostra un importante legame con la realtà oltre al fronte – anche per la presenza del fratello – mentre Will si dimostra piuttosto distaccato, e si rianima solo quando comincia a mangiare il suo panino.

Il panino – come poi il vino scambiato per la medaglia – rappresenta lo stato iniziale del protagonista: Will ha scelto di abbandonare la sua vita precedente, di non ritornare a casa e di vivere sul momento, pensando solo alle necessità immediate.

Per questo insiste così tanto nel non voler partire per la missione – cercando di distogliere il compagno da quell’idea in più occasione – non riuscendo a sentire il medesimo slancio nel voler portare a termine la missione.

Il limbo

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Allora si mosse, io li tenni dietro (Inf. I, 36)

La sezione della Terra di nessuno è incredibilmente ingannevole.

In più momenti il film cerca di convincerci che Will sia il personaggio destinato a morire – quando si ferisce la mano nel filo spinato, quando rimane vittima della bomba… – e forse anche quello che in qualche maniera se lo merita di più.

Infatti, come Blake è sicuro e impegnato nella sua missione, mosso soprattutto dal desiderio di riabbracciare il fratello, al contrario Will è amareggiato e disilluso, con l’apice drammatico rappresentato dal suo racconto sul perché si è liberato della medaglia e sul perché non vuole tornare a casa.

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

Lo stesso paesaggio è illusorio.

I due personaggi si muovono in uno spazio dove tutto sembra ormai già successo, dove la tragedia si è già consumata, tanto che le vittime ormai fanno parte del paesaggio stesso, nel ruolo di grotteschi punti di riferimento.

Questo inganno prosegue fino alla fine della sezione – l’arrivo alla fattoria – raccontando un mondo apparentemente immobile, ma in realtà incredibilmente attivo e reattivo nei confronti dei viaggiatori, pronto ad intrappolarli

E infatti…

Fervore

George MacKay e Dean-Charles Chapman in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
ma Virgilio n'avea lasciati scemi di sé, Virgilio dolcissimo patre, Virgilio a cui per mia salute die'mi (Pur. 49-51)

Con la morte di Blake, Will acquisisce nuove consapevolezze.

Avendo scelto ormai da tempo di chiudere il suo cuore a qualunque sentimento, davanti alla morte di un innocente, davanti all’impossibilità di salvarlo – nonostante la possibilità fosse a portata di mano – il protagonista si risveglia.

Per quanto già nella sequenza successiva sembri ingoiato dalla scena, rimanendo una presenza silenziosa durante i dialoghi dei soldati sul camioncino, in realtà al primo intoppo della missione si riscopre incredibilmente attivo e coinvolto.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes

La morte di Blake rappresenta insomma per Will un risveglio di coscienza, la riacquisizione di un senso di impegno e di importanza, anche se non della guerra, ma, piuttosto, della vita umana: come il compagno è ingiustamente morto, così la vita di molti soldati è nelle sue mani.

Il distacco dai discorsi propagandistici è esplicitamente raccontato dal breve scambio fra i giovani sul camioncino: soldati che non parlano né di gloria né di nemici, ma bensì esprimono pensieri molto più pratici, splendidamente ingenui.

Fra tutti, mi ha colpito profondamente il discorso di uno dei soldati riguardo ai tedeschi:

Why they just don’t bloody give up? Don’t they wanna go home?

Perché cavolo non si arrendono poi? Non li aspettano a casa?

La Genna

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
e caddi come l'uom cui sonno piglia (Inf. III, 136)

Come in qualche modo gli aveva predetto il suo superiore – Giù nella Geenna (l’inferno) o su al trono nel cielo più rapido viaggia chi viaggia da soloWill si trova da solo nel primo effettivo fronte

…o il primo effettivo inferno.

E se la luce poteva aiutarlo a muoversi in un panorama meno angosciante, uno sfortunato incontro con il nemico lo porta a cadere svenuto per diverse ore, ritrovarsi infine sveglio in un panorama che vive di una totale dualità.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Quell'è 'l più basso loco e' l più oscuro, è 'l più lontan dal ciel che tutto gira (Inf. IX, 28-29)

Tenebra e fuoco.

Comincia così una corsa disperata fra l’oscurità e la fiamma, riuscendo solo in parte a portare a termine il suo nuovo proposito, ereditato da Blake: salvare più vite possibili lungo il suo cammino.

A poco serve la lieta sosta con la ragazza, con la quale si spoglia di tutti i suoi averi, perché il tocco improvviso delle campane gli ricorda che il suo viaggio non è finito: ci sono ancora nemici da uccidere, pallottole da evitare, tragedie da sventare…

La quiete

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
Tratto m'avea il fiume infin la gola, e tirandosi me dietro sen giva sovresso l'acqua lieve come scola (Purg. XXXI, 94-96)

L’inizio dell’atto conclusivo di 1917 ha più significati.

La fuga nel fiume sembra inizialmente portarlo ad un inferno ancora peggiore, trovandosi totalmente travolto dai flutti, sospinto verso una cascata, inghiottito dall’acqua che sembra volerlo seppellire…

…per poi riemergere, dolcemente accarezzato dalle prime luci del mattino, ormai distrutto dal viaggio, ma trovandosi circondato da un simbolo che gli ricorda indirettamente Blake e la sua missione: i petali di ciliegio.

E una melodia dolce correva per l'aere luminoso (Purg. XXIX, 22-23)

In questa apparente calma Will si trascina lentamente fuori dal fiume e attraverso il boschetto, guidato dal dolce canto dei soldati in lontananza, come raccolti in preghiera, a cui si mischia ormai provato dal viaggio.

Di nuovo Will è uno spettatore silenzioso, che si risveglia improvvisamente quando i personaggi intorno a lui gli fanno intendere che è arrivato alla fine del viaggio, ma che ancora deve affrontare l’ostacolo più arduo: riuscire a farsi credere.

Agli occhi dei soldati e soprattutto degli ufficiali infatti il protagonista non è altro che un ragazzino impaurito che farfuglia cose senza senso, mentre si vede sfuggire dalle mani centinaia di vite che non ha potuto salvare…

La corsa

È a questo punto che Will dimostra veramente di essere cambiato.

Se all’inizio della pellicola era un soldato cinico e ignavo, che non voleva neanche lasciare la sicurezza della sua trincea, ora è una forza irresistibile, pronto persino a buttarsi in mezzo alla battaglia pur di portare a termine la sua missione.

Ma la sua apparente vittoria non è che l’anticamera di una lenta ma fondamentale realizzazione: sia nel dare la notizia della tragedia scampata che della morte di Blake, Will trova nei suoi interlocutori una profonda impotenza, un’insoddisfazione, persino un malcelato nervosismo.

George MacKay in una scena di 1917 (2019) di Sam Mendes
se non che la mia mente fu percossa da un fulgore (Par. XXXIII, 140-141)

Probabilmente le sue azioni saranno premiate con una fondamentale spilla da portare al petto, ma il vero guadagno di Will è l’amara realizzazione che questo era solo un altro giorno al fronte.

La guerra non è finita oggi: oggi ha solo salvato un pugno di innocenti che domani probabilmente moriranno comunque, in questa spirale di dolore e violenza che è ancora lontana dall’esaurirsi.

Ma almeno ora il protagonista ha il coraggio di guardare le foto della sua famiglia, di ricominciare a pensare ad una realtà altra oltre a quella del fronte, un paradiso forse, a cui guardare in questo attimo di quiete…

…prima del prossimo massacro.

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Die Hard – Il gioco delle maschere

Die Hard (1988) di John McTiernan – in Italia noto anche come Trappola di cristallo – è uno dei più grandi cult del cinema action, nonché il film che lanciò la carriera di Bruce Willis.

A fronte di un budget di circa 30 milioni, fu un grande successo commerciale: 140 milioni di dollari in tutto il mondo.

Di cosa parla Die Hard?

John McClane è un poliziotto di New York che approda a Los Angeles per passare le vacanze con la famiglia. Ma qualcosa di inaspettato sta per metterlo alla prova…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Die Hard?

Bruce Willis in una scena di Die Hard (1988) di John McTiernan

Assolutamente sì.

Die Hard è un action movie incredibile, che è riuscito ad incantare persino una non amante del genere come me.

Infatti, questa pellicola adrenalinica non ha paura di sporcarsi le mani, di portare in scena sequenze cariche di tensione e di salvataggi all’ultimo secondo, impreziosite da una costruzione dei caratteri dei personaggi davvero notevole.

Insomma, da non perdere.

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City of life and death – L’impossibilità della ragione

City of life and death (2009) di Lu Chuan è un film di produzione cinese che racconta, con un taglio il più possibile imparziale e asciutto, il dramma del cosiddetto Massacro di Nanchino.

A fronte di un budget di circa 12 milioni di dollari, incassò circa 10 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla City of life and death?

Sullo sfondo della tragedia di Nanchino, diversi personaggi si avvicendano sullo schermo con i loro drammi personali e collettivi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere City of life and Death?

Assolutamente sì.

Ma.

City of life and death è un’opera davvero di grande valore, che non solo racconta una delle vicende più agghiaccianti della storia del Novecento, ma sceglie di farlo con un taglio quasi documentaristico, preciso, e che non mostra più del necessario…

…ma che quel poco che mostra basta per raccontare dinamiche davvero difficili da digerire, e che probabilmente non tutti sono pronti ad affrontare, per quanto sia un prodotto che vale assolutamente la visione.

Insomma, vi ho avvertito.

City of life and death realtà

Alcune utili indicazioni per orientarsi nel film.

Il Massacro di Nanchino, conosciuto anche come Stupro di Nanchino, è stato un insieme di crimini di guerra perpetrati dall’esercito giapponese a Nanchino, all’inizio della seconda guerra sino-giapponese.

La città, in quel periodo capitale della Repubblica di Cina, era caduta in mano all’Esercito imperiale giapponese il 13 dicembre 1937 e per circa sei settimane, tra il dicembre 1937 e il gennaio 1938, i soldati giapponesi uccisero circa 300.000 persone.

Ecco una piccola galleria di foto d’epoca.

L’impossibilità della ragione

Fin dal suo incipit, in City of life and death sembra rimbombare la domanda fondamentale de La sottile linea rossa (1998):

This great evil…where’s it come from?

Questo grande male…da dove viene?

Eppure inizialmente in scena vediamo quello che forse è il minore dei mali dello Stupro di Nanchino: un’uccisione sistematica della popolazione cinese, portata avanti sulle prime da un’idea dell’annientamento sistematico del nemico.

La radice di questo grande male può infatti facilmente essere ritrovata all’interno del pensiero e della propaganda anti-cinese tipica di quegli anni in Giappone – un sentimento che non si è ancora del tutto spento – che rendeva del tutto normali certi tipi di azioni.

Un’eliminazione quasi meccanica, fredda, dettata unicamente dal dovere di proteggere la propria nazione dal nemico…

Ma la situazione diventa sempre più incomprensibile più ci si addentra nell’esplosione di violenza incontrollata, fino al punto in cui i soldati giapponesi penetrano negli ospedali improvvisati dei rifugiati per sparare in testa a civili indifesi

E questo è solo il preludio di un atto ancora più incomprensibile.

Lo stupro sistematico.

Il male comune

C’è stato qualcuno che ha scritto: «L’inferno è l’impossibilità della ragione». Questo posto è così, è l’inferno.

Alle donne non basta privarsi del loro essere donne per poter non essere violate costantemente, così come agli uomini non basta fingere di non essere soldati per salvarsi come prigionieri civili: non esiste più la ragione, la razionalità.

L’unico elemento che rimane è la comunità.

E con due significati.

La comunità è quella che un pugno di donne, già ripetutamente violate e che hanno davanti agli occhi nient’altro che disperazione, miseria e lo stupro sistematico dei loro concittadini, scelgono di salvare.

Così, nella devastante sequenza dello stupro di gruppo, questi corpi ormai senza dignità – e, infine, anche senza vita – vengono sistematicamente violati, umiliati, distrutti, quasi a simboleggiare l’agghiacciante stupro che è calato sulla città stessa.

Ma il senso di comunità è anche quello che giustifica non un mero stupro, ma una costante violazione della vita e della dignità di altri esseri umani, una costante umiliazione e una violenza fuori controllo…

Perché, oltre al sentimento di comune disprezzo verso una razza inferiore, quello che muove le azioni dei soldati giapponesi è un senso di liberazione dalla colpa: se tutti sono colpevoli, se tutti stanno perpetrando lo stesso crimine, nessuno è davvero colpevole.

E allora cosa rimane?

Vita e morte

Life is more difficult than death

La vita è molto più ardua della morte

L’unico barlume di ragione dal lato giapponese è il personaggio di Kadokawa: il soldato cerca di ritrovare un qualche parvenza di normalità nel suo attaccamento a Yuriko, con cui spera di condividere qualcosa di più del semplice sesso.

Un amore e, forse, un matrimonio.

Ma la sua ricerca di un mondo razionale è costantemente contrastata da una realtà totalmente irrazionale, di cui fa inevitabilmente parte, e della cui colpa non può privarsi davanti al giudizio della Storia.

Per questo il finale si fonda su un tragico quanto potente contrasto.

Il soldato giapponese sceglie di togliersi la vita, ormai incapace di portarla avanti, tale è la colpa, tale è l’orrore che ha dovuto vedere e compiere, che non gli permetterebbe mai più di tornare ad una vita altra.

Ma la sua morte rappresenta anche la liberazione dei due prigionieri cinesi, in particolare il bambino, che corre spensierato con dei fiori fra i capelli, simbolo della profonda speranza, del profondo sentimento di rinascita che deve accompagnare un orrore che l’aveva ormai spenta.

Così, anche dal cadavere di Kadokawa, dalle rovine di Nanchino, potranno nascere nuovi boccioli.

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Le verità nascoste – Un presentimento

Le verità nascoste (2000) è un’opera minore della filmografia di Robert Zemeckis, un intrigantissimo thriller con protagonisti Michelle Pfeiffer e Harrison Ford.

Con un budget piuttosto ingente – 100 milioni di dollari – fu complessivamente un successo, incassando 291 milioni in tutto il mondo.

Di cosa parla Le verità nascoste?

In seguito alla partenza della figlia Caitlin, Claire si trova da sola in casa, che sembra come se fosse infestata…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Le verità nascoste?

Assolutamente sì.

Le verità nascoste è un film incredibilmente intrigante, che riesce ad equilibrare ottimamente l’elemento orrorifico e fantastico all’interno di un thriller con una simbologia seducente e ben delineata.

La stessa regia è precisa, puntuale, a tratti anche sperimentale, godendo fra l’altro di ottimi interpreti, in particolare la splendida Michelle Pfeiffer, in una delle migliori interpretazioni della sua carriera.

Insomma, non ve lo potete perdere.

Il film si articola all’interno di un uso simbolico dei colori indossati dalla protagonista: bianco, rosso e nero.

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Gremlins – La commedia dei cattivi sentimenti

Gremlins (1984) è uno dei maggiori cult del cinema per ragazzi Anni Ottanta, per la direzione di Joe Dante e la fantastica sceneggiatura di Chris Columbus.

A fronte di un budget molto ridotto – appena 11 milioni di dollari, circa 32 oggi – fu un enorme successo commerciale, con 213 milioni di incasso (circa 621 oggi).

Di cosa parla Gremlins?

Lo stravagante inventore Rand visita una piccola bottega delle stranezze a Chinatown, dove trova un animaletto molto particolare, un mogwai

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Gremlins?

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Assolutamente sì.

Gremlins è un horror per ragazzi di grande valore, che gode di una scrittura veramente ottima e puntuale, che introduce gradualmente gli eventi con un raro equilibrio fra l’orrore e il grottesco, riuscendo al contempo ad ammorbidire i toni per renderlo adatto al target.

Oltre a questo, il character design dei gremlins è incredibile e così anche la loro messinscena, che riesce a farli passare non come dei meri pupazzoni, ma come delle creature vive ed incredibilmente espressive.

Insomma, non ve lo potete perdere.

La minaccia sotterranea

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Per quanto il primo atto sembri raccontare una storia piacevole ed accogliente, diversi elementi in scena mostrano tutt’altro.

I personaggi sono totalmente immersi in questo sogno del nuovo animaletto domestico – il cui character design ricorda l’unione fra un coniglio, un orsetto e un pipistrello – che sembra totalmente innocuo, una piacevole aggiunta al quadro familiare.

Questa sensazione di apparente tranquillità rende i personaggi umani del tutto sbadati e poco attenti alla cura dello stesso, agendo più volte in maniera molto ingenua, tanto da essere loro stessi i fautori dell’incubo che verrà.

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Ma ci sono diversi indizi di quello che sta per succedere.

L’elemento più palese è l’inserimento di diverse scene del classico della fantascienza L’invasione degli ultracorpi (1956), che parla proprio di un’invasione segreta di alieni che si moltiplicano e si sostituiscono gli umani.

Ma l’indizio più sottile, ma assolutamente perfetto, è il siparietto comico in cui Rand sta testando la sua nuova invenzione: inizialmente le carte escono ordinatamente e sono controllate…ma poi la situazione gli sfugge di mano, e cominciano a moltiplicarsi fin troppo velocemente…

…proprio quando il figlio sta per venirgli a raccontare dei gremlins che si stanno riproducendo.

Introdurre il mostro

La maestria di Gremlins è anche il saper raccontare coi giusti tempi il villain della storia.

Anzitutto, i nuovi arrivati si dimostrano fin da subito ben diversi dal loro genitore – Gizmo – molto più irruenti e dispettosi – come dimostra, fra gli altri, il brutto scherzo nei confronti del cane, Barney.

E per questo il punto di svolta è così rivelatorio.

Infatti, quando Billy offre ai gremlins le cosce di pollo, questi ci banchettano felicemente, mentre Gizmo, come se fosse consapevole della situazione, le rifiuta…

Billy in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

La trasformazione dei gremlins è, fra l’altro, una bellissima citazione al suddetto L’invasione degli ultracorpi, ma anche ad Alien (1979): oltre ai gusci molto simili alle uova dello xenomorfo, anche il comportamento degli umani è simile.

Infatti, come nel cult di Ridley Scott, i personaggi umani sono anche fin troppo entusiasti di questa nuova situazione – particolarmente il professor Hanson – fino ad arrivare all’inquietante sottofondo della proiezione scientifica, che apre le porte alla trasformazione…

Così, come nei migliori film del genere, il mostro è tenuto fuori dalla scena per molto tempo, ma la sua presenza è costante: dall’assassinio del professore fino all’improvviso attacco ai danni di Billy.

Infine, la rivelazione effettiva avviene nella cucina, in cui la madre del protagonista, quasi come una novella Ripley, è la prima ad affrontare e riuscire in parte a sconfiggere questi orribili mostri.

E anche qui il film riesce a stupire.

Un film per bambini?

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

L’atto centrale, quanto quello conclusivo, godono di una rara maestria di scrittura.

In questo caso si mostra ancora più evidentemente la doppia natura del film, che riesce a mantenersi adatto per il target, pur mettendo in scena una violenza veramente sorprendente, a partire dai modi in cui la madre di Billy elimina i mostriciattoli…

Più volti al lato comico sono invece i vari siparietti degli scherzi dei gremlins e il loro comportamento incredibilmente caotico: dall’assalto al bar con Kate, in cui sbevazzano e fumano – e persino la importunano! – fino alla mia scena preferita: il coro di Natale.

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

I gremlins si rivelano insomma per quello che sono: mostriciattoli dispettosi, financo particolarmente spietati – tanto da distruggere una casa – ma, al contempo, anche la perfetta evoluzione di Gizmo.

Infatti, i suoi figli ne riprendono i caratteri, ma li mutano in maniera mostruosa: dalle orecchie da coniglio a quelle di un pipistrello, dai tratti dolci del viso e gli occhioni liquidi agli occhi rossi ed ai lineamenti serpentini…

Una deformazione particolarmente sottolineata quando gli stessi vengono messi a confronto con i nani durante la visione di Biancaneve e i sette nani (1937), di cui i gremlins imitano perfino le canzoni…

Ciuffo Bianco in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

E questa dicotomia fra l’essere dei futuri giocattoli per bambini al riprendere le fattezze dei più famosi villain dei classici della fantascienza li accompagna fino alla fine, soprattutto nella sequenza del negozio per bambini…

Così anche nel finale: se la morte di Ciuffo Bianco richiama involontariamente l’iconica scena di Terminator (1984), la chiusura del film cerca di ammorbidire i toni, raccontandosi come la conclusione di una favola di Natale, ma con troppi elementi horror per davvero poterla considerare tale…

E a questo proposito…

Un Natale diverso

Gizmo in una scena di Gremlins (1984) di Joe Dante

Un aspetto che davvero sorprende di Gremlins è quanto poco sia associabile ad un film di Natale.

Nonostante il clima festivo sia presente fin dall’inizio, è disturbato da moltissimi elementi che raccontano un Natale davvero diverso, quasi malinconico: dalla cattiveria gratuita della Signora Deagle alla triste storia della morte del padre di Kate.

Una scelta che può sembrare banale, ma che in realtà è un modo intelligente per equilibrare i toni della pellicola, senza voler mostrare una disparità troppo grande fra l’orrore dei gremlins e l’atmosfera delle feste.

Peculiare in particolare la mancanza di una ricongiunzione finale dei personaggi, ma che non stupisce se si pensa al film di cui Chris Columbus si occuperà una decina di anni dopo: Mamma ho perso l’aereo (1990), per molti versi l’apoteosi della commedia dei cattivi sentimenti.

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Avventura Dramma storico Drammatico Film Film di guerra L'altro lato del fronte

Vittime di guerra – L’incubo sommerso

Vittime di guerra (1989) è uno dei più interessanti film bellici del secolo scorso, per la regia di Brian De Palma, che poté dirigere due attori incredibili come Sean Penn e soprattutto Michael J. Fox, che dimostrò di saper fare anche molto altro oltre che Ritorno al futuro…

A fronte di un budget piuttosto contenuto per il tipo di produzione – appena 22 milioni di dollari, circa 54 oggi – fu comunque un pesante flop commerciale: 18 milioni di incasso (circa 44 oggi).

E i motivi sono piuttosto evidenti.

Di cosa parla Vittime di guerra?

Vietnam, 1966. Dopo avergli negato il ritiro in un bordello, Meserve ordina alla sua squadra di rapire una ragazza vietnamita per divertirsi…

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Vittime di guerra?

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Assolutamente sì.

Ma.

Vittime di guerra è uno di quei rari casi in cui un prodotto statunitense a tema bellico non si perde in una esaltazione degli eroi del fronte occidentale, ma sceglie di mostrare una realtà molto più amara e lontana dalla classica propaganda.

Tuttavia, se La sottile linea rossa (1998) è già di per sé un film piuttosto impegnativo emotivamente, la pellicola di De Palma può risultare una visione realmente devastante, visto il tipo di tematica trattata…

Ma ne vale assolutamente la pena.

Pedine

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è disumanizzante.

I soldati sono calati in un contesto fortemente gerarchico, in molti modi spersonalizzati e ridotti a mere pedine, tanto che l’importanza della loro morte è del tutto ininfluente nel grande schema delle cose – anzi rappresenta sostanzialmente la quotidianità.

Ma, del tutto consapevoli di quanto sia opprimente una vita vissuta schiacciati sotto al peso di una morte imminente e di una disciplina stringente, sono gli stessi superiori che perdonano le peggiori oscenità dei loro soldati e cercano anzi di trovare uno sfogo a queste mine vaganti.

Ma se vengono privati anche di questo sfogo…

Il valore?

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Lo stupro nel film ha molti significati, ma nessuno strettamente sessuale.

In primo luogo, lo stupro è una ribellione: vedendosi negato anche quel poco di libertà, di sfogo, Meserve si rivolta contro il sistema e organizza la sua rivincita – come un bambino che non può avere il giocattolo desiderato, e quindi lo ruba.

Ma la ribellione non basta.

Michael J. Fox e Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta rapire una donna e dire di volerla violentare, se poi non si è capaci di farlo.

In questo senso l’atteggiamento ambiguo del personaggio ne rivela le due facce: da una parte un atteggiamento più umano, comprensibile, che lo porta persino a cercare sulle prime di curare ed accudire la sua preda.

Dall’altra, lo scoppio della violenza è paragonabile ad un bambino che vuole vedere quanto in alto può saltare prima di essere punito: una reazione selvaggia, senza freni, che serve solamente a dimostrare che Tony può violentare quella donna, è capace di farlo.

Concetto che si va ben ad inserire nella bidimensionalità della mentalità militare.

La bidimensionalità

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

La guerra è bidimensionale.

In un mondo in cui se non vuoi essere pedina, se non vuoi essere un perdente, devi essere un eroe, devi dimostrare di sapere fare la guerra, non ci sono vie di mezzo: americano o vietcong, amico o nemico, vero uomo o frocetto…

Per questo lo stupro è, di fatto, una prova.

È una prova anzitutto per Meserve, verso sé stesso e verso gli altri, ed è una prova a cui deve sottoporre tutti i suoi compagni, per capire se sono uomini di valore o solo destinati ad una cassa da morto

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Allo stesso modo, la donna non è più una donna, ma uno strumento, una puttana, da utilizzare e da buttare via all’occorrenza, per dimostrare di essere capaci di percorrere fino in fondo quella strada verso la dimostrazione della propria virilità.

Una virilità incredibilmente violenta, come racconta molto bene la posizione di potere di Clark – con le gambe divaricate – con cui afferma di averle dato diversi colpi – col coltello e col pene – e per come lo stesso Meserve definisce il fallo un’arma.

Proprio per questo ogni volta il sergente sceglie di lasciare per ultimo Clark – nel turno della violenza – o di escluderlo dall’uccisione della donna: Meserve sa già quanto quell’uomo sia la perfetta rappresentazione della virilità violenta, che non ha bisogno di essere dimostrata ulteriormente.

Sean Penn in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

E così, anche la guerra è una prova.

Nelle sottili dinamiche della Guerra Fredda, un conflitto fatto più di sotterfugi e di mosse politiche che di vera forza fisica, una prova armata era fondamentale per riaffermare il dominio militare degli Stati Uniti – dovunque questo si potesse applicare.

E così il grosso fallo degli States affondò sul Vietnam.

Il risveglio

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Fra tutti, Eriksson è il personaggio più simbolico.

Se i suoi compagni raccontano la ferocia della guerra e di crimini spesso sommersi, il giovane soldato rappresenta una sorta di risveglio – o un auspicato risveglio – degli Stati Uniti, un ripensamento delle sue colpe.

In diverse occasioni Eriksson cerca di salvare o aiutare la donna, ma viene impedito dal peso della colpa dei suoi compagni: quando cerca di spogliarla per pulirle le ferite o di portarla via dall’accampamento, ogni volta la giovane si ribella.

Michael J. Fox in una scena di Vittime di guerra (1989) di Brian De Palma

Non basta infatti solo una buona azione, non basta l’intenzione di riparare una colpa, per impedire che questa scintilla venga ingoiata nell’abisso della terribile reputazione e dell‘infamia che ha ormai macchiato una nazione.

E, anche quando effettivamente la giovane si fida di lui, lo stesso Eriksson è frenato dalla sua morale, che gli impedisce di diventare effettivamente un vergognoso disertore, di puntare il fucile verso i suoi compagni, nonostante questi siano degli stupratori e degli assassini.

Con poche righe di sceneggiatura De Palma riesce a raccontare l’animo contrastato e autodistruttivo di una nazione, che, nonostante sia consapevole delle sue follie anacronistiche – fra tutti, il possesso delle armi – è così ubriaca di una certa mentalità che le è veramente impossibile disfarsene.

Ma forse un risveglio è possibile.

Il regista gioca doppiamente con l’elemento onirico: Eriksson si sveglia improvvisamente da quel sogno, da quella realtà opprimente e definitiva, per rendersi conto che – forse – un’altra realtà è possibile.

Una realtà in cui la giovane vietnamita non è mai stata rapita né violentata, ma vive serenamente la sua vita senza paura di essere aggredita o privata della sua casa, dove anzi suggerisce all’ex-soldato (?) che la tragedia bellica era solo un incubo.

Ma allora qual è veramente il sogno: la guerra o un mondo senza la stessa?

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All’inseguimento della pietra verde – Un classico inizio

All’inseguimento della pietra verde (1984) è uno dei primi film di Robert Zemeckis, nonché il primo titolo con cui riuscì ad ottenere un successo commerciale, appena prima del fenomeno di Ritorno al futuro (1985).

Infatti, a fronte di budget abbastanza contenuto – appena 10 milioni di dollari, circa 30 oggi – incassò 115 milioni in tutto il mondo (circa 340 oggi)

Di cosa parla All’inseguimento della pietra verde?

Joan Wilder è una scrittrice di romanzi rosa di grande successo, che si ritrova coinvolta in un’avventura che sembra uscita da uno dei suoi libri.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere All’inseguimento della pietra verde?

Danny De Vito in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In generale, sì.

All’inseguimento della pietra verde è un titolo forse più acerbo all’interno della brillante carriera di Robert Zemeckis: pur giocando con il genere avventuroso e cercando di offrirgli un taglio più realistico, spesso la pellicola ricade negli stereotipi più classici di questo tipo di film.

Tuttavia, questo elemento può risultare in una piacevole visione di un prodotto che, se preso con il piglio giusto, può risultare incredibilmente intrattenitivo e piacevole da guardare, forte anche di una coppia di attori di grande valore.

Insomma, vale una visione.

Un’inguaribile sognatrice

L’incipit del film ha più significati.

All’inseguimento della pietra verde si apre con una scena che appare fin da subito artificiosa, con una dramma spinto all’inverosimile per dare modo di strappare più di una lacrima allo spettatore.

Oltretutto, i personaggi in scena appaiono, anche scenicamente parlando – la persistente ombra sul viso della protagonista – dei placeholder per la scrittrice stessa, talmente coinvolta nella storia che racconta da sognare di farne parte.

Mi ha stupito in particolare il forte sottofondo erotico della scena, con anche la macchina da presa che indugia molto spesso sulle forme della protagonista, elemento che rimarrà costante per tutto il resto della pellicola anche nelle interazioni fra Jack e Joan.

Forse in maniera anche fin troppo avanguardistica, si potrebbe leggere l’avventura della protagonista non tanto come un modo semplicemente per trovare quell’amore che fino a quel momento era limitato alla finzione, ma forse proprio per conquistare una soddisfazione sessuale…

Tipico?

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Il rapporto fra Joan e Jack comincia come il più classico enemy to lovers.

Il protagonista maschile sembra fin da subito volersi solamente approfittare di questa donna così apparentemente smarrita ed indifesa, tramando anche alle sue spalle per ottenere il tanto desiderato tesoro.

Ma in realtà il suo ruolo è fortemente depotenziato.

Michael Douglas e Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

Sicuramente Jack ha il suo piccolo arco narrativo e viene in qualche modo smascherato da Ralph…

…ma in realtà Joan è spesso diversi passi avanti a lui.

Infatti, la protagonista gode di ampi spazi di autonomia, in cui riesce spesso a salvare sé stessa prima ancora che la sua controparte maschile riesca anche solo a raggiungerla – particolarmente nel finale – riuscendo a sfruttare la sua astuzia per battere nemici ben più minacciosi e imponenti di lei.

E di fatto la sua vittoria è il portare nella realtà le sue stesse storie, e così diventare una donna attiva e altrettanto vincente come le sue protagoniste.

Cosa poteva essere…

Kathleen Turner in una scena di All'inseguimento della pietra verde (1984) di Robert Zemeckis

In chiusura, parliamo di cosa questo film sarebbe potuto essere.

Se questo film fosse stato girato più avanti negli anni, dopo magari aver dimostrato la sua brillantezza di scrittura e regia in Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), forse Zemeckis avrebbe potuto portare in scena un film più arguto, magari giocando di più sulla parodia o sul contrasto fra realtà e finzione letteraria.

E sarebbe stato un valore: All’inseguimento della pietra verde è uno dei pochi prodotti in cui il regista porta in scena un personaggio femminile effettivamente tridimensionale, a differenza dei successivi – soprattutto nella trilogia di Ritorno al futuro – dove le figure femminili sono molto meno importanti ed approfondite…

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2023 Avventura Azione Biopic Dramma familiare Dramma romantico Dramma storico Drammatico Film Film di guerra Nuove Uscite Film Oscar 2024

Napoleon – Distruggere un mito

Napoleon (2023) è un biopic dedicato alla figura del mitico condottiero che portò la storia europea ad una nuova era politica e militare, ma con un taglio piuttosto inaspettato…

A fronte di un budget assai ingente – 200 milioni di dollari – è stato un importante insuccesso commerciale, con solo 218 milioni di dollari di incasso, anche se meno da quel disastro chiamato The Killers of the Flower Moon...

Il cinema semplice road to oscar 2022 che si svolgeranno il 28 marzo 2022

Candidature Oscar 2024 per Napoleon (2023)

in neretto le vittorie

Migliore scenografia
Migliori costumi
Migliori effetti speciali

Di cosa parla Napoleon?

La pellicola ripercorre le più importanti tappe della vita di Napoleone Bonaparte, con un particolare focus sulla turbolenta relazione con la prima moglie, Joséphine.

Vi lascio il trailer per farvi un’idea:

Vale la pena di vedere Napoleon?

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Dipende.

Se vi aspettate un racconto preciso e documentaristico della vita politica e della strategia militare di Napoleone, non è il film che fa per voi: anche per via di un obbiettivo squilibrio fra le parti, il film di Ridley Scott si propone di raccontarne solo le tappe più importanti – e spesso in maniera neanche molto approfondita.

Al contrario, se vi può interessare una visione più brutalmente verosimile del dietro le quinte, un’effettiva distruzione del mito di uno dei personaggi più importanti della storia europea, potrebbe essere una visione gratificante.

A voi la scelta.

L’uomo

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

La parte più strettamente umana di Napoleon è quella più discussa.

Il Napoleone presentato è piuttosto lontano dal mito creato da lui stesso e dai vari storici nel corso dei secoli, andando invece a tratteggiare un uomo quasi ridicolo, pieno di debolezze e piccole e grandi ossessioni.

Ma, a differenza di quanto potrebbe sembrare, il ritratto del Napoleone di Scott è molto credibile.

Per quanto fosse un abile stratega e osservatore – come viene fra l’altro rappresentato – è altrettanto vero che, agli occhi delle grandi case aristocratiche europee, Napoleone non era altro che un buzzurro con un’origine non particolarmente brillante – la tristissima Corsica.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, Bonaparte era profondamente legato alla tradizione corsa, nello specifico al suo stringente tradizionalismo – infatti non fece certamente sue grandi battaglie sociali – e mosso da una strabordante ambizione.

In questo senso, per quanto sia d’accordo sul fatto che Phoenix sembri un po’ imbrigliato in una recitazione a tratti limitante, allo stesso modo la performance che ci porta in scena racconta perfettamente questo carattere ambiguo, con le sue luci e ombre…

Lo stratega e…

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

In Napoleon Scott si impegna a rappresentare lodevolmente la parte più meritevole dell’opera di Napoleone.

Ovvero, la sua capacità da stratega.

Bonaparte visse una carriera militare piuttosto lampante, che gli permise di collocarsi nel solco della Rivoluzione Francese, e così acquisire una posizione di grande potere politico, fino a diventare l’Imperatore della Francia post-rivoluzionaria.

Pur piegando date ed eventi a suo favore, in particolare nella scena della decapitazione di Maria Antonietta – storicamente inesatta – l’occhio attento di Bonaparte sull’apice della Rivoluzione ne racconta indirettamente la consapevolezza del mutato scenario politico tutto da riscrivere.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Per questo si impegnò in diverse campagne militari, sempre necessarie per riuscire a mantenere il potere politico, con una serie di guerre lampo – forse in questo caso anche troppo frettolosamente raccontate – che lo portarono agilmente al successo.

Per questo la scena del bombardamento in Egitto e dell’incendio in Russia sono complementari: in entrambi i casi Scott racconta in maniera molto semplice ed immediata per uno spettatore inesperto due momenti fondamentali della carriera militare del protagonista.

Infatti come l’Egitto fu una vittoria schiacciante e determinante per la sua popolarità, allo stesso modo l’incendio a Mosca – nella realtà storica solo accidentale – rappresenta il fuoco distruttivo di tutte le altre potenze europee che, infine, lo schiacciarono.

E, nondimeno, quell’incendio fu anche rappresentazione di un successo molto precario e momentaneo: anche a fronte di ambiziose conquiste come una capitale così simbolica, allo stesso modo le fondamenta del suo potere erano fin troppo fragili…

Concetto raccontato anche, con un simbolismo piuttosto calzante, nella scena del faccia a faccia con la mummia, a cui un Napoleone ancora all’inizio della sua ascesa pone in testa il suo capello, quasi si rivedesse in quella rappresentazione di una gloria assai passeggera…

Josephine o…

Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Il focus fondamentale di Napoleon è il rapporto con Josephine.

Lo stesso, ha più funzioni.

Anzitutto, un racconto abbastanza naturale del proseguire degli eventi: tramite le lettere appassionate all’amata, Napoleone riesce a raccontare lo svolgersi degli eventi militari e politici, soprattutto quando era lontano dalla Francia.

In secondo luogo, rappresenta la grande debolezza del personaggio: anche se appassionatamente innamorato – come dimostrano le varie lettere a lei dedicate – Napoleone era anche un personaggio piuttosto opprimente dal punto di vista relazionale.

Joaquin Phoenix e Vanessa Kirby in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Se da una parte si dimostrò più volte un genitore e un amante affettuoso, è altrettanto vero che aveva una visione molto tradizionalista della donna, da cui l’atteggiamento oppressivo nei confronti di Josephine, e lo squallore delle scene di sesso, finalizzate unicamente ad un consolidamento della sua posizione.

E infine, Napoleone arrivò a soffocare la sua amante, tenendola da parte in un cassetto e portandola solamente ad essere più sola e triste, impedendole di vivere veramente una seconda vita relazionale al di fuori di lui.

Ma è possibile anche una seconda interpretazione.

…la Francia?

L’importanza del personaggio di Josephine all’interno della pellicola permette una seconda interpretazione.

In questa visione, la donna amata di Napoleone simboleggia la Francia stessa: qualcosa di cui Bonaparte, nonostante le sue origini, era profondamente innamorato, ma che gli portò anche diversi dispiaceri e angosce.

In questo senso il brusco ritorno in patria dall’Egitto – del tutto reale e documentato – per via del tradimento della moglie – non altrettanto veritiero – può essere letto come una sorta di presa di consapevolezza dello stato deplorevole della Francia in sua assenza – come testimoniato dal suo stesso scambio col Direttorio.

E così, la necessità di rimetterla in riga.

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Allo stesso modo, la conclusione del matrimonio racconta un’altra tendenza del personaggio.

Napoleone non si accontentò mai di rendere sicura e compatta la Francia, ma aspirò sempre ad avere il controllo su molti altri territori, rivaleggiando con le diverse potenze europee, tanto da finire per utilizzare milizie non francesi per il suo esercito.

Una scelta spesso considerata motivo del fallimento finale della sua avventura, e che potrebbe essere proprio traslato nella scelta di abbandonare l’amore per Francia – Josephine – per conseguire le sue ambizioni politiche, proprio sposando una straniera – Maria Luisa d’Austria.

La riscrittura del mito

Joaquin Phoenix in una scena di Napoleon (2023) di Ridley Scott

Questa riscrittura storica potrebbe turbare molti spettatori.

Ma è proprio questo il punto.

La vera vittoria di Napoleone non è stata tanto l’aver incarnato il cambiamento della Rivoluzione e l’aver fatto tremare l’intera Europa per vent’anni, ma l’essere riuscito a costruire e a mantenere un mito personale che perdura tutt’oggi.

Questo elemento si nota particolarmente nell’ultima scena, che fa riferimento al fondamentale Memoriale di Sant’Elena: Napoleone fu, fino all’ultimo, attivo nel tramandare una storia e un’immagine di sé stesso il più vantaggiosa possibile, anche se deviata.

Non a caso, se si vanno meglio ad indagare i singoli eventi fondamentali – fra tutti, la possibile disfatta al Parlamento, salvata in extremis dal fratello Luciano – si scopre tutta la fragilità del mito e della quantità di momenti in cui la fortuna salvò la sua ascesa.

Per questo, è così sbagliato provare a mettere in bocca allo spettatore una storia che non ha mai sentito, piuttosto che la solita celebrazione di cui siamo ormai ubriachi?